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Psicologia sociale

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 Aronson – Wilson – Akert: PSICOLOGIA SOCIALE  Capitolo 1 - Che cos’è la psicologia sociale La psicologia sociale è lo studio scientifico dell’influenza sociale, ovvero dei modi attraverso cui i  pensieri, i sentimenti e i comportamenti delle persone vengono influenzati dalla presenza reale o immaginaria degli altri. L’influenza sociale assume forme sia dirette (come la pubblicità) che indirette (a livello di cultura). 1.1 Il potere dell’interpretazione sociale La psicologia sociale si differenzia dall’antropologia e dalla sociologia in quanto si interessa non alle situazioni sociali in senso oggettivo, ma al modo in cui le persone vengono influenzate dalla loro interpretazione, o costruzione, dell’ambiente sociale . E’ importante quindi capire come una  persona percepisce o interpreta tale ambiente, piuttosto che comprenderlo oggettivamente. Le origini di questa interpretazione sono oggetto di attenzione particolare, ovvero i fattori che determinano i pensieri e i comportamenti delle persone. Un altro tratto caratteristico della psicologia sociale è quello di essere una scienza sperimentale , che sottopone a prova empirica le proprie ipotesi. Essa non si basa né sulla cosiddetta “saggezza  popolare” o sul buon senso, né sulle opinioni o intuizioni di filosofi, romanzieri, politici, giornalisti o altro. Anche se buona parte della psicologia contemporanea è basata sul pensiero analitico dei filosofi, la psicologia sociale cerca di approcciare anche le domande analizzate dalla filosofia in modo scientifico. 1.2 La psicologia sociale e la psicologia della personalità Anche la psicologia della personalità si occupa dello studio degli individui e della ragioni che sottostanno alle loro azioni. Essa però si concentra sulle differenze individuali , trascurando quella che è una delle fonti principali del comportamento umano: l’influenza sociale. Molto spesso nei rapporti interpersonali si tende proprio a sopravvalutare la componente della personalità individuale, nel valutare il comportamento di una persona.
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Aronson – Wilson – Akert: PSICOLOGIA SOCIALE 

Capitolo 1 - Che cos’è la psicologia sociale 

La psicologia sociale è lo studio scientifico dell’influenza sociale, ovvero dei modi attraverso cui i

 pensieri, i sentimenti e i comportamenti delle persone vengono influenzati dalla presenza reale o

immaginaria degli altri.

L’influenza sociale assume forme sia dirette (come la pubblicità) che indirette (a livello di cultura).

1.1 Il potere dell’interpretazione sociale

La psicologia sociale si differenzia dall’antropologia e dalla sociologia in quanto si interessa non

alle situazioni sociali in senso oggettivo, ma al modo in cui le persone vengono influenzate dalla

loro interpretazione, o costruzione, dell’ambiente sociale. E’ importante quindi capire come una

 persona percepisce o interpreta tale ambiente, piuttosto che comprenderlo oggettivamente.

Le origini di questa interpretazione sono oggetto di attenzione particolare, ovvero i fattori che

determinano i pensieri e i comportamenti delle persone.

Un altro tratto caratteristico della psicologia sociale è quello di essere una scienza sperimentale,

che sottopone a prova empirica le proprie ipotesi. Essa non si basa né sulla cosiddetta “saggezza

 popolare” o sul buon senso, né sulle opinioni o intuizioni di filosofi, romanzieri, politici, giornalisti

o altro. Anche se buona parte della psicologia contemporanea è basata sul pensiero analitico dei

filosofi, la psicologia sociale cerca di approcciare anche le domande analizzate dalla filosofia in

modo scientifico.

1.2 La psicologia sociale e la psicologia della personalità

Anche la psicologia della personalità si occupa dello studio degli individui e della ragioni che

sottostanno alle loro azioni. Essa però si concentra sulle differenze individuali, trascurando quella

che è una delle fonti principali del comportamento umano: l’influenza sociale. Molto spesso nei

rapporti interpersonali si tende proprio a sopravvalutare la componente della personalità

individuale, nel valutare il comportamento di una persona.

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1.3 La psicologia sociale e le scienze sociali

Il comportamento sociale viene studiato da diverse scienze, quali la sociologia, l’economia e le

scienze politiche. La psicologia sociale però se ne differenzia in quanto il suo oggetto di studio, più

che le classi sociali, le strutture e le istituzioni, è l’individuo nel contesto della situazione sociale.

Inoltre, lo scopo della psicologia sociale è di identificare le proprietà universali della natura

umana che, indipendentemente dalle classi o strutture sociali, rendono ciascuno di noi sensibile

all’influenza sociale. Per questo motivo si promuove la ricerca interculturale.

2. Il potere dell’influenza sociale

L’errore per cui si tende ad interpretare il comportamento delle persone in termini di personalità,

trascurando l’influenza sociale, è detto errore fondamentale di attribuzione. 

2.1 Sottostimare il potere dell’influenza sociale

Perché si tende a sottostimare l’influenza sociale? Principalmente per due motivi:

• Il senso di falsa sicurezza: se un comportamento deviante può essere attribuito ad una

“personalità tarata”, ne deriva la sensazione che a noi non potrà mai capitare;

• La tendenza a semplificare situazioni che sono complesse, che spesso ci impedisce di

comprendere a fondo un comportamento.

E’ invece importante capire che aspetti della situazione sociale che possono sembrare anche poco

importanti, producono effetti macroscopici sui comportamenti delle persone, a volte fino ad

annullare l’influenza della personalità individuale.

2.2 La soggettività della situazione sociale

Per il comportamentismo si poteva spiegare ogni comportamento umano in termini di analisi dellericompense e punizioni riservate dall’ambiente al soggetto, senza nessun riguardo per concetti come

cognizione, pensiero o sentimento. Questo approccio si è rivelato troppo semplicistico, in quanto

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non si può comprendere un comportamento limitandosi alle proprietà fisiche di una situazione, ma

si deve capire come le persone “costruiscono” il mondo che le circonda.

La psicologia della gestalt ha posto i fondamenti dello studio dell’interpretazione individuale dellasituazione sociale. Questa teoria si concentra sulla fenomenologia del soggetto della percezione,

ovvero sul modo in cui gli oggetti si presentano alla persone, piuttosto che sui singoli elementi dello

stimolo oggettivo.

Importanti in questo senso furono gli studi di Kurt Lewin, ebreo tedesco emigrato in USA negli

anni 30. Lewin applicò i principi della gestalt alla percezione sociale.

Le costruzioni sociali soggettive possono essere semplici, ma anche molto complesse.

3. Da dove arrivano i costrutti: le motivazioni umane fondamentali

In ogni determinato momento, i pensieri e comportamenti umani sono sottesi da una moltitudine di

motivazioni sovrapposte. Dopo anni di studi, gli psicologi sociali hanno individuato duemotivazioni fondamentali:

• il bisogno di essere accurati; 

• il bisogno di giustificare i nostri pensieri e le nostre azioni (essere a posto con la

coscienza);

Spesso queste motivazioni ci spingono nella stessa direzione, altre volte entrano in conflitto fra loro,

 producendo conseguenze non sempre positive.

3.1 L’approccio basato sull’autostima: il desiderio di star bene con sé stessi

Molte persone hanno bisogno di mantenere un’alta stima di sé, di vedersi come individui

rispettabili, competenti e affidabili. Ciò porta spesso a dare una visione distorta del mondo per 

 potersi sentire bene con sé stessi.

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Un’altra esigenza fondamentale è quella di giustificare il comportamento precedente. In determinate

condizioni ciò spinge a commettere azioni che potrebbero apparire sorprendenti o paradossali,

ovvero preferire le persone e le cose per cui si è sofferto, piuttosto che quelle associate con il

 benessere e il piacere.

3.2 L’approccio della cognizione sociale: il bisogno di essere accurati

Gli esseri umani hanno sorprendenti facoltà logiche e cognitive, che usano per costruirsi una propria

visione del mondo. Lo studio del modo in cui gli esseri umani concepiscono il mondo è detto

approccio cognitivo alla psicologia sociale, o cognizione sociale.

Il compito però non è sempre facile o immediato, perché spesso il problema è la non conoscenza di

tutti gli elementi necessari a giudicare una data situazione. Ogni giorno prendiamo tantissime

decisioni, anche se non disponiamo di dati sufficienti.

Inoltre, spesso le nostre aspettative sul mondo sociale vanno in conflitto con la percezione che

abbiamo di esso, e a volte lo modificano. Questo meccanismo è alla base del fenomeno cosiddetto

della “profezia che si autoadempie” (vedi esperimento sui test di intelligenza nelle scuole).

3.3 Altre motivazioni

 Naturalmente, oltre alle motivazioni sopra evidenziate, possono esserci molti altri fattori che

influenzano la nostra visione del mondo: istinti biologici, paura, promessa di ricompense, ecc.

Un’altra motivazione significativa è il bisogno di controllo sul proprio ambiente.

4. La psicologia sociale e i problemi sociali

Lo scopo degli studi della psicologia sociale, oltre a quello di investigare sulle ragioni profonde del

comportamento umano, si può trovare anche nel dare un contributo alla soluzione di problemi

reali, quali la riduzione dell’ostilità e del pregiudizio, il diffondersi dell’altruismo e della

generosità, ecc.

La capacità di comprendere e spiegare il complesso comportamento sociale contiene in sé una sfida

al suo cambiamento.

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PARTE PRIMA – COMPRENDERE NOI STESSI E IL MONDO SOCIALE 

Capitolo 2 - La cognizione sociale 

Si devono innanzitutto distinguere due tipi di cognizione sociale:

• un tipo di pensiero veloce e automatico, che interviene quando agiamo “senza pensare”,

ovvero senza riflettere coscientemente

• un pensiero controllato, deliberato, che interviene quando dobbiamo prendere decisioni

importanti riguardanti la nostra vita.

Spesso questi due tipi di pensiero operano insieme con ottimi risultati.

1. Il pilota automatico: pensare senza sforzi

Spesso le persone si adattano molto rapidamente alle situazioni nuove, valutando intuitivamente gli

altri, le situazioni e gli sviluppi futuri. Questo avviene grazie ad una sorta di “analisi automatica

dell’ambiente”, basata sulle nostre precedenti esperienze e conoscenze del mondo. E’ una modalità

che avviene in maniera non conscia, non intenzionale e senza sforzo, e viene detta “pensiero

automatico”. 

1.1 Le persone come teorici quotidiani: il pensiero automatico senza schemi

Il pensiero automatico ci aiuta a comprendere situazioni nuove collegandole alle nostre esperienze

 precedenti. Per fare questo utilizziamo degli schemi, ovvero strutture mentali che organizzano la

nostra conoscenza del mondo sociale. Tali strutture influenzano profondamente le informazioni che

registriamo, su cui riflettiamo e che successivamente ricordiamo.

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Quando vengono applicati ai membri di un gruppo sociale, al genere o all’etnia, gli schemi vengono

definititi come stereotipi.

 Numerosi esperimenti hanno dimostrato che gli stereotipi influiscono in maniera notevole anche

sulle percezioni, portando a comportamenti distorti ed errati. Ciò accade quando le persone

utilizzano il pensiero automatico, anche se consciamente non si riconoscono nei pregiudizi incarnatidagli stereotipi.

Gli schemi, anche se ci possono portare ad una visione distorta del mondo, in realtà sono

fondamentali per poter affrontare le situazioni nuove, riducendo l’ambiguità interpretativa e

 permettendoci di selezionare le informazioni che ci vengono dal mondo esterno. Il problema si pone

quando ci si aggrappa eccessivamente a schemi che non sono rappresentazioni accurate del mondo.

Gli schemi inoltre fungono da guide della memoria: la memoria umana è ricostruttiva, e le persone

riempiono gli spazi vuoti con le informazioni coerenti con i propri schemi.

La scelta dello schema da applicare alle diverse situazioni dipende dall’accessibilità. Esistono due

tipi di accessibilità:

• in base all’esperienza passata: questi schemi sono sempre accessibili

in base ad un evento contingente che ha fissato uno schema in memoria: in questo casol’accessibilità può essere temporanea, e indotta.

Il “priming” è appunto il fenomeno per cui esperienze recenti aumentano l’accessibilità di uno

schema.

Il priming è un ottimo esempio di pensiero automatico, in quanto le persone non sono consapevoli

del fatto che stanno applicando concetti o schemi cui è capitato di pensare poco prima. La cosafunziona anche tramite messaggi subliminali.

Gli schemi sono caratterizzati da una notevole persistenza, tanto che possono sopravvivere anche

quando non sono sostenuti più da nessuna evidenza. Quando incontriamo informazioni nuove, o

vediamo confutate quelle acquisite, non rivediamo i nostri schemi. A volte invece si verifica il

fenomeno della “profezia che si autoadempie”:

a) le persone hanno delle aspettative rispetto ad un altro individuo

 b) ciò influenza il modo di agire nei suoi confronti

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c) queste attese influenzano la risposta dell’individuo, che adotta comportamenti coerenti con le

attese, facendo in modo che queste diventino vere.

Questo fenomeno può comportare serie conseguenze, soprattutto per chi è vittima di aspettativenegative.

La cultura in cui siamo cresciuti è una fonte fondamentale per i nostri schemi, e influenza

notevolmente ciò che notiamo e memorizziamo del mondo.

1.2 Strategie e scorciatoie mentali

Un’altra forma di pensiero automatico è quella di applicare regole specifiche e scorciatoie mentali

quando pensiamo al mondo sociale.

Quando gli schemi che abbiamo non sono adeguati, o quando ne abbiamo troppi che potrebbero

andare bene e siamo nell’incertezza, spesso impieghiamo la scorciatoia dell’euristica del giudizio.

In molti casi queste euristiche funzionano e portano ad ottimi risultati, in altri sono inadeguate omale impiegate, portando a giudizi errati.

L’euristica della disponibilità: si riferisce ai giudizi fondati sulla facilità con cui riportiamo alla

mente esempi che riguardano la situazione in esame. Il problema è che spesso ciò che ricordiamo

non è caratteristico del quadro generale, e ci porta a conclusioni errate.

L’euristica della rappresentatività: per categorizzare qualcosa di nuovo, le persone giudicanoquanto sia simile al caso tipico. Questo tipo di euristica viene utilizzato spesso anche quando

avremmo a disposizione informazioni medie di base che contraddicono le conclusioni raggiunte,

 portando a conclusioni errate.

L’euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento: è una strategia con cui le persone utilizzano

un numero o un valore come punto di partenza e quindi precisano la loro risposta rispetto ad esso.

Spesso però i valori da cui si parte sono frutto di esperienze personali atipiche, e perciò non sono

affatto rappresentative del reale. Quando si generalizza partendo da un campione di informazioni

 per arrivare alla sua totalità, viene messo in atto un processo chiamato campionamento tendenzioso.

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1.3 La pervasività del pensiero automatico

Il nostro pensiero può diventare automatico quanto le nostre azioni. L’elaborazione automatica si

verifica senza che ce ne accorgiamo, e da qui deriva la difficoltà nel definirla. E’ però essenziale per  poter categorizzare il mondo con velocità ed efficacia, e poter utilizzare il pensiero conscio per fini

 più importanti. Questa strategia implica però un prezzo da pagare, che sta nel rischio di

categorizzare una persona o un oggetto in maniera erronea.

2. La cognizione sociale controllata

Il pensiero controllato è conscio, intenzionale, volontario e richiede energia mentale. Uno degliscopi del pensiero controllato è porre freni e bilanciamenti al pensiero automatico. Tuttavia, proprio

 perché il pensiero controllato richiede energia e motivazione, spesso lasciamo che sia il pensiero

automatico a gestire le cose (come molto spesso guardando la pubblicità in TV). Questo

naturalmente a meno che non siamo particolarmente motivati ad analizzare un messaggio ed

abbiamo le energie necessarie. Anche le conseguenze coinvolte nel giudizio sono importanti

nell’attivare o meno il pensiero controllato.

2.1 Credere automaticamente e non credere controllato

Alcune teorie sostengono che le persone sono “programmate” per credere automaticamente a tutto

ciò che vedono o sentono. Ciò fa parte di un meccanismo fondamentale per la vita sociale. Tuttavia,

a volte, ciò che vediamo e sentiamo non è vero. L’accettazione iniziale si verifica

inconsapevolmente e senza impegno o intenzionalità. Il giudizio e la non accettazione sono invece

frutto dell’elaborazione controllata, sempre che le persone abbiano l’energia e la motivazione per 

attivarla. Se ciò non avviene, si può arrivare ad accettare delle falsità.

2.2 Annullamento mentale del passato: il pensiero controfattuale

Le persone si impegnano spesso nel pensiero controfattuale, ovvero ragionare su cosa sarebbe

 potuto succedere se le cose fossero andate diversamente. La facilità con cui si riesce ad annullare il

 passato, pensando ad esiti alternativi, può produrre un impatto notevole sulle spiegazioni che ci

diamo del passato e sulle emozioni collegate. Più è facile “annullare” mentalmente un esito, e più

forte è la reazione emotiva ad esso. E alcuni generi di esiti sembrano facili da evitare o modificare,

non tanto perché lo siano realmente, quanto per la facilità con cui li possiamo annullarementalmente.

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3. Per un ritratto del giudizio umano

Le abilità cognitive del pensiero umano possono portare a grandi risultati culturali e intellettuali, ma

anche a compiere errori fondamentali. Come si spiega?

E’ tuttora in corso un dibattito su quale dei due tipi di pensiero (automatico o controllato) sia più

importante per il nostro funzionamento. Ciò che è chiaro è che entrambi sono estremamente utili.

Forse la migliore metafora del pensiero umano è quella secondo cui le persone sono “scienziati

imperfetti”, che cercano di scoprire la natura del mondo sociale in maniera logica, ma che non ci

riescono alla perfezione. Possiamo ancora migliorare.

3.1 Come insegnare le abilità di ragionamento

Viste le conseguenze spiacevoli, e a volte tragiche, del ragionamento umano, ci si deve porre il

 problema di come rimediare, insegnando alle persone come migliorare le proprie inferenze.

Uno dei possibili metodi è quello di spingere le persone a considerare con maggiore modestia le

loro capacità di ragionamento: spesso infatti ci sentiamo infallibili.

Un'altra possibilità è quella di insegnare alle persone alcuni dei principi statistici e metodologicifondamentali relativi al ragionamento corretto, nella speranza che poi li applichino nella loro vita

quotidiana.

Capitolo 3 – La percezione sociale: come arriviamo a comprendere gli altri 

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Studiare il comportamento degli altri ci aiuta a comprendere il nostro mondo sociale. Lo studio

della percezione sociale riguarda i modi in cui creiamo impressioni e formuliamo giudizi nei

confronti degli altri.

1. Il comportamento non verbale

Spesso possiamo comunicare senza parlare. La comunicazione non verbale si riferisce alle

espressioni del volto, al tono della voce, ai gesti, alle posizioni e i movimenti del corpo, all'uso del

tatto e allo sguardo.

Le funzioni della comunicazione non verbale, secondo Argyle, sono:

• esprimere emozioni

• comunicare atteggiamenti

• comunicare i propri tratti di personalità

• facilitare la comunicazione verbale

La comunicazione non verbale a volte conferma e rafforza quella verbale, altre volte la contraddice.

1.1 Esprimere le emozioni con il viso

Darwin fu il primo a studiare l'espressione dei sentimenti nell'uomo e negli animali. Egli ipotizzò

che alcune emozioni primarie vengono espresse attraverso il volto nello stesso modo in tutte le

culture. Era un'ipotesi funzionale all'evoluzionismo, secondo la quale anche questa capacità dicomunicare aveva assunto un valore di sopravvivenza.

Anche studi più recenti, tuttavia, confermano che, almeno per sei emozioni (rabbia, felicità,

sorpresa, paura, disgusto e tristezza), le espressioni facciali sono le stesse in tutte le culture umane.

Il compito di decodificare le espressioni facciali non è sempre agevole, per tre motivi principali:

• le persone spesso manifestano emozioni “miste” 

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• vi sono delle occasioni in cui gli individui non vogliono mostrare le proprie emozioni

(anche se questo, come diversi esperimenti hanno mostrato, può portare a conseguenze

negative dal punto di vista cognitivo e fisiologico

• la terza ragione ha a che fare con la cultura 

1.2 La cultura e i canali della comunicazione non verbale

Esistono alcune regole di esibizione, proprie di ciascuna cultura, che controllano quali tipi di

espressione emotiva vadano mostrati. Le regole culturali che reggono l'espressione non verbale in

oriente sono notevolmente diverse da quelle occidentali.

Altre modalità di espressione non verbale normate dalla cultura sono quelle relative allo sguardo, o

allo spazio personale, o ancora ai gesti e ai cosiddetti emblemi (gesti che dispongono di definizioni

chiare e comprensibili, ad es. l'OK)

1.3 La comunicazione verbale mediante più canali

La vita quotidiana si compone di interazioni sociali svolte utilizzando più canali di comunicazione

non verbale. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che le informazioni non verbali sono spesso

ridondanti e favoriscono l'interpretazione degli interlocutori. Si è anche notato che alcune persone

(in particolare gli estroversi) sono molto abili nel decodificare gli indizi non verbali, mentre altre (di

solito gli introversi) sono carenti.

1.4 Differenze di genere nella comunicazione non verbale

In generale gli studi hanno dimostrato che le donne sono più brave nel decodificare la

comunicazione non verbale, ma non sempre: se l'interlocutore mente, è più facilmente smascherato

da un uomo rispetto ad una donna. Questo deriva, secondo alcuni, dal ruolo sociale delle donne, che

sono portate a mostrare (e ci si aspetta da loro) maggiore sensibilità, gentilezza e disponibilità. Ciò

 porta alla sottovalutazione della capacità di mentire e alla differenza nel comportamento non

verbale.

2. Le teorie implicite di personalità: come si riempiono gli spazi vuoti

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Uno degli schemi fondamentali usati dalle persone per farsi delle impressioni sugli altri è la

cosiddetta teoria implicita di personalità, che è composta dalle idee su quali tratti di personalità si

accordano fra loro (ad es. gentile-generoso, tirchia-irritabile, ecc.)

2.1 La cultura e le teorie implicite di personalità

Le teorie implicite di personalità si formano lungo un certo arco di tempo e si basano sulle nostre

esperienze, ma anche sulla nostra cultura. La cosiddetta “personalità artistica”, ad esempio, è

tipicamente occidentale, mentre non esiste in oriente. Anche la lingua interviene nel definire termini

che individuano una certa personalità, producendo teorie implicite che influenzano notevolmente le

impressioni che ci creiamo a vicenda.

3. L'attribuzione causale: le risposte ai nostri perché

Sulla base del comportamento non verbale possiamo azzardare ipotesi sulla personalità di una

 persona, dopodiché riempiamo i vuoti con le nostre teorie implicite. Ma questi mezzi non

garantiscono affatto l'accuratezza delle nostre valutazioni. Se vogliamo andare oltre, dobbiamo

inferire la vera natura delle persone e i motivi delle loro azioni. La teoria dell'attribuzione studia

il modo in cui rispondiamo a questa esigenza.

3.1 La natura del processo di attribuzione

La teoria di Heider raffigura le persone come “scienziati sociali” che cercano di comprendere il

comportamento degli altri assemblando varie informazioni fino ad arrivare ad una spiegazione

ragionevole.

Quando cerchiamo di decidere il perché di un determinato comportamento, possiamo compiere:

• un'attribuzione interna (relativa alla personalità, agli atteggiamenti, al carattere dell'altro)

• un'attribuzione esterna (relativa alla situazione in cui l'altro si trova)

Ovviamente la valutazione che diamo di un certo comportamento è molto influenzata dal tipo di

attribuzione.

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Heider ha anche evidenziato che in genere la preferenza viene data alle attribuzioni interne: ci

concentriamo sulle persone, piuttosto che sulle situazioni, molto spesso difficili da osservare e

descrivere.

3.2 Il modello della covariazione: attribuzioni interne vs. esterne

Kelley ha suggerito che la decisione sulle attribuzioni deriva anche da un'analisi del comportamento

degli altri in diverse situazioni temporali e spaziali. In particolare si fa attenzione a tre tipi di

informazioni:

• consenso: come si comportano altre persone rispetto al medesimo stimolo

• specificità: come si comporta l'attore rispetto ad altri stimoli

• coerenza: quante volte si ripete lo stesso comportamento rispetto al medesimo stimolo.

Quando le tre fonti di informazione si combinano in pattern caratteristici, le persone effettuano

l'attribuzione. Ad es. se consenso e specificità sono bassi, ma la coerenza alta, l'attribuzione è più

spesso interna. Se tutte e tre sono alte, l'attribuzione sarà più facilmente esterna. Se la coerenza è

 bassa, c'è maggiore ambiguità, e perciò si tende a pensare che qualcosa di insolito o contingente

abbia provocato il comportamento.

Studi successivi hanno dimostrato che le informazioni di consenso sono meno importanti rispetto a

quelle di specificità e coerenza.

3.3 Il “bias” di corrispondenza: le persone come psicologi della personalità

Lo schema più diffuso sul comportamento umano è quello secondo cui sono le caratteristiche personali degli individui ad indurli a comportarsi in un certo modo, e non le situazioni in cui si

trovano. Questa tendenza è chiamata errore fondamentale di attribuzione. 

 Non sempre è un errore compiere un'attribuzione interna. Tuttavia numerosi studi dimostrano che le

situazioni sociali producono un forte impatto sul comportamento, che le persone di solito tendono a

sottovalutare.

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Una delle ragioni per cui si compie l'errore fondamentale di attribuzione è il fatto che di solito

disponiamo di più informazioni sulla persona piuttosto che sulla situazione in cui si trova. Inoltre le

informazioni situazionali spesso sono di difficile interpretazione.

Ciò che vediamo e sentiamo è l'individuo che ci si trova davanti, ed è proprio questa salienza

percettiva uno dei fattori che ci fa attribuire a lui la causa dei comportamenti che osserviamo. Inquesto processo entra anche l'influenza dell'euristica dell'ancoraggio e accomodamento, che ci

spinge a formulare i nostri giudizi a partire da un punto di riferimento ben visibile e concreto.

Il processo di attribuzione di solito si struttura in due fasi: dapprima le persone operano

un'attribuzione interna, quindi cercano di aggiustare l'attribuzione considerando la situazione in cui

si trova l'altro. Questo secondo stadio però, comportando un tipo di pensiero meno automatico e più

controllato, richiede maggior sforzo e attenzione, per cui in determinate circostanze (stress,

stanchezza, distrazione) le persone lo saltano a piè pari, mantenendo l'attribuzione interna anche se

è sbagliata.

In genere siamo consapevoli che anche le altre persone tendono a dare motivazioni interne ai nostri

comportamenti. Siamo anche però convinti che le nostre azioni suscitino molta più attenzione di

quanto in realtà avvenga. Questo fenomeno viene definito effetto riflettore. La conseguenza è che

spesso le persone si sentono in imbarazzo o difficoltà molto più di quanto la situazione

richiederebbe. In realtà, gli altri ci giudicano meno severamente di quanto crediamo, in quanto

 provano empatia per noi. Ma tale empatia viene da noi sottovalutata.

Così, sebbene siamo noi, e non i fattori situazionali, a risultare salienti per gli osservatori, è anche

vero che non siamo così salienti come crediamo (e temiamo).

3.4 La differenza tra attore e osservatore

L'errore fondamentale di attribuzione non si applica alle attribuzioni che compiamo su noi stessi

nella stessa misura in cui è applicabile alle altre persone. Per spiegare il nostro comportamento,spesso ci affidiamo ad attribuzioni situazionali. Questo naturalmente provoca divergenze di

valutazione con le altre persone. E' questa la differenza tra attore e osservatore.

Una delle spiegazioni si rifà alla salienza percettiva: le attribuzioni vengono guidate da ciò che

vediamo e sentiamo: l'attore per l'osservatore, la situazione per l'attore.

Inoltre, gli attori dispongono ovviamente di maggiori informazioni situazionali su sé stessi rispettoagli osservatori, soprattutto in termini di coerenza e specificità.

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3.5 Le attribuzioni a proprio favore

Quando l'autostima è minacciata, si compiono delle attribuzioni a proprio favore, ovvero si

attribuiscono i successi al proprio valore personale, e i fallimenti a fattori situazionali. Le persone

infatti tendono il più possibile a mantenere la propria autostima, anche a costo di distorcere la realtà

modificando una cognizione. Un'altra possibile ragione si basa sull'esigenza di presentarsi bene agli

altri.

Esistono poi le attribuzioni difensive, che si verificano quando entra in gioco la consapevolezza di

 poter essere oggetto di eventi tragici o luttuosi. Una forma di attribuzione difensiva è l'ottimismo

irrealistico: le persone tendono a pensare ad un futuro luminoso più probabile per loro rispetto agli

altri.

Un altro modo per affrontare gli aspetti spiacevoli dell'esperienza umana è credere che certe cose a

noi non potranno mai capitare a noi, ma solo a persone malvagie. Questa viene definita credenza in

un mondo giusto, e a volte produce conseguenze tragiche (vedi le vittime di stupro).

4. La cultura e le attribuzioni

Sono stati effettuati diversi studi per stabilire se i “biases” attribuzionali siano tipici di determinate

culture oppure si possano considerare universali. In fondo la cultura può essere considerato il

“fattore situazionale di base”, quello che ci condiziona fin dalla nascita.

4.1 cultura e “bias” di corrispondenza

Gli studi hanno dimostrato che le persone appartenenti a culture individualiste (ad es. USA e

occidente in genere) sembrano preferire le attribuzioni disposizionali, mentre gli appartenenti a

culture che pongono in risalto l'appartenenza di gruppo e l'interdipendenza (soprattutto

orientali) tendono a fare attribuzioni situazionali.

In realtà anche i membri di culture collettiviste fanno attribuzioni disposizionali, ma sono

maggiormente predisposti a considerare i fattori situazionali. Essi quindi sono in grado con più

 probabilità di combattere l'errore fondamentale di attribuzione, che comunque è presenteuniversalmente.

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4.2 La cultura e altri “biases” attribuzionali

Per ciò che riguarda la differenza attore/osservatore, l'appartenenza culturale non sembra influire

 più di tanto. Verso sé stessi, tutti tendono a fare attribuzioni situazionali, mentre verso gli altri letendenze divergono.

I fattori culturali influiscono notevolmente invece nelle autovalutazioni, per cui il successo

nelle culture collettiviste viene spesso attribuito al gruppo, e il fallimento ai singoli, all'opposto che

nelle culture occidentali individualiste.

La credenza nel mondo giusto, dato che tende a giustificare le iniquità economiche e sociali, sononotevolmente più diffuse nelle culture in cui esistono grandi divari tra ricchezza e povertà.

5. Qual'è la precisione delle nostre attribuzioni e impressioni?

La capacità di comprendere il comportamento degli altri è fondamentale soprattutto per essere

 preparati al futuro.

In realtà vi sono molte circostanze in cui non riusciamo ad essere precisi, soprattutto se le

 paragoniamo al grado di accuratezza che pensiamo di avere.

L'errore fondamentale di attribuzione è la prima causa di problemi. E' importante quindi considerare

il grande potere delle situazioni, che a volte sono in grado di travolgere le disposizioni delle

 persone.

Anche l'uso degli schemi, come le teorie implicite di personalità, è fonte di errori. Questo perché le

teorie spesso sono frutto di stereotipi.

E' fondamentale quindi saper reagire a tutti questi condizionamenti.

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Capitolo 4 – La conoscenza di sé: come arriviamo a comprendere noi stessi 

1. La natura del sé

Il sé è composto in primo luogo dai nostri pensieri e credenze su noi stessi (concetto di sé). In

secondo luogo, il sé è anche un attivo elaboratore di informazioni (consapevolezza o coscienza).

Questi due processi psicologici si combinano insieme per creare un senso coerente di identità.

Possiamo avere diversi “Sè” che si sviluppano in risposta alle diverse situazioni sociali.

Il senso del “Sé” è praticamente assente negli animali, eccetto che nelle scimmie superiori. Nei

 bambini si sviluppa intorno ai due anni, anche se per avere una definizione complessa e poliedrica

del sé si deve raggiungere l'età adulta.

1.1 Le funzioni del sé

Il sé svolge essenzialmente due funzioni:

• organizzativa: esistono degli schemi del sé, delle strutture mentali che ci aiutano ad

organizzare la conoscenza di noi stessi;

• esecutiva: il sé regola il comportamento, le scelte e i progetti futuri delle persone. Ad

esempio il sé ha il compito di progettare a lungo termine, e di esercitare il controllo sulle

azioni. Questo tipo di autoregolazione impiega molte energie mentali. Questo spiega perché,

ad esempio, spesso non riusciamo ad autocontrollarci in situazioni di stress.

1.2 Differenze culturali nella definizione di sé

 Nelle culture occidentali, molti hanno una visione di sé indipendente, che esalta l'individualismo.

In quelle orientali è più frequente la visione di sé interdipendente, che esalta l'associazione con le

altre persone.

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 Naturalmente esistono eccezioni in entrambi i casi, che probabilmente aumenteranno con il crescere

dei contatti fra le culture. Ma per ora le differenze del concetto di sé sono importanti, e a volte

comportano notevoli conseguenze sulla comunicazione.

1.3 Differenze di genere nella definizione di sé

Al di là degli stereotipi, le donne sono più interdipendenti relazionali, ovvero si focalizzano sulle

relazioni intime, mentre gli uomini hanno una maggiore interdipendenza collettiva, ovvero si

concentrano sulla loro appartenenza a grandi gruppi.

2. Conoscere noi stessi attraverso l'introspezione

L'introspezione consiste nel guardarsi dentro ed esaminare quelle informazioni che solo noi

abbiamo circa i nostri pensieri, sentimenti e motivazioni.

2.1 Focalizzarsi sul sé: la teoria della consapevolezza di sé

L'introspezione compare in alcune circostanze, ma non è un'attività cognitiva frequente. I nostri

 pensieri si concentrano di più sugli eventi, le persone e le conversazioni della vita quotidiana.

Secondo la teoria della consapevolezza di sé, quando ci focalizziamo su noi stessi valutiamo e

confrontiamo il nostro comportamento presente rispetto ai valori e alle regole interne. Diventiamo

osservatori giudicanti di noi stessi.

 Non sempre l'autofocalizzazione è un procedimento piacevole: se possiamo cambiare il nostro

comportamento per conformarlo ai nostri principi interni, allora va bene. Ma se sentiamo di non

 poterlo fare, allora la cosa risulterà sgradevole, e ci spingerà a non compiere l'autoesame.

Molti comportamenti autodistruttivi come l'alcolismo, i disturbi alimentari e il suicidio sono forme

di fuga da se stessi. Ma anche molte forme di espressione religiosa e spiritualità sono mezzi efficaci

 per evitare l'attenzione su di sé.

2.2 Giudicare il perché ci sentiamo come ci sentiamo: dire di più di quanto sappiamo

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Molti dei nostri processi mentali di base avvengono al di fuori della coscienza. Noi siamo coscienti

dei risultati finali, ma non dei processi cognitivi che hanno portato a quei risultati. Ciò nonostante,

l'introspezione ci può convincere della nostra capacità di saper spiegare le nostre sensazioni.

Le persone infatti possiedono molte teorie su cosa influenza il loro comportamento e i sentimenti

(teorie causali), e le usano per spiegarsi perché si sentono in un certo modo. Queste teorie molto

spesso vengono dalla cultura in cui siamo cresciuti, e volte non sono corrette, per cui possono

 portare a conclusioni errate sulle cause del nostro comportamento.

2.3 Le conseguenze del riflettere sulle ragioni

 Non solo è difficile capire le nostre ragioni tramite l'introspezione, ma a volte potrebbe essere anche

negativo. Molto spesso le persone, credendo di aver compreso le ragioni di determinati sentimenti o

azioni, tendono a cambiare il proprio comportamento basandosi su queste ragioni, anche se sono

fondamentalmente errate.

3. Conoscere noi stessi attraverso l'osservazione dei nostri comportamenti

Un altro modo di conoscere se stessi è quella di osservare i propri comportamenti. Secondo la teoria

dell'autopercezione di Bem, quando i nostri sentimenti sono ambigui e incerti, li inferiamo

osservando i nostri comportamenti e la situazione in cui ci troviamo. E il modo in cui lo facciamo

riflette i principi della teoria dell'attribuzione.

3.1 La motivazione intrinseca vs. estrinseca

Indurre qualcuno ad un certo comportamento con l'uso di ricompense può portare talvolta a

conseguenze inattese. Chi segue una certa attività con interesse ha di solito una motivazione

intrinseca a farlo, non dipendente da ricompense o sollecitazioni. Se si aggiungono queste ultime

(motivazioni estrinseche), l'attività perde le sue caratteristiche di spontaneità per trasformarsi in

qualcos'altro (un lavoro, ad es.). In queste condizioni gli individui perdono interesse per l'attività

stessa. Questo si chiama effetto di sovragiustificazione: le persone sopravvalutano l'influenza delle

cause esterne sul loro comportamento, e sottostimano il loro interesse intrinseco.

Per evitare questo effetto una possibile soluzione è quella di dare ricompense non semplicemente

 per il fatto di svolgere un'attività (ricompensa contingente al compito), ma per il fatto di averla

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svolta bene (ricompensa contingente alla prestazione), possibilmente però senza provocare stress da

valutazione.

3.2 Comprendere le nostre emozioni: la teoria bifattoriale delle emozioni

Secondo la teoria delle emozioni di Schachter, inferiamo le nostre emozioni osservando il nostro

comportamento interno, ovvero il grado di eccitazione fisiologica che avvertiamo. Prima

avvertiamo l'eccitazione, poi dobbiamo cercarne una spiegazione adeguata, traendo informazioni

dalla situazione in cui ci troviamo.

Una delle implicazioni di questa teoria è che le emozioni delle persone sono in arte arbitrarie, perché dipendono da quella che sembra la spiegazione più plausibile della propria eccitazione.

3.3 Trovare la causa sbagliata: l'attribuzione errata di eccitazione

 Numerosi studi hanno dimostrato che, anche nella vita quotidiana, spesso si verifica l'attribuzione

errata di eccitazione.

3.4 L'interpretazione del mondo sociale: le teorie delle emozioni come valutazioni cognitive

Le nostre emozioni non sono determinate soltanto dalla spiegazione che attribuiamo alla nostra

eccitazione, ma anche dall'interpretazione della situazione compiuta in assenza di eccitazione. La

teoria delle emozioni come valutazioni cognitive sostiene che le nostre emozioni derivano anche

dal fatto che valutiamo un certo evento come positivo o negativo per noi stessi. La differenza traquesta teoria e quella di Schachter riguarda il ruolo dell'eccitazione. Nella teoria delle valutazioni

cognitive, sono queste ultime a determinare l'eccitazione, mentre nella prima l'eccitazione è l'evento

scatenante.

Entrambe le teorie comunque concordano sul fatto che impariamo a conoscerci mediante

l'osservazione degli eventi, incluso il nostro comportamento, e il tentativo di spiegarli.

4. Usare le altre persone per conoscere noi stessi

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Il concetto di sé non si sviluppa in un contesto solitario, ma é modellato dalle persone che ci

circondano. Il contatto sociale è fondamentale.

4.1 Conoscere noi stessi attraverso il confronto sociale

La teoria del confronto sociale di Festinger verte su due importanti questioni:

• quando procediamo al confronto sociale: evidentemente quando ci mancano dati oggettivi

con cui poterci misurare e siamo in una situazione di incertezza;

• con chi scegliamo di farlo: in un prima fase con chiunque, in seguito ci si confronta con chi

è simile a noi in una dimensione o attributo considerato importante.

Ci confrontiamo socialmente verso l'alto solo per stabilire il criterio d'eccellenza. Ci confrontiamo

invece verso il basso quando abbiamo il bisogno di sostenere il nostro Io.

4.2 Conoscere noi stessi attraverso gli occhi degli altri

Spesso le altre persone osservano la nostra personalità e le nostre emozioni in modo diverso da noi.

E a volte sono in grado di fare valutazioni migliori. Questo perché spesso gli individui possono non

voler riconoscere i propri tratti negativi, e quindi formulano previsioni errate sul proprio

comportamento. Inoltre gran parte del nostro pensiero riguardo al mondo opera in maniera

automatica e inconscia, per cui gli altri sono in grado di valutarlo meglio rispetto a noi stessi.

5. La gestione delle impressioni

Dopo essere giunti a conoscere noi stessi, la natura sociale ci spinge a impiegare questa conoscenza

 per presentarci agli altri. E possiamo presentarci per quello che siamo o per quello che vogliamo

che gli altri credano che siamo. In quest'ultimo caso ricorriamo alla gestione delle impressioni,

ovvero alla preparazione più o meno consapevole di una presentazione del Sé.

Una delle strategie di presentazione è l'ingraziamento, ovvero quando lusinghiamo, lodiamo e cirendiamo graditi ad una persona, di solito di status sociale superiore.

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Un'altra strategia è quella del “self-handicapping”. In questo caso le persone creano degli ostacoli

e delle scuse verso se stesse per giustificare le ragioni del proprio fallimento. A volte questa

strategia porta a delle autolimitazioni che possono impedire di portare a termine il compito.

Le diverse culture impiegano diversamente la gestione delle impressioni. Nelle culture orientali,

legate all'interdipendenza, evitare l'imbarazzo pubblico ha un ruolo fondamentale. Ma anche in

occidente si ricorre spesso a gestioni esagerate, pur di influenzare la percezione che di noi hanno gli

altri.

Capitolo 5 – Il bisogno di giustificare le nostre azioni 

Una delle più potenti cause che determinano il comportamento umano deriva dal nostro bisogno di

preservare un'immagine di sé stabile e positiva. Abbiamo bisogno di credere di essere persone

ragionevoli e rispettabili che prendono le giuste decisioni e non si comportano in maniera immorale.

Ma non sempre è facile conservare questa credenza.

1. La teoria della dissonanza cognitiva

Alla sensazione di malessere provocata da informazioni che risultino discrepanti con il concetto di

noi stessi come esseri ragionevoli e intelligenti si è dato il nome di dissonanza cognitiva.

La dissonanza cognitiva spinge l'individuo a cercare di attenuare il malessere che essa stessa hacreato, come la fame o la sete. Ogni individuo dispone di tre modi fondamentali per ridurre la

dissonanza: 

1. cambiare il comportamento fino a farlo accordare con la cognizione dissonante

2. cercare di giustificare il proprio comportamento modificando una delle cognizioni

3. cercare di giustificare il comportamento mediante l'aggiunta di nuove cognizioni

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1.2 Comportamento razionale e comportamento razionalizzante

Il bisogno di preservare la stima di sé produce un pensiero che non sempre è razionale, ma piuttostorazionalizzante. Le persone che sono impegnate a ridurre la dissonanza sono così prese dal

convincersi di avere sempre ragione che spesso si comportano in maniera irrazionale e inadeguata.

Gli argomenti insulsi a favore della nostra posizione, così come gli argomenti validi a favore di

quella degli altri, generano dissonanza, e quindi in preferibilmente vengono ignorati.

In generale gli esseri umani non elaborano le informazioni in maniera non condizionata. Piuttosto le

distorcono per adattarle alle loro nozioni preconcette.

1.3 Decisioni, decisioni e ancora decisioni

Ogni volta che prendiamo una decisione importante (ovvero impegnativa, difficile da modificare,

che può provocare danni ad altre persone) avvertiamo dissonanza. Questo fenomeno viene chiamato

dissonanza postdecisionale.

Per ridurre la dissonanza, gli individui modificano le loro sensazioni rispetto agli oggetti scelti,

divaricandoli mentalmente in modo da potersi sentire bene in merito alla scelta operata. In altre

 parole, cambiamo il modo in cui ci sentiamo rispetto alle alternative scelte (sopravvalutandole) o

non scelte (sminuendole).

Più la decisione è importante, maggiore è la dissonanza. E quanto più permanente e irrevocabile è la

decisione, tanto più forte è il bisogno di ridurre la dissonanza. Per questo i venditori hannosviluppato tecniche che creano nel cliente l'illusione della irrevocabilità (ad es. la “tecnica del colpo

 basso”), aumentando così la probabilità di acquisto.

Spesso le nostre decisioni implicano questioni etiche. E la riduzione della dissonanza conseguente

ad una grave decisione morale può influenzare le persone a comportarsi in maniera più o meno etica

nel futuro.

Chi compie un'azione che va contro i propri principi morali, a seguito di questa decisione si troverà

a considerare meno grave quell'azione, nel tentativo di ridurre la dissonanza. Se invece lo stesso

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individuo resiste alla tentazione, in seguito giudicherà in maniera più rigorosa la gravità di quella

stessa azione. In pratica l'esito non sarà semplicemente una razionalizzazione del comportamento,

ma un vero e proprio cambiamento del sistema di valori. E ciò avviene anche se le persone hanno

un atteggiamento di partenza identico verso l'azione immorale.

1.4 La giustificazione degli sforzi

La maggior parte di noi compie numerosi sforzi per ottenere qualcosa che desidera realmente. A

 posteriori, possiamo accorgerci che il traguardo raggiunto non giustifica gli sforzi fatti. A questo

 punto, per ridurre la dissonanza, ci sono due possibilità:

• rivedere il proprio concetto di sé: in realtà non accade quasi mai

• ripensare a ciò che si è raggiunto e trovarne nonostante tutto i lati positivi (anche se nonesistono!)

Questo meccanismo fa sì che, più è faticoso e doloroso raggiungere un certo risultato, più quel

risultato ci apparirà in modo positivo, anche al di là delle sue qualità intrinseche.

1.5 La psicologia della giustificazione insufficiente

Vi sono delle situazioni in cui la maggior parte delle persone pensa che vi siano buone ragioni per 

non essere sinceri. Una di queste è la necessità di essere gentili, ovvero di non ferire la sensibilità

delle persone a cui teniamo. Questa è una valida giustificazione esterna.

In casi invece in cui la giustificazione esterna è poco importante o difficile da trovare, le persone

cercano di trovare una giustificazione interna, avvicinando tra loro le due cognizioni delcomportamento e dell'atteggiamento. In pratica finiscono per convincersi della bugia che dicono.

Questo fenomeno viene chiamato “counterattitudinal advocacy”.

La cosa interessante di questo meccanismo è che si presenta anche per atteggiamenti che riguardano

questioni importanti.

1.6 “Counterattitudinal advocacy”, relazioni etniche e prevenzione dell'AIDS

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In alcuni esperimenti condotti negli USA, il meccanismo della “counterattitudinal advocacy” è stato

usato, con risultati positivi, per modificare gli atteggiamenti degli studenti universitari verso i

rapporti interetnici e la prevenzione dell'AIDS. Alcuni studenti vennero messi nelle condizioni di

 proporre messaggi favorevoli a questi atteggiamenti, rivolti ai loro compagni. La situazione di

ipocrisia che si venne a creare fece sì che, per ridurre la dissonanza, questi studenti cominciarono a

mettere in pratica ciò che avevano comunicato nei messaggi.

Tutte le società si reggono in parte sul concetto di pena o della sua minaccia. Ogni membro della

società si trova continuamente in situazioni in cui è minacciato di essere punito dai tutori dell'ordine

se non rispetta le regole. Tuttavia, l'efficacia di una pena pesante non ha valore preventivo, ma è

solo legata alla presenza di una continua vigilanza.

In realtà, proprio a causa dei meccanismi sopra evidenziati, la presenza di una pena pesante è unaforte giustificazione esterna che può paradossalmente aiutare a ridurre la dissonanza dovuta ad un

comportamento fuori dalle regole. La presenza di una pena più lieve invece produce minore

riduzione della dissonanza, e porta il soggetto a crearsi una giustificazione interna al

comportamento corretto, che lo aiuterà a interiorizzare quel comportamento. Ciò è fondamentale

 per aiutare ad es. i bambini a costruirsi un modello di valori permanente.

Questo meccanismo, che dall'autogiustificazione porta all'autopersuasione, è stato reso evidente

in numerosi esperimenti, che hanno coinvolto anche bambini molto piccoli.

L'autopersuasione ha tra l'altro effetti permanenti, a differenza dei tentativi diretti di persuasione

che fanno uso di pressioni e convincimenti esterni. Questo proprio perché fa leva su motivazioni

interne.

In conclusione, una ricompensa o una punizione pesante sono modi efficaci di fornire

giustificazione esterna ad un'azione. Di conseguenza, rappresentano una strategia efficace per far sìche una persona faccia una cosa in una determinata situazione, limitata nel tempo.

Ma se vogliamo che quella persona sviluppi un atteggiamento radicato, minore sarà la ricompensa o

la pena, maggiore sarà il cambiamento di atteggiamento e perciò la permanenza dell'effetto.

Le pene o le ricompense severe incoraggiano la condiscendenza, ma impediscono la reale

modifica dell'atteggiamento.

1.7 Le conseguenze negative delle azioni buone o cattive

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Cosa succede quando facciamo un favore a qualcuno? La teoria della dissonanza prevede che

tenderemo a gradirla di più dopo che le abbiamo fatto un favore.

La stessa cosa succede quando trattiamo male qualcuno: tenderemo a considerarlo meno di quantovale in realtà.

Questo meccanismo è capace di produrre tragiche conseguenze. Per esempio spiega come in guerra

i soldati possano riuscire a compiere atti orribili e crudeli: svalutando le proprie vittime a livello di

non umani, di esseri inferiori. La dissonanza creata dal compiere violenza contro civili indifesi

viene compensata da questa distorsione. E il fenomeno è in grado di riprodursi a catena, per cui le

atrocità che le persone sono disposte a commettere si accresceranno sempre più attraverso una

catena infinita di violenze seguite da autogiustificazione, a cui fanno seguito violenze maggiori e

una disumanizzazione ancora più intensa.

1.8 Cultura e dissonanza

 Nelle società meno individualiste, il comportamento di riduzione della dissonanza è meno

importante rispetto a quello che favorisce l'armonia del gruppo. Alcuni studi hanno però dimostrato

che l'atteggiamento di riduzione della dissonanza in queste società assume un carattere“comunitario”: ovvero, gli individui adeguano i loro giudizi con quelli degli altri che hanno un

valore all'interno del gruppo di riferimento.

2. Nuove linee di ricerca sulla giustificazione di sé

Ciò che in realtà scatena il cambiamento di atteggiamento e la distorsione cognitiva che può

verificarsi nel processo di riduzione della dissonanza è il bisogno di preservare la propriaimmagine. In tempi recenti gli psicologi sociali hanno analizzato in maggiore profondità e in

contesti nuovi la premessa fondamentale di questo bisogno.

2.1 La teoria della discrepanza del sé

In accordo con la teoria della discrepanza del sé (Higgins), gli individui avvertono la motivazione

a preservare un senso di coerenza tra le loro varie credenze e percezioni rispetto al concetto di sé.

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In particolare, tali criteri trovano migliore riflesso nelle credenze che abbiamo sul genere di persona

che aspiriamo ad essere – il sé ideale – e il tipo di persona che crediamo di dover essere – il sé

imperativo. Paragonare il nostro sé reale con il sé ideale e imperativo ci fornisce un importante

strumento di valutazione del sé.

Quando ci rendiamo conto che non siamo riusciti a rispettare i nostri criteri, mettiamo in campo

strategie che ci permettano di rimediare al disagio psicologico e di riportare l'armonia tra le nostre

credenze su noi stessi, ovvero tra il sé reale e le nostre aspirazioni.

Quando le persone avvertono una discrepanza tra il proprio sé ideale e quello reale, tendono a

sviluppare emozioni negative collegate alla depressione. Se invece la discrepanza è tra sé reale e

imperativo, si genera un pattern di emozioni che comprende paura, preoccupazione e altre legate

all'ansia.

2.2 La teoria del mantenimento dell'immagine di sé

 Non solo il nostro stesso comportamento, ma anche quello degli altri può minacciare il nostro

concetto di sé, secondo modi che possono influire pesantemente sulle relazioni interpersonali.

Secondo la teoria del mantenimento della valutazione di sé (Tesser), esistono tre importanti

indici di dissonanza nelle relazioni interpersonali:

• come svolgiamo un compito rispetto ad un'altra persona

• il livello di vicinanza ad essa

• quanto è pertinente il compito rispetto alla definizione di noi stessi

Questa dissonanza si può ridurre con diversi tipi di strategie:

• allontanarci dalla persona che ci ha superato

• modificare il grado di pertinenza del compito alla nostra definizione di sé

• cercare di modificare il confronto tra la nostra performance e quella dell'altro (diventare più

 bravi)

La teoria ci indica che se le persone non giudicano il compito particolarmente rilevante per loro

stesse, desidereranno che i loro amici abbiano successo, per poter brillare di luce riflessa. Ma seinvece il compito è rilevante per la propria autostima, si tenderà a mettere i bastoni fra le ruote

anche agli amici.

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Studi hanno dimostrato che ciò accade frequentemente, anche all'interno dei rapporti famigliari

(padri-figli, fratelli, ecc.)

2.3 La teoria dell'affermazione del sé

Spesso accade che le consuete strategie di riduzione della dissonanza non funzionano, e il tentativo

di allontanare le minacce dal proprio concetto di sé non va a buon fine, in quanto le minacce sono

troppo forti e difficili.

In questi casi, la teoria dell'affermazione del sé afferma che le persone riducono la dissonanza

affermano la competenza in un settore diverso. Cercheranno cioè di richiamare qualche aspetto

non pertinente del concetto di sé che tengono in gran conto, per potersi sentire a posto nonostante

qualche azione insulsa o immorale appena compiuta.

3. Il ruolo delle credenze negative su sé stessi

La ricerca che si è focalizzata sull'autostima ha rilevato che, in alcuni casi, i soggetti con un

concetto di sé negativo non seguono i comportamenti di giustificazione del sé che caratterizzano le

 persone con un'alta autostima.

Vi sarebbe quindi una tendenza a preservare le credenze su noi stessi, anche quando queste sono

negative. Questo è quanto afferma la teoria della verifica del sé (Swann). Come per la teoria della

dissonanza, questa teoria afferma che quando la visione di noi stessi viene confutata, ne segue

confusione e stordimento. Inoltre, l'interazione con persone che hanno una visione di noi diversadalla nostra può risultare fonte di imbarazzo. Quindi, quando soggetti con una visione di sé negativa

ricevono un feedback positivo, si trovano di fronte a due bisogni opposti: sentirsi a posto con sé

stessi credendo nel feedback positivo, oppure preservare una visione stabile e coerente di sé stessi

ed evitare l'imbarazzo di essere smascherati. In generale risulta vincente quest'ultima tendenza.

4. La dissonanza: imparare dai nostri errori

La tendenza a giustificare il nostro comportamento, anche se ci serve a difendere la nostra stabilità e

a mantenere l'autostima, può produrre conseguenze disastrose. Facilmente infatti cadiamo nella

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trappola della razionalizzazione, perdendoci in un labirinto di distorsioni che ci impediscono di

vedere la realtà.

Se le persone non imparassero dai loro sbagli, non riuscirebbero a superare la ristrettezza delle loromenti, a crescere e cambiare. E il processo di conservazione del sé spesso non solo impedisce di

considerare sbagliate le proprie azioni, ma addirittura consente di ridefinirle come eroiche, con

tragiche conseguenze.

PARTE SECONDA – INFLUENZA SOCIALE 

Capitolo 6 – Gli atteggiamenti

Un atteggiamento è un giudizio permanente su persone, oggetti e idee. E' costituito da tre

componenti:

1. affettiva (le reazioni emotive)

2. cognitiva (pensieri e credenze)

3. comportamentale (azioni e comportamenti osservabili)

1.1 Le diverse origini degli atteggiamenti

Ogni atteggiamento può essere più o meno incentrato su ciascuna delle componenti che lo formano.Se la base dell’atteggiamento è una valutazione delle ricompense e dei vantaggi che l’oggetto

comporta, allora si parla di atteggiamento a base cognitiva. Un atteggiamento invece fondato più

sulle emozioni e sui valori viene detto atteggiamento a base emotiva. In questo caso la fonte

dell’atteggiamento, più che sull’analisi logica dei fatti, sono i valori delle persone, ovvero le loro

credenze religiose o morali.

Un’altra fonte di atteggiamenti a base emotiva è il condizionamento, che può essere classico

(stimolo neutro ripetuto insieme ad uno stimolo primario, che con il tempo si sostituisce allo

stimolo primario) oppure operante o strumentale (meccanismo conferma-punizione).

Tentare di modificare questi atteggiamenti è difficile, in quanto chiamano in causa i valori e non

sono retti dalla logica e dall’analisi razionale.

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Un atteggiamento infine può anche essere a base comportamentale: secondo la teoria

dell’autopercezione, in determinate circostanze le persone non sanno quali sono le loro emozioni

finché non vedono come si comportano. Naturalmente ciò si verifica solo quando l’atteggiamento

iniziale è debole o ambiguo, e in mancanza di altre spiegazioni plausibili al comportamento.

1.2 Atteggiamenti impliciti ed espliciti

L’atteggiamento può esistere a due livelli:

• espliciti: sono gli atteggiamenti di cui siamo coscienti, e che esprimiamo anche

 pubblicamente

• impliciti: sono valutazioni involontarie, incontrollabili e a volte inconsce.

Le persone a volte possono avere atteggiamenti impliciti che almeno parzialmente contraddicono

quelli espliciti. La ricerca in questo campo è appena agli inizi.

2. Il cambiamento di atteggiamento

L’atteggiamento spesso si modifica in risposta ad un’influenza sociale. La comunicazione

 pubblicitaria ad esempio si basa proprio sull’idea che il nostro atteggiamento verso i prodotti possa

essere influenzato.

2.1 Cambiare gli atteggiamenti modificando il comportamento: una rivisitazione della teoria della

dissonanza cognitiva.

Secondo la teoria della dissonanza cognitiva, le persone modificano il proprio comportamento se

vedono che questo è incoerente rispetto ai loro atteggiamenti, e non riescono a trovare una

spiegazione esterna. Il fenomeno della counterattitudinal advocacy ci ha fatto capire che quando

si tiene un comportamento pubblico in conflitto con i propri atteggiamenti privati, senza o con

scarsa giustificazione esterna, ne segue un cambiamento proprio di questi atteggiamenti, nella

direzione dell’affermazione fatta pubblicamente.

Le tecniche di dissonanza sono però difficili da applicare su larga scala. Si ricorre quindi allacomunicazione persuasiva.

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2.2 La comunicazione persuasiva e il cambiamento di atteggiamento

Studi importanti sulla comunicazione persuasiva vennero effettuati dalla scuola di Yale negli anni

40-50. Essi focalizzarono l’attenzione su tre fattori:

- la fonte della comunicazione (in che misura chi parla sembra esperto o attraente)

- la comunicazione stessa (la qualità del ragionamento, la presenza di entrambi i punti di vista)

- la natura del pubblico (quali appelli funzionano con pubblici avversi o amici)

Le informazioni raccolte hanno permesso di individuare l’influenza di ciascuno di questi fattori, ma

non hanno evidenziato la preminenza di uno rispetto agli altri.

In seguito sono state elaborate alcune importanti teorie della comunicazione persuasiva: il modello

della probabilità di elaborazione (Petty e Cacioppo) e il modello della persuasione euristico-

sistematico (Chaiken).

Entrambe le teorie affermano che, in determinate condizioni, i fatti esposti nella comunicazione e la

loro forza logica sono importanti: questa è la via centrale della persuasione. In altre condizioni,

invece, le persone non sono motivate a cogliere i fatti, ma piuttosto gli aspetti superficiali del

discorso, e le caratteristiche di chi lo pronuncia: questa è la via periferica della persuasione.

In sostanza, se le persone sono interessate all’argomento prestano attenzione ai ragionamenti, ed è

 più probabile che seguano la via centrale. E naturalmente, tanto più una questione ha rilevanza

 personale, tanto più le persone saranno disposte a seguire i ragionamenti.

Quando invece la questione ha scarsa rilevanza per le persone, entra in gioco la via periferica, e

fattori quali la lunghezza del discorso o il prestigio di chi parla.

Inoltre, ci sono persone che hanno una maggiore predisposizione al ragionamento rispetto agli altri

(bisogni di cognizione), e che quindi indipendentemente da altre condizioni seguiranno la via

centrale.

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 Naturalmente hanno la loro influenza anche altri fattori, quali la stanchezza, la distrazione, la

complessità del discorso, tutte cose che favoriscono la via periferica.

La differenza tra le due vie della comunicazione persuasiva sta negli effetti: un cambiamento diatteggiamento provocato da un’analisi dei ragionamenti ha più probabilità di mantenersi nel tempo

rispetto ad uno provocato dai meccanismi periferici.

2.3 Le emozioni e il cambiamento di atteggiamento

Prima che le persone prendano in considerazione i nostri ragionamenti, dobbiamo ottenere la loro

attenzione. E uno dei metodi più sicuri è quello di far leva sulle emozioni.

Occorre però saper dosare con cura il contenuto emotivo, per evitare che produca un’attenuazione

della capacità di ragionare sui contenuti della comunicazione. Se le persone si sentono terrorizzate,

ad esempio, finiranno per negare la minaccia e non riusciranno a pensare razionalmente al

 problema. E’ importante quindi far seguire all’impatto emotivo un’informazione tempestiva che

 permetta di rassicurare l’interlocutore.

Secondo il modello della persuasione euristico-sistematico, quando le persone adottano la via

 periferica della persuasione impiegano spesso una forma euristica, ovvero una regola semplice per 

stabilire il proprio atteggiamento, senza perdere tempo per l’analisi di ogni argomenti. Se ci

sentiamo bene, dobbiamo avere un atteggiamento positivo, e viceversa.

Il problema è che spesso non sappiamo se quel “sentirsi bene” deriva effettivamente dalla situazione

in cui ci troviamo o da qualcos’altro.

Diversi studi hanno dimostrato che un possibile approccio al problema del cambiamento degli

atteggiamenti è quello di controbattere gli atteggiamenti precostituiti con altri dello stesso tipo (a

 base cognitiva, affettiva o comportamentale).

Le persone di cultura occidentale fondano i loro atteggiamenti più sulle preoccupazioni per 

l’individualità e il miglioramento di sé, mentre quelle di cultura asiatica sono più preoccupate per la

loro posizione nel gruppo sociale o nella famiglia. E infatti le comunicazioni pubblicitarie vengono

“ritagliate” appositamente in maniera diversa a seconda dei paesi in cui vengono trasmesse.

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3. Come rendere le persone resistenti al cambiamento di atteggiamento

Esistono diverse strategie che ci permettono di resistere al bombardamento dei messaggi persuasivi.

3.1 Inoculazione dell’atteggiamento

Un possibile approccio è indurre le persone a soppesare gli argomenti a favore o contro il proprio

atteggiamento prima che esso venga messo in discussione.

E’ questo infatti il motivo per cui gli atteggiamenti fondati sull’analisi razionale sono più difficili da

“smontare” rispetto a quelli raggiunti per via periferica. L’inoculazione dell’atteggiamento

consiste proprio nel somministrare alle persone una piccola dose di argomenti contrari al proprio

atteggiamento.

3.2 Resistere alla pressione dei pari

La pressione proveniente dagli amici, soprattutto nell’adolescenza, non è collegata ad una serie diargomenti logici, ma piuttosto ai valori e alle emozioni, e gioca sulla paura di essere rifiutati e sul

desiderio di libertà e indipendenza.

Una possibile controstrategia è quella di applicare la logica dell’inoculazione a tecniche

 prevalentemente a base emotiva, ad es. con il “role-playing” in cui ci si esercita a sopportare e a

resistere alle pressioni.

3.3 L’effetto boomerang dei tentativi di persuasione: la teoria della reattanza

Secondo la teoria della reattanza, le persone non amano sentire minacciata la loro libertà di fare o

 pensare una cosa. Divieti troppo rigorosi possono produrre una reazione di ribellione e addirittura

un aumento dell’interesse per l’attività proibita, oltre che rabbia e aggressività contro l’autore del

divieto.

4. Quando gli atteggiamenti predicono il comportamento?

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I pubblicitari fanno affidamento sul fatto che cambiare gli atteggiamenti delle persone li porterà al

comportamento desiderato (acquisto del prodotto). In realtà, la relazione tra atteggiamenti e

comportamento non è così immediata, così come hanno dimostrato numerosi studi.

Gli atteggiamenti fanno realmente prevedere il comportamento, ma solo in determinate condizioni.

Un fattore cruciale è stabilire se il comportamento che cerchiamo di prevedere è spontaneo oppure

 pianificato.

4.1 Prevedere i comportamenti spontanei

Il grado in cui gli atteggiamenti fanno prevedere i comportamenti spontanei deriva da un fattore già

conosciuto: l’accessibilità. Se l’oggetto o evento è associato con forza al nostro atteggiamento

(accessibilità alta) reagiremo velocemente ad esso, mentre se l’accessibilità è bassa, la reazione

avverrà più lentamente. Di conseguenza gli atteggiamenti altamente accessibili avranno maggiore

 probabilità di far prevedere i comportamenti spontanei.

4.2 Prevedere i comportamenti volontari

Se il comportamento non è spontaneo ma volontario e pianificato, l’accessibilità non è più un

fattore decisivo.

Secondo la teoria dell’azione ragionata (Fishbein e Ajzen), in presenza di un tempo sufficiente per 

soppesare un comportamento futuro, il modo migliore per prevederlo è considerare l’intenzione di

agire in un certo modo.

In primo luogo, solo la presenza di atteggiamenti specifici verso un comportamento possono

 permettere la previsione.

Oltre a questo, dobbiamo anche valutare le norme soggettive delle persone, ovvero le loro credenze

su come le persone care giudicheranno un loro comportamento.

Infine, le intenzioni delle persone vengono influenzate dalla facilità con cui credono di poter seguire

quel comportamento (controllo comportamentale percepito).

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5. Il potere della pubblicità

La maggior parte delle persone ritiene che la pubblicità funzioni su tutti meno che su loro stessi.

Questa convinzione è stata smentita da molti studi: la pubblicità funziona, fa vendere di più

5.1 Come funziona la pubblicità

Per progettare pubblicità efficaci, si dovrebbe considerare il tipo di atteggiamento che si vuole

modificare. Se è un atteggiamento a base emotiva, si devono contrastare emozioni con altreemozioni.

Se l'atteggiamento è a base cognitiva, ci si dovrà domandare quale rilevanza avrà la questione per la

vita quotidiana degli individui, e successivamente scegliere argomenti logici e fattuali.

Se l'atteggiamento a base cognitiva non ha rilevanza personale, può essere utile l'intervento di personaggi famosi come testimonial. In ogni caso questo tipo di atteggiamento non avrà

 permanenza nel tempo, a meno che in qualche modo si renda il prodotto di rilevanza personale. In

altre parole, convincendo le persone che i loro problemi personali possono essere risolti dal

 prodotto.

Molte pubblicità tendono inoltre a portare gli atteggiamenti delle persone su base emotiva,

associando al prodotto emozioni e valori importanti.

5.2 La pubblicità subliminale: una nuova forma di controllo della mente?

I messaggi subliminali sono parole o immagini che, pur non percepiti consciamente, possono

influenzare il giudizio, gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone. In USA sono stati proibiti

dalla FCC dopo gli anni 50.

Sul fenomeno ci sono giudizi contraddittori, soprattutto dovuti al fatto che gli studi non hanno

dimostrato nessuna relazioni tra messaggi subliminali e comportamento delle persone.

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In realtà, i messaggi subliminali non funzionano nella vita quotidiana, mentre producono qualche

effetto negli esperimenti di laboratorio. In ogni caso tali effetti sono limitati nel tempo e non hanno

un grande potenziale persuasivo.

5.3 Pubblicità, stereotipi culturali e comportamento sociale

In realtà, la pubblicità che percepiamo consciamente è molto più potente di qualsiasi messaggio

subliminale. Essa non si limita a influenzare il comportamento consumistico, ma veicolano

stereotipi culturali mediante le parole e le immagini, collegando in maniera subdola un prodotto a

un'immagine desiderata.

La pubblicità inoltre può rafforzare e perpetuare modi stereotipati di guardare ai gruppi sociali, o ai

ruoli sessuali.

La pubblicità non si limitano a riflettere gli stereotipi della cultura che le ha prodotte, ma

contribuiscono in modo importante a modellarli. Essa può dare un impulso importante al cosiddetto

fenomeno della minaccia dello stereotipo. Questa indica la paura, sperimentata dai membri di ungruppo, che il loro comportamento possa confermare uno stereotipo culturale. Quest'ansia può

diminuire la prestazione del bersaglio di questo stereotipo. Studi hanno dimostrato che, quando le

 persone vedono pubblicità che presentano immagini stereotipiche o non stereotipiche, le loro

 prestazioni variano in maniera significativa, nella direzione dello stereotipo.

Capitolo 7 – Il conformismo 

1. Quando e perché insorge il conformismo

La società americana si considera come costituita da individui indipendenti, che non si fanno

condizionare, liberi da comportamenti conformisti.

In realtà, vi sono numerosi episodi storici in cui è accaduto che le persone abbiano seguito il

conformismo in maniera estrema, di solito in senso negativo. Agli psicologi sociali, però, noninteressa connotare in maniera positiva o negativa il conformismo, quanto piuttosto capire le

ragioni del comportamento conformistico. 

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2. L'influenza sociale informazionale: il bisogno di sapere cosa è “giusto”.

In molte situazioni ci sentiamo insicuri su cosa fare o pensare. Non abbiamo i dati sufficienti per 

fare una scelta precisa. Disponiamo però di una buona fonte di conoscenze: il comportamento degli

altri. Se ci conformiamo a questo comportamento, non lo facciamo perché siamo degli smidollati

senza fiducia in noi stessi, ma perché esso è fonte di informazioni che ci aiutano a risolvere

l'ambiguità della situazione. A ciò si è dato il nome di influenza sociale informazionale.

Una caratteristica fondamentale dell'influenza sociale informazionale è che essa può condurre alla

accettazione privata, in cui gli individui arrivano a credere alla definizione della situazione che

hanno appreso dagli altri.

Il meccanismo naturalmente si presta anche a condizionamenti, come dimostra l'espediente della

claque.

2.1 L'importanza di essere accurati

Ulteriori studi svolti sul fenomeno della influenza sociale informazionale hanno portato alla

conclusione che un fattore fondamentale è l'importanza per l'individuo della decisione da prendere.

Più è importante per noi la decisione, più facilmente faremo affidamento sulle altre persone per 

avere informazioni.

 Nella vita reale, il conformismo informazionale può indurre un gruppo ad adottare anche una

“strategia rischiosa”, con risultati a volte tragici.

2.2 Gli inconvenienti del conformismo informazionale

Una forma drammatica di influenza sociale informazionale si verifica in periodi di crisi, quando

l'individuo è di fronte ad una situazione pericolosa e spaventosa, alla quale non sa come reagire. Le

 persone possono non avere idea di quale sia la situazione reale e di cosa si debba fare. In queste

situazioni la richiesta di informazioni è forte nei confronti degli altri. E non è detto che gli altri a cuici rivolgiamo siano più informati di noi.

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La situazione è aggravata dal fatto che, quando le persone cominciano a convincersi di una cosa,

sono pronte a reinterpretare qualsiasi fatto che potrebbe smentirle in modo da adattarlo alla propria

definizione.

Un esempio estremo di influenza sociale informazionale mal diretta è la malattia psicogena di

massa, ovvero l'insorgere di sintomi fisici simili in un gruppo di persone, senza una vera causa. Una

 persona o più riferiscono dei sintomi fisici. Le persone attorno costruiscono una spiegazione

apparentemente ragionevole della loro malattia. La nuova definizione si diffonde e sempre più

 persone credono di avere gli stessi sintomi. Più crescono i malati, più i sintomi e la spiegazione

diventano credibili, alimentando la psicosi.

L'aspetto più interessante delle moderne malattie psicogene di massa è il grande ruolo giocato dai

mass media nella loro diffusione. Le informazioni vengono rapidamente ed efficacemente diffuse

in tutti gli strati della popolazione.

2.3 In quali situazioni le persone si conformano all'influenza sociale informazionale?

• L'ambiguità della situazione è il primo fattore. Quanto più siamo incerti, tanto più faremo

affidamento sugli altri.

• Quando la situazione è una crisi. In questi casi non abbiamo il tempo per fermarci a pensare

alla migliore azione da seguire, e quindi è più facile che ci affidiamo al comportamento

altrui. Il problema è che spesso anche gli altri sono nel panico.

• Quando gli altri sono degli esperti. Quanto più una persona appare esperta o al corrente di

una questione, tanto più viene ritenuta affidabile come guida. Ma non sempre gli esperti

sono fonti affidabili.

2.4 Come resistere all'influenza sociale informazionale

E' possibile resistere a forme illegittime o imprecise di influenza sociale informazionale. Anche in

situazioni critiche, molti riescono ad attivare la propria razionalità ed arrivare alle informazioni

corrette.

Occorre tener presente che la decisione se adottare o meno il conformismo influenza anche il nostromodo di definire la realtà, fino a distorcerne i contorni per adattarla al comportamento conformista.

Dobbiamo quindi sempre chiederci s e le reazioni degli altri a una determinata situazione siano più

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legittime delle nostre: se hanno più conoscenze, se sono esperti, se ci sembra che imitarli vada

contro il buonsenso o il nostro codice morale. E' importante insomma avere consapevolezza

dell'esistenza dell'influenza sociale informazionale.

3. L'influenza sociale normativa: il bisogno di essere accettati

Esiste un'altra ragione, oltre al bisogno di informazioni, che ci spinge verso il conformismo solo per 

il desiderio di essere graditi e accettati dagli altri. Ci conformiamo così alle norme sociali del

gruppo che sono regole che descrivono i comportamenti, i valori e le credenze accettabili. Chi non

segue le regole viene percepito come diverso, difficile e infine deviante. I membri devianti possono

essere presi in giro, puniti e respinti dagli altri.

L'essere umano è un animale sociale, che ha bisogno delle relazioni di gruppo. Ci conformiamo

quindi per poter continuare a restare nel gruppo e trarre i benefici dell'appartenenza, secondo il

 principio dell'influenza sociale normativa.

3.1 Conformismo e approvazione sociale: gli studi di Asch

Asch negli anni 50 compì una famosa serie di esperimenti, in cui dimostrò che non solo le persone

si conformano alle decisioni degli altri quando la situazione è ambigua, ma anche quando il giudizio

è supportato da dati precisi, se entra in gioco la paura di non essere aderenti alle regole del gruppo.

Pur sapendo di compiere un'azione sbagliata, le persone la proseguono per non doversi sentire degli

eccentrici o degli sciocchi.

A differenza dell'influenza sociale informazionale, in questo caso le persone presentano

acquiescenza (public compliance) senza accettazione privata.

La cosa più sorprendente è che questo tipo di conformismo sembra presentarsi anche nei confronti

di gruppi di perfetti sconosciuti, che non dovrebbero presentare alcuna importanza di relazione con

l'individuo. Ma la pressione della disapprovazione sociale è comunque forte.

3.2 L’importanza della responsabilità

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Alcune ricerche mostrano che la responsabilità (cioè la necessità di spiegare e giustificare il

 proprio comportamento) tende a far aumentare il conformismo. Altri studi però hanno ipotizzato

che la responsabilità sia una potente variabile che può rendere saliente qualsiasi scopo abbia una

 persona all’interno del gruppo. Se siamo motivati ad essere d’accordo con il gruppo, laresponsabilità aumenterà il nostro conformismo. Ma se siamo invece motivati a raggiungere una

soluzione precisa, la responsabilità avrà meno possibilità di farci accettare le conclusioni

approssimative del gruppo.

3.3 Le conseguenze della resistenza all’influenza sociale normativa

Cosa accade se una persona rifiuta di seguire le richieste del gruppo e ne viola le norme? In un primo momento, i membri del gruppo cercheranno di ricondurre in riga l’anticonformista con

 pressioni di vari genere. Se questa strategia non ha successo, probabilmente i membri del gruppo

adotteranno un atteggiamento di esclusione del “deviante”. I gruppi hanno un grande talento nel

ricondurre in riga i ribelli, il che spiega perché cerchiamo sempre di rispondere alle pressioni

normative.

3.4 L’influenza sociale normativa nella vita quotidiana

L’influenza sociale normativa opera a diversi livelli nella vita quotidiana. Un esempio sono le

mode, sia di abbigliamento che di oggetti ed attività. Una forma più preoccupante riguarda i

tentativi delle donne di conformarsi alle definizioni culturali di bellezza fisica. Questi tentativi

spesso portano a gravi disturbi alimentari, come l’anoressia o la bulimia.

3.5 L’influenza sociale e l’immagine del corpo maschile

Esistono ancora pochi studi sull’argomento, ma da questi emerge una modifica delle regole

culturali, per cui gli uomini stanno cominciando ad avvertire la medesima pressione delle donne a

raggiungere il corpo perfetto. I dati fanno pensare che l’influenza sociale informazionale e

normativa possa operare anche sugli uomini, influenzandone la percezione che hanno del grado di

attrazione del proprio corpo.

3.6 In quali casi le persone si conformano all’influenza sociale normativa?

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Secondo la teoria dell’impatto sociale (Latané) la probabilità con cui rispondiamo all’influenza

sociale proveniente dagli altri dipende da tre variabili:

• la forza, ovvero il grado di importanza che il gruppo ha per noi• l’immediatezza, ovvero il grado di vicinanza del gruppo nel tempo e nello spazio, durante il

tentativo di influenza

• il numero, cioè la quantità di persone nel gruppo

La teoria prevede che il conformismo sarà tanto più presente quanto più aumentano la forza e

l’immediatezza. Il numero invece agirebbe in maniera inversa: più cresce la dimensione del gruppo,

minore è la sua influenza.

In realtà, il conformismo cresce con l’aumentare del numero di persone del gruppo, ma solo fino a

un certo punto. Dopo le quattro o cinque persone, l’aumento di dimensione non produce aumento di

influenza.

I gruppi verso cui proviamo attrazione e con cui ci identifichiamo fortemente avranno maggiore

influenza normativa. Una conseguenza di ciò è che può essere pericoloso far assumere decisioni da

gruppi particolarmente uniti, che sono più interessati a mantenere la propria coesione piuttosto che a prendere la decisione più logica.

Infine, l’influenza sociale normativa è più forte quando il gruppo è unanime. Resistere a una simile

influenza è praticamente impossibile, a meno di trovare un alleato, un’altra persona che sia in

disaccordo con il gruppo e fornisca un aiuto per andare controcorrente.

In una metanalisi di numerose repliche dell’esperimento di Asch condotte in diciassette nazioni, iricercatori hanno verificato che i valori culturali condizionano l’influenza sociale normativa. I

soggetti delle culture collettiviste mostrarono un grado elevato di conformismo rispetto ai

 partecipanti delle culture individualiste. L’influenza sociale normativa è più alta nelle culture

collettiviste perché promuove l’armonia e i legami affettivi all’interno del gruppo.

Ci sono prove che dimostrano che la tendenza al conformismo sta comunque diminuendo in tutte le

culture.

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Esistono individui che per personalità si conformano all’influenza sociale più di altri? Alcuni studi

hanno riscontrato che gli individui con bassa autostima tendono ad essere più conformisti, per la

 paura di essere rifiutati o puniti dal gruppo. Tuttavia, il comportamento cambia in maniera notevole

a seconda delle situazioni, indipendentemente dalla personalità.

La differenza di genere è importante per il comportamento conformista? Al di là del luogo comune

che vuole le donne essere più conformiste degli uomini, in realtà le metanalisi hanno dimostrato che

il sesso diverso ha scarsa importanza nel fenomeno dell’influenza sociale.

3.7 Resistere all’influenza sociale normativa

Il primo passo per resistere alle influenze inadeguate è quello della consapevolezza. Il secondo è

quello dell’azione: se vogliamo resistere alle pressioni e però temiamo le conseguenze di un

comportamento anticonformista, dobbiamo cercare un altro individuo, o meglio ancora un gruppo,

che la pensa come noi.

L’atto stesso di conformarsi all’influenza normativa ci permette inoltre, quasi sempre, di deviare

occasionalmente senza conseguenze negative (fenomeno dei crediti idiosincratici).

3.8 L’influenza della minoranza: quando i pochi influenzano i molti

Se fosse vero che l’individuo non può mai produrre effetti sul gruppo, la società non potrebbe mai

cambiare, essendo costituita da automi che marciano compatti in monotona sincronia.

In realtà l’individuo, o una minoranza, può indurre un cambiamento della maggioranza. E’

questo il caso dell’influenza della minoranza. Il fattore cruciale è la coerenza: le persone che hanno

opinioni minoritarie devono mantenerle inalterate nel tempo, e devono essere concordi tra loro. In

questo caso è probabile che la maggioranza prenda nota delle opinioni diverse, fino addirittura ad

adottarle.

Le minoranze esercitano il loro potere tramite l’influenza sociale informazionale: essa introduce nel

gruppo informazioni nuove e impreviste che lo costringono a riesaminare con maggiore attenzione

la questione.

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In altre parole, le maggioranze provocano acquiescenza tramite l’influenza normativa, mentre le

minoranze inducono accettazione privata grazie all’influenza informazionale.

4. L’utilizzo dell’influenza sociale per promuovere un comportamento positivo

Esiste un modo per usare la tendenza al conformismo in modo da indurre un comportamento

 positivo nelle persone? E’ essenziale a questo scopo comprendere che esistono due tipi di norme

sociali in una cultura:

• le norme ingiuntive: hanno a che fare con ciò che pensiamo che le altre persone approvino

o meno: motivano il comportamento promettendo delle ricompense o delle pene per il

comportamento normativo o non normativo

• le norme descrittive: riguardano la nostra percezione di come le persone si comportano nelmondo reale, indipendentemente dall’approvazione altrui.

 Nelle diverse situazioni, le norme ingiuntive hanno maggiore capacità, rispetto a quelle descrittive,

di produrre un comportamento desiderato. Ma queste norme non sono sempre salienti per noi. Per 

incoraggiare il comportamento positivo, ci deve essere qualcosa nella situazione che attrae

l’attenzione sulla norma pertinente, in modo da farci pensare ad essa.

5. L’obbedienza all’autorità

L’obbedienza è una norma sociale che ha valore in ogni cultura. Questa norma viene

interiorizzata nell’infanzia, e in seguito ci porta ad obbedire alle regole e alle leggi anche se

l’autorità non è presente fisicamente. Ma l’obbedienza può anche avere tragiche conseguenze, se ci

viene ordinato di fare del male ad un altro essere umano.

Alcuni famosi studi condotti negli anni 70 (Milgram) hanno dimostrato che le persone, se sottoposte

a forte influenza sociale, possono arrivare a compiere atti immorali.

5.1 Il ruolo dell’influenza sociale normativa nell’esperimento di Milgram

Se qualcuno ci vuole costringere a fare qualcosa, è difficile dirgli di no, soprattutto se la personaoccupa una posizione di autorità rispetto a noi. Ed è ancora più difficile resistere a una figura

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autoritaria che insiste sulla nostra obbedienza. Tuttavia, se ci sono altri soggetti che si rifiutano di

obbedire, il compito diventa molto più agevole.

5.2 Il ruolo dell’influenza sociale informazionale

Le condizioni dell’esperimento di Milgram erano volutamente ambigue, confuse e sconvolgenti. In

una tale situazione, evidente fu l’influenza sociale informazionale, che spinse i soggetti a continuare

le loro azioni affidandosi alle indicazioni dell’unico “esperto” (lo sperimentatore) presente al

momento.

5.3 Altre cause di obbedienza

Sia l’influenza sociale normativa che quella informazionale erano presenti nell’esperimento di

Milgram, ma ciò non spiega del tutto il comportamento disumano dei soggetti. Ci sono altri aspetti

da considerare.

In primo luogo, molto spesso le persone seguono una norma sociale sbagliata, innestando una sorta

di “pilota automatico”. Anche quando cominciavano a percepire che la norma dell’obbedienza

all’autorità era inadeguata, le persone trovavano difficile cambiare atteggiamento, per due ragioni:

• l’esperimento era molto rapido, e impediva ai soggetti di riflettere sulle loro azioni;

• lo sperimentatore chiedeva ai soggetti di infliggere scosse elettriche più forti a piccole dosi;

in questo modo, una volta cominciata l’escalation, era difficile trovare un punto preciso in

cui fermarsi. Ciascuna giustificazione poneva le basi per la scossa successiva.

E’ inoltre da sottolineare che alcune varianti dell’esperimento di Milgram hanno dimostrato che il

comportamento disumano dei soggetti non aveva niente a che fare con un presunto “lato

oscuro” della natura umana pronto a scatenarsi, ma soltanto con una combinazione formidabili di pressioni sociali che possono portare persone compassionevoli a comportarsi in maniera disumana.

Capitolo 8 – I processi di gruppo 

I gruppi sociali sono definiti come un insieme di due o più persone che interagisconoreciprocamente e sono interdipendenti, nel senso che sono spinti dai propri bisogni e obiettivi ad

affidarsi l'un l'altro e a influenzare reciprocamente il comportamento.

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1.1 Perché le persone si riuniscono in gruppi?

Entrare in relazione con gli altri soddisfa molti bisogni umani così fondamentali da far pensare ad

un senso innato di appartenenza ad un gruppo sociale. I gruppi sono un tassello importante della

nostra identità, ci aiutano a definire chi siamo. Essi inoltre stabiliscono le norme sociali che

definiscono i comportamenti accettabili.

1.2 La natura dei gruppi sociali

La maggior parte dei gruppi sociali tende ad avere non più di venti membri, in modo da rendere

 possibile l'interazione diretta tra essi.

I gruppi tendono ad essere omogenei, ovvero i membri si assomigliano per età, sesso, credenze ed

opinioni. Questo perché le persone sentono attrazione verso chi assomiglia loro, e inoltre le

modalità con cui i gruppi operano tendono a favorire questa somiglianza.

Come si è già detto a proposito del conformismo, infatti, le norme sociali dei gruppi a cuiapparteniamo sono potenti determinanti del nostro comportamento.

I gruppi possiedono inoltre dei ruoli ben definiti, le posizioni associate ad un determinato

“copione” previsto, che specificano come si devono comportare le persone che le occupano.

Sia i ruoli che le norme facilitano l'interazione di gruppo, ma hanno anche lati negativi. I ruoli sono

capaci di modellare il comportamento delle persone in modo notevole e impressionante. E

naturalmente muoversi fuori dalle aspettative di ruolo può creare grossi problemi. Vi sono precise

aspettative in ogni cultura anche legate al sesso, un ruolo che non possiamo sceglierci. In altri casiinvece possiamo scegliere le posizioni di ruolo, e a volte combattiamo per raggiungerle.

1.3 La coesione di gruppo

Con coesione di gruppo si intendono le qualità che uniscono insieme i membri di un gruppo e

incoraggiano il reciproco gradimento. Se il gruppo si forma per ragioni sociali, la coesione ne

favorisce la durata e la vitalità. Se il gruppo si forma per lavoro, le cose sono un po' più complicate,a seconda se la coesione va a favore o meno del raggiungimento della prestazione.

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2. I gruppi e il comportamento degli individui

2.1 La facilitazione sociale: quando la presenza degli altri ci dà forza

Diversi studi hanno dimostrato che, quando un compito è relativamente semplice, la prestazione

viene migliorata dalla presenza degli altri. Quando invece il compito è più difficile, la

prestazione peggiora. 

Sembra che questo tipo di risultati sia dovuto alla presenza di eccitazione psicologica quando

siamo in presenza degli altri. L'eccitazione rende più facile compiere un'azione semplice o già

appresa, mentre ostacola (a causa del nervosismo) lo svolgimento di un compito complesso ol'apprendimento di una cosa nuova.

Sono state avanzate tre teorie per spiegare il ruolo dell'eccitazione nella facilitazione sociale:

• la presenza degli altri ci costringe ad essere più attenti, ci induce in uno stato di attivazione

maggiore, o vigilanza, che è causa di una lieve forma di eccitazione

• la causa dell'eccitazione può essere l'”apprensione per la valutazione”, una

 preoccupazione o nervosismo che si verificano quando sappiamo che qualcuno stagiudicando la nostra prestazione (l'eccitazione quindi sarebbe provocata solo in caso di

valutazione)

• la presenza degli altri ci distrae, rendendo difficile la concentrazione su ciò che stiamo

facendo. E cercare di prestare attenzione a due cose contemporaneamente produce

eccitazione. A differenza della prima teoria, questa attribuisce gli effetti della facilitazione

sociale a qualunque fonte di distrazione, anche non sociale.

2.2 L'inerzia sociale: quando la presenza degli altri ci rilassa

Spesso, lavorando in gruppo, siamo così concentrati a collaborare ad un progetto comune, che i

nostri sforzi non possono essere distinti da quelli delle altre persone del nostro gruppo. Trovarsi con

altre persone implica cioè che possiamo mescolarci a quel gruppo e divenire meno visibili. Questo

ci farà sentire più rilassati, Ma che effetto avrà questa cosa sulla prestazione?

Gli studi hanno dimostrato che, per quanto riguarda i compiti semplici, gli individui inseriti in un

gruppo riducono il proprio sforzo rispetto a quanto farebbero da soli. Questo fenomeno vienedetto inerzia sociale.

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Al contrario, quando si tratta di svolgere un compito difficile, il rilassamento dovuto alla

“mimetizzazione” di gruppo favorisce la prestazione.

Per quanto riguarda il genere, si è rilevato che gli uomini sono più tendenti all'inerzia socialerispetto alle donne, in quanto queste ultime sono più attente ai risultati del gruppo, mentre i primi

si concentrano maggiormente sulla propria prestazione e meno sul gruppo.

Per le stesse ragioni, si è constatato che l'inerzia sociale è maggiore nelle culture individualiste

occidentali rispetto alle culture collettiviste orientali.

Da tutti questi risultati seguono importanti implicazioni per il modo migliore di organizzare i gruppidi lavoro, che tengano conto sia della semplicità o complessità del compito che della presenza o

meno della valutazione delle prestazioni dei singoli.

2.3 La deindividuazione: perdersi nella folla

Trovarsi in un gruppo può talvolta produrre anche deindividuazione, ovvero la sensazione diessere anonimi, che causa una riduzione del senso di individualità. Questo può portare ad un

allentamento dei limiti normalmente posti al comportamento, portando ad un aumento di azioni

impulsive, inconsuete e devianti. In pratica, la deindividuazione può portarci a compiere atti che

non avremmo mai compiuto da soli (vedi gli stadi di calcio).

Alcuni studi hanno dimostrato che il semplice indossare uniformi o divise che ci fanno apparire

uguali a tutti gli altri porta a farci sentire meno responsabili delle nostre azioni e più aggressivi.

La deindividuazione ha maggiori probabilità di verificarsi quando gli individui avvertono di non

essere responsabili delle loro azioni, quando cioè hanno poche possibilità di essere sorpresi, e

quando si trovano in uno stato di ridotta consapevolezza di sé, e quindi più vicini alle regole di

gruppo e meno alle proprie regole morali. Il comportamento violento e crudele si manifesta sempre

in queste condizioni. Naturalmente tutto dipende dal contesto e dalla situazione che possono o meno

incoraggiare questo tipo di comportamenti negativi.

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3. Le decisioni di gruppo: due (o più) teste sono meglio di una?

Una delle funzioni principali dei gruppi è quella di risolvere problemi e prendere decisioni. Molti

ritengono che più teste funzionino meglio di una sola. Molto spesso però non è così.

3.1 Le perdite di processo

La perdita di processo è un qualsiasi aspetto di un'interazione di gruppo che impedisce la

corretta soluzione di un problema. Può verificarsi perché il gruppo non si rivolge al proprio

membro più competente, perché quest'ultimo è in una posizione subordinata o perché egli stesso

non riesce a liberarsi dalle pressioni conformistiche. La perdita inoltre può essere causata daproblemi comunicativi all'interno del gruppo.

Un'altra ragione per cui il gruppo produce risultati più scadenti del singolo può essere la mancata

condivisione delle informazioni uniche. I gruppi spesso si concentrano sulle informazioni

condivise da tutti, piuttosto che su quelle non condivise. Uno dei possibili rimedi è quello di

informare dell'esistenza di queste informazioni tutti i membri del gruppo, prima della discussione.

Basandosi su situazioni reali, Janis ha sviluppato un'importante teoria dei processi decisionali di

gruppo, il “Groupthink ”, ovvero un genere di pensiero in cui il mantenimento della coesione e

della solidarietà all'interno del gruppo ha maggiore importanza della considerazione realistica dei

fatti.

Il groupthink si verifica con maggiore probabilità quando il gruppo è altamente coeso, isolato dalle

opinioni esterne e guidato da un leader forte.

In queste condizioni il gruppo comincia a pensare di essere invulnerabile e infallibile, gli individui

non danno voce alle proprie opinioni contrarie, chi lo fa viene subito criticato e invitato a

conformarsi. C'è la completa unanimità apparente. Ma ovviamente in questo modo i processi

decisionali diventano alquanto scadenti, e possono portare a conseguenze dannose.

Il ruolo del leader è fondamentale per evitare il groupthink: egli infatti dovrebbe rimanere

imparziale, sollecitare opinioni esterne, dividere il gruppo in sottogruppi, ecc.

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3.2 La polarizzazione di gruppo, o l'estremizzazione

Si potrebbe pensare che, per quanto in alcuni casi i gruppi prendano decisioni sbagliate, le loro

scelte siano meno rischiose di quelle fatte dai singoli. In realtà alcuni studi hanno dimostrato che ledecisioni di gruppo tendono a estremizzare quelle dei singoli, ma nella stessa direzione: se i

membri tendono a prendere decisioni rischiose, il gruppo tenderà a prendere ancora più rischi, e

viceversa. Questo fenomeno si chiama polarizzazione di gruppo. La spiegazione sta nell'uso

dell'argomentazione persuasiva che ogni membro del gruppo porta a sostegno della propria

 posizione, e che non fa altro che rafforzare la convinzione degli altri.

Inoltre, secondo l'interpretazione del confronto sociale, i membri di un gruppo, una volta stabilito

qual'è l'atteggiamento generale, tendono ad adottare una posizione simile a quella degli altri, solo un

 po' più estrema, in modo da presentarsi come persona adeguata ma all'avanguardia (...)

Si è infine ipotizzato che alcune culture (come quella americana, fortemente individualista e

capitalista) tendano ad avere una tendenza verso il rischio, mentre altre tendono a mantenere il

valore culturale dominante della cautela e del conservatorismo. Diverse ricerche hanno confermato

questa ipotesi, dimostrando che negli USA il rischio è considerato un valore, mentre ad es, nei paesi

africani è la cautela ad essere valorizzata.

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3.3 La leadership

Una delle teorie più conosciute sulle caratteristiche della leadership è la teoria della grandepersona, secondo la quale alcuni tratti fondamentali della personalità fanno di un individuo un buon

leader.

In realtà la ricerca non ha dato grandi risultati in questo senso. I tratti di personalità possono essere

importanti, ma altrettanto importanti sono i caratteri situazionali: essere la persona giusta al

momento giusto nella situazione giusta.

Alcune recenti teorie sulla leadership si sono focalizzate su questi aspetti. La più famosa è la t eoria

della contingenza (Fiedler), in cui si ipotizza che vi siano due tipi di leader: il leader orientato al

compito (che si interessa a che le cose vengano fatte) e il leader orientato alle relazioni (che si

concentra sulle relazioni tra i membri del gruppo).

L'efficacia di un leader rispetto ad un altro è però data soprattutto da fattori situazionali, legati alla

dose di controllo e influenza che il leader esercita sul gruppo. I leader orientati al compito si

rivelano più efficaci in situazioni a controllo molto alto o molto basso, mentre i leader orientati allerelazioni si comportano bene in situazioni a controllo moderato.

Esistono pregiudizi relativi ai leader uomini e donne. La visione stereotipata dei ruoli sessuali

influisce sulla valutazione dei leader donna da parte degli uomini, che rimane negativa rispetto a

quella sui leader maschili. E la cosa naturalmente limita la capacità degli individui di compiere una

 prestazioni al massimo della loro abilità, danneggiando sé stessi e l'organizzazione per cui lavorano.

Il pregiudizio nei confronti delle donne sembra però essere in diminuzione.

4. Conflitto e cooperazione

Ci sono situazioni in cui le persone non hanno obiettivi in comune, ma incompatibili, e questo crea

un conflitto, la cui scala può andare dal personale all'internazionale.

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Molti conflitti si risolvono pacificamente, ma la tendenza a ricorrere all'aggressività e alla

violenza sembra essere in continua ascesa. E' fondamentale quindi studiare le cause e le soluzioni

delle situazioni di conflitto.

4.1 Il dilemma sociale

Il “dilemma sociale” è un conflitto in cui l'azione più favorevole per un individuo, se scelta da

più persone, diventa nociva per tutti.

La psicologia sociale ha cercato di indagare sperimentalmente questa situazione di conflitto, ad es.

con l'adozione del famoso “dilemma del prigioniero”, in cui la scelta si pone proprio in termini difavorire il proprio interesse o quello comune in una situazione di crisi, cosa che mette in gioco

anche la fiducia reciproca. Gli studi sembrano dimostrare una prevalenza del comportamento

egoistico e alla fine autodistruttivo, ma non in maniera drammatica. In realtà anche il

comportamento cooperativo ha le sue chance, soprattutto fra amici e partner, o tra appartenenti a

culture collettiviste. In generale è funzionale l'adozione di strategie comunicative che trasmettano

all'altra parte la possibilità di stabilire una relazione di fiducia, cosa che probabilmente

funzionerebbe anche nell'ambito delle relazioni internazionali.

4.2 L'uso delle minacce per risolvere i conflitti

Come alcuni studi hanno dimostrato, l'uso delle minacce, invero molto diffuso nella vita

quotidiana, non sempre è un modo efficace per ridurre un conflitto. La disponibilità di armi o di

mezzi di coercizione da una o entrambe le parti molto spesso invece produce situazioni di stallo in

cui tutti perdono qualcosa.

4.3 Gli effetti della comunicazione

La comunicazione risulta utile nel risolvere i conflitti quando viene utilizzata per stabilire fiducia, e

non semplicemente per trasmettere le proprie minacce.

4.4 Negoziare e fare affari

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A differenza che negli esperimenti di laboratorio, nelle situazioni della vita reale i conflitti offrono

una grande varietà di opzioni. Le persone possono giungere ad una soluzione tramite la

negoziazione, ovvero un dialogo in cui si fanno offerte e controfferte fino a trovare una soluzione

concordata.

Molto spesso le persone non comprendono che sono possibili soluzioni favorevoli ad entrambe le

 parti, e che è necessario valutare quali siano gli aspetti importanti per l'una e l'altra parte in modo da

valutare se è possibile giungere a una di queste soluzioni (soluzioni integrative). In realtà spesso

intervengono fattori come la diffidenza reciproca e la tensione verso l'obiettivo, che impedisce una

corretta valutazione delle motivazioni della controparte. E' questo il motivo per cui a volte si ricorre

a mediatori neutrali.

Capitolo 9 – L'attrazione interpersonale 

1. Antecedenti dell'attrazione

Gli aspetti che precedono l'attrazione sono quelli che includono i momenti in cui due persone siincontrano per la prima volta, si piacciono reciprocamente, per giungere all'innamoramento che si

sviluppa in una relazione intima.

1.1 La persona della porta accanto: l'effetto della prossimità

Uno degli aspetti più semplici che determina l'attrazione è la vicinanza, o prossimità. Le persone

che vediamo e con le quali interagiamo più spesso hanno maggiori probabilità di diventare nostriamici o compagni di vita.

L'effetto della prossimità si verifica a causa della familiarità, ovvero della semplice esposizione

che abbiamo con le persone che ci sono vicine. Naturalmente perché si sviluppi una relazione è

necessario che queste persone siano a noi gradite. La familiarità produce comunque effetti potenti,

fra cui quello di aumentare l'attrazione.

La comunicazione mediata da computer può creare relazioni emotive molto intime, ma a volte

troppo velocemente: senza l'interazione faccia a faccia possiamo crearci un'immagine idealizzata

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dell'altro, senza contare che in questo tipo di relazione si può mentire con molta più facilità. Inoltre,

le parole da sole non predicono l'attrazione.

1.2 La somiglianza

I ricercatori descrivono due situazioni in cui si creano relazioni:

• a campi chiusi, in cui le persone sono costrette ad interagire tra di loro

• a campi aperti, in cui le persone sono libere di interagire o meno a seconda delle loro

scelte.

A favorire il crearsi di relazioni, oltre alla prossimità, è anche la somiglianza, ovvero quando i

nostri atteggiamenti, valori, provenienze o personalità si accoppiano con quelli di un'altra persona.

Gli studi dimostrano che se conosciamo le opinioni di un altro individuo su vari argomenti, e se

queste sono simili alle nostre, saremo maggiormente attratti da lui. E questo vale sia per le relazioni

di coppia sia per quelle amicali.

Proviamo attrazione anche per quelle persone dallo stile interpersonale e dalle capacitàcomunicative simili alle nostre.

Infine, la somiglianza agisce anche a livelli più sottili: scegliamo di entrare in certi tipi di situazioni

sociali dove sappiamo che troveremo altri simili a noi.

Perché la somiglianza è così importante per l'attrazione?

• tendiamo a pensare che le persone simili a noi ci troveranno di loro gradimento, e quindi

ci sono maggiori probabilità di iniziare una relazione

• le persone simili convalidano le nostre caratteristiche e credenze 

• il disaccordo su questioni importanti crea inferenze negative tra gli individui, portando alla

repulsione tra dissimili.

1.3 L'attrazione reciproca

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Il fatto di piacersi reciprocamente è uno degli aspetti primari dell'attrazione interpersonale, ed è così

 potente che può anche ovviare all'assenza di somiglianza. L'aspetto più importante che determina

l'attrazione è il fatto di ritenere che risultiamo graditi all'altro.

Le persone con stima di sé moderata o positiva rispondono all'attrazione reciproca, mentre quelle

che hanno un'autostima negativa rispondono in maniera diversa, non considerando il

comportamento amichevole degli altri.

1.4 Gli effetti dell'attrazione fisica sulla piacevolezza

L'aspetto fisico superficiale è un aspetto molto importante dell'attrazione. E questo vale sia per gli uomini che per le donne.

I modelli su cui valutiamo la bellezza fisica sono largamente influenzati dai media, e quindi hanno

caratteristiche comuni ben definite. In particolare sembra che l'aspetto più gradevole, soprattutto per 

le donne, sia legato a caratteristiche di tipo infantile, che evocano dolcezza e tenerezza.

Le metanalisi hanno dato prova di una concordanza interculturale su ciò che costituisce la

 bellezza di un volto umano maschile o femminile. Addirittura si suppone che questi tratti siano stati

determinati dall'evoluzione, e siano diventati innati. E sembra che i volti attraenti di entrambi i sessi

siano quelli che più si avvicinano alla media.

Recenti ricerche mostrano un effetto ancora più sorprendente della familiarità: i soggetti tendono a

 preferire i volti che assomigliano al loro.

Ovviamente tutte queste variabili possono essere espressione della nostra soggiacente preferenza

per ciò che è familiare e sicuro, rispetto a ciò che non è familiare e potenzialmente pericoloso.

I risultati di numerose ricerche mostrano che la bellezza è un potente stereotipo: ipotizziamo che

essere belli presupponga tutta una serie di altri elementi desiderabili. Le persone belle hanno

successo, sono intelligenti, socialmente competenti, interessanti, brillanti, indipendenti e sexy. In

 particolare la competenza sociale è molto collegata all'aspetto fisico, e questo in un certo senso è

anche vero, anche perché le persone belle in genere ricevono molta attenzione, la quale aiuta asviluppare una buona competenza sociale (un caso quindi di profezia che si autoadempie).

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1.5 I ricordi dell'attrazione iniziale

Alcuni esperimenti hanno cercato di evidenziare che cosa le persone ricordano di più delle

motivazioni delle proprie relazioni amorose o di amicizia. I risultati hanno mostrato che l'attrazione

reciproca e la bellezza (sia fisica che legata alla personalità) vengono ricordate con maggior 

frequenza.

1.6 Le teorie dell'attrazione interpersonale: lo scambio sociale e l'equità

• La teoria dello scambio sociale.

Ogni variabile finora esaminata tra quelle che determinano una relazione interpersonale può essere

vista in termini di profitti sociali, ovvero gli aspetti gratificanti e positivi della relazione stessa.

Possiamo dire che quanto più una persona ci procura profitti sociali, a costi minimi, tanto più ci

 piacerà. La teoria dello scambio sociale sostiene che il modo in cui le persone percepiscono la loro

relazione dipende dalla valutazione dei profitti e dei costi, dalla percezione del tipo di relazione che

meritano e dalla probabilità di riuscire ad avere una relazione migliore con qualcun'altro. E' il

modello del mercato applicato alle relazioni interpersonali.

Questa teoria ha ricevuto numerose conferme empiriche.

• La teoria dell'equità 

Una critica mossa da alcuni studiosi alla teoria dello scambio sociale è che essa ignora una variabile

essenziale: l'equità. Secondo la teoria dell'equità, le persone non cercano solo massimi profitti e

costi bassi, ma anche la sua equità: i profitti e i costi che diamo in una relazione devono essere

equivalenti ai profitti e ai costi dati dall'altra persona. Le relazioni eque sarebbero le più felici e

stabili, mentre in quelle non eque le persone si sentirebbero in una situazione di disagio che le

spingerebbe a ristabilire l'equità.

2. Le relazioni profonde

Gli studi si sono limitati in genere ad analizzare gli stadi iniziali di una relazione, in quanto le fasi

successive comportano aspetti che non sono facilmente misurabili scientificamente.

2.1 La definizione di amore

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Per anni gli psicologi sociali hanno cercato di definire la natura dell'amore, come nasce e si

sviluppa, ma hanno incontrato molte difficoltà.

Una distinzione classica che si introduce è quella tra compassione e passione. La compassione è un

sentimento di intimità e di affetto che però non comporta passione o eccitazione psicologica

(relazioni di amicizia, o sessuali di lungo periodo). La passione invece presuppone un intenso

desiderio nei confronti dell'altra persona.

Alcuni studiosi hanno proposto la teoria triangolare dell'amore, secondo cui l'amore è composto

da tre elementi basilari: l'intimità, la passione e l'impegno. Sternberg ha creato una scala per 

misurare questi aspetti, i quali possono combinarsi a vari livelli per formare diversi tipi di amore.

2.2 Il ruolo della cultura

La cultura svolge un ruolo fondamentale nello stabilire come le persone vedono la loro relazione

amorosa e cosa si aspettano da essa.

L'amore romantico è un aspetto importante, a volte cruciale, del matrimonio all'interno delle

società individualistiche, mentre lo è di meno nelle culture collettivistiche. In queste ultime,

contano molto di più le aspirazioni della famiglia e degli altri membri del gruppo, e i matrimoni

vengono spesso combinati.

3. Le cause dell'amore

Alcuni principi che regolano l'attrazione iniziale possono essere applicati anche alla relazione

amorosa, anche se in questa entrano in gioco altre variabili.

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3.1 L'evoluzione e la sociobiologia

L'approccio sociobiologico all'amore è basato sull'idea che l'evoluzione del comportamento umanoè avvenuta perché si è massimizzato il successo riproduttivo. Esso sostiene che per i due sessi

questo si traduce in differenti pattern comportamentali: i maschi si accoppiano spesso con molte

femmine, mentre le femmine prestano maggiore attenzione alla scelta del maschio. Questo

spiegherebbe le diverse strategie messe in atto dagli uomini e dalle donne nelle relazioni amorose.

Le donne quindi cercherebbero un uomo che possa provvedere alle risorse richieste e fornire il

sostegno necessario per crescere la prole (aspetto economico-sociale). Gli uomini cercherebbero

una donna che sia in grado di riprodurre la specie (aspetto fisico-salute).

Molti studi hanno confermato queste ipotesi, ma allo stesso tempo alla teoria sono state avanzate

critiche, in quanto da una parte è considerata troppo flessibile e in grado di spiegare qualsiasi cosa,

dall'altra troppo semplicistica per spiegare il comportamento umano.

3.2 Stili di attaccamento e relazioni intime

Un'altra teoria sostiene che il comportamento che si esprime nelle relazioni adulte si basa sulle

esperienze passate, come il rapporto genitori-figlio.

Sono stati identificati tre tipi di relazioni madre-bambino (stili di attaccamento):

• attaccamento sicuro: il genitore risponde ai bisogni del bambino e manifesta emozioni

 positive; il bambino ha fiducia nella madre, non teme di essere abbandonato, si sentevalorizzato e accettato.

• Attaccamento evitante: il genitore è freddo e distaccato e respinge i tentativi del bambino di

stabilire l'intimità, per cui questi alla fine tende a sopprimere questi tentativi.

• Attaccamento ansioso/ambivalente: il genitore ha un comportamento incoerente; in questo

caso il bambino diventa ansioso, perché non riesce a prevedere il comportamento dei

genitori.

Il particolare stile di attaccamento appreso da bambini viene, secondo la teoria, generalizzato a

tutte le relazioni che si hanno nell'età adulta: una persona sicura svilupperà relazioni mature edurature; quella che ha subito lo stile evitante sarà meno capace di avere fiducia negli altri e di

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stabilire relazioni; quella che ha appreso lo stile ansioso/ambivalente avrà l'esigenza di stabilire una

relazione con il partner ma avrà paura che le sue attenzioni non vengano ricambiate.

Per quanto riguarda le relazioni tra persone influenzate da diversi stili di attaccamento, si èsperimentato che le relazioni ansioso-evitante funzionano abbastanza bene, perché i due tipi sono

sostanzialmente complementari. In particolare vanno bene le relazioni donna ansiosa-uomo

evitante, perché i rispettivi ruoli si adattano bene agli stereotipi di genere presenti nella cultura.

Gli studi hanno tuttavia rilevato che gli stili di attaccamento possono anche variare, sia in relazione

al tempo che al tipo di relazioni che le persone stabiliscono. Inoltre bisogna dire che spesso le

valutazioni sono fatte a partire dai ricordi di infanzia delle persone, che spesso possono essere

imprecisi.

3.3 Le relazioni a lungo termine e lo scambio sociale

Come si è visto, gli studi sul campo hanno confermato in gran parte le conclusioni della teoria dello

scambio sociale. Ma hanno anche evidenziato che occorre tener conto di un altro fattore importante:

il livello di investimento personale.

L'investimento è dato da ciò che l'individuo mette nella relazione, e che perderà al momento della

rottura della relazione stessa. E questo comprende sia fattori concreti come le risorse finanziarie e

immobiliari che fattori intangibili come il tempo e l'energia emotiva. In generale, maggiori sono gli

investimenti fatti in una relazione, minori sono le probabilità che finisca, anche se la

soddisfazione è bassa e le alternative sono allettanti.

Questo approccio riesce a spiegare anche situazioni in cui si tenderebbe a pensare che le relazioni

dovrebbero interrompersi, come nei casi delle donne maltrattate.

3.4 L'equità nelle relazioni a lungo termine

 Nelle relazioni a lungo termine, la teoria dell'equità opera in maniera diversa rispetto a quelle

occasionali. Si tratta più di un “dai e ricevi” generico, piuttosto che di uno scambio equamente

misurato.

 Nelle relazioni di scambio, che di solito si stabiliscono fra conoscenti, si tiene il conto dei costi e ci

si sente svantaggiati quando si crede di dare un contributo maggiore alla relazione. Nelle relazioni

di condivisione invece (tra amici, familiari e innamorati) le persone rispondono ai bisogni del partner senza guardare se otterranno in cambio qualcosa.

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4. La fine delle relazioni intime

La fine di una relazione è una delle esperienze più dolorose della vita. Gli studiosi hanno

cominciato ad occuparsi del tema, cercando di individuare quali sono le fasi in cui si sviluppa e le

motivazioni che lo provocano.

Un modello che viene utilizzato è quello dell'investimento sopra presentato. In termini di

dialettiche relazionali invece, si è trovato che spesso le relazioni finite sono esempi di “attrazioni

fatali”, in cui le qualità che hanno dato inizio al rapporto sono spesso le stesse che ne causano la

fine. In pratica le relazioni che iniziano con una forte dose di novità hanno bisogno di essere

 bilanciate da alcuni aspetti di prevedibilità, ovvero c'è bisogno di un rapporto complementare.

Si è trovato inoltre che il ruolo giocato al momento della decisione di interrompere la relazione (chi

lascia, chi è lasciato, decisione reciproca) è l'unico fattore che permette di prevedere come i soggetti

vivranno l'esperienza della rottura. Ovviamente chi sta più male è chi è stato lasciato, mentre la

decisione reciproca è quella che permette maggiormente di evitare reazioni fisiche e psicologiche

negative.

PARTE TERZA – INTERAZIONE SOCIALE 

Capitolo 10 – Il comportamento prosociale 

Il comportamento prosociale è definibile come qualsiasi azione commessa allo scopo di arrecare

beneficio ad un'altra persona. Un comportamento prosociale che non tiene conto del proprio

interesse è l'altruismo.

1. I motivi alla base del comportamento prosociale

Quali sono le motivazioni del comportamento prosociale? Le persone aiutano gli altri anche quando

non hanno niente da guadagnarci, o solo quando hanno qualche ricompensa?

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1.1 La psicologia evolutiva: istinti e geni

I biologi hanno utilizzato i principi sulla selezione genetica propri della teoria dell'evoluzione per 

spiegare alcuni comportamenti sociali, come l'aggressività e l'altruismo, dando vita alla psicologia

evolutiva.

Secondo il meccanismo evolutivo, il comportamento altruistico avrebbe dovuto estinguersi, in

quanto meno favorevole alla riproduzione della specie rispetto a quello egoistico. Gli psicologi

evoluzionisti hanno allora cercato di giustificare l'esistenza dell'altruismo in tre modi:

• selezione parentale: le persone possono aumentare la probabilità di trasmissione dei proprigeni non solo avendo figli, ma anche curando che i propri consanguinei abbiano una

discendenza. Quindi sarebbe evoluzionisticamente positivo un comportamento altruista

verso i consanguinei. Le verifiche sperimentali hanno confermato questa ipotesi: le persone

in situazioni di pericolo danno la priorità alla salvezza dei propri parenti stretti.

• La norma della reciprocità: le persone aiutano gli altri con l'idea implicita che questo

comportamento verrà ricambiato. In ragione del suo valore di sopravvivenza, questa norma

di reciproca assistenza potrebbe aver assunto base genetica.

• L'apprendimento delle norme sociali: abbiamo bisogno di apprendere dagli altri le regole

e i costumi della nostra società, per poter sopravvivere e vivere meglio. Una di queste regole

è proprio il valore dell'aiuto reciproco.

La psicologia evolutiva è un approccio interessante, ma molti psicologi restano comunque scettici

sul fatto che i comportamenti sociali possano essere fatti risalire alle nostre origini ancestrali e si

siano propagati per via genetica.

1.2 Lo scambio sociale: i costi e le ricompense dell'aiutare

La teoria dello scambio sociale, con le sue similitudini basate sulle leggi di mercato (benefici-costi),

 postula che il comportamento altruistico può essere fondato sull'interesse individuale.

Aiutare può essere remunerativo in molti modi, ed è un investimento nel futuro. Aiutando gli altri

 possiamo anche ottenere approvazione sociale e quindi maggior autostima. I costi naturalmente

 possono essere alti, legati al pericolo, al dolore, all'imbarazzo e al tempo che si perde.

Fondamentalmente la teoria dello scambio sociale sostiene che, quando i costi superano i benefici,

le persone non si comportano più in modo altruistico. In altre parole, il vero altruismo nonesisterebbe proprio.

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1.3 Empatia e altruismo: la motivazione pura dell'aiuto

lo studioso Batson, pur ammettendo che le persone in molte situazioni aiutano gli altri per 

motivazioni egoistiche, sostiene che esiste anche l'altruismo puro, e che questo entra in gioco

quando avvertiamo empatia per la persona bisognosa d'aiuto (ovvero avvertiamo parte della

sofferenza che questa persona sta vivendo). Nel caso che non si stabilisca empatia, allora entra in

campo lo scambio sociale.

 Naturalmente non è semplice stabilire le motivazioni di un comportamento complesso qual'è quello

umano, e per giungere allo scopo Batson e i suoi colleghi hanno messo a punto particolari

accorgimenti sperimentali.

2. Le determinanti personali del comportamento prosociale: perché alcune persone aiutano più di

altre?

2.1 Le differenze individuali: la personalità altruistica

Gli psicologi si sono interessati alle qualità che portano un individuo ad aiutare gli altri in varie

situazioni: la personalità altruistica.

In realtà, com'è noto, la personalità non è l'unica determinante del comportamento. Bisogna

considerare anche i fattori situazionali e le pressioni ambientali. Infatti le prove sul campo hanno

dimostrato che individui che da un punto di vista personale avrebbero dovuto aiutare di più si

comportavano in maniera completamente diversa, e meno altruisticamente di altri, a seconda delle

situazioni. La personalità quindi pare non essere un componente fondamentale dell'altruismo.

2.2 Differenze di genere nel comportamento prosociale

Secondo gli stereotipi di ruolo maschili e femminili, gli uomini dovrebbero essere più in grado di

compiere prestare aiuto in azioni eroiche e cavalleresche, mentre le donne in situazioni di

volontariato o assistenza domiciliare. Ed in effetti gli studi hanno dimostrato che gli uomini sono

nettamente la maggioranza tra le persone che si sono segnalate per aver aiutato sconosciuti.

2.3 Differenze culturali nel comportamento prosociale

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Si potrebbe ipotizzare che gli individui appartenenti a culture collettiviste abbiano maggior 

 probabilità di sviluppare un comportamento altruistico. In realtà, le persone di ogni cultura aiutano

con maggior frequenza i componenti del proprio ingroup, e meno quelli dell'outgroup. I fattori

culturali influiscono sulla forza dei confini di demarcazione tra questi due gruppi. I membri diculture collettivistiche, in cui l'ingroup è molto più definito, hanno molte più probabilità di aiutare i

membri di quest'ultimo, ma meno di aiutare i membri dell'outgroup rispetto agli appartenenti alle

culture individualiste.

2.4 Gli effetti dell'umore sul comportamento prosociale

Le ricerche hanno rivelato che l'umore, ovvero lo stato emotivo in cui ci troviamo, influenza inmaniera importante la nostra disposizione ad aiutare gli altri. Questo perché:

• quando siamo di buon umore, tendiamo a vedere di più gli aspetti positivi degli altri

• aiutare è un buon modo per aumentare le nostre sensazioni positive

• lo stato d'animo positivo accresce la quantità di attenzione prestata ai propri sentimenti, e

quindi anche ai nostri valori, tra cui ci può essere l'altruismo.

Anche un tipo di cattivo umore accresce l'altruismo: il senso di colpa. Aiutare riduce il sentimentodi colpevolezza. Anche la tristezza può essere determinante. Si tratta evidentemente di altri aspetti

della teoria dello scambio sociale: aiutiamo per aiutarci.

3. Le determinanti situazionali del comportamento prosociale

Per comprendere a fondo il fenomeno del comportamento prosociale, abbiamo bisogno di

considerare anche la situazione sociale in cui si trovano le persone.

3.1 Ambiente rurale vs. urbano

Le persone che abitano in piccole città o ambienti rurali sono più portate ad aiutare gli altri. Questo

 può dipendere dal più alto grado di socievolezza e fiducia reciproca rispetto agli ambienti urbani.

Alcuni hanno anche ipotizzato che chi abita in città sia sottoposto ad un bombardamento continuodi stimoli che lo spinge ad un comportamento più introverso ed egoistico (ipotesi del sovraccarico

urbano). 

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3.2 Il numero di testimoni: l'effetto testimone

Casi accaduti realmente in ambiente urbano e ricerche di laboratorio hanno dimostrato che, quando

si tratta di ricevere aiuto, il numero dei testimoni non offre alcuna garanzia di rapida assistenza.

Anzi, è vero il contrario: maggiore è il numero di testimoni che assistono ad un'emergenza,

minore è la probabilità che qualcuno di essi aiuterà la vittima: è l'effetto testimone.

La possibilità di avvertire un evento come un'emergenza dipende da molti fattori, anche contingenti,

come la capacità di concentrarsi. Inoltre molto dipende dal fatto che gli altri intorno a noi

interpretino ciò che accade come un'emergenza. Se la situazione presenta aspetti ambigui, ci

affidiamo all'influenza sociale informazionale, con tutti i vantaggi e i problemi che questocomporta. A volte si presenta il fenomeno dell'ignoranza collettiva, in cui nessuno sa cosa fare e

gli individui sono portati a pensare che non vi sia una situazione di pericolo che invece è presente.

E' poi presente il problema dell'assunzione di responsabilità: una volta stabilito che c'è

un'emergenza, dobbiamo essere in grado di capire che aiutare tocca a noi, e non a qualcun'altro.

Quando ci sono molti testimoni, si verifica il fenomeno della diffusione di responsabilità, per cui

nessuno percepisce una forte spinta ad intervenire. Ciò accade soprattutto se non sappiamo se gli

altri siano già intervenuti.

Anche il fatto di sapere o meno quale tipo di aiuto dare è importante: se non sappiamo come aiutare,

è più probabile che non interverremo.

Infine, esistono molti altri fattori che possono farci scegliere di non intervenire: la mancanza di

esperienza, il timore di sbagliare o di metterci in pericolo, ecc.

3.3 La natura delle relazioni: relazioni di condivisione vs. relazioni di scambio

Una grande quantità di ricerche si è concentrata sull'aiuto tra estranei. Nella realtà, molte situazioni

di aiuto si verificano tra persone che si conoscono bene, come famigliari, amici, ecc.

In questi casi si deve distinguere tra relazioni di scambio e relazioni di condivisione, così come

 prima evidenziate. Le relazioni di scambio sono tipiche fra estranei o tra persone che non siconoscono bene. Le relazioni di condivisione invece sono caratterizzate dalla volontà di aiutare gli

altri.

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Le ricompense per l'aiuto sono importanti anche nelle relazioni di condivisione, ma è probabile che

in questo caso non ci si aspetti un ritorno immediato, ma dilatato o spostato nel tempo. Si tratta di

relazioni che implicano uno scambio a lungo termine.

Altri studiosi hanno comunque evidenziato la natura fondamentalmente diversa delle relazioni di

condivisione, rilevando che le persone sono meno interessate ai benefici che ricevono, e più a

soddisfare semplicemente i bisogni degli altri.

Questo significa che le probabilità di aiutare un amico sono notevolmente superiori a quelle di

aiutare un estraneo, anche in caso che non ci aspettiamo alcuna ricompensa.

C'è solo un'importante eccezione a questa regola: quando un certo compito ha molta importanza per 

noi, potremmo essere portati ad aiutare di più un estraneo a compierlo, in quanto vedere un amicoriuscire meglio di noi in un campo che rappresenta molto per la nostra autostima ci crea qualche

 problema.

4. Come può essere migliorato il comportamento prosociale?

Migliorare i fattori della personalità che aiutano il comportamento prosociale può essere utile. Maancora più importante è abbattere le barriere che si frappongono tra chi aiuta e chi è aiutato.

Essere consapevoli dell'influenza degli altri in situazioni di emergenza può aiutarci a superare

l'indifferenza e la fuga dalle responsabilità. E naturalmente è anche importante capire che l'aiuto

non va imposto indipendentemente dal fatto che la persona lo voglia o no. Ricevere aiuto in certi

casi può essere dannoso per l'autostima. Si deve quindi dare sostegno, non cercare di dimostrare la

nostra superiorità.

 Negli ultimi anni si è andato sviluppando un nuovo campo di ricerca, la psicologia positiva. Questa

si pone come correttivo all'enfasi posta dalla psicologia clinica tradizionale sugli aspetti negatividella malattia mentale. In particolare si cerca di concentrarsi sul corretto funzionamento umano e su

come aiutare la salute mentale.

Capitolo 11 – L’aggressività 

1. Che cos’è l’aggressività

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Si definisce azione aggressiva il comportamento intenzionale volto a provocare un dolore fisico

o psicologico. 

Un’altra utile distinzione è quella tra:

• aggressività ostile: risultato della rabbia, l’unico scopo è infliggere dolore o danno

• aggressività strumentale: l’intenzione di far del male è un mezzo per raggiungere uno

scopo

1.1 L’aggressività è innata o viene appresa?

Il dibattito è ancora aperto sulla natura istintuale o appresa dell’aggressività. Freud teorizzò la

 presenza di un istinto vitale (Eros) e di un istinto di morte (Thanatos) che provoca l’aggressività. E

questa energia negativa deve trovare sfogo, altrimenti si giunge alla malattia. Per Freud la società è

fondamentale per aiutare l’individuo a sublimare l’istinto e volgere l’energia distruttiva verso un

comportamento accettabile o utile.

1.2 L’aggressività è istintuale, situazionale o opzionale?

Le ricerche sulle presunte origini istintuali dell’aggressività sono condotte in larga parte sugli

animali. I risultati sono molto controversi, e comunque non sono ancora emerse prove decisive a

favore di questa ipotesi. Sembra che l’aggressività si sia evoluta e mantenuta in funzione del suo

alto valore di sopravvivenza, ma contemporaneamente gli organismi hanno sviluppato meccanismi

inibitori che permettono di sopprimere l’aggressività quando un comportamento più vantaggioso è

 possibile. Quindi l’aggressività sembra essere condizionata dall’esperienza e dal contesto

sociale.

1.3 L’aggressività nelle diverse culture

La situazione sociale, quando si tratta del comportamento degli esseri umani, assume un importanza

maggiore. I pattern innati sono flessibili e suscettibili di infinite modificazioni. E questo è

dimostrato dalla diversità che le culture umane presentano nel loro grado di aggressività.

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E’ quindi evidente che il comportamento aggressivo può essere modificato, e questo è motivo

fondamentale di interesse per gli psicologi sociali.

2. Le cause biochimiche e neuronali dell’aggressività e la loro influenza

Una struttura particolare del cervello, l’amigdala, sembra essere in grado di controllare

l’aggressività sia negli esseri umani che negli animali. Anche qui però c’è una certa flessibilità:

l’effetto dello stimolo neuronale può essere attenuato da fattori sociali.

Alcune sostanze chimiche influenzano l’aggressività. La serotonina, un neurotrasmettitore, sembra

avere un effetto inibitorio. E naturalmente anche alcuni farmaci hanno effetti in questo senso. Ad es.

il testosterone produce un aumento di aggressività, sia tra gli uomini che tra le donne.

2.1 Aggressività e genere

Se il livello di testosterone condiziona l’aggressività, se ne deduce che le donne sono

generalmente meno aggressive degli uomini. Le donne hanno comunque modi diversi di

manifestare la propria aggressività, e le differenze di genere si attenuano in presenza di

 provocazione.

La base biologica del comportamento meno aggressivo delle donne sembra essere confermato dalle

ricerche, che hanno dimostrato che, nonostante i cambiamenti sociali avvenuti in tempi recenti nella

condizione femminile, non si è riscontrato un aumento corrispondente dei crimini violenti

commessi da donne.

Queste differenze dovute al sesso sono praticamente universali. La cultura influisce, ma noncancella il divario.

2.2 L’alcol e l’aggressività

Com’è noto, l’alcol tende ad abbassare le inibizioni contro la manifestazione di comportamenti

vietati dalla società, tra cui l’aggressività. Il legame è noto agli studiosi: chi è già tendente alla

violenza, lo diventerà ancora di più sotto l’effetto dell’alcol.

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2.3 Gli effetti del dolore e del malessere sull’aggressività

E’ dimostrato che il dolore, o altre forme di malessere fisico come il caldo, l’umidità,

l’inquinamento, possono abbassare la soglia del comportamento aggressivo.

3. Le cause situazionali che portano all’aggressività

3.1 Frustrazione e aggressività

Un individuo avverte frustrazione quando sente interrotto il cammino verso un obiettivo o una

gratificazione che si aspetta. Questo spesso porta all’aggressività.

Vi sono diversi fattori che possono accentuare la frustrazione e aumentare la possibilità di una

reazione aggressiva. Ad esempio, la vicinanza allo scopo o all’obiettivo dei nostri desideri.

Maggiore la vicinanza, maggiore la frustrazione e quindi più probabile la reazione.

L’aggressività aumenta anche quando la frustrazione è inaspettata.

 Naturalmente la reazione aggressiva si verifica quando anche le condizioni situazionali sono

favorevoli. Fattori importanti sono le caratteristiche di chi provoca la frustrazione, e la nostra

capacità di reagire efficacemente Inoltre, se la frustrazione appare comprensibile, legittima o non

intenzionale, non vi sarà probabilmente reazione aggressiva.

Anche il livello di aspettativa è importante: la frustrazione non è causata dalla deprivazione, ma

dalla deprivazione relativa, ovvero la sensazione di avere meno di quanto pensiamo di meritare.

3.2 Provocare direttamente e rispondere per le rime

Un altro fattore scatenante dell’aggressività è il bisogno di rispondere a una provocazione

rappresentata dal comportamento aggressivo di un’altra persona. Anche qui naturalmente conta

l’intenzionalità della provocazione, nonché le eventuali circostanze attenuanti , che però devono

essere note al momento della provocazione.

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3.3 Il ruolo degli oggetti aggressivi

La semplice presenza di uno stimolo aggressivo, un oggetto normalmente associato con

l’aggressività, può aumentare la probabilità di un comportamento aggressivo. La diffusione dellearmi è quindi in grado di far aumentare il tasso di violenza. E questo è stato dimostrato in numerose

ricerche ed esperimenti.

3.4 L’imitazione e l’aggressività

Una causa fondamentale dell’aggressività è la presenza di altre persone che si comportano in

maniera aggressiva,. Questo è vero soprattutto per i bambini, e specialmente quando avvertonoche l’aggressività viene compensata (ad esempio negli sport violenti).

E’ un fatto che una grande percentuale di genitori che maltrattano i loro bambini sono stati a loro

volta maltrattati dai loro genitori (teoria dell’apprendimento sociale). E non è una questione

genetica, come hanno dimostrato gli esperimenti di laboratorio.

3.5 Gli effetti della violenza nei media

 Numerosi studi indicano che maggiore è la quantità di violenza che gli individui vedono in

televisione da bambini, maggiore è la violenza che mostreranno una volta diventati adolescenti e

adulti.

 Naturalmente la violenza in televisione ha un impatto ancora maggiore sui giovani che sono già in

qualche modo inclini al comportamento violento, ma anche per quelli meno aggressivi la prolungata

esposizione può portare ad un aumento significativo dell’aggressività.

Bisogna anche tenere conto che la quantità di violenza proposta dalla televisione è tale che gli

effetti rilevati potrebbero anche solo essere dovuti al fenomeno del priming.

Le stesse conseguenze sembrano essere provocate dai videogiochi violenti.

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I bambini e i giovani in generale sono i più sensibili e influenzabili, ma gli effetti della violenza dei

media si riscontrano anche negli adulti.

Inoltre, sembra che l’esposizione continua ad eventi violenti produca un effetto mitigante sullanostra sensibilità, fino ad aumentare la soglia di tollerabilità della violenza nel mondo reale.

Esistono in conclusione quattro ragioni distinte per cui l’esposizione alla violenza nei media

aumenta l’aggressività:

4.

1. “Se lo fanno loro , posso farlo anch’io”: indebolimento delle inibizioni 

2. “Ma allora è così che si fa”: imitazione 

3. “Forse sto avvertendo delle sensazioni di aggressività”: priming, interpretazioneerrata delle proprie sensazioni

4. “Un altro scontro brutale: cosa c’è sull’altro canale?”: diminuzione del senso di

orrore e di commiserazione verso le vittime 

3.6 La violenza aiuta a vendere?

Gli spettacoli violenti in televisione sembrano essere graditi dal pubblico. E quindi il messaggio per 

i pubblicitari e i produttori è che la violenza aiuta a vendere.

E’ stato però dimostrato che le persone che guardano spettacoli violenti non ricordano facilmente le

marche pubblicizzate durante il programma. Forse i pubblicitari dovrebbero rivedere le proprie

strategie.

3.7 La pornografia e la violenza contro le donne

 Negli USA negli ultimi quaranta anni i casi di stupro e violenza sulle donne sono quadruplicati.

Una delle possibili spiegazioni risiede nei “copioni sessuali” che gli adolescenti apprendono

quando crescono fino a raggiungere la maturità sessuale. Questi comportamenti, appresi

implicitamente dalla nostra cultura, fanno pensare che il ruolo delle donne sia quello di resistere alle

avance sessuali, e che quello dell’uomo sia di persistere.

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Un altro dato che fa pensare è che l’aumento degli stupri ha coinciso con la sempre maggiore

disponibilità di materiale pornografico. Gli studi hanno però dimostrato che non esiste correlazione

tra questo materiale e i crimini a sfondo sessuale. Esiste però a quanto pare un collegamento tra la

pornografia violenta e una maggiore accettazione della violenza sessuale nei riguardi delle donne.

4. Come ridurre l’aggressività

4.1 Punire l’aggressività riduce il comportamento aggressivo?

La punizione, in caso di comportamento aggressivo, può avere un effetto controproducente, essendo

anch’essa un atto di aggressività. E questo è dimostrato dai casi frequenti di bambini con genitoriaggressivi e punitivi che diventano violenti da adulti.

Come si è già visto in precedenza, inoltre, la punizione severa spesso aumenta l’attrazione verso il

comportamento proibito, mentre una punizione più leggera spesso porta all’autogiustificazione e ad

abbandonare il comportamento stesso.

Per gli adulti il discorso si fa più complesso. Quasi tutti i sistemi giudiziari comportano pene severe

come deterrente contro i crimini violenti. Gli studi hanno però dimostrato che l’efficacia della penaè condizionata alla sua applicazione rapida e certa. E questo nel mondo reale non avviene quasi

mai.

E le statistiche confermano questa ipotesi: le pene severe non sembrano scoraggiare i crimini

violenti, meno che mai la pena di morte. 

4.2 Catarsi e aggressività

E’ opinione comune che fare qualcosa di aggressivo riduca i propri sentimenti aggressivi. Si tratta

di una semplificazione eccessiva del concetto di catarsi proprio della psicoanalisi.

In realtà le ricerche smentiscono il luogo comune. Né svolgere attività sportive violente, né

guardare spettacoli violenti, né compiere direttamente atti aggressivi ha l’effetto di diminuire

l’aggressività. Anzi, pare che gli effetti siano esattamente opposti. Questo in quanto aver già

manifestato la nostra aggressività rende più facile ripetere l’azione, che ci appare maggiormente

legittimata. Inoltre, commettere un atto di aperta aggressività verso una persona cambia i proprisentimenti verso di essa, aumentando quelli negativi, e aumentando la probabilità di ripetere il

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comportamento violento in futuro. E’ il noto effetto della riduzione della dissonanza cognitiva,

che produce conseguenze tragiche anche negli eventi bellici.

4.3 Gli effetti della guerra sull’aggressività generale

Quando una nazione è in guerra, anche la popolazione non combattente diventa più incline a

commettere azioni aggressive. Le statistiche lo dimostrano. Si tratta in realtà di un gigantesco

effetto televisivo di violenza di massa, che produce indebolimento delle inibizioni, conduce

all’imitazione dell’aggressività, riduce la nostra sensibilità verso l’orrore. E ci fa credere che i

 problemi complessi si possano risolvere con la violenza.

4.4 Come affrontare la rabbia

Se la violenza conduce all’autogiustificazione, che a sua volta produce altra violenza, ci si chiede se

non dovremmo reprimere i nostri sentimenti di rabbia.

In realtà, provare rabbia è una cosa completamente normale, e non comporta necessariamente la

manifestazione di comportamenti violenti. Si possono trovare modi di esprimerla in maniera non

aggressiva, soprattutto comunicando i propri sentimenti alla controparte, e cercando di raggiungereuna maggiore comprensione della situazione.

Gli effetti positivi dell’aprirsi non sono dovuti semplicemente allo sfogare i sentimenti, ma anche ad

una consapevolezza di sé che normalmente accompagna questa apertura.

Un modo efficace per ridurre l’aggressività provata da un’altra persona è intraprendere qualche

azione volta a diminuire la rabbia e la frustrazione che ne sono state le cause. Se chi è causa

della frustrazione si assume le proprie responsabilità e chiede scusa, il comportamento aggressivo

 probabilmente non si manifesterà.

Anche il fenomeno dell’imitazione può essere sfruttato in senso positivo: se si mostrano ai bambini

esempi di persone che reagiscono in maniera non aggressiva, educata e controllata, ci saranno

maggiori probabilità che essi si comportino nella stessa maniera in situazioni di provocazione.

 Nella maggior parte delle società, sono le persone cui mancano adeguate capacità sociali a essere

 più inclini alle soluzioni violente dei problemi interpersonali. Occorre quindi insegnare allepersone come comunicare la loro rabbia e le loro critiche in maniera costruttiva, come condurre

negoziati e arrivare a compromessi, come tenere conto di più dei bisogni e desideri altrui, ecc.

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Dato che una delle più potenti giustificazioni alla violenza è la disumanizzazione delle vittime, uno

dei mezzi fondamentali per combattere l’aggressività è cercare di sviluppare l’empatia tra le

 persone.

Capitolo 12 – Il pregiudizio: cause e rimedi 

1. Un fenomeno sociale onnipresente

Potrebbe sembrare che solo i gruppi minoritari siano oggetto di pregiudizio da parte della

maggioranza dominante. In realtà il pregiudizio è un fenomeno onnipresente, che riguarda tutti e

 può intercorrere in entrambi i sensi, dal gruppo minoritario alla maggioranza e viceversa.

La nazionalità, l'identità etnica, il genere, le preferenze sessuali o la religione, ma anche l'aspetto

fisico, possono causare etichettamento e discriminazione. La semplice antipatia nei confronti di un

gruppo può diventare qualcosa di molto peggio e condurre alla svalutazione degli altri come esseriumani, alla tortura, alla morte e al genocidio.

Chi è vittima di pregiudizio in prima istanza soffre di una diminuzione dell'autostima, che è

fondamentale nel condizionare il comportamento e le aspirazioni. Chi ha bassa autostima ha alte

 probabilità di essere una persona infelice e delusa.

Il pregiudizio causa abbassamento dell'autostima ad es. negli afroamericani e nelle donne nellasocietà USA, anche se in tempi recenti le cose sembrano essere migliorate. Ma il problema del

 pregiudizio è ancora ben lungi dall'essere risolto.

2. Definizione di pregiudizio, di stereotipo e di discriminazione

Il pregiudizio è un atteggiamento, e come tale comprende le tre componenti affettiva, cognitiva e

comportamentale.

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2.1 Il pregiudizio: la componente affettiva

Il temine “pregiudizio” si riferisce alla struttura generale dell'atteggiamento e alla sua componente

affettiva. Tecnicamente, esistono pregiudizi positivi e negativi, ma gli psicologi sociali usano iltermine solamente per riferirsi ad atteggiamenti negativi. In particolare, il pregiudizio si definisce

come un atteggiamento ostile o negativo nei confronti dei membri di un gruppo, basato solo

sull'appartenenza a quel gruppo. I tratti individuali o i comportamenti del bersaglio del

 pregiudizio passano inosservati o vengono accantonati.

2.2 Gli stereotipi: la componente cognitiva

All'interno di una data cultura, esistono elementi normativi che presentano una certa similarità,

anche perché le immagini relative vengono continuamente diffuse dai media. Lo stereotipo è

quindi una generalizzazione condotta su un gruppo di persone, in cui caratteristiche identiche

vengono attribuite a tutti i membri del gruppo, senza tenere conto delle variazioni individuali.

Gli stereotipi, una volta formati, sono molto resistenti al cambiamento.

Gli stereotipi rispondono al bisogno della nostra mente di semplificare il mondo. Concentriamo la

nostra energia per costruire atteggiamenti accurati solo verso le cose che più ci interessano, mentresemplifichiamo le credenze verso il resto.

Lo stereotipo può quindi essere anche utile per affrontare gli eventi complessi fino a quando si basa

sull'esperienza ed è accurato. Non così se lo usiamo per annullare le differenze all'interno di una

classe di persone.

La stereotipizzazione è particolarmente potente nelle differenze di genere. Ad esempio la credenzagenerale che vede le donne maggiormente portate alla cura degli altri (dei figli in particolare) e

meno autoritarie. In questo caso la psicologia evoluzionista suggerisce che la realtà è molto vicina

allo stereotipo culturale. In campo lavorativo ci si aspetta il successo più dagli uomini che dalle

donne, e in conseguenza di queste aspettative si giudicano più severamente gli uomini se falliscono,

mentre se le donne hanno successo, si spiega la cosa con fattori quali la fortuna o la costanza. E

questo tipo di stereotipi agiscono anche nelle menti del gruppo stereotipato.

Per quanto riguarda l'aspetto comportamentale, la combinazione delle credenze stereotipate con una

reazione emotiva negativa si traduce in comportamento scorretto o violento: la discriminazione(ovvero l'azione ingiustificata negativa o dannosa verso i membri di un gruppo semplicemente

a causa dell'appartenenza a quel determinato gruppo). 

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Una particolare forma di discriminazione in opera negli USA è quella contro gli omosessuali, che

non sono protetti da leggi nazionali come le donne, le minoranze etniche o gli handicappati.

3. Le cause del pregiudizio

Gli psicologi evoluzionisti sostengono che tutti gli organismi tendono ad essere più amichevoli nei

confronti dei loro simili, e a mostrare paura e avversione verso i differenti. Ma il pregiudizio non si

verifica solamente in base ad aspetti biologicamente ovvi dell'apparenza umana, ma anche tra

 persone che nutrono credenze diverse. C'è sicuramente quindi anche un'influenza culturale sul

formarsi dei pregiudizi. E questi si possono formare anche a partire da differenze insignificanti

come il colore degli occhi, la lunghezza dei capelli e il modo di vestirsi (vedi l'esperimento Elliot).

3.1 Il modo in cui pensiamo: la cognizione sociale

Il pregiudizio si potrebbe definire come il lato oscuro della cognizione sociale umana. La

tendenza a categorizzare e a raggruppare le informazioni per formare degli schemi e utilizzarli per 

interpretare le informazioni nuove, ad affidarsi ad euristiche potenzialmente inaccurate e adipendere da processi erronei della memoria, sono aspetti cognitivi che possono portare agli

stereotipi negativi e alla discriminazione.

Il primo gradino del pregiudizio è la formazione dei gruppi, la categorizzazione delle persone

secondo certe caratteristiche. In questo modo ordiniamo il mondo e ci prepariamo a rispondere agli

stimoli nuovi. La categorizzazione è quindi utile e necessaria e possiede implicazioni profonde.

Gli individui tendono a costituire un “ingroup”, ovvero un gruppo in cui si identificano e di cui si

sentono membri. Gli altri fanno parte dell'”outgroup”.

Ma qual'è il meccanismo che produce atteggiamenti positivi verso i membri dell'ingroup e negativi

verso l'outgroup (che viene detto “ingroup bias”)?

Una delle possibili spiegazioni, confermata peraltro sperimentalmente, è che l'identificazione in un

gruppo, e la credenza nella superiorità del proprio gruppo rispetto agli altri, produca un aumento

dell'autostima. 

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Un'altra delle conseguenze della categorizzazione sociale è la percezione dell'omogeneità

dell'outgroup: i membri dell'ingroup tendono a percepire i membri dell'outgroup come più

omogenei di quanto siano in realtà, e anche più dell'ingroup stesso.

Cambiare i pregiudizi con argomentazioni logiche e razionali è molto difficile. Questo perché,

in primis, è forte l'influenza della componente affettiva dell'atteggiamento, che come si sa non è

minimamente influenzata dalle spiegazioni logiche. Inoltre, l'atteggiamento tende a organizzare il

modo in cui si elaborano le informazioni rilevanti rispetto all'oggetto dell'atteggiamento stesso. Più

specificamente, se abbiamo opinioni o schemi su certi gruppi, faremo più attenzione alle

informazioni coerenti con le nostre opinioni, le richiameremo spesso alla mente e le ricorderemo

meglio rispetto alle informazioni che non sono coerenti. Questo ovviamente renderà sempre più

forte il nostro stereotipo.

Gli stereotipi riflettono le credenze culturali: in ogni cultura esistono descrizioni facilmente

riconoscibili che riguardano i membri di un particolare gruppo. Anche se non ci crediamo, li

conosciamo sicuramente. E paradossalmente, alcuni esperimenti hanno dimostrato che influenzano

anche i nostri giudizi. Si tratta del fenomeno dell'attivazione del pregiudizio.

L'attivazione del pregiudizio agisce a livello automatico, precedendo l'elaborazione controllata

dell'informazione. Se quindi siamo distratti, impegnati o poco attenti, lo stereotipo può sfuggire al

controllo e spingerci a dare valutazioni che vanno contro le nostre opinioni consce.

Il meccanismo del pregiudizio automatico però sembra agire in maniera molto diversa a seconda

delle caratteristiche individuali.

Un altro modo in cui viene perpetuato il pensiero stereotipico è il fenomeno della correlazione

illusoria, ovvero il caso in cui, aspettandoci che due cose siano collegate, inganniamo noi stessi

fino a credere che davvero lo siano, nonostante la realtà mostri il contrario.

E' più probabile che si verifichi correlazione illusoria quando gli eventi o le persone sono

caratteristici e visibili, cioè quando sono diversi dalla nostra quotidianità. I membri di un gruppo

minoritario sono per definizione distinti, così come individui che hanno una professione o capacità

non corrispondente allo stereotipo.

E' possibile modificare le credenze stereotipiche? Sono state proposte tre teorie:

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1. Il modello di contabilità, in cui ogni informazione che contraddice lo stereotipo porterebbe

alla sua modificazione

2. il modello di conversione, secondo cui lo stereotipo cambia a seguito di un'informazione

 particolarmente saliente e forte

3. il modello di sottotipizzazione, secondo cui si crea un nuovo sottotipo o sottocategoria di

steteotipi che si adattano all'informazione discordante.

In realtà si è visto che gli stereotipi cambiano soprattutto in accordo con i modelli 1 e 3, mentre il

modello di conversione non ha avuto conferme sperimentali.

3.2 I “biases” attribuzionali

Facciamo delle attribuzioni per comprendere il comportamento di una persona quanto di un gruppo.

Come si legano queste attribuzioni al pregiudizio e alla discriminazione?

Il noto “errore fondamentale di attribuzione” è una delle cause principali della persistenza degli

stereotipi. Se l'errore viene rivolto ad un intero gruppo di persone o ad un outgroup, si trasforma in

stereotipo (errore ultimo di attribuzione). Ogni informazione situazionale o sociale che possa

spiegare il comportamento del gruppo viene sistematicamente ignorata o accantonata.

 Negli USA è presente un fenomeno (curva di Bell) secondo cui le prestazioni scolastiche di alcuni

gruppi etnici risultano gerarchicamente classificate secondo l'ordine asiatici-angloamericani-

afroamericani. Un fattore che chiaramente influenza questo fenomeno è la minaccia dello

stereotipo: gli afroamericani, in situazioni valutative, sentono l'apprensione di confermare con il

loro comportamento lo stereotipo negativo dell'inferiorità intellettuale. Questo condiziona la loro

 prestazione, confermando alla fine lo stereotipo. Lo stesso meccanismo si verifica con gli stereotipi

di genere.

Quando un membro dell'outgroup non si comporta come ci si aspetterebbe secondo lo stereotipo,

 paradossalmente si tende ad attribuire questo comportamento “anomalo” a fattori situazionali,

mantenendo così l'attribuzione disposizionale di gruppo intatta.

Le persone che non sono mai state oggetti di pregiudizio trovano difficile capire cosa significa

essere “bersagli”. Essi cadono così spesso nella trappola di biasimare la vittima, attribuendo i loro

guai a mancanza di carattere e capacità. Tutto ciò rientra nella “visione del mondo giusto”,secondo cui nel mondo alla fine opera un principio di giustizia per cui ognuno ha quello che si

merita. Questo ci rassicura perché pensiamo che non ci capiterà mai niente di brutto se ci

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comportiamo in maniera corretta. E per rafforzare la nostra convinzione siamo anche disposti a

distorcere i fatti e le ricostruzioni retrospettive.

3.3 La teoria del conflitto realistico

Ogni genere di problema inerente il fenomeno ingroup-outgroup viene in realtà aggravato dalla

reale competizione economica, politica o di stato. La teoria del conflitto realistico sostiene che un

conflitto reale fra gruppi si instaura quando le risorse sono limitate. La competizione si genera dai

sentimenti negativi sviluppati nei confronti del gruppo contro cui si compete, e da qui al pregiudizio

e alla discriminazione il passo è breve.

Quando le risorse scarseggiano, i membri dell'ingroup si sentono più minacciati da quelli

dell'outgroup, e quindi vi è maggiore possibilità che si sviluppino pregiudizi, discriminazione e

violenza. Le ricerche correlazionali condotte sui fenomeni violenti durante le situazioni di crisi

confermano questa ipotesi.

In situazioni in cui non esiste un outgroup identificabile contro cui rivolgere le proprie

rivendicazioni, si fa strada la possibilità che si crei un capro espiatorio. Il caso degli ebrei nella

Germania nazista è esemplare. Tuttavia non sempre è così facile separare il pregiudizio causatodalla competizione da quello dovuto al fenomeno del capro espiatorio.

In ogni caso gli individui, quando sono frustrati o infelici, tendono a mostrare più aggressività nei

confronti dei gruppi che sono non graditi, visibili, e relativamente privi di potere. Le forme in cui si

manifesta l'aggressività dipendono da quanto permesso o approvato dall'ingroup in questione.

3.4 Le regole normative

Un comportamento sociale innocuo come il conformismo può diventare particolarmente pericoloso

quando entra in gioco il pregiudizio. Se viviamo in una società in cui le informazioni stereotipiche

abbondano e il comportamento discriminatorio è la regola, la maggior parte di noi svilupperà

atteggiamenti ostili e pregiudizi. In questo caso si parla di razzismo o sessismo istituzionalizzato.

Il conformismo normativo opera nel senso di indurre atteggiamenti pregiudiziali e comportamenti

discriminatori nelle persone che vogliono conformarsi ed adattarsi alle posizioni prevalenti della

maggioranza. E questa molto spesso è la causa principale del pregiudizio.

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In tempi recenti i cambiamenti normativi negli USA hanno fatto diminuire i comportamenti

discriminatori. Ciò non significa però che il pregiudizio sia stato eliminato: in realtà molti

mantengono i propri stereotipi, ma sono diventati più attenti a non mostrarli in pubblico. Questo

fenomeno viene chiamato pregiudizio moderno.

La conseguenza è che il razzismo e il sessismo devono essere studiati attraverso misure indirette enon intrusive. Recenti ricerche effettuate anche in Europa hanno dimostrato che il pregiudizio

nascosto ha un'influenza importante sulle opinioni delle persone circa le politiche di immigrazione:

non si parla di rimandare gli immigrati a casa loro, ma neanche ci si dà da fare per migliorare le

relazioni e i diritti civili degli stessi immigrati.

 Nel caso del pregiudizio contro le donne, sono presenti le stesse forme latenti, che però in questo

caso si traducono in atteggiamenti ambivalenti, che fanno parlare di sessismo ostile e sessismo

 benevolente. In ogni caso il sessismo, di qualunque valenza sia, serve a giustificare i ruoli sociali

tradizionali e stereotipati delle donne.

4. Come si può ridurre il pregiudizio?

Se il pregiudizio non si riesce a combattere su basi razionali, in quanto comporta anche aspetti

emotivi e cognitivi, può essere importante favorire le occasioni di contatto tra ingroup e outgroup.

Ma il semplice contatto non è sufficiente.

4.1 L'ipotesi del contatto

Diversi esperimenti sociali di integrazione che comportavano il contatto tra etnie diverse al fine di

ridurre il pregiudizio reciproco non hanno dato i risultati sperati, specialmente tra i bambini.

Sembra invece che il contatto abbia effetti positivi quando le persone hanno status uguale e perseguono gli stessi scopi.

4.2 Quando il contatto riduce il pregiudizio: le condizioni

Come hanno dimostrato diversi studi sperimentali, il contatto tra gruppi diversi, per avere un'utilità

nella riduzione del pregiudizio, deve basarsi su alcune condizioni:

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1. I due gruppi devono essere in situazione di interdipendenza, ovvero devono cooperare

per raggiungere uno scopo comune 

2. i membri del gruppo devono essere uguali in termini di status e di potere 

3. il contatto deve avvenire in condizioni amichevoli e informali, con contatti personali 

4. gli individui devono percepire i membri dell'outgroup come tipici del loro gruppo 

5. devono esserci regole sociali che promuovono e sostengono l'uguaglianza tra i gruppi 

se tutte queste condizioni vengono rispettate, ci si può attendere una riduzione dei pregiudizi, degli

stereotipi e dei comportamenti discriminatori.


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