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PDF Film Di Formazione Mucchio702

Date post: 13-Aug-2015
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Noi siamo infinito prossimamente in sala
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Noi siamo infinitoprossimamente in sala

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teenage wasteland

C’erano una volta i film in cui i nerd si prendevano una rivincita

e le sfigate della scuola diventavano carine la sera del ballo.

Oggi lo fanno ancora, ma prima si imbottiscono di psicofarmaci.

Cosa sta succedendo ai film di formazione?

Noi siamo infinitoprossimamente in sala

tutti i figli di John Hughes

di Claudia Durastanti

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Jon Savage sostiene che i teenager sono stati creati come fascia anagrafica a sé stante nel secondo Dopoguerra perché gli americani dovevano pur vendere le chewing gum a qualcuno. Eppure, checché ne dica nel suo bellissimo saggio L’inven-zione dei giovani (2009), per alcuni di noi non sono stati l’infelicità o il capitalismo a creare l’adolescenza, ma un regista chia-mato John Hughes. Nel giro di tre anni, dal 1984 al 1987, Hughes ha realizzato film come Sixteen Candles - Un compleanno da ricordare, Breakfast Club e Bella in Rosa che, pur non avendo stravolto la storia del cinema, hanno spinto diverse generazioni a identificarsi con gli eroi impopolari o ri-belli della scuola e a credere che da questo discendesse una sorta di superiorità mora-le. Non è un mondo particolarmente com-plesso quello descritto in queste pellicole: c’è la protagonista sensibile, il compagno di classe che non batte chiodo, il belloccio

che si ravvede sempre sulla via di Dama-sco per innamorarsi della ragazza sensi-bile in questione. Che ascolta sempre gli Smiths e in genere ha i capelli rossi (pure le lentiggini non guastano). Secondo l’au-trice di Teen Film Catherine Driscoll, i film per adolescenti si distinguono per due ca-ratteristiche. La prima è il target di riferi-mento, compreso in una fascia che va dalla drammatica scuola media fino al liceo ma non include l’università (a cui il cinema dedica un filone a sé, vedi Animal House). I teen film, come regola, devono parlare a chi è rappresentato sullo schermo e questo spiega perché Gus Van Sant, nonostante sia l’autore più bravo a raccontare l’adole-scenza con i suoi tossici angelicati, skater paranoici e ragazzini che amano andare ai funerali, non sia un regista di teen film in senso stretto: Van Sant non vuole spie-gare l’adolescenza a chi la patisce, vuole farla ricordare a chi ne è sopravvissuto. ››

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teen moviele tappe

Gioventù Bruciata1955, Nicholas Ray

L’epigono.

Carrie-Lo Sguardo di SatanA 1976, Brian de Palma

L’adolescenza è un film horror.

The Breakfast Club1985, John Hughes

Il film di formazione per eccellenza.

Schegge di follia 1988, Michael Lehmann

La ribellione diventa grottesca.

American Pie 1999, Adam Hertz

Inizia la valanga delle teen sex comedy.

Donnie Darko2001, Richard Kelly

La schizofrenia in un frullato pop.

Project X2012, Nima Nourizadeh

L’Animal House della generazione iPhone.

La seconda caratteristica è che i teen mo-vie sono un’esperienza volatile come l’età che raccontano e sono condannati a essere rimossi, né più né meno di una musicas-setta goffa che sei sicuro di non aver regi-strato né tantomeno consegnato a qualcu-no come segno del tuo imperituro amore (anche perché chi cavolo pensavi di rimor-chiare con Byran Adams?). La dimissione sembra un fatto implicito nelle pellicole di John Hughes, che dalla proiezione in pri-ma serata sono scivolate verso il baratro del sabato pomeriggio fino a sparire del tutto dal palinsesto, a differenza di opere strappalacrime e sociologicamente meno rilevanti di cui faremmo volentieri a meno (sì, mi riferisco a quei film dove Patrick Swayze modella vasi d’argilla e Julia Ro-berts è una prostituta inoffensiva). Eppure nonostante le teorie di Catherine Driscoll e l’ottusità delle programmazioni televisive, il cinema di Hughes continua a parlarci e costituisce un’imbarazzante pietra di pa-ragone per chiunque si accinga a girare una pellicola del genere: non basta riprendere una pista da ballo deserta e copia-incollare una colonna sonora ammiccante per fare un buon teen film, ci vuole anche una mis-sione. Nei casi migliori, la missione è rac-contare gli adolescenti che si suicidano ma non troppo, quelli che impazziscono ma non del tutto. Non è con John Hughes che Hollywood scopre i ragazzini difficili, ma fino a quel momento i film sui teenager si erano fatti soprattutto portavoce di alcune istanze sociali. Se Gioventù Bruciata for-niva una rappresentazione non stereotipa-ta della delinquenza e del conflitto interge-nerazionale, a fine anni Sessanta il cinema cascò nel prevedibile trappolone della fame di rivolta e delle tossicodipendenze, mentre il problema principale nell’Ameri-ca reaganiana era non innamorarsi di una ragazza o di un ragazzo più ricco di te (non a caso il vero cult di quel periodo è Non per soldi ma per amore di Cameron Crowe). Con gli anni Novanta l’accento si è spostato sempre di più sull’emancipazione sessuale fino a degenerare nel filone degli American Pie, ed è solo nel decennio successivo che si torna a parlare concretamente di ansia e depressione, attraverso presupposti che sono stati creati proprio da John Hughes. Dietro la patina pop di Breakfast Club, un capolavoro interno al genere che a prima vista riduce il liceo a un presepe (ci sono il ribelle, il nerd, l’atleta, la dark e la princi-pessa), si nasconde una metafora intima-

mente psicologica. Il film di Hughes parla di cinque ragazzi costretti a trascorrere otto ore e cinquantaquattro minuti in bi-blioteca per punizione, dove persone che non potrebbero essere più diverse tra loro iniziano a scambiarsi confidenze: alcuni sono vittime di abusi familiari (uno di loro viene bruciato con una sigaretta per aver rovesciato della vernice in garage), uno ha contemplato l’ipotesi del suicidio, la dark è una bugiarda compulsiva e tutti proven-gono da nuclei familiari fallimentari sotto ogni punto di vista. Breakfast Club non è altro che una seduta terapeutica collettiva mascherata, e se il tema delle disfunzioni e delle psicopatologie non fa capolino è solo perché la cultura popolare non è ancora pronta. Ci vorranno circa vent’anni affin-ché i teen film riescano a parlare aperta-mente di ricovero e pillole senza per questo trasformarsi in drammi ingestibili che ri-chiedono un coinvolgimento molto forte o lasciano ferite. Il giardino delle vergini sui-cide, Ragazze interrotte, Thirteen-13 anni o Correndo con le forbici in mano hanno sì il pregio di focalizzare l’attenzione su temi che vanno dall’abuso del proprio corpo alla schizofrenia, ma lo fanno con un registro prevalentemente tragico o grottesco, che risulta aulico persino quando è mediocre e soprattutto ispira la convinzione che que-ste esperienze siano straordinarie, o che ci sia un piano separato tra la sofferenza di questi adolescenti e la vita che fanno tut-ti i giorni, da cui sono temporaneamente sospesi. Cosa succede quando un regista si

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propone di raccontare qualcuno che cerca di tenere in piedi la propria fragilità emo-tiva e psichica e contemporaneamente va a scuola tutte le mattine? Dopo Hughes in pochi ci sono riusciti o ci hanno provato, ma considerate le statistiche sugli attacchi di panico e l’uso di antidepressivi in fascia scolastica era inevitabile che il tema spun-tasse fuori. In realtà non ci vogliono saggi come Coming Of Age On Zoloft (2009) per rendere manifesta quella che in America viene definita la Medication Generation. Nei miei primi anni di liceo il farmaco che andava per la maggiore durante la ricrea-zione era l’Aulin per il mal di testa finché nulla ha potuto più contro quella che sa-rebbe diventata una patologia condivisa nei bagni o durante le gite scolastiche: erano arrivati gli attacchi di panico. Quel-lo che prima serviva a descrivere una re-

Fiona AppleTidal (1996)

Bright EyesLetting Off The Happiness (1998)

Jamie T.Panic Prevention (2007)

Youth LagoonThe Year Of Hibernation (2011)

Passion PitGossamer (2012)

5 dischi sui temi tipici della teen angst

tra attacchi di panico

e disordine

questi album sono

stati scritti a partire

da un disorientamento

vissuto in prima persona.

azione inconsulta in mezzo alla folla vuoi per una minaccia terroristica o per la Sars cinese, era diventato sinonimo di una ge-nerica tristezza e di un’emozione difficile da gestire (sarei dovuta andare all’univer-sità prima che un docente di Psicologia ge-nerale spiegasse alla classe che dovevamo resistere alla tentazione di psichiatrizzare tutto, perché c’erano forme di malinconia eliminabili che non andavano confuse con la malattia). È proprio questo conflitto tra tristezza e un disturbo più grande che mancava dai teen film popolari, un gap che negli anni Zero è stato colmato da opere come Il suc-chiapollice che, pur non appartenendo alla categoria in senso stretto, affronta la questione degli antidepressivi usati come tampone o Charlie Bartlett su un ragazzo che nei bagni della scuola si improvvisa psicoterapeuta e somministra pillole per la felicità (cioè anfetamine) per diventare popolare. Lo stesso Donnie Darko, pur con tutte le accortezze del riguardo, può essere considerato un teen film sulla schi-zofrenia. La metafora del contenimento psichiatrico di Breakfast Club diventa sempre più esplicita ed erompe del tutto solo in due film recenti, entrambi basa-ti su libri young adult di culto, intitolati 5 giorni fuori e Noi siamo infinito (sì, è un titolo idiota e non si capisce perché non sia stato tradotto con Ragazzo da parete, così come per il romanzo da cui è tratto. A discolpa dei responsabili va detto che la battuta “Noi siamo infinito” ricor-re frequentemente nel film, e se uno non ha diritto di pronunciarla mentre ascolta Heroes di David Bowie dal tettuccio di una macchina in corsa di notte allora non so proprio quando dovrebbe). Il primo è uscito in Italia solo su dvd, ed è basato sulla storia autobiografica di un ragazzo che si ricovera di spontanea volontà in un reparto psichiatrico di Manhattan perché incapace di tirare avanti come se niente fosse. Nell’ospedale Craig incontra figu-re istituzionalizzate da tempo e altre che hanno ancora spiragli di recupero, fra cui una coetanea, Noelle, che soffre di autole-sionismo e sarebbe piaciuta tanto a John Hughes (è il tipo di ragazza che alla do-manda “Ti piace la musica?” risponde “Ti piace respirare?”). Il film ha un modo tut-to suo di affrontare il tema della psichia-tria, anni luce dalla gravitas di Qualcuno volò sul nido del cuculo e privo di qualsiasi istanza classicheggiante o moralizzante.

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C’è una scena che vale la pena ricordare, e cioè quando i pazienti compaiono vestiti in stile glam rock e cantano Under Pres-sure dei Queen feat. David Bowie. La can-zone non potrebbe essere più azzeccata: “Insanity laughs/ under pressure we’re cracking / why can we give ourselves one more chance?” (“ridiamo come matti/sia-mo sotto pressione/perché non possiamo darci un’altra possibilità?”), ma quel che colpisce è che le ferite di Noelle siano ben visibili sulla faccia e ricoperte di glitter, quasi fossero una decorazione gioiosa. È in questo dettaglio che sta tutta la differenza tra 5 giorni fuori e un film come Ragazze interrotte; senza fare discorsi di merito è importante che ci siano opere in grado di raccontare la sofferenza in una lingua non drammatica, che non ha paura del senti-mento o del lieto fine. Lo stesso vale per Noi siamo infinito, una pellicola a metà tra il tipico quadretto antropologico adole-scenziale e un’indagine sulle ricadute di un abuso sessuale, il tutto attraverso citazioni pop ben misurate e una sceneggiatura che non ha grosse pretese stilistiche. Come i film del genere a cui appartiene, Noi siamo infinito - che in Italia uscirà nei primi mesi del 2013 - è più interessante per quello che dice che per come lo dice. Nel corso del tempo molte cose sono cambiate, da una sessualità esclusivamente etero i teen film oggi comprendono spesso tematiche LGBT mentre faticano a diventare multi-razziali, a meno che non si ricorra allo stereotipo del ghetto e dell’adolescente che la sa lunga perché conosce le leggi della strada. Sono opere che non stravolgeranno il corso del cinema né hanno la pretesa di farlo. Non ci renderanno adolescenti più acuti, né adulti più sensibili, ma nel loro sforzo di mappare certi tic della cultura pop, di ricreare il lin-guaggio con cui gli adolescenti esprimono la propria sofferenza (“Non so se ti sei mai sentito così. Non so se hai mai desiderato addormentarti, per svegliarti solo mille anni dopo. Non so se hai mai pensato che vorresti non essere al mondo; o non ren-derti conto di essere vivo. O qualcosa del genere”), svolgono una funzione impor-tante e aiutano a capire che depressione e autolesionismo non sono disturbi di serie A, un lusso per anime elette e dotate di particolari meriti artistici. A volte sono sufficienti requisiti minimi: ascoltare gli Smiths, avere le lentiggini ed essere solo un ragazzo o una ragazza da parete. ×

Così come i teen movie hanno spo-stato il focus dalla vita sessuale (o dalla mancanza di essa) e da malat-tie come l’HIV verso le psicopatolo-gie, così i film per quelli che arriva-no subito dopo hanno fatto propria la causa del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. Finiti i tempi di Clerks e di Giovani carini e disoccupati caratterizzati dall’este-tica slacker (“fannullone”), la gene-razione dei ventenni-quarentenni con continua opzione di proroga ha abbandonato le camicie di flanella e il culto della marijuana per dedicarsi a quello dello psicofarmaco. Non si contano gli esempi di pellicole che dagli anni Duemila in poi hanno trat-tato tematiche affini alla depressio-ne: da Steve Carell che In Little Miss Sunshine è un professore di francese esperto di Proust reduce da un ten-tato suicidio a Garden State dove Zach Braff è vittima di un padre psichiatra e ha una lunga familiarità con il trat-tamento da litio. Forse non è un caso che uno dei film più belli del 2012, L’orlo argentato delle nuvole - in sala dal 24 gennaio -, abbia come prota-gonista un uomo affetto da sindro-me bipolare e si sforzi di produrre un racconto non stigmatizzato della malattia, cercando di inquadrarla in un flusso dove c’è spazio per il tragi-co eccesso ma anche per una storia

e dopo?Anche i film destinati alla

generazione dei ventenni-

quarantenni cambiano

gradualmente orientamento

e dal culto della marijuana

caro ai commessi di Clerks

passano a quello dello

psicofarmaco. Non ci sono

più i fannulloni di una volta.

di Claudia Durastanti

d’amore melensa quanto basta. È un po’ quello che cerca di spiegare il personaggio di Ben Stiller ne Lo stra-vagante mondo di Greenberg quando confessa alla donna di cui si sta inna-morando: “So di essere stato rinchiu-so in una clinica psichiatrica per tanto tempo, ma questo non mi definisce”. A differenza dei film drammatici che si occupano di malattia mentale, il privilegio delle pellicole indie-pop è quello di non credere che esse sia-no condanne esclusive o debbano determinare per forza un solitario tragico finale. Sembra una cosa da poco, ma non lo è. ×

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“I love the Smiths”. Quella che è forse la frase più famosa di (500) giorni insie-me (Marc Webb, 2009), pronunciata da Zooey Deschanel per rompere il ghiaccio con Joseph Gordon-Leavitt in ascensore, non è solo una piaggeria messa lì apposta per far piacere al pubblico ideale di un film dal common feel indie, ma un vero e pro-prio “attivatore”. Un campanello d’allarme. Perché gli Smiths? Come mai sempre più film che si posizionano giocoforza in quel-la imprecisata fascia a metà tra il cinema indipendente, il teen-movie e la commedia di qualità optano per una colonna sonora che si aggira attorno agli spettri di Morris-sey, Marr e, più in generale, di tutta la new wave chitarristica d’area anglosassone? La motivazione più semplice è quella del gusto personale e dal fatto che la musica è bellissima, quindi, perché no? Ovviamen-te vale come punto di partenza. Così come vale il fatto che inserire in determinate sequenze una canzone dal testo e l’atmo-sfera adeguata non fa altro che potenziar-ne l’effetto. Ma c’è dell’altro. Una relazione un po’ più profonda e che va cercata in due componenti fondamentali. Una generazio-nale e una, se così vogliamo dire, antropo-logico-culturale.I registi (e sceneggiatori) di film come, ad esempio, (500) giorni insieme, Noi siamo infinito e Non mi scaricare fanno parte di

quella generazione immediatamente suc-cessiva alla “X” evocata da Douglas Cou-pland e che aveva come mantra il distacco ironico per guardare a una realtà sempre più in frantumi. Questa “nuova” generazio-ne non ha più nemmeno quel tipo di certez-za (ripararsi nel nichilismo è un lusso che non ci si può più concedere) e vive in una condizione di precarietà effettiva e non più solamente percepita. Nel raccontare storie, questo atteggiamento si può tradurre in quella che David Shields nel 2009 ha ar-gutamente definito fame di realtà. Questa tendenza, che può essere vista come parte di quella grande temperie di risposta all’età post-ironica che hanno già indicato come new sincerity (e, da noi, nuovo realismo), impone quindi un approccio più diretto, capace di andare dritto al punto di quello che si vuole comunicare senza troppi pa-raventi e sarcasmi. Ed ecco quindi gli Smi-ths, gli Psychedelic Furs, gli Echo And The Bunnymen, e tutte quelle band che gli au-tori ascoltavano da ragazzi e che collegano a determinati fatti autobiografici che gioco-forza si riflettono poi nei film e nei racconti. Ci sono poi altri motivi per cui Smiths & co. si adattano perfettamente a questo tipo di film. Secondo lo studioso di cinema David Z. Newman, infatti, l’indie è espressione di una determinata cultura americana bianca e middle-class che si esprime nelle metro-

poli e nelle cittadine universitarie e che costruisce un suo proprio sistema di riferi-mento a partire da alcuni denominatori co-muni. Ovviamente, la musica pop gioca un ruolo fondamentale. In uno studio abba-stanza recente sulla musica indie inglese, la antropologa Julia Fonarow ha indicato alcuni tratti che rendono l’indie-pop voce perfetta per questa cultura. Ad esempio, la sua componente nostalgica. Nel rifiu-tare tastiere e dettami tecnologici del loro tempo, gruppi come gli Smiths operano una vera e propria contro-rivoluzione, rifu-giandosi in una sorta di eden rassicurante dove esprimere una determinata frustra-zione. Di seguito, il legame tra la nostalgia e il mondo dell’adolescenza. Non a caso, il periodo che più di tutti ha visto negli ultimi vent’anni un allungamento e una stratifica-zione tale per cui a 30 anni ancora non ci si sente adulti. Esiste una vera e propria “va-riable Smiths” che aiuta a definire un certo tipo di cinema. Non si può dire se questo sistema sia un modo per “andare avanti” e uscire da quel limbo post-adolescenziale potenzialmente eterno, ma spiega perché, negli ultimi anni, i racconti di questo ge-nere hanno abbandonato un tono consola-torio (quando non ironico o allusivo-idea-lizzante) per andare a pescare nel torbido e per portare a galla una sorta di “inconscio collettivo” generazionale. ×

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la variabile Smiths

di Hamilton Santià

La loro Please, Please, Please è la più inflazionata,

ma gli Smiths non sono gli unici ad andare forte

come commento sonoro ad un certo cinema.

Vediamo perché.

Please, Please, Please Let Me Get What I Want - Bella in rosa, 1986

This Charming Man - The history boys, 2007

Heaven Knows I’m Miserable Now - Non mi scaricare, 2008

There Is A Light That Never Goes Out - (500) giorni insieme, 2009

Asleep - noi siamo infinito, 2012

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