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Aronson – Wilson – Akert: PSICOLOGIA SOCIALE
Capitolo 1 - Che cos’è la psicologia sociale
La psicologia sociale è lo studio scientifico dell’influenza sociale, ovvero dei modi attraverso cui i
pensieri, i sentimenti e i comportamenti delle persone vengono influenzati dalla presenza reale o
immaginaria degli altri.
L’influenza sociale assume forme sia dirette (come la pubblicità) che indirette (a livello di cultura).
1.1 Il potere dell’interpretazione sociale
La psicologia sociale si differenzia dall’antropologia e dalla sociologia in quanto si interessa non
alle situazioni sociali in senso oggettivo, ma al modo in cui le persone vengono influenzate dalla
loro interpretazione, o costruzione, dell’ambiente sociale. E’ importante quindi capire come una
persona percepisce o interpreta tale ambiente, piuttosto che comprenderlo oggettivamente.
Le origini di questa interpretazione sono oggetto di attenzione particolare, ovvero i fattori che
determinano i pensieri e i comportamenti delle persone.
Un altro tratto caratteristico della psicologia sociale è quello di essere una scienza sperimentale,
che sottopone a prova empirica le proprie ipotesi. Essa non si basa né sulla cosiddetta “saggezza
popolare” o sul buon senso, né sulle opinioni o intuizioni di filosofi, romanzieri, politici, giornalisti
o altro. Anche se buona parte della psicologia contemporanea è basata sul pensiero analitico dei
filosofi, la psicologia sociale cerca di approcciare anche le domande analizzate dalla filosofia in
modo scientifico.
1.2 La psicologia sociale e la psicologia della personalità
Anche la psicologia della personalità si occupa dello studio degli individui e della ragioni che
sottostanno alle loro azioni. Essa però si concentra sulle differenze individuali, trascurando quella
che è una delle fonti principali del comportamento umano: l’influenza sociale. Molto spesso nei
rapporti interpersonali si tende proprio a sopravvalutare la componente della personalità
individuale, nel valutare il comportamento di una persona.
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1.3 La psicologia sociale e le scienze sociali
Il comportamento sociale viene studiato da diverse scienze, quali la sociologia, l’economia e le
scienze politiche. La psicologia sociale però se ne differenzia in quanto il suo oggetto di studio, più
che le classi sociali, le strutture e le istituzioni, è l’individuo nel contesto della situazione sociale.
Inoltre, lo scopo della psicologia sociale è di identificare le proprietà universali della natura
umana che, indipendentemente dalle classi o strutture sociali, rendono ciascuno di noi sensibile
all’influenza sociale. Per questo motivo si promuove la ricerca interculturale.
2. Il potere dell’influenza sociale
L’errore per cui si tende ad interpretare il comportamento delle persone in termini di personalità,
trascurando l’influenza sociale, è detto errore fondamentale di attribuzione.
2.1 Sottostimare il potere dell’influenza sociale
Perché si tende a sottostimare l’influenza sociale? Principalmente per due motivi:
• Il senso di falsa sicurezza: se un comportamento deviante può essere attribuito ad una
“personalità tarata”, ne deriva la sensazione che a noi non potrà mai capitare;
• La tendenza a semplificare situazioni che sono complesse, che spesso ci impedisce di
comprendere a fondo un comportamento.
E’ invece importante capire che aspetti della situazione sociale che possono sembrare anche poco
importanti, producono effetti macroscopici sui comportamenti delle persone, a volte fino ad
annullare l’influenza della personalità individuale.
2.2 La soggettività della situazione sociale
Per il comportamentismo si poteva spiegare ogni comportamento umano in termini di analisi dellericompense e punizioni riservate dall’ambiente al soggetto, senza nessun riguardo per concetti come
cognizione, pensiero o sentimento. Questo approccio si è rivelato troppo semplicistico, in quanto
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non si può comprendere un comportamento limitandosi alle proprietà fisiche di una situazione, ma
si deve capire come le persone “costruiscono” il mondo che le circonda.
La psicologia della gestalt ha posto i fondamenti dello studio dell’interpretazione individuale dellasituazione sociale. Questa teoria si concentra sulla fenomenologia del soggetto della percezione,
ovvero sul modo in cui gli oggetti si presentano alla persone, piuttosto che sui singoli elementi dello
stimolo oggettivo.
Importanti in questo senso furono gli studi di Kurt Lewin, ebreo tedesco emigrato in USA negli
anni 30. Lewin applicò i principi della gestalt alla percezione sociale.
Le costruzioni sociali soggettive possono essere semplici, ma anche molto complesse.
3. Da dove arrivano i costrutti: le motivazioni umane fondamentali
In ogni determinato momento, i pensieri e comportamenti umani sono sottesi da una moltitudine di
motivazioni sovrapposte. Dopo anni di studi, gli psicologi sociali hanno individuato duemotivazioni fondamentali:
• il bisogno di essere accurati;
• il bisogno di giustificare i nostri pensieri e le nostre azioni (essere a posto con la
coscienza);
Spesso queste motivazioni ci spingono nella stessa direzione, altre volte entrano in conflitto fra loro,
producendo conseguenze non sempre positive.
3.1 L’approccio basato sull’autostima: il desiderio di star bene con sé stessi
Molte persone hanno bisogno di mantenere un’alta stima di sé, di vedersi come individui
rispettabili, competenti e affidabili. Ciò porta spesso a dare una visione distorta del mondo per
potersi sentire bene con sé stessi.
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Un’altra esigenza fondamentale è quella di giustificare il comportamento precedente. In determinate
condizioni ciò spinge a commettere azioni che potrebbero apparire sorprendenti o paradossali,
ovvero preferire le persone e le cose per cui si è sofferto, piuttosto che quelle associate con il
benessere e il piacere.
3.2 L’approccio della cognizione sociale: il bisogno di essere accurati
Gli esseri umani hanno sorprendenti facoltà logiche e cognitive, che usano per costruirsi una propria
visione del mondo. Lo studio del modo in cui gli esseri umani concepiscono il mondo è detto
approccio cognitivo alla psicologia sociale, o cognizione sociale.
Il compito però non è sempre facile o immediato, perché spesso il problema è la non conoscenza di
tutti gli elementi necessari a giudicare una data situazione. Ogni giorno prendiamo tantissime
decisioni, anche se non disponiamo di dati sufficienti.
Inoltre, spesso le nostre aspettative sul mondo sociale vanno in conflitto con la percezione che
abbiamo di esso, e a volte lo modificano. Questo meccanismo è alla base del fenomeno cosiddetto
della “profezia che si autoadempie” (vedi esperimento sui test di intelligenza nelle scuole).
3.3 Altre motivazioni
Naturalmente, oltre alle motivazioni sopra evidenziate, possono esserci molti altri fattori che
influenzano la nostra visione del mondo: istinti biologici, paura, promessa di ricompense, ecc.
Un’altra motivazione significativa è il bisogno di controllo sul proprio ambiente.
4. La psicologia sociale e i problemi sociali
Lo scopo degli studi della psicologia sociale, oltre a quello di investigare sulle ragioni profonde del
comportamento umano, si può trovare anche nel dare un contributo alla soluzione di problemi
reali, quali la riduzione dell’ostilità e del pregiudizio, il diffondersi dell’altruismo e della
generosità, ecc.
La capacità di comprendere e spiegare il complesso comportamento sociale contiene in sé una sfida
al suo cambiamento.
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PARTE PRIMA – COMPRENDERE NOI STESSI E IL MONDO SOCIALE
Capitolo 2 - La cognizione sociale
Si devono innanzitutto distinguere due tipi di cognizione sociale:
• un tipo di pensiero veloce e automatico, che interviene quando agiamo “senza pensare”,
ovvero senza riflettere coscientemente
• un pensiero controllato, deliberato, che interviene quando dobbiamo prendere decisioni
importanti riguardanti la nostra vita.
Spesso questi due tipi di pensiero operano insieme con ottimi risultati.
1. Il pilota automatico: pensare senza sforzi
Spesso le persone si adattano molto rapidamente alle situazioni nuove, valutando intuitivamente gli
altri, le situazioni e gli sviluppi futuri. Questo avviene grazie ad una sorta di “analisi automatica
dell’ambiente”, basata sulle nostre precedenti esperienze e conoscenze del mondo. E’ una modalità
che avviene in maniera non conscia, non intenzionale e senza sforzo, e viene detta “pensiero
automatico”.
1.1 Le persone come teorici quotidiani: il pensiero automatico senza schemi
Il pensiero automatico ci aiuta a comprendere situazioni nuove collegandole alle nostre esperienze
precedenti. Per fare questo utilizziamo degli schemi, ovvero strutture mentali che organizzano la
nostra conoscenza del mondo sociale. Tali strutture influenzano profondamente le informazioni che
registriamo, su cui riflettiamo e che successivamente ricordiamo.
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Quando vengono applicati ai membri di un gruppo sociale, al genere o all’etnia, gli schemi vengono
definititi come stereotipi.
Numerosi esperimenti hanno dimostrato che gli stereotipi influiscono in maniera notevole anche
sulle percezioni, portando a comportamenti distorti ed errati. Ciò accade quando le persone
utilizzano il pensiero automatico, anche se consciamente non si riconoscono nei pregiudizi incarnatidagli stereotipi.
Gli schemi, anche se ci possono portare ad una visione distorta del mondo, in realtà sono
fondamentali per poter affrontare le situazioni nuove, riducendo l’ambiguità interpretativa e
permettendoci di selezionare le informazioni che ci vengono dal mondo esterno. Il problema si pone
quando ci si aggrappa eccessivamente a schemi che non sono rappresentazioni accurate del mondo.
Gli schemi inoltre fungono da guide della memoria: la memoria umana è ricostruttiva, e le persone
riempiono gli spazi vuoti con le informazioni coerenti con i propri schemi.
La scelta dello schema da applicare alle diverse situazioni dipende dall’accessibilità. Esistono due
tipi di accessibilità:
• in base all’esperienza passata: questi schemi sono sempre accessibili
•
in base ad un evento contingente che ha fissato uno schema in memoria: in questo casol’accessibilità può essere temporanea, e indotta.
Il “priming” è appunto il fenomeno per cui esperienze recenti aumentano l’accessibilità di uno
schema.
Il priming è un ottimo esempio di pensiero automatico, in quanto le persone non sono consapevoli
del fatto che stanno applicando concetti o schemi cui è capitato di pensare poco prima. La cosafunziona anche tramite messaggi subliminali.
Gli schemi sono caratterizzati da una notevole persistenza, tanto che possono sopravvivere anche
quando non sono sostenuti più da nessuna evidenza. Quando incontriamo informazioni nuove, o
vediamo confutate quelle acquisite, non rivediamo i nostri schemi. A volte invece si verifica il
fenomeno della “profezia che si autoadempie”:
a) le persone hanno delle aspettative rispetto ad un altro individuo
b) ciò influenza il modo di agire nei suoi confronti
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c) queste attese influenzano la risposta dell’individuo, che adotta comportamenti coerenti con le
attese, facendo in modo che queste diventino vere.
Questo fenomeno può comportare serie conseguenze, soprattutto per chi è vittima di aspettativenegative.
La cultura in cui siamo cresciuti è una fonte fondamentale per i nostri schemi, e influenza
notevolmente ciò che notiamo e memorizziamo del mondo.
1.2 Strategie e scorciatoie mentali
Un’altra forma di pensiero automatico è quella di applicare regole specifiche e scorciatoie mentali
quando pensiamo al mondo sociale.
Quando gli schemi che abbiamo non sono adeguati, o quando ne abbiamo troppi che potrebbero
andare bene e siamo nell’incertezza, spesso impieghiamo la scorciatoia dell’euristica del giudizio.
In molti casi queste euristiche funzionano e portano ad ottimi risultati, in altri sono inadeguate omale impiegate, portando a giudizi errati.
L’euristica della disponibilità: si riferisce ai giudizi fondati sulla facilità con cui riportiamo alla
mente esempi che riguardano la situazione in esame. Il problema è che spesso ciò che ricordiamo
non è caratteristico del quadro generale, e ci porta a conclusioni errate.
L’euristica della rappresentatività: per categorizzare qualcosa di nuovo, le persone giudicanoquanto sia simile al caso tipico. Questo tipo di euristica viene utilizzato spesso anche quando
avremmo a disposizione informazioni medie di base che contraddicono le conclusioni raggiunte,
portando a conclusioni errate.
L’euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento: è una strategia con cui le persone utilizzano
un numero o un valore come punto di partenza e quindi precisano la loro risposta rispetto ad esso.
Spesso però i valori da cui si parte sono frutto di esperienze personali atipiche, e perciò non sono
affatto rappresentative del reale. Quando si generalizza partendo da un campione di informazioni
per arrivare alla sua totalità, viene messo in atto un processo chiamato campionamento tendenzioso.
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1.3 La pervasività del pensiero automatico
Il nostro pensiero può diventare automatico quanto le nostre azioni. L’elaborazione automatica si
verifica senza che ce ne accorgiamo, e da qui deriva la difficoltà nel definirla. E’ però essenziale per poter categorizzare il mondo con velocità ed efficacia, e poter utilizzare il pensiero conscio per fini
più importanti. Questa strategia implica però un prezzo da pagare, che sta nel rischio di
categorizzare una persona o un oggetto in maniera erronea.
2. La cognizione sociale controllata
Il pensiero controllato è conscio, intenzionale, volontario e richiede energia mentale. Uno degliscopi del pensiero controllato è porre freni e bilanciamenti al pensiero automatico. Tuttavia, proprio
perché il pensiero controllato richiede energia e motivazione, spesso lasciamo che sia il pensiero
automatico a gestire le cose (come molto spesso guardando la pubblicità in TV). Questo
naturalmente a meno che non siamo particolarmente motivati ad analizzare un messaggio ed
abbiamo le energie necessarie. Anche le conseguenze coinvolte nel giudizio sono importanti
nell’attivare o meno il pensiero controllato.
2.1 Credere automaticamente e non credere controllato
Alcune teorie sostengono che le persone sono “programmate” per credere automaticamente a tutto
ciò che vedono o sentono. Ciò fa parte di un meccanismo fondamentale per la vita sociale. Tuttavia,
a volte, ciò che vediamo e sentiamo non è vero. L’accettazione iniziale si verifica
inconsapevolmente e senza impegno o intenzionalità. Il giudizio e la non accettazione sono invece
frutto dell’elaborazione controllata, sempre che le persone abbiano l’energia e la motivazione per
attivarla. Se ciò non avviene, si può arrivare ad accettare delle falsità.
2.2 Annullamento mentale del passato: il pensiero controfattuale
Le persone si impegnano spesso nel pensiero controfattuale, ovvero ragionare su cosa sarebbe
potuto succedere se le cose fossero andate diversamente. La facilità con cui si riesce ad annullare il
passato, pensando ad esiti alternativi, può produrre un impatto notevole sulle spiegazioni che ci
diamo del passato e sulle emozioni collegate. Più è facile “annullare” mentalmente un esito, e più
forte è la reazione emotiva ad esso. E alcuni generi di esiti sembrano facili da evitare o modificare,
non tanto perché lo siano realmente, quanto per la facilità con cui li possiamo annullarementalmente.
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3. Per un ritratto del giudizio umano
Le abilità cognitive del pensiero umano possono portare a grandi risultati culturali e intellettuali, ma
anche a compiere errori fondamentali. Come si spiega?
E’ tuttora in corso un dibattito su quale dei due tipi di pensiero (automatico o controllato) sia più
importante per il nostro funzionamento. Ciò che è chiaro è che entrambi sono estremamente utili.
Forse la migliore metafora del pensiero umano è quella secondo cui le persone sono “scienziati
imperfetti”, che cercano di scoprire la natura del mondo sociale in maniera logica, ma che non ci
riescono alla perfezione. Possiamo ancora migliorare.
3.1 Come insegnare le abilità di ragionamento
Viste le conseguenze spiacevoli, e a volte tragiche, del ragionamento umano, ci si deve porre il
problema di come rimediare, insegnando alle persone come migliorare le proprie inferenze.
Uno dei possibili metodi è quello di spingere le persone a considerare con maggiore modestia le
loro capacità di ragionamento: spesso infatti ci sentiamo infallibili.
Un'altra possibilità è quella di insegnare alle persone alcuni dei principi statistici e metodologicifondamentali relativi al ragionamento corretto, nella speranza che poi li applichino nella loro vita
quotidiana.
Capitolo 3 – La percezione sociale: come arriviamo a comprendere gli altri
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Studiare il comportamento degli altri ci aiuta a comprendere il nostro mondo sociale. Lo studio
della percezione sociale riguarda i modi in cui creiamo impressioni e formuliamo giudizi nei
confronti degli altri.
1. Il comportamento non verbale
Spesso possiamo comunicare senza parlare. La comunicazione non verbale si riferisce alle
espressioni del volto, al tono della voce, ai gesti, alle posizioni e i movimenti del corpo, all'uso del
tatto e allo sguardo.
Le funzioni della comunicazione non verbale, secondo Argyle, sono:
• esprimere emozioni
• comunicare atteggiamenti
• comunicare i propri tratti di personalità
• facilitare la comunicazione verbale
La comunicazione non verbale a volte conferma e rafforza quella verbale, altre volte la contraddice.
1.1 Esprimere le emozioni con il viso
Darwin fu il primo a studiare l'espressione dei sentimenti nell'uomo e negli animali. Egli ipotizzò
che alcune emozioni primarie vengono espresse attraverso il volto nello stesso modo in tutte le
culture. Era un'ipotesi funzionale all'evoluzionismo, secondo la quale anche questa capacità dicomunicare aveva assunto un valore di sopravvivenza.
Anche studi più recenti, tuttavia, confermano che, almeno per sei emozioni (rabbia, felicità,
sorpresa, paura, disgusto e tristezza), le espressioni facciali sono le stesse in tutte le culture umane.
Il compito di decodificare le espressioni facciali non è sempre agevole, per tre motivi principali:
• le persone spesso manifestano emozioni “miste”
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• vi sono delle occasioni in cui gli individui non vogliono mostrare le proprie emozioni
(anche se questo, come diversi esperimenti hanno mostrato, può portare a conseguenze
negative dal punto di vista cognitivo e fisiologico
• la terza ragione ha a che fare con la cultura
1.2 La cultura e i canali della comunicazione non verbale
Esistono alcune regole di esibizione, proprie di ciascuna cultura, che controllano quali tipi di
espressione emotiva vadano mostrati. Le regole culturali che reggono l'espressione non verbale in
oriente sono notevolmente diverse da quelle occidentali.
Altre modalità di espressione non verbale normate dalla cultura sono quelle relative allo sguardo, o
allo spazio personale, o ancora ai gesti e ai cosiddetti emblemi (gesti che dispongono di definizioni
chiare e comprensibili, ad es. l'OK)
1.3 La comunicazione verbale mediante più canali
La vita quotidiana si compone di interazioni sociali svolte utilizzando più canali di comunicazione
non verbale. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che le informazioni non verbali sono spesso
ridondanti e favoriscono l'interpretazione degli interlocutori. Si è anche notato che alcune persone
(in particolare gli estroversi) sono molto abili nel decodificare gli indizi non verbali, mentre altre (di
solito gli introversi) sono carenti.
1.4 Differenze di genere nella comunicazione non verbale
In generale gli studi hanno dimostrato che le donne sono più brave nel decodificare la
comunicazione non verbale, ma non sempre: se l'interlocutore mente, è più facilmente smascherato
da un uomo rispetto ad una donna. Questo deriva, secondo alcuni, dal ruolo sociale delle donne, che
sono portate a mostrare (e ci si aspetta da loro) maggiore sensibilità, gentilezza e disponibilità. Ciò
porta alla sottovalutazione della capacità di mentire e alla differenza nel comportamento non
verbale.
2. Le teorie implicite di personalità: come si riempiono gli spazi vuoti
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Uno degli schemi fondamentali usati dalle persone per farsi delle impressioni sugli altri è la
cosiddetta teoria implicita di personalità, che è composta dalle idee su quali tratti di personalità si
accordano fra loro (ad es. gentile-generoso, tirchia-irritabile, ecc.)
2.1 La cultura e le teorie implicite di personalità
Le teorie implicite di personalità si formano lungo un certo arco di tempo e si basano sulle nostre
esperienze, ma anche sulla nostra cultura. La cosiddetta “personalità artistica”, ad esempio, è
tipicamente occidentale, mentre non esiste in oriente. Anche la lingua interviene nel definire termini
che individuano una certa personalità, producendo teorie implicite che influenzano notevolmente le
impressioni che ci creiamo a vicenda.
3. L'attribuzione causale: le risposte ai nostri perché
Sulla base del comportamento non verbale possiamo azzardare ipotesi sulla personalità di una
persona, dopodiché riempiamo i vuoti con le nostre teorie implicite. Ma questi mezzi non
garantiscono affatto l'accuratezza delle nostre valutazioni. Se vogliamo andare oltre, dobbiamo
inferire la vera natura delle persone e i motivi delle loro azioni. La teoria dell'attribuzione studia
il modo in cui rispondiamo a questa esigenza.
3.1 La natura del processo di attribuzione
La teoria di Heider raffigura le persone come “scienziati sociali” che cercano di comprendere il
comportamento degli altri assemblando varie informazioni fino ad arrivare ad una spiegazione
ragionevole.
Quando cerchiamo di decidere il perché di un determinato comportamento, possiamo compiere:
• un'attribuzione interna (relativa alla personalità, agli atteggiamenti, al carattere dell'altro)
• un'attribuzione esterna (relativa alla situazione in cui l'altro si trova)
Ovviamente la valutazione che diamo di un certo comportamento è molto influenzata dal tipo di
attribuzione.
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Heider ha anche evidenziato che in genere la preferenza viene data alle attribuzioni interne: ci
concentriamo sulle persone, piuttosto che sulle situazioni, molto spesso difficili da osservare e
descrivere.
3.2 Il modello della covariazione: attribuzioni interne vs. esterne
Kelley ha suggerito che la decisione sulle attribuzioni deriva anche da un'analisi del comportamento
degli altri in diverse situazioni temporali e spaziali. In particolare si fa attenzione a tre tipi di
informazioni:
• consenso: come si comportano altre persone rispetto al medesimo stimolo
• specificità: come si comporta l'attore rispetto ad altri stimoli
• coerenza: quante volte si ripete lo stesso comportamento rispetto al medesimo stimolo.
Quando le tre fonti di informazione si combinano in pattern caratteristici, le persone effettuano
l'attribuzione. Ad es. se consenso e specificità sono bassi, ma la coerenza alta, l'attribuzione è più
spesso interna. Se tutte e tre sono alte, l'attribuzione sarà più facilmente esterna. Se la coerenza è
bassa, c'è maggiore ambiguità, e perciò si tende a pensare che qualcosa di insolito o contingente
abbia provocato il comportamento.
Studi successivi hanno dimostrato che le informazioni di consenso sono meno importanti rispetto a
quelle di specificità e coerenza.
3.3 Il “bias” di corrispondenza: le persone come psicologi della personalità
Lo schema più diffuso sul comportamento umano è quello secondo cui sono le caratteristiche personali degli individui ad indurli a comportarsi in un certo modo, e non le situazioni in cui si
trovano. Questa tendenza è chiamata errore fondamentale di attribuzione.
Non sempre è un errore compiere un'attribuzione interna. Tuttavia numerosi studi dimostrano che le
situazioni sociali producono un forte impatto sul comportamento, che le persone di solito tendono a
sottovalutare.
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Una delle ragioni per cui si compie l'errore fondamentale di attribuzione è il fatto che di solito
disponiamo di più informazioni sulla persona piuttosto che sulla situazione in cui si trova. Inoltre le
informazioni situazionali spesso sono di difficile interpretazione.
Ciò che vediamo e sentiamo è l'individuo che ci si trova davanti, ed è proprio questa salienza
percettiva uno dei fattori che ci fa attribuire a lui la causa dei comportamenti che osserviamo. Inquesto processo entra anche l'influenza dell'euristica dell'ancoraggio e accomodamento, che ci
spinge a formulare i nostri giudizi a partire da un punto di riferimento ben visibile e concreto.
Il processo di attribuzione di solito si struttura in due fasi: dapprima le persone operano
un'attribuzione interna, quindi cercano di aggiustare l'attribuzione considerando la situazione in cui
si trova l'altro. Questo secondo stadio però, comportando un tipo di pensiero meno automatico e più
controllato, richiede maggior sforzo e attenzione, per cui in determinate circostanze (stress,
stanchezza, distrazione) le persone lo saltano a piè pari, mantenendo l'attribuzione interna anche se
è sbagliata.
In genere siamo consapevoli che anche le altre persone tendono a dare motivazioni interne ai nostri
comportamenti. Siamo anche però convinti che le nostre azioni suscitino molta più attenzione di
quanto in realtà avvenga. Questo fenomeno viene definito effetto riflettore. La conseguenza è che
spesso le persone si sentono in imbarazzo o difficoltà molto più di quanto la situazione
richiederebbe. In realtà, gli altri ci giudicano meno severamente di quanto crediamo, in quanto
provano empatia per noi. Ma tale empatia viene da noi sottovalutata.
Così, sebbene siamo noi, e non i fattori situazionali, a risultare salienti per gli osservatori, è anche
vero che non siamo così salienti come crediamo (e temiamo).
3.4 La differenza tra attore e osservatore
L'errore fondamentale di attribuzione non si applica alle attribuzioni che compiamo su noi stessi
nella stessa misura in cui è applicabile alle altre persone. Per spiegare il nostro comportamento,spesso ci affidiamo ad attribuzioni situazionali. Questo naturalmente provoca divergenze di
valutazione con le altre persone. E' questa la differenza tra attore e osservatore.
Una delle spiegazioni si rifà alla salienza percettiva: le attribuzioni vengono guidate da ciò che
vediamo e sentiamo: l'attore per l'osservatore, la situazione per l'attore.
Inoltre, gli attori dispongono ovviamente di maggiori informazioni situazionali su sé stessi rispettoagli osservatori, soprattutto in termini di coerenza e specificità.
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3.5 Le attribuzioni a proprio favore
Quando l'autostima è minacciata, si compiono delle attribuzioni a proprio favore, ovvero si
attribuiscono i successi al proprio valore personale, e i fallimenti a fattori situazionali. Le persone
infatti tendono il più possibile a mantenere la propria autostima, anche a costo di distorcere la realtà
modificando una cognizione. Un'altra possibile ragione si basa sull'esigenza di presentarsi bene agli
altri.
Esistono poi le attribuzioni difensive, che si verificano quando entra in gioco la consapevolezza di
poter essere oggetto di eventi tragici o luttuosi. Una forma di attribuzione difensiva è l'ottimismo
irrealistico: le persone tendono a pensare ad un futuro luminoso più probabile per loro rispetto agli
altri.
Un altro modo per affrontare gli aspetti spiacevoli dell'esperienza umana è credere che certe cose a
noi non potranno mai capitare a noi, ma solo a persone malvagie. Questa viene definita credenza in
un mondo giusto, e a volte produce conseguenze tragiche (vedi le vittime di stupro).
4. La cultura e le attribuzioni
Sono stati effettuati diversi studi per stabilire se i “biases” attribuzionali siano tipici di determinate
culture oppure si possano considerare universali. In fondo la cultura può essere considerato il
“fattore situazionale di base”, quello che ci condiziona fin dalla nascita.
4.1 cultura e “bias” di corrispondenza
Gli studi hanno dimostrato che le persone appartenenti a culture individualiste (ad es. USA e
occidente in genere) sembrano preferire le attribuzioni disposizionali, mentre gli appartenenti a
culture che pongono in risalto l'appartenenza di gruppo e l'interdipendenza (soprattutto
orientali) tendono a fare attribuzioni situazionali.
In realtà anche i membri di culture collettiviste fanno attribuzioni disposizionali, ma sono
maggiormente predisposti a considerare i fattori situazionali. Essi quindi sono in grado con più
probabilità di combattere l'errore fondamentale di attribuzione, che comunque è presenteuniversalmente.
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4.2 La cultura e altri “biases” attribuzionali
Per ciò che riguarda la differenza attore/osservatore, l'appartenenza culturale non sembra influire
più di tanto. Verso sé stessi, tutti tendono a fare attribuzioni situazionali, mentre verso gli altri letendenze divergono.
I fattori culturali influiscono notevolmente invece nelle autovalutazioni, per cui il successo
nelle culture collettiviste viene spesso attribuito al gruppo, e il fallimento ai singoli, all'opposto che
nelle culture occidentali individualiste.
La credenza nel mondo giusto, dato che tende a giustificare le iniquità economiche e sociali, sononotevolmente più diffuse nelle culture in cui esistono grandi divari tra ricchezza e povertà.
5. Qual'è la precisione delle nostre attribuzioni e impressioni?
La capacità di comprendere il comportamento degli altri è fondamentale soprattutto per essere
preparati al futuro.
In realtà vi sono molte circostanze in cui non riusciamo ad essere precisi, soprattutto se le
paragoniamo al grado di accuratezza che pensiamo di avere.
L'errore fondamentale di attribuzione è la prima causa di problemi. E' importante quindi considerare
il grande potere delle situazioni, che a volte sono in grado di travolgere le disposizioni delle
persone.
Anche l'uso degli schemi, come le teorie implicite di personalità, è fonte di errori. Questo perché le
teorie spesso sono frutto di stereotipi.
E' fondamentale quindi saper reagire a tutti questi condizionamenti.
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Capitolo 4 – La conoscenza di sé: come arriviamo a comprendere noi stessi
1. La natura del sé
Il sé è composto in primo luogo dai nostri pensieri e credenze su noi stessi (concetto di sé). In
secondo luogo, il sé è anche un attivo elaboratore di informazioni (consapevolezza o coscienza).
Questi due processi psicologici si combinano insieme per creare un senso coerente di identità.
Possiamo avere diversi “Sè” che si sviluppano in risposta alle diverse situazioni sociali.
Il senso del “Sé” è praticamente assente negli animali, eccetto che nelle scimmie superiori. Nei
bambini si sviluppa intorno ai due anni, anche se per avere una definizione complessa e poliedrica
del sé si deve raggiungere l'età adulta.
1.1 Le funzioni del sé
Il sé svolge essenzialmente due funzioni:
• organizzativa: esistono degli schemi del sé, delle strutture mentali che ci aiutano ad
organizzare la conoscenza di noi stessi;
• esecutiva: il sé regola il comportamento, le scelte e i progetti futuri delle persone. Ad
esempio il sé ha il compito di progettare a lungo termine, e di esercitare il controllo sulle
azioni. Questo tipo di autoregolazione impiega molte energie mentali. Questo spiega perché,
ad esempio, spesso non riusciamo ad autocontrollarci in situazioni di stress.
1.2 Differenze culturali nella definizione di sé
Nelle culture occidentali, molti hanno una visione di sé indipendente, che esalta l'individualismo.
In quelle orientali è più frequente la visione di sé interdipendente, che esalta l'associazione con le
altre persone.
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Naturalmente esistono eccezioni in entrambi i casi, che probabilmente aumenteranno con il crescere
dei contatti fra le culture. Ma per ora le differenze del concetto di sé sono importanti, e a volte
comportano notevoli conseguenze sulla comunicazione.
1.3 Differenze di genere nella definizione di sé
Al di là degli stereotipi, le donne sono più interdipendenti relazionali, ovvero si focalizzano sulle
relazioni intime, mentre gli uomini hanno una maggiore interdipendenza collettiva, ovvero si
concentrano sulla loro appartenenza a grandi gruppi.
2. Conoscere noi stessi attraverso l'introspezione
L'introspezione consiste nel guardarsi dentro ed esaminare quelle informazioni che solo noi
abbiamo circa i nostri pensieri, sentimenti e motivazioni.
2.1 Focalizzarsi sul sé: la teoria della consapevolezza di sé
L'introspezione compare in alcune circostanze, ma non è un'attività cognitiva frequente. I nostri
pensieri si concentrano di più sugli eventi, le persone e le conversazioni della vita quotidiana.
Secondo la teoria della consapevolezza di sé, quando ci focalizziamo su noi stessi valutiamo e
confrontiamo il nostro comportamento presente rispetto ai valori e alle regole interne. Diventiamo
osservatori giudicanti di noi stessi.
Non sempre l'autofocalizzazione è un procedimento piacevole: se possiamo cambiare il nostro
comportamento per conformarlo ai nostri principi interni, allora va bene. Ma se sentiamo di non
poterlo fare, allora la cosa risulterà sgradevole, e ci spingerà a non compiere l'autoesame.
Molti comportamenti autodistruttivi come l'alcolismo, i disturbi alimentari e il suicidio sono forme
di fuga da se stessi. Ma anche molte forme di espressione religiosa e spiritualità sono mezzi efficaci
per evitare l'attenzione su di sé.
2.2 Giudicare il perché ci sentiamo come ci sentiamo: dire di più di quanto sappiamo
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Molti dei nostri processi mentali di base avvengono al di fuori della coscienza. Noi siamo coscienti
dei risultati finali, ma non dei processi cognitivi che hanno portato a quei risultati. Ciò nonostante,
l'introspezione ci può convincere della nostra capacità di saper spiegare le nostre sensazioni.
Le persone infatti possiedono molte teorie su cosa influenza il loro comportamento e i sentimenti
(teorie causali), e le usano per spiegarsi perché si sentono in un certo modo. Queste teorie molto
spesso vengono dalla cultura in cui siamo cresciuti, e volte non sono corrette, per cui possono
portare a conclusioni errate sulle cause del nostro comportamento.
2.3 Le conseguenze del riflettere sulle ragioni
Non solo è difficile capire le nostre ragioni tramite l'introspezione, ma a volte potrebbe essere anche
negativo. Molto spesso le persone, credendo di aver compreso le ragioni di determinati sentimenti o
azioni, tendono a cambiare il proprio comportamento basandosi su queste ragioni, anche se sono
fondamentalmente errate.
3. Conoscere noi stessi attraverso l'osservazione dei nostri comportamenti
Un altro modo di conoscere se stessi è quella di osservare i propri comportamenti. Secondo la teoria
dell'autopercezione di Bem, quando i nostri sentimenti sono ambigui e incerti, li inferiamo
osservando i nostri comportamenti e la situazione in cui ci troviamo. E il modo in cui lo facciamo
riflette i principi della teoria dell'attribuzione.
3.1 La motivazione intrinseca vs. estrinseca
Indurre qualcuno ad un certo comportamento con l'uso di ricompense può portare talvolta a
conseguenze inattese. Chi segue una certa attività con interesse ha di solito una motivazione
intrinseca a farlo, non dipendente da ricompense o sollecitazioni. Se si aggiungono queste ultime
(motivazioni estrinseche), l'attività perde le sue caratteristiche di spontaneità per trasformarsi in
qualcos'altro (un lavoro, ad es.). In queste condizioni gli individui perdono interesse per l'attività
stessa. Questo si chiama effetto di sovragiustificazione: le persone sopravvalutano l'influenza delle
cause esterne sul loro comportamento, e sottostimano il loro interesse intrinseco.
Per evitare questo effetto una possibile soluzione è quella di dare ricompense non semplicemente
per il fatto di svolgere un'attività (ricompensa contingente al compito), ma per il fatto di averla
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svolta bene (ricompensa contingente alla prestazione), possibilmente però senza provocare stress da
valutazione.
3.2 Comprendere le nostre emozioni: la teoria bifattoriale delle emozioni
Secondo la teoria delle emozioni di Schachter, inferiamo le nostre emozioni osservando il nostro
comportamento interno, ovvero il grado di eccitazione fisiologica che avvertiamo. Prima
avvertiamo l'eccitazione, poi dobbiamo cercarne una spiegazione adeguata, traendo informazioni
dalla situazione in cui ci troviamo.
Una delle implicazioni di questa teoria è che le emozioni delle persone sono in arte arbitrarie, perché dipendono da quella che sembra la spiegazione più plausibile della propria eccitazione.
3.3 Trovare la causa sbagliata: l'attribuzione errata di eccitazione
Numerosi studi hanno dimostrato che, anche nella vita quotidiana, spesso si verifica l'attribuzione
errata di eccitazione.
3.4 L'interpretazione del mondo sociale: le teorie delle emozioni come valutazioni cognitive
Le nostre emozioni non sono determinate soltanto dalla spiegazione che attribuiamo alla nostra
eccitazione, ma anche dall'interpretazione della situazione compiuta in assenza di eccitazione. La
teoria delle emozioni come valutazioni cognitive sostiene che le nostre emozioni derivano anche
dal fatto che valutiamo un certo evento come positivo o negativo per noi stessi. La differenza traquesta teoria e quella di Schachter riguarda il ruolo dell'eccitazione. Nella teoria delle valutazioni
cognitive, sono queste ultime a determinare l'eccitazione, mentre nella prima l'eccitazione è l'evento
scatenante.
Entrambe le teorie comunque concordano sul fatto che impariamo a conoscerci mediante
l'osservazione degli eventi, incluso il nostro comportamento, e il tentativo di spiegarli.
4. Usare le altre persone per conoscere noi stessi
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Il concetto di sé non si sviluppa in un contesto solitario, ma é modellato dalle persone che ci
circondano. Il contatto sociale è fondamentale.
4.1 Conoscere noi stessi attraverso il confronto sociale
La teoria del confronto sociale di Festinger verte su due importanti questioni:
• quando procediamo al confronto sociale: evidentemente quando ci mancano dati oggettivi
con cui poterci misurare e siamo in una situazione di incertezza;
• con chi scegliamo di farlo: in un prima fase con chiunque, in seguito ci si confronta con chi
è simile a noi in una dimensione o attributo considerato importante.
Ci confrontiamo socialmente verso l'alto solo per stabilire il criterio d'eccellenza. Ci confrontiamo
invece verso il basso quando abbiamo il bisogno di sostenere il nostro Io.
4.2 Conoscere noi stessi attraverso gli occhi degli altri
Spesso le altre persone osservano la nostra personalità e le nostre emozioni in modo diverso da noi.
E a volte sono in grado di fare valutazioni migliori. Questo perché spesso gli individui possono non
voler riconoscere i propri tratti negativi, e quindi formulano previsioni errate sul proprio
comportamento. Inoltre gran parte del nostro pensiero riguardo al mondo opera in maniera
automatica e inconscia, per cui gli altri sono in grado di valutarlo meglio rispetto a noi stessi.
5. La gestione delle impressioni
Dopo essere giunti a conoscere noi stessi, la natura sociale ci spinge a impiegare questa conoscenza
per presentarci agli altri. E possiamo presentarci per quello che siamo o per quello che vogliamo
che gli altri credano che siamo. In quest'ultimo caso ricorriamo alla gestione delle impressioni,
ovvero alla preparazione più o meno consapevole di una presentazione del Sé.
Una delle strategie di presentazione è l'ingraziamento, ovvero quando lusinghiamo, lodiamo e cirendiamo graditi ad una persona, di solito di status sociale superiore.
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Un'altra strategia è quella del “self-handicapping”. In questo caso le persone creano degli ostacoli
e delle scuse verso se stesse per giustificare le ragioni del proprio fallimento. A volte questa
strategia porta a delle autolimitazioni che possono impedire di portare a termine il compito.
Le diverse culture impiegano diversamente la gestione delle impressioni. Nelle culture orientali,
legate all'interdipendenza, evitare l'imbarazzo pubblico ha un ruolo fondamentale. Ma anche in
occidente si ricorre spesso a gestioni esagerate, pur di influenzare la percezione che di noi hanno gli
altri.
Capitolo 5 – Il bisogno di giustificare le nostre azioni
Una delle più potenti cause che determinano il comportamento umano deriva dal nostro bisogno di
preservare un'immagine di sé stabile e positiva. Abbiamo bisogno di credere di essere persone
ragionevoli e rispettabili che prendono le giuste decisioni e non si comportano in maniera immorale.
Ma non sempre è facile conservare questa credenza.
1. La teoria della dissonanza cognitiva
Alla sensazione di malessere provocata da informazioni che risultino discrepanti con il concetto di
noi stessi come esseri ragionevoli e intelligenti si è dato il nome di dissonanza cognitiva.
La dissonanza cognitiva spinge l'individuo a cercare di attenuare il malessere che essa stessa hacreato, come la fame o la sete. Ogni individuo dispone di tre modi fondamentali per ridurre la
dissonanza:
1. cambiare il comportamento fino a farlo accordare con la cognizione dissonante
2. cercare di giustificare il proprio comportamento modificando una delle cognizioni
3. cercare di giustificare il comportamento mediante l'aggiunta di nuove cognizioni
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1.2 Comportamento razionale e comportamento razionalizzante
Il bisogno di preservare la stima di sé produce un pensiero che non sempre è razionale, ma piuttostorazionalizzante. Le persone che sono impegnate a ridurre la dissonanza sono così prese dal
convincersi di avere sempre ragione che spesso si comportano in maniera irrazionale e inadeguata.
Gli argomenti insulsi a favore della nostra posizione, così come gli argomenti validi a favore di
quella degli altri, generano dissonanza, e quindi in preferibilmente vengono ignorati.
In generale gli esseri umani non elaborano le informazioni in maniera non condizionata. Piuttosto le
distorcono per adattarle alle loro nozioni preconcette.
1.3 Decisioni, decisioni e ancora decisioni
Ogni volta che prendiamo una decisione importante (ovvero impegnativa, difficile da modificare,
che può provocare danni ad altre persone) avvertiamo dissonanza. Questo fenomeno viene chiamato
dissonanza postdecisionale.
Per ridurre la dissonanza, gli individui modificano le loro sensazioni rispetto agli oggetti scelti,
divaricandoli mentalmente in modo da potersi sentire bene in merito alla scelta operata. In altre
parole, cambiamo il modo in cui ci sentiamo rispetto alle alternative scelte (sopravvalutandole) o
non scelte (sminuendole).
Più la decisione è importante, maggiore è la dissonanza. E quanto più permanente e irrevocabile è la
decisione, tanto più forte è il bisogno di ridurre la dissonanza. Per questo i venditori hannosviluppato tecniche che creano nel cliente l'illusione della irrevocabilità (ad es. la “tecnica del colpo
basso”), aumentando così la probabilità di acquisto.
Spesso le nostre decisioni implicano questioni etiche. E la riduzione della dissonanza conseguente
ad una grave decisione morale può influenzare le persone a comportarsi in maniera più o meno etica
nel futuro.
Chi compie un'azione che va contro i propri principi morali, a seguito di questa decisione si troverà
a considerare meno grave quell'azione, nel tentativo di ridurre la dissonanza. Se invece lo stesso
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individuo resiste alla tentazione, in seguito giudicherà in maniera più rigorosa la gravità di quella
stessa azione. In pratica l'esito non sarà semplicemente una razionalizzazione del comportamento,
ma un vero e proprio cambiamento del sistema di valori. E ciò avviene anche se le persone hanno
un atteggiamento di partenza identico verso l'azione immorale.
1.4 La giustificazione degli sforzi
La maggior parte di noi compie numerosi sforzi per ottenere qualcosa che desidera realmente. A
posteriori, possiamo accorgerci che il traguardo raggiunto non giustifica gli sforzi fatti. A questo
punto, per ridurre la dissonanza, ci sono due possibilità:
• rivedere il proprio concetto di sé: in realtà non accade quasi mai
• ripensare a ciò che si è raggiunto e trovarne nonostante tutto i lati positivi (anche se nonesistono!)
Questo meccanismo fa sì che, più è faticoso e doloroso raggiungere un certo risultato, più quel
risultato ci apparirà in modo positivo, anche al di là delle sue qualità intrinseche.
1.5 La psicologia della giustificazione insufficiente
Vi sono delle situazioni in cui la maggior parte delle persone pensa che vi siano buone ragioni per
non essere sinceri. Una di queste è la necessità di essere gentili, ovvero di non ferire la sensibilità
delle persone a cui teniamo. Questa è una valida giustificazione esterna.
In casi invece in cui la giustificazione esterna è poco importante o difficile da trovare, le persone
cercano di trovare una giustificazione interna, avvicinando tra loro le due cognizioni delcomportamento e dell'atteggiamento. In pratica finiscono per convincersi della bugia che dicono.
Questo fenomeno viene chiamato “counterattitudinal advocacy”.
La cosa interessante di questo meccanismo è che si presenta anche per atteggiamenti che riguardano
questioni importanti.
1.6 “Counterattitudinal advocacy”, relazioni etniche e prevenzione dell'AIDS
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In alcuni esperimenti condotti negli USA, il meccanismo della “counterattitudinal advocacy” è stato
usato, con risultati positivi, per modificare gli atteggiamenti degli studenti universitari verso i
rapporti interetnici e la prevenzione dell'AIDS. Alcuni studenti vennero messi nelle condizioni di
proporre messaggi favorevoli a questi atteggiamenti, rivolti ai loro compagni. La situazione di
ipocrisia che si venne a creare fece sì che, per ridurre la dissonanza, questi studenti cominciarono a
mettere in pratica ciò che avevano comunicato nei messaggi.
Tutte le società si reggono in parte sul concetto di pena o della sua minaccia. Ogni membro della
società si trova continuamente in situazioni in cui è minacciato di essere punito dai tutori dell'ordine
se non rispetta le regole. Tuttavia, l'efficacia di una pena pesante non ha valore preventivo, ma è
solo legata alla presenza di una continua vigilanza.
In realtà, proprio a causa dei meccanismi sopra evidenziati, la presenza di una pena pesante è unaforte giustificazione esterna che può paradossalmente aiutare a ridurre la dissonanza dovuta ad un
comportamento fuori dalle regole. La presenza di una pena più lieve invece produce minore
riduzione della dissonanza, e porta il soggetto a crearsi una giustificazione interna al
comportamento corretto, che lo aiuterà a interiorizzare quel comportamento. Ciò è fondamentale
per aiutare ad es. i bambini a costruirsi un modello di valori permanente.
Questo meccanismo, che dall'autogiustificazione porta all'autopersuasione, è stato reso evidente
in numerosi esperimenti, che hanno coinvolto anche bambini molto piccoli.
L'autopersuasione ha tra l'altro effetti permanenti, a differenza dei tentativi diretti di persuasione
che fanno uso di pressioni e convincimenti esterni. Questo proprio perché fa leva su motivazioni
interne.
In conclusione, una ricompensa o una punizione pesante sono modi efficaci di fornire
giustificazione esterna ad un'azione. Di conseguenza, rappresentano una strategia efficace per far sìche una persona faccia una cosa in una determinata situazione, limitata nel tempo.
Ma se vogliamo che quella persona sviluppi un atteggiamento radicato, minore sarà la ricompensa o
la pena, maggiore sarà il cambiamento di atteggiamento e perciò la permanenza dell'effetto.
Le pene o le ricompense severe incoraggiano la condiscendenza, ma impediscono la reale
modifica dell'atteggiamento.
1.7 Le conseguenze negative delle azioni buone o cattive
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Cosa succede quando facciamo un favore a qualcuno? La teoria della dissonanza prevede che
tenderemo a gradirla di più dopo che le abbiamo fatto un favore.
La stessa cosa succede quando trattiamo male qualcuno: tenderemo a considerarlo meno di quantovale in realtà.
Questo meccanismo è capace di produrre tragiche conseguenze. Per esempio spiega come in guerra
i soldati possano riuscire a compiere atti orribili e crudeli: svalutando le proprie vittime a livello di
non umani, di esseri inferiori. La dissonanza creata dal compiere violenza contro civili indifesi
viene compensata da questa distorsione. E il fenomeno è in grado di riprodursi a catena, per cui le
atrocità che le persone sono disposte a commettere si accresceranno sempre più attraverso una
catena infinita di violenze seguite da autogiustificazione, a cui fanno seguito violenze maggiori e
una disumanizzazione ancora più intensa.
1.8 Cultura e dissonanza
Nelle società meno individualiste, il comportamento di riduzione della dissonanza è meno
importante rispetto a quello che favorisce l'armonia del gruppo. Alcuni studi hanno però dimostrato
che l'atteggiamento di riduzione della dissonanza in queste società assume un carattere“comunitario”: ovvero, gli individui adeguano i loro giudizi con quelli degli altri che hanno un
valore all'interno del gruppo di riferimento.
2. Nuove linee di ricerca sulla giustificazione di sé
Ciò che in realtà scatena il cambiamento di atteggiamento e la distorsione cognitiva che può
verificarsi nel processo di riduzione della dissonanza è il bisogno di preservare la propriaimmagine. In tempi recenti gli psicologi sociali hanno analizzato in maggiore profondità e in
contesti nuovi la premessa fondamentale di questo bisogno.
2.1 La teoria della discrepanza del sé
In accordo con la teoria della discrepanza del sé (Higgins), gli individui avvertono la motivazione
a preservare un senso di coerenza tra le loro varie credenze e percezioni rispetto al concetto di sé.
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In particolare, tali criteri trovano migliore riflesso nelle credenze che abbiamo sul genere di persona
che aspiriamo ad essere – il sé ideale – e il tipo di persona che crediamo di dover essere – il sé
imperativo. Paragonare il nostro sé reale con il sé ideale e imperativo ci fornisce un importante
strumento di valutazione del sé.
Quando ci rendiamo conto che non siamo riusciti a rispettare i nostri criteri, mettiamo in campo
strategie che ci permettano di rimediare al disagio psicologico e di riportare l'armonia tra le nostre
credenze su noi stessi, ovvero tra il sé reale e le nostre aspirazioni.
Quando le persone avvertono una discrepanza tra il proprio sé ideale e quello reale, tendono a
sviluppare emozioni negative collegate alla depressione. Se invece la discrepanza è tra sé reale e
imperativo, si genera un pattern di emozioni che comprende paura, preoccupazione e altre legate
all'ansia.
2.2 La teoria del mantenimento dell'immagine di sé
Non solo il nostro stesso comportamento, ma anche quello degli altri può minacciare il nostro
concetto di sé, secondo modi che possono influire pesantemente sulle relazioni interpersonali.
Secondo la teoria del mantenimento della valutazione di sé (Tesser), esistono tre importanti
indici di dissonanza nelle relazioni interpersonali:
• come svolgiamo un compito rispetto ad un'altra persona
• il livello di vicinanza ad essa
• quanto è pertinente il compito rispetto alla definizione di noi stessi
Questa dissonanza si può ridurre con diversi tipi di strategie:
• allontanarci dalla persona che ci ha superato
• modificare il grado di pertinenza del compito alla nostra definizione di sé
• cercare di modificare il confronto tra la nostra performance e quella dell'altro (diventare più
bravi)
La teoria ci indica che se le persone non giudicano il compito particolarmente rilevante per loro
stesse, desidereranno che i loro amici abbiano successo, per poter brillare di luce riflessa. Ma seinvece il compito è rilevante per la propria autostima, si tenderà a mettere i bastoni fra le ruote
anche agli amici.
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Studi hanno dimostrato che ciò accade frequentemente, anche all'interno dei rapporti famigliari
(padri-figli, fratelli, ecc.)
2.3 La teoria dell'affermazione del sé
Spesso accade che le consuete strategie di riduzione della dissonanza non funzionano, e il tentativo
di allontanare le minacce dal proprio concetto di sé non va a buon fine, in quanto le minacce sono
troppo forti e difficili.
In questi casi, la teoria dell'affermazione del sé afferma che le persone riducono la dissonanza
affermano la competenza in un settore diverso. Cercheranno cioè di richiamare qualche aspetto
non pertinente del concetto di sé che tengono in gran conto, per potersi sentire a posto nonostante
qualche azione insulsa o immorale appena compiuta.
3. Il ruolo delle credenze negative su sé stessi
La ricerca che si è focalizzata sull'autostima ha rilevato che, in alcuni casi, i soggetti con un
concetto di sé negativo non seguono i comportamenti di giustificazione del sé che caratterizzano le
persone con un'alta autostima.
Vi sarebbe quindi una tendenza a preservare le credenze su noi stessi, anche quando queste sono
negative. Questo è quanto afferma la teoria della verifica del sé (Swann). Come per la teoria della
dissonanza, questa teoria afferma che quando la visione di noi stessi viene confutata, ne segue
confusione e stordimento. Inoltre, l'interazione con persone che hanno una visione di noi diversadalla nostra può risultare fonte di imbarazzo. Quindi, quando soggetti con una visione di sé negativa
ricevono un feedback positivo, si trovano di fronte a due bisogni opposti: sentirsi a posto con sé
stessi credendo nel feedback positivo, oppure preservare una visione stabile e coerente di sé stessi
ed evitare l'imbarazzo di essere smascherati. In generale risulta vincente quest'ultima tendenza.
4. La dissonanza: imparare dai nostri errori
La tendenza a giustificare il nostro comportamento, anche se ci serve a difendere la nostra stabilità e
a mantenere l'autostima, può produrre conseguenze disastrose. Facilmente infatti cadiamo nella
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trappola della razionalizzazione, perdendoci in un labirinto di distorsioni che ci impediscono di
vedere la realtà.
Se le persone non imparassero dai loro sbagli, non riuscirebbero a superare la ristrettezza delle loromenti, a crescere e cambiare. E il processo di conservazione del sé spesso non solo impedisce di
considerare sbagliate le proprie azioni, ma addirittura consente di ridefinirle come eroiche, con
tragiche conseguenze.
PARTE SECONDA – INFLUENZA SOCIALE
Capitolo 6 – Gli atteggiamenti
Un atteggiamento è un giudizio permanente su persone, oggetti e idee. E' costituito da tre
componenti:
1. affettiva (le reazioni emotive)
2. cognitiva (pensieri e credenze)
3. comportamentale (azioni e comportamenti osservabili)
1.1 Le diverse origini degli atteggiamenti
Ogni atteggiamento può essere più o meno incentrato su ciascuna delle componenti che lo formano.Se la base dell’atteggiamento è una valutazione delle ricompense e dei vantaggi che l’oggetto
comporta, allora si parla di atteggiamento a base cognitiva. Un atteggiamento invece fondato più
sulle emozioni e sui valori viene detto atteggiamento a base emotiva. In questo caso la fonte
dell’atteggiamento, più che sull’analisi logica dei fatti, sono i valori delle persone, ovvero le loro
credenze religiose o morali.
Un’altra fonte di atteggiamenti a base emotiva è il condizionamento, che può essere classico
(stimolo neutro ripetuto insieme ad uno stimolo primario, che con il tempo si sostituisce allo
stimolo primario) oppure operante o strumentale (meccanismo conferma-punizione).
Tentare di modificare questi atteggiamenti è difficile, in quanto chiamano in causa i valori e non
sono retti dalla logica e dall’analisi razionale.
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Un atteggiamento infine può anche essere a base comportamentale: secondo la teoria
dell’autopercezione, in determinate circostanze le persone non sanno quali sono le loro emozioni
finché non vedono come si comportano. Naturalmente ciò si verifica solo quando l’atteggiamento
iniziale è debole o ambiguo, e in mancanza di altre spiegazioni plausibili al comportamento.
1.2 Atteggiamenti impliciti ed espliciti
L’atteggiamento può esistere a due livelli:
• espliciti: sono gli atteggiamenti di cui siamo coscienti, e che esprimiamo anche
pubblicamente
• impliciti: sono valutazioni involontarie, incontrollabili e a volte inconsce.
Le persone a volte possono avere atteggiamenti impliciti che almeno parzialmente contraddicono
quelli espliciti. La ricerca in questo campo è appena agli inizi.
2. Il cambiamento di atteggiamento
L’atteggiamento spesso si modifica in risposta ad un’influenza sociale. La comunicazione
pubblicitaria ad esempio si basa proprio sull’idea che il nostro atteggiamento verso i prodotti possa
essere influenzato.
2.1 Cambiare gli atteggiamenti modificando il comportamento: una rivisitazione della teoria della
dissonanza cognitiva.
Secondo la teoria della dissonanza cognitiva, le persone modificano il proprio comportamento se
vedono che questo è incoerente rispetto ai loro atteggiamenti, e non riescono a trovare una
spiegazione esterna. Il fenomeno della counterattitudinal advocacy ci ha fatto capire che quando
si tiene un comportamento pubblico in conflitto con i propri atteggiamenti privati, senza o con
scarsa giustificazione esterna, ne segue un cambiamento proprio di questi atteggiamenti, nella
direzione dell’affermazione fatta pubblicamente.
Le tecniche di dissonanza sono però difficili da applicare su larga scala. Si ricorre quindi allacomunicazione persuasiva.
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2.2 La comunicazione persuasiva e il cambiamento di atteggiamento
Studi importanti sulla comunicazione persuasiva vennero effettuati dalla scuola di Yale negli anni
40-50. Essi focalizzarono l’attenzione su tre fattori:
- la fonte della comunicazione (in che misura chi parla sembra esperto o attraente)
- la comunicazione stessa (la qualità del ragionamento, la presenza di entrambi i punti di vista)
- la natura del pubblico (quali appelli funzionano con pubblici avversi o amici)
Le informazioni raccolte hanno permesso di individuare l’influenza di ciascuno di questi fattori, ma
non hanno evidenziato la preminenza di uno rispetto agli altri.
In seguito sono state elaborate alcune importanti teorie della comunicazione persuasiva: il modello
della probabilità di elaborazione (Petty e Cacioppo) e il modello della persuasione euristico-
sistematico (Chaiken).
Entrambe le teorie affermano che, in determinate condizioni, i fatti esposti nella comunicazione e la
loro forza logica sono importanti: questa è la via centrale della persuasione. In altre condizioni,
invece, le persone non sono motivate a cogliere i fatti, ma piuttosto gli aspetti superficiali del
discorso, e le caratteristiche di chi lo pronuncia: questa è la via periferica della persuasione.
In sostanza, se le persone sono interessate all’argomento prestano attenzione ai ragionamenti, ed è
più probabile che seguano la via centrale. E naturalmente, tanto più una questione ha rilevanza
personale, tanto più le persone saranno disposte a seguire i ragionamenti.
Quando invece la questione ha scarsa rilevanza per le persone, entra in gioco la via periferica, e
fattori quali la lunghezza del discorso o il prestigio di chi parla.
Inoltre, ci sono persone che hanno una maggiore predisposizione al ragionamento rispetto agli altri
(bisogni di cognizione), e che quindi indipendentemente da altre condizioni seguiranno la via
centrale.
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Naturalmente hanno la loro influenza anche altri fattori, quali la stanchezza, la distrazione, la
complessità del discorso, tutte cose che favoriscono la via periferica.
La differenza tra le due vie della comunicazione persuasiva sta negli effetti: un cambiamento diatteggiamento provocato da un’analisi dei ragionamenti ha più probabilità di mantenersi nel tempo
rispetto ad uno provocato dai meccanismi periferici.
2.3 Le emozioni e il cambiamento di atteggiamento
Prima che le persone prendano in considerazione i nostri ragionamenti, dobbiamo ottenere la loro
attenzione. E uno dei metodi più sicuri è quello di far leva sulle emozioni.
Occorre però saper dosare con cura il contenuto emotivo, per evitare che produca un’attenuazione
della capacità di ragionare sui contenuti della comunicazione. Se le persone si sentono terrorizzate,
ad esempio, finiranno per negare la minaccia e non riusciranno a pensare razionalmente al
problema. E’ importante quindi far seguire all’impatto emotivo un’informazione tempestiva che
permetta di rassicurare l’interlocutore.
Secondo il modello della persuasione euristico-sistematico, quando le persone adottano la via
periferica della persuasione impiegano spesso una forma euristica, ovvero una regola semplice per
stabilire il proprio atteggiamento, senza perdere tempo per l’analisi di ogni argomenti. Se ci
sentiamo bene, dobbiamo avere un atteggiamento positivo, e viceversa.
Il problema è che spesso non sappiamo se quel “sentirsi bene” deriva effettivamente dalla situazione
in cui ci troviamo o da qualcos’altro.
Diversi studi hanno dimostrato che un possibile approccio al problema del cambiamento degli
atteggiamenti è quello di controbattere gli atteggiamenti precostituiti con altri dello stesso tipo (a
base cognitiva, affettiva o comportamentale).
Le persone di cultura occidentale fondano i loro atteggiamenti più sulle preoccupazioni per
l’individualità e il miglioramento di sé, mentre quelle di cultura asiatica sono più preoccupate per la
loro posizione nel gruppo sociale o nella famiglia. E infatti le comunicazioni pubblicitarie vengono
“ritagliate” appositamente in maniera diversa a seconda dei paesi in cui vengono trasmesse.
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3. Come rendere le persone resistenti al cambiamento di atteggiamento
Esistono diverse strategie che ci permettono di resistere al bombardamento dei messaggi persuasivi.
3.1 Inoculazione dell’atteggiamento
Un possibile approccio è indurre le persone a soppesare gli argomenti a favore o contro il proprio
atteggiamento prima che esso venga messo in discussione.
E’ questo infatti il motivo per cui gli atteggiamenti fondati sull’analisi razionale sono più difficili da
“smontare” rispetto a quelli raggiunti per via periferica. L’inoculazione dell’atteggiamento
consiste proprio nel somministrare alle persone una piccola dose di argomenti contrari al proprio
atteggiamento.
3.2 Resistere alla pressione dei pari
La pressione proveniente dagli amici, soprattutto nell’adolescenza, non è collegata ad una serie diargomenti logici, ma piuttosto ai valori e alle emozioni, e gioca sulla paura di essere rifiutati e sul
desiderio di libertà e indipendenza.
Una possibile controstrategia è quella di applicare la logica dell’inoculazione a tecniche
prevalentemente a base emotiva, ad es. con il “role-playing” in cui ci si esercita a sopportare e a
resistere alle pressioni.
3.3 L’effetto boomerang dei tentativi di persuasione: la teoria della reattanza
Secondo la teoria della reattanza, le persone non amano sentire minacciata la loro libertà di fare o
pensare una cosa. Divieti troppo rigorosi possono produrre una reazione di ribellione e addirittura
un aumento dell’interesse per l’attività proibita, oltre che rabbia e aggressività contro l’autore del
divieto.
4. Quando gli atteggiamenti predicono il comportamento?
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I pubblicitari fanno affidamento sul fatto che cambiare gli atteggiamenti delle persone li porterà al
comportamento desiderato (acquisto del prodotto). In realtà, la relazione tra atteggiamenti e
comportamento non è così immediata, così come hanno dimostrato numerosi studi.
Gli atteggiamenti fanno realmente prevedere il comportamento, ma solo in determinate condizioni.
Un fattore cruciale è stabilire se il comportamento che cerchiamo di prevedere è spontaneo oppure
pianificato.
4.1 Prevedere i comportamenti spontanei
Il grado in cui gli atteggiamenti fanno prevedere i comportamenti spontanei deriva da un fattore già
conosciuto: l’accessibilità. Se l’oggetto o evento è associato con forza al nostro atteggiamento
(accessibilità alta) reagiremo velocemente ad esso, mentre se l’accessibilità è bassa, la reazione
avverrà più lentamente. Di conseguenza gli atteggiamenti altamente accessibili avranno maggiore
probabilità di far prevedere i comportamenti spontanei.
4.2 Prevedere i comportamenti volontari
Se il comportamento non è spontaneo ma volontario e pianificato, l’accessibilità non è più un
fattore decisivo.
Secondo la teoria dell’azione ragionata (Fishbein e Ajzen), in presenza di un tempo sufficiente per
soppesare un comportamento futuro, il modo migliore per prevederlo è considerare l’intenzione di
agire in un certo modo.
In primo luogo, solo la presenza di atteggiamenti specifici verso un comportamento possono
permettere la previsione.
Oltre a questo, dobbiamo anche valutare le norme soggettive delle persone, ovvero le loro credenze
su come le persone care giudicheranno un loro comportamento.
Infine, le intenzioni delle persone vengono influenzate dalla facilità con cui credono di poter seguire
quel comportamento (controllo comportamentale percepito).
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5. Il potere della pubblicità
La maggior parte delle persone ritiene che la pubblicità funzioni su tutti meno che su loro stessi.
Questa convinzione è stata smentita da molti studi: la pubblicità funziona, fa vendere di più
5.1 Come funziona la pubblicità
Per progettare pubblicità efficaci, si dovrebbe considerare il tipo di atteggiamento che si vuole
modificare. Se è un atteggiamento a base emotiva, si devono contrastare emozioni con altreemozioni.
Se l'atteggiamento è a base cognitiva, ci si dovrà domandare quale rilevanza avrà la questione per la
vita quotidiana degli individui, e successivamente scegliere argomenti logici e fattuali.
Se l'atteggiamento a base cognitiva non ha rilevanza personale, può essere utile l'intervento di personaggi famosi come testimonial. In ogni caso questo tipo di atteggiamento non avrà
permanenza nel tempo, a meno che in qualche modo si renda il prodotto di rilevanza personale. In
altre parole, convincendo le persone che i loro problemi personali possono essere risolti dal
prodotto.
Molte pubblicità tendono inoltre a portare gli atteggiamenti delle persone su base emotiva,
associando al prodotto emozioni e valori importanti.
5.2 La pubblicità subliminale: una nuova forma di controllo della mente?
I messaggi subliminali sono parole o immagini che, pur non percepiti consciamente, possono
influenzare il giudizio, gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone. In USA sono stati proibiti
dalla FCC dopo gli anni 50.
Sul fenomeno ci sono giudizi contraddittori, soprattutto dovuti al fatto che gli studi non hanno
dimostrato nessuna relazioni tra messaggi subliminali e comportamento delle persone.
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In realtà, i messaggi subliminali non funzionano nella vita quotidiana, mentre producono qualche
effetto negli esperimenti di laboratorio. In ogni caso tali effetti sono limitati nel tempo e non hanno
un grande potenziale persuasivo.
5.3 Pubblicità, stereotipi culturali e comportamento sociale
In realtà, la pubblicità che percepiamo consciamente è molto più potente di qualsiasi messaggio
subliminale. Essa non si limita a influenzare il comportamento consumistico, ma veicolano
stereotipi culturali mediante le parole e le immagini, collegando in maniera subdola un prodotto a
un'immagine desiderata.
La pubblicità inoltre può rafforzare e perpetuare modi stereotipati di guardare ai gruppi sociali, o ai
ruoli sessuali.
La pubblicità non si limitano a riflettere gli stereotipi della cultura che le ha prodotte, ma
contribuiscono in modo importante a modellarli. Essa può dare un impulso importante al cosiddetto
fenomeno della minaccia dello stereotipo. Questa indica la paura, sperimentata dai membri di ungruppo, che il loro comportamento possa confermare uno stereotipo culturale. Quest'ansia può
diminuire la prestazione del bersaglio di questo stereotipo. Studi hanno dimostrato che, quando le
persone vedono pubblicità che presentano immagini stereotipiche o non stereotipiche, le loro
prestazioni variano in maniera significativa, nella direzione dello stereotipo.
Capitolo 7 – Il conformismo
1. Quando e perché insorge il conformismo
La società americana si considera come costituita da individui indipendenti, che non si fanno
condizionare, liberi da comportamenti conformisti.
In realtà, vi sono numerosi episodi storici in cui è accaduto che le persone abbiano seguito il
conformismo in maniera estrema, di solito in senso negativo. Agli psicologi sociali, però, noninteressa connotare in maniera positiva o negativa il conformismo, quanto piuttosto capire le
ragioni del comportamento conformistico.
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2. L'influenza sociale informazionale: il bisogno di sapere cosa è “giusto”.
In molte situazioni ci sentiamo insicuri su cosa fare o pensare. Non abbiamo i dati sufficienti per
fare una scelta precisa. Disponiamo però di una buona fonte di conoscenze: il comportamento degli
altri. Se ci conformiamo a questo comportamento, non lo facciamo perché siamo degli smidollati
senza fiducia in noi stessi, ma perché esso è fonte di informazioni che ci aiutano a risolvere
l'ambiguità della situazione. A ciò si è dato il nome di influenza sociale informazionale.
Una caratteristica fondamentale dell'influenza sociale informazionale è che essa può condurre alla
accettazione privata, in cui gli individui arrivano a credere alla definizione della situazione che
hanno appreso dagli altri.
Il meccanismo naturalmente si presta anche a condizionamenti, come dimostra l'espediente della
claque.
2.1 L'importanza di essere accurati
Ulteriori studi svolti sul fenomeno della influenza sociale informazionale hanno portato alla
conclusione che un fattore fondamentale è l'importanza per l'individuo della decisione da prendere.
Più è importante per noi la decisione, più facilmente faremo affidamento sulle altre persone per
avere informazioni.
Nella vita reale, il conformismo informazionale può indurre un gruppo ad adottare anche una
“strategia rischiosa”, con risultati a volte tragici.
2.2 Gli inconvenienti del conformismo informazionale
Una forma drammatica di influenza sociale informazionale si verifica in periodi di crisi, quando
l'individuo è di fronte ad una situazione pericolosa e spaventosa, alla quale non sa come reagire. Le
persone possono non avere idea di quale sia la situazione reale e di cosa si debba fare. In queste
situazioni la richiesta di informazioni è forte nei confronti degli altri. E non è detto che gli altri a cuici rivolgiamo siano più informati di noi.
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La situazione è aggravata dal fatto che, quando le persone cominciano a convincersi di una cosa,
sono pronte a reinterpretare qualsiasi fatto che potrebbe smentirle in modo da adattarlo alla propria
definizione.
Un esempio estremo di influenza sociale informazionale mal diretta è la malattia psicogena di
massa, ovvero l'insorgere di sintomi fisici simili in un gruppo di persone, senza una vera causa. Una
persona o più riferiscono dei sintomi fisici. Le persone attorno costruiscono una spiegazione
apparentemente ragionevole della loro malattia. La nuova definizione si diffonde e sempre più
persone credono di avere gli stessi sintomi. Più crescono i malati, più i sintomi e la spiegazione
diventano credibili, alimentando la psicosi.
L'aspetto più interessante delle moderne malattie psicogene di massa è il grande ruolo giocato dai
mass media nella loro diffusione. Le informazioni vengono rapidamente ed efficacemente diffuse
in tutti gli strati della popolazione.
2.3 In quali situazioni le persone si conformano all'influenza sociale informazionale?
• L'ambiguità della situazione è il primo fattore. Quanto più siamo incerti, tanto più faremo
affidamento sugli altri.
• Quando la situazione è una crisi. In questi casi non abbiamo il tempo per fermarci a pensare
alla migliore azione da seguire, e quindi è più facile che ci affidiamo al comportamento
altrui. Il problema è che spesso anche gli altri sono nel panico.
• Quando gli altri sono degli esperti. Quanto più una persona appare esperta o al corrente di
una questione, tanto più viene ritenuta affidabile come guida. Ma non sempre gli esperti
sono fonti affidabili.
2.4 Come resistere all'influenza sociale informazionale
E' possibile resistere a forme illegittime o imprecise di influenza sociale informazionale. Anche in
situazioni critiche, molti riescono ad attivare la propria razionalità ed arrivare alle informazioni
corrette.
Occorre tener presente che la decisione se adottare o meno il conformismo influenza anche il nostromodo di definire la realtà, fino a distorcerne i contorni per adattarla al comportamento conformista.
Dobbiamo quindi sempre chiederci s e le reazioni degli altri a una determinata situazione siano più
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legittime delle nostre: se hanno più conoscenze, se sono esperti, se ci sembra che imitarli vada
contro il buonsenso o il nostro codice morale. E' importante insomma avere consapevolezza
dell'esistenza dell'influenza sociale informazionale.
3. L'influenza sociale normativa: il bisogno di essere accettati
Esiste un'altra ragione, oltre al bisogno di informazioni, che ci spinge verso il conformismo solo per
il desiderio di essere graditi e accettati dagli altri. Ci conformiamo così alle norme sociali del
gruppo che sono regole che descrivono i comportamenti, i valori e le credenze accettabili. Chi non
segue le regole viene percepito come diverso, difficile e infine deviante. I membri devianti possono
essere presi in giro, puniti e respinti dagli altri.
L'essere umano è un animale sociale, che ha bisogno delle relazioni di gruppo. Ci conformiamo
quindi per poter continuare a restare nel gruppo e trarre i benefici dell'appartenenza, secondo il
principio dell'influenza sociale normativa.
3.1 Conformismo e approvazione sociale: gli studi di Asch
Asch negli anni 50 compì una famosa serie di esperimenti, in cui dimostrò che non solo le persone
si conformano alle decisioni degli altri quando la situazione è ambigua, ma anche quando il giudizio
è supportato da dati precisi, se entra in gioco la paura di non essere aderenti alle regole del gruppo.
Pur sapendo di compiere un'azione sbagliata, le persone la proseguono per non doversi sentire degli
eccentrici o degli sciocchi.
A differenza dell'influenza sociale informazionale, in questo caso le persone presentano
acquiescenza (public compliance) senza accettazione privata.
La cosa più sorprendente è che questo tipo di conformismo sembra presentarsi anche nei confronti
di gruppi di perfetti sconosciuti, che non dovrebbero presentare alcuna importanza di relazione con
l'individuo. Ma la pressione della disapprovazione sociale è comunque forte.
3.2 L’importanza della responsabilità
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Alcune ricerche mostrano che la responsabilità (cioè la necessità di spiegare e giustificare il
proprio comportamento) tende a far aumentare il conformismo. Altri studi però hanno ipotizzato
che la responsabilità sia una potente variabile che può rendere saliente qualsiasi scopo abbia una
persona all’interno del gruppo. Se siamo motivati ad essere d’accordo con il gruppo, laresponsabilità aumenterà il nostro conformismo. Ma se siamo invece motivati a raggiungere una
soluzione precisa, la responsabilità avrà meno possibilità di farci accettare le conclusioni
approssimative del gruppo.
3.3 Le conseguenze della resistenza all’influenza sociale normativa
Cosa accade se una persona rifiuta di seguire le richieste del gruppo e ne viola le norme? In un primo momento, i membri del gruppo cercheranno di ricondurre in riga l’anticonformista con
pressioni di vari genere. Se questa strategia non ha successo, probabilmente i membri del gruppo
adotteranno un atteggiamento di esclusione del “deviante”. I gruppi hanno un grande talento nel
ricondurre in riga i ribelli, il che spiega perché cerchiamo sempre di rispondere alle pressioni
normative.
3.4 L’influenza sociale normativa nella vita quotidiana
L’influenza sociale normativa opera a diversi livelli nella vita quotidiana. Un esempio sono le
mode, sia di abbigliamento che di oggetti ed attività. Una forma più preoccupante riguarda i
tentativi delle donne di conformarsi alle definizioni culturali di bellezza fisica. Questi tentativi
spesso portano a gravi disturbi alimentari, come l’anoressia o la bulimia.
3.5 L’influenza sociale e l’immagine del corpo maschile
Esistono ancora pochi studi sull’argomento, ma da questi emerge una modifica delle regole
culturali, per cui gli uomini stanno cominciando ad avvertire la medesima pressione delle donne a
raggiungere il corpo perfetto. I dati fanno pensare che l’influenza sociale informazionale e
normativa possa operare anche sugli uomini, influenzandone la percezione che hanno del grado di
attrazione del proprio corpo.
3.6 In quali casi le persone si conformano all’influenza sociale normativa?
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Secondo la teoria dell’impatto sociale (Latané) la probabilità con cui rispondiamo all’influenza
sociale proveniente dagli altri dipende da tre variabili:
• la forza, ovvero il grado di importanza che il gruppo ha per noi• l’immediatezza, ovvero il grado di vicinanza del gruppo nel tempo e nello spazio, durante il
tentativo di influenza
• il numero, cioè la quantità di persone nel gruppo
La teoria prevede che il conformismo sarà tanto più presente quanto più aumentano la forza e
l’immediatezza. Il numero invece agirebbe in maniera inversa: più cresce la dimensione del gruppo,
minore è la sua influenza.
In realtà, il conformismo cresce con l’aumentare del numero di persone del gruppo, ma solo fino a
un certo punto. Dopo le quattro o cinque persone, l’aumento di dimensione non produce aumento di
influenza.
I gruppi verso cui proviamo attrazione e con cui ci identifichiamo fortemente avranno maggiore
influenza normativa. Una conseguenza di ciò è che può essere pericoloso far assumere decisioni da
gruppi particolarmente uniti, che sono più interessati a mantenere la propria coesione piuttosto che a prendere la decisione più logica.
Infine, l’influenza sociale normativa è più forte quando il gruppo è unanime. Resistere a una simile
influenza è praticamente impossibile, a meno di trovare un alleato, un’altra persona che sia in
disaccordo con il gruppo e fornisca un aiuto per andare controcorrente.
In una metanalisi di numerose repliche dell’esperimento di Asch condotte in diciassette nazioni, iricercatori hanno verificato che i valori culturali condizionano l’influenza sociale normativa. I
soggetti delle culture collettiviste mostrarono un grado elevato di conformismo rispetto ai
partecipanti delle culture individualiste. L’influenza sociale normativa è più alta nelle culture
collettiviste perché promuove l’armonia e i legami affettivi all’interno del gruppo.
Ci sono prove che dimostrano che la tendenza al conformismo sta comunque diminuendo in tutte le
culture.
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Esistono individui che per personalità si conformano all’influenza sociale più di altri? Alcuni studi
hanno riscontrato che gli individui con bassa autostima tendono ad essere più conformisti, per la
paura di essere rifiutati o puniti dal gruppo. Tuttavia, il comportamento cambia in maniera notevole
a seconda delle situazioni, indipendentemente dalla personalità.
La differenza di genere è importante per il comportamento conformista? Al di là del luogo comune
che vuole le donne essere più conformiste degli uomini, in realtà le metanalisi hanno dimostrato che
il sesso diverso ha scarsa importanza nel fenomeno dell’influenza sociale.
3.7 Resistere all’influenza sociale normativa
Il primo passo per resistere alle influenze inadeguate è quello della consapevolezza. Il secondo è
quello dell’azione: se vogliamo resistere alle pressioni e però temiamo le conseguenze di un
comportamento anticonformista, dobbiamo cercare un altro individuo, o meglio ancora un gruppo,
che la pensa come noi.
L’atto stesso di conformarsi all’influenza normativa ci permette inoltre, quasi sempre, di deviare
occasionalmente senza conseguenze negative (fenomeno dei crediti idiosincratici).
3.8 L’influenza della minoranza: quando i pochi influenzano i molti
Se fosse vero che l’individuo non può mai produrre effetti sul gruppo, la società non potrebbe mai
cambiare, essendo costituita da automi che marciano compatti in monotona sincronia.
In realtà l’individuo, o una minoranza, può indurre un cambiamento della maggioranza. E’
questo il caso dell’influenza della minoranza. Il fattore cruciale è la coerenza: le persone che hanno
opinioni minoritarie devono mantenerle inalterate nel tempo, e devono essere concordi tra loro. In
questo caso è probabile che la maggioranza prenda nota delle opinioni diverse, fino addirittura ad
adottarle.
Le minoranze esercitano il loro potere tramite l’influenza sociale informazionale: essa introduce nel
gruppo informazioni nuove e impreviste che lo costringono a riesaminare con maggiore attenzione
la questione.
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In altre parole, le maggioranze provocano acquiescenza tramite l’influenza normativa, mentre le
minoranze inducono accettazione privata grazie all’influenza informazionale.
4. L’utilizzo dell’influenza sociale per promuovere un comportamento positivo
Esiste un modo per usare la tendenza al conformismo in modo da indurre un comportamento
positivo nelle persone? E’ essenziale a questo scopo comprendere che esistono due tipi di norme
sociali in una cultura:
• le norme ingiuntive: hanno a che fare con ciò che pensiamo che le altre persone approvino
o meno: motivano il comportamento promettendo delle ricompense o delle pene per il
comportamento normativo o non normativo
• le norme descrittive: riguardano la nostra percezione di come le persone si comportano nelmondo reale, indipendentemente dall’approvazione altrui.
Nelle diverse situazioni, le norme ingiuntive hanno maggiore capacità, rispetto a quelle descrittive,
di produrre un comportamento desiderato. Ma queste norme non sono sempre salienti per noi. Per
incoraggiare il comportamento positivo, ci deve essere qualcosa nella situazione che attrae
l’attenzione sulla norma pertinente, in modo da farci pensare ad essa.
5. L’obbedienza all’autorità
L’obbedienza è una norma sociale che ha valore in ogni cultura. Questa norma viene
interiorizzata nell’infanzia, e in seguito ci porta ad obbedire alle regole e alle leggi anche se
l’autorità non è presente fisicamente. Ma l’obbedienza può anche avere tragiche conseguenze, se ci
viene ordinato di fare del male ad un altro essere umano.
Alcuni famosi studi condotti negli anni 70 (Milgram) hanno dimostrato che le persone, se sottoposte
a forte influenza sociale, possono arrivare a compiere atti immorali.
5.1 Il ruolo dell’influenza sociale normativa nell’esperimento di Milgram
Se qualcuno ci vuole costringere a fare qualcosa, è difficile dirgli di no, soprattutto se la personaoccupa una posizione di autorità rispetto a noi. Ed è ancora più difficile resistere a una figura
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autoritaria che insiste sulla nostra obbedienza. Tuttavia, se ci sono altri soggetti che si rifiutano di
obbedire, il compito diventa molto più agevole.
5.2 Il ruolo dell’influenza sociale informazionale
Le condizioni dell’esperimento di Milgram erano volutamente ambigue, confuse e sconvolgenti. In
una tale situazione, evidente fu l’influenza sociale informazionale, che spinse i soggetti a continuare
le loro azioni affidandosi alle indicazioni dell’unico “esperto” (lo sperimentatore) presente al
momento.
5.3 Altre cause di obbedienza
Sia l’influenza sociale normativa che quella informazionale erano presenti nell’esperimento di
Milgram, ma ciò non spiega del tutto il comportamento disumano dei soggetti. Ci sono altri aspetti
da considerare.
In primo luogo, molto spesso le persone seguono una norma sociale sbagliata, innestando una sorta
di “pilota automatico”. Anche quando cominciavano a percepire che la norma dell’obbedienza
all’autorità era inadeguata, le persone trovavano difficile cambiare atteggiamento, per due ragioni:
• l’esperimento era molto rapido, e impediva ai soggetti di riflettere sulle loro azioni;
• lo sperimentatore chiedeva ai soggetti di infliggere scosse elettriche più forti a piccole dosi;
in questo modo, una volta cominciata l’escalation, era difficile trovare un punto preciso in
cui fermarsi. Ciascuna giustificazione poneva le basi per la scossa successiva.
E’ inoltre da sottolineare che alcune varianti dell’esperimento di Milgram hanno dimostrato che il
comportamento disumano dei soggetti non aveva niente a che fare con un presunto “lato
oscuro” della natura umana pronto a scatenarsi, ma soltanto con una combinazione formidabili di pressioni sociali che possono portare persone compassionevoli a comportarsi in maniera disumana.
Capitolo 8 – I processi di gruppo
I gruppi sociali sono definiti come un insieme di due o più persone che interagisconoreciprocamente e sono interdipendenti, nel senso che sono spinti dai propri bisogni e obiettivi ad
affidarsi l'un l'altro e a influenzare reciprocamente il comportamento.
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1.1 Perché le persone si riuniscono in gruppi?
Entrare in relazione con gli altri soddisfa molti bisogni umani così fondamentali da far pensare ad
un senso innato di appartenenza ad un gruppo sociale. I gruppi sono un tassello importante della
nostra identità, ci aiutano a definire chi siamo. Essi inoltre stabiliscono le norme sociali che
definiscono i comportamenti accettabili.
1.2 La natura dei gruppi sociali
La maggior parte dei gruppi sociali tende ad avere non più di venti membri, in modo da rendere
possibile l'interazione diretta tra essi.
I gruppi tendono ad essere omogenei, ovvero i membri si assomigliano per età, sesso, credenze ed
opinioni. Questo perché le persone sentono attrazione verso chi assomiglia loro, e inoltre le
modalità con cui i gruppi operano tendono a favorire questa somiglianza.
Come si è già detto a proposito del conformismo, infatti, le norme sociali dei gruppi a cuiapparteniamo sono potenti determinanti del nostro comportamento.
I gruppi possiedono inoltre dei ruoli ben definiti, le posizioni associate ad un determinato
“copione” previsto, che specificano come si devono comportare le persone che le occupano.
Sia i ruoli che le norme facilitano l'interazione di gruppo, ma hanno anche lati negativi. I ruoli sono
capaci di modellare il comportamento delle persone in modo notevole e impressionante. E
naturalmente muoversi fuori dalle aspettative di ruolo può creare grossi problemi. Vi sono precise
aspettative in ogni cultura anche legate al sesso, un ruolo che non possiamo sceglierci. In altri casiinvece possiamo scegliere le posizioni di ruolo, e a volte combattiamo per raggiungerle.
1.3 La coesione di gruppo
Con coesione di gruppo si intendono le qualità che uniscono insieme i membri di un gruppo e
incoraggiano il reciproco gradimento. Se il gruppo si forma per ragioni sociali, la coesione ne
favorisce la durata e la vitalità. Se il gruppo si forma per lavoro, le cose sono un po' più complicate,a seconda se la coesione va a favore o meno del raggiungimento della prestazione.
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2. I gruppi e il comportamento degli individui
2.1 La facilitazione sociale: quando la presenza degli altri ci dà forza
Diversi studi hanno dimostrato che, quando un compito è relativamente semplice, la prestazione
viene migliorata dalla presenza degli altri. Quando invece il compito è più difficile, la
prestazione peggiora.
Sembra che questo tipo di risultati sia dovuto alla presenza di eccitazione psicologica quando
siamo in presenza degli altri. L'eccitazione rende più facile compiere un'azione semplice o già
appresa, mentre ostacola (a causa del nervosismo) lo svolgimento di un compito complesso ol'apprendimento di una cosa nuova.
Sono state avanzate tre teorie per spiegare il ruolo dell'eccitazione nella facilitazione sociale:
• la presenza degli altri ci costringe ad essere più attenti, ci induce in uno stato di attivazione
maggiore, o vigilanza, che è causa di una lieve forma di eccitazione
• la causa dell'eccitazione può essere l'”apprensione per la valutazione”, una
preoccupazione o nervosismo che si verificano quando sappiamo che qualcuno stagiudicando la nostra prestazione (l'eccitazione quindi sarebbe provocata solo in caso di
valutazione)
• la presenza degli altri ci distrae, rendendo difficile la concentrazione su ciò che stiamo
facendo. E cercare di prestare attenzione a due cose contemporaneamente produce
eccitazione. A differenza della prima teoria, questa attribuisce gli effetti della facilitazione
sociale a qualunque fonte di distrazione, anche non sociale.
2.2 L'inerzia sociale: quando la presenza degli altri ci rilassa
Spesso, lavorando in gruppo, siamo così concentrati a collaborare ad un progetto comune, che i
nostri sforzi non possono essere distinti da quelli delle altre persone del nostro gruppo. Trovarsi con
altre persone implica cioè che possiamo mescolarci a quel gruppo e divenire meno visibili. Questo
ci farà sentire più rilassati, Ma che effetto avrà questa cosa sulla prestazione?
Gli studi hanno dimostrato che, per quanto riguarda i compiti semplici, gli individui inseriti in un
gruppo riducono il proprio sforzo rispetto a quanto farebbero da soli. Questo fenomeno vienedetto inerzia sociale.
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Al contrario, quando si tratta di svolgere un compito difficile, il rilassamento dovuto alla
“mimetizzazione” di gruppo favorisce la prestazione.
Per quanto riguarda il genere, si è rilevato che gli uomini sono più tendenti all'inerzia socialerispetto alle donne, in quanto queste ultime sono più attente ai risultati del gruppo, mentre i primi
si concentrano maggiormente sulla propria prestazione e meno sul gruppo.
Per le stesse ragioni, si è constatato che l'inerzia sociale è maggiore nelle culture individualiste
occidentali rispetto alle culture collettiviste orientali.
Da tutti questi risultati seguono importanti implicazioni per il modo migliore di organizzare i gruppidi lavoro, che tengano conto sia della semplicità o complessità del compito che della presenza o
meno della valutazione delle prestazioni dei singoli.
2.3 La deindividuazione: perdersi nella folla
Trovarsi in un gruppo può talvolta produrre anche deindividuazione, ovvero la sensazione diessere anonimi, che causa una riduzione del senso di individualità. Questo può portare ad un
allentamento dei limiti normalmente posti al comportamento, portando ad un aumento di azioni
impulsive, inconsuete e devianti. In pratica, la deindividuazione può portarci a compiere atti che
non avremmo mai compiuto da soli (vedi gli stadi di calcio).
Alcuni studi hanno dimostrato che il semplice indossare uniformi o divise che ci fanno apparire
uguali a tutti gli altri porta a farci sentire meno responsabili delle nostre azioni e più aggressivi.
La deindividuazione ha maggiori probabilità di verificarsi quando gli individui avvertono di non
essere responsabili delle loro azioni, quando cioè hanno poche possibilità di essere sorpresi, e
quando si trovano in uno stato di ridotta consapevolezza di sé, e quindi più vicini alle regole di
gruppo e meno alle proprie regole morali. Il comportamento violento e crudele si manifesta sempre
in queste condizioni. Naturalmente tutto dipende dal contesto e dalla situazione che possono o meno
incoraggiare questo tipo di comportamenti negativi.
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3. Le decisioni di gruppo: due (o più) teste sono meglio di una?
Una delle funzioni principali dei gruppi è quella di risolvere problemi e prendere decisioni. Molti
ritengono che più teste funzionino meglio di una sola. Molto spesso però non è così.
3.1 Le perdite di processo
La perdita di processo è un qualsiasi aspetto di un'interazione di gruppo che impedisce la
corretta soluzione di un problema. Può verificarsi perché il gruppo non si rivolge al proprio
membro più competente, perché quest'ultimo è in una posizione subordinata o perché egli stesso
non riesce a liberarsi dalle pressioni conformistiche. La perdita inoltre può essere causata daproblemi comunicativi all'interno del gruppo.
Un'altra ragione per cui il gruppo produce risultati più scadenti del singolo può essere la mancata
condivisione delle informazioni uniche. I gruppi spesso si concentrano sulle informazioni
condivise da tutti, piuttosto che su quelle non condivise. Uno dei possibili rimedi è quello di
informare dell'esistenza di queste informazioni tutti i membri del gruppo, prima della discussione.
Basandosi su situazioni reali, Janis ha sviluppato un'importante teoria dei processi decisionali di
gruppo, il “Groupthink ”, ovvero un genere di pensiero in cui il mantenimento della coesione e
della solidarietà all'interno del gruppo ha maggiore importanza della considerazione realistica dei
fatti.
Il groupthink si verifica con maggiore probabilità quando il gruppo è altamente coeso, isolato dalle
opinioni esterne e guidato da un leader forte.
In queste condizioni il gruppo comincia a pensare di essere invulnerabile e infallibile, gli individui
non danno voce alle proprie opinioni contrarie, chi lo fa viene subito criticato e invitato a
conformarsi. C'è la completa unanimità apparente. Ma ovviamente in questo modo i processi
decisionali diventano alquanto scadenti, e possono portare a conseguenze dannose.
Il ruolo del leader è fondamentale per evitare il groupthink: egli infatti dovrebbe rimanere
imparziale, sollecitare opinioni esterne, dividere il gruppo in sottogruppi, ecc.
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3.2 La polarizzazione di gruppo, o l'estremizzazione
Si potrebbe pensare che, per quanto in alcuni casi i gruppi prendano decisioni sbagliate, le loro
scelte siano meno rischiose di quelle fatte dai singoli. In realtà alcuni studi hanno dimostrato che ledecisioni di gruppo tendono a estremizzare quelle dei singoli, ma nella stessa direzione: se i
membri tendono a prendere decisioni rischiose, il gruppo tenderà a prendere ancora più rischi, e
viceversa. Questo fenomeno si chiama polarizzazione di gruppo. La spiegazione sta nell'uso
dell'argomentazione persuasiva che ogni membro del gruppo porta a sostegno della propria
posizione, e che non fa altro che rafforzare la convinzione degli altri.
Inoltre, secondo l'interpretazione del confronto sociale, i membri di un gruppo, una volta stabilito
qual'è l'atteggiamento generale, tendono ad adottare una posizione simile a quella degli altri, solo un
po' più estrema, in modo da presentarsi come persona adeguata ma all'avanguardia (...)
Si è infine ipotizzato che alcune culture (come quella americana, fortemente individualista e
capitalista) tendano ad avere una tendenza verso il rischio, mentre altre tendono a mantenere il
valore culturale dominante della cautela e del conservatorismo. Diverse ricerche hanno confermato
questa ipotesi, dimostrando che negli USA il rischio è considerato un valore, mentre ad es, nei paesi
africani è la cautela ad essere valorizzata.
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3.3 La leadership
Una delle teorie più conosciute sulle caratteristiche della leadership è la teoria della grandepersona, secondo la quale alcuni tratti fondamentali della personalità fanno di un individuo un buon
leader.
In realtà la ricerca non ha dato grandi risultati in questo senso. I tratti di personalità possono essere
importanti, ma altrettanto importanti sono i caratteri situazionali: essere la persona giusta al
momento giusto nella situazione giusta.
Alcune recenti teorie sulla leadership si sono focalizzate su questi aspetti. La più famosa è la t eoria
della contingenza (Fiedler), in cui si ipotizza che vi siano due tipi di leader: il leader orientato al
compito (che si interessa a che le cose vengano fatte) e il leader orientato alle relazioni (che si
concentra sulle relazioni tra i membri del gruppo).
L'efficacia di un leader rispetto ad un altro è però data soprattutto da fattori situazionali, legati alla
dose di controllo e influenza che il leader esercita sul gruppo. I leader orientati al compito si
rivelano più efficaci in situazioni a controllo molto alto o molto basso, mentre i leader orientati allerelazioni si comportano bene in situazioni a controllo moderato.
Esistono pregiudizi relativi ai leader uomini e donne. La visione stereotipata dei ruoli sessuali
influisce sulla valutazione dei leader donna da parte degli uomini, che rimane negativa rispetto a
quella sui leader maschili. E la cosa naturalmente limita la capacità degli individui di compiere una
prestazioni al massimo della loro abilità, danneggiando sé stessi e l'organizzazione per cui lavorano.
Il pregiudizio nei confronti delle donne sembra però essere in diminuzione.
4. Conflitto e cooperazione
Ci sono situazioni in cui le persone non hanno obiettivi in comune, ma incompatibili, e questo crea
un conflitto, la cui scala può andare dal personale all'internazionale.
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Molti conflitti si risolvono pacificamente, ma la tendenza a ricorrere all'aggressività e alla
violenza sembra essere in continua ascesa. E' fondamentale quindi studiare le cause e le soluzioni
delle situazioni di conflitto.
4.1 Il dilemma sociale
Il “dilemma sociale” è un conflitto in cui l'azione più favorevole per un individuo, se scelta da
più persone, diventa nociva per tutti.
La psicologia sociale ha cercato di indagare sperimentalmente questa situazione di conflitto, ad es.
con l'adozione del famoso “dilemma del prigioniero”, in cui la scelta si pone proprio in termini difavorire il proprio interesse o quello comune in una situazione di crisi, cosa che mette in gioco
anche la fiducia reciproca. Gli studi sembrano dimostrare una prevalenza del comportamento
egoistico e alla fine autodistruttivo, ma non in maniera drammatica. In realtà anche il
comportamento cooperativo ha le sue chance, soprattutto fra amici e partner, o tra appartenenti a
culture collettiviste. In generale è funzionale l'adozione di strategie comunicative che trasmettano
all'altra parte la possibilità di stabilire una relazione di fiducia, cosa che probabilmente
funzionerebbe anche nell'ambito delle relazioni internazionali.
4.2 L'uso delle minacce per risolvere i conflitti
Come alcuni studi hanno dimostrato, l'uso delle minacce, invero molto diffuso nella vita
quotidiana, non sempre è un modo efficace per ridurre un conflitto. La disponibilità di armi o di
mezzi di coercizione da una o entrambe le parti molto spesso invece produce situazioni di stallo in
cui tutti perdono qualcosa.
4.3 Gli effetti della comunicazione
La comunicazione risulta utile nel risolvere i conflitti quando viene utilizzata per stabilire fiducia, e
non semplicemente per trasmettere le proprie minacce.
4.4 Negoziare e fare affari
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A differenza che negli esperimenti di laboratorio, nelle situazioni della vita reale i conflitti offrono
una grande varietà di opzioni. Le persone possono giungere ad una soluzione tramite la
negoziazione, ovvero un dialogo in cui si fanno offerte e controfferte fino a trovare una soluzione
concordata.
Molto spesso le persone non comprendono che sono possibili soluzioni favorevoli ad entrambe le
parti, e che è necessario valutare quali siano gli aspetti importanti per l'una e l'altra parte in modo da
valutare se è possibile giungere a una di queste soluzioni (soluzioni integrative). In realtà spesso
intervengono fattori come la diffidenza reciproca e la tensione verso l'obiettivo, che impedisce una
corretta valutazione delle motivazioni della controparte. E' questo il motivo per cui a volte si ricorre
a mediatori neutrali.
Capitolo 9 – L'attrazione interpersonale
1. Antecedenti dell'attrazione
Gli aspetti che precedono l'attrazione sono quelli che includono i momenti in cui due persone siincontrano per la prima volta, si piacciono reciprocamente, per giungere all'innamoramento che si
sviluppa in una relazione intima.
1.1 La persona della porta accanto: l'effetto della prossimità
Uno degli aspetti più semplici che determina l'attrazione è la vicinanza, o prossimità. Le persone
che vediamo e con le quali interagiamo più spesso hanno maggiori probabilità di diventare nostriamici o compagni di vita.
L'effetto della prossimità si verifica a causa della familiarità, ovvero della semplice esposizione
che abbiamo con le persone che ci sono vicine. Naturalmente perché si sviluppi una relazione è
necessario che queste persone siano a noi gradite. La familiarità produce comunque effetti potenti,
fra cui quello di aumentare l'attrazione.
La comunicazione mediata da computer può creare relazioni emotive molto intime, ma a volte
troppo velocemente: senza l'interazione faccia a faccia possiamo crearci un'immagine idealizzata
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dell'altro, senza contare che in questo tipo di relazione si può mentire con molta più facilità. Inoltre,
le parole da sole non predicono l'attrazione.
1.2 La somiglianza
I ricercatori descrivono due situazioni in cui si creano relazioni:
• a campi chiusi, in cui le persone sono costrette ad interagire tra di loro
• a campi aperti, in cui le persone sono libere di interagire o meno a seconda delle loro
scelte.
A favorire il crearsi di relazioni, oltre alla prossimità, è anche la somiglianza, ovvero quando i
nostri atteggiamenti, valori, provenienze o personalità si accoppiano con quelli di un'altra persona.
Gli studi dimostrano che se conosciamo le opinioni di un altro individuo su vari argomenti, e se
queste sono simili alle nostre, saremo maggiormente attratti da lui. E questo vale sia per le relazioni
di coppia sia per quelle amicali.
Proviamo attrazione anche per quelle persone dallo stile interpersonale e dalle capacitàcomunicative simili alle nostre.
Infine, la somiglianza agisce anche a livelli più sottili: scegliamo di entrare in certi tipi di situazioni
sociali dove sappiamo che troveremo altri simili a noi.
Perché la somiglianza è così importante per l'attrazione?
• tendiamo a pensare che le persone simili a noi ci troveranno di loro gradimento, e quindi
ci sono maggiori probabilità di iniziare una relazione
• le persone simili convalidano le nostre caratteristiche e credenze
• il disaccordo su questioni importanti crea inferenze negative tra gli individui, portando alla
repulsione tra dissimili.
1.3 L'attrazione reciproca
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Il fatto di piacersi reciprocamente è uno degli aspetti primari dell'attrazione interpersonale, ed è così
potente che può anche ovviare all'assenza di somiglianza. L'aspetto più importante che determina
l'attrazione è il fatto di ritenere che risultiamo graditi all'altro.
Le persone con stima di sé moderata o positiva rispondono all'attrazione reciproca, mentre quelle
che hanno un'autostima negativa rispondono in maniera diversa, non considerando il
comportamento amichevole degli altri.
1.4 Gli effetti dell'attrazione fisica sulla piacevolezza
L'aspetto fisico superficiale è un aspetto molto importante dell'attrazione. E questo vale sia per gli uomini che per le donne.
I modelli su cui valutiamo la bellezza fisica sono largamente influenzati dai media, e quindi hanno
caratteristiche comuni ben definite. In particolare sembra che l'aspetto più gradevole, soprattutto per
le donne, sia legato a caratteristiche di tipo infantile, che evocano dolcezza e tenerezza.
Le metanalisi hanno dato prova di una concordanza interculturale su ciò che costituisce la
bellezza di un volto umano maschile o femminile. Addirittura si suppone che questi tratti siano stati
determinati dall'evoluzione, e siano diventati innati. E sembra che i volti attraenti di entrambi i sessi
siano quelli che più si avvicinano alla media.
Recenti ricerche mostrano un effetto ancora più sorprendente della familiarità: i soggetti tendono a
preferire i volti che assomigliano al loro.
Ovviamente tutte queste variabili possono essere espressione della nostra soggiacente preferenza
per ciò che è familiare e sicuro, rispetto a ciò che non è familiare e potenzialmente pericoloso.
I risultati di numerose ricerche mostrano che la bellezza è un potente stereotipo: ipotizziamo che
essere belli presupponga tutta una serie di altri elementi desiderabili. Le persone belle hanno
successo, sono intelligenti, socialmente competenti, interessanti, brillanti, indipendenti e sexy. In
particolare la competenza sociale è molto collegata all'aspetto fisico, e questo in un certo senso è
anche vero, anche perché le persone belle in genere ricevono molta attenzione, la quale aiuta asviluppare una buona competenza sociale (un caso quindi di profezia che si autoadempie).
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1.5 I ricordi dell'attrazione iniziale
Alcuni esperimenti hanno cercato di evidenziare che cosa le persone ricordano di più delle
motivazioni delle proprie relazioni amorose o di amicizia. I risultati hanno mostrato che l'attrazione
reciproca e la bellezza (sia fisica che legata alla personalità) vengono ricordate con maggior
frequenza.
1.6 Le teorie dell'attrazione interpersonale: lo scambio sociale e l'equità
• La teoria dello scambio sociale.
Ogni variabile finora esaminata tra quelle che determinano una relazione interpersonale può essere
vista in termini di profitti sociali, ovvero gli aspetti gratificanti e positivi della relazione stessa.
Possiamo dire che quanto più una persona ci procura profitti sociali, a costi minimi, tanto più ci
piacerà. La teoria dello scambio sociale sostiene che il modo in cui le persone percepiscono la loro
relazione dipende dalla valutazione dei profitti e dei costi, dalla percezione del tipo di relazione che
meritano e dalla probabilità di riuscire ad avere una relazione migliore con qualcun'altro. E' il
modello del mercato applicato alle relazioni interpersonali.
Questa teoria ha ricevuto numerose conferme empiriche.
• La teoria dell'equità
Una critica mossa da alcuni studiosi alla teoria dello scambio sociale è che essa ignora una variabile
essenziale: l'equità. Secondo la teoria dell'equità, le persone non cercano solo massimi profitti e
costi bassi, ma anche la sua equità: i profitti e i costi che diamo in una relazione devono essere
equivalenti ai profitti e ai costi dati dall'altra persona. Le relazioni eque sarebbero le più felici e
stabili, mentre in quelle non eque le persone si sentirebbero in una situazione di disagio che le
spingerebbe a ristabilire l'equità.
2. Le relazioni profonde
Gli studi si sono limitati in genere ad analizzare gli stadi iniziali di una relazione, in quanto le fasi
successive comportano aspetti che non sono facilmente misurabili scientificamente.
2.1 La definizione di amore
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Per anni gli psicologi sociali hanno cercato di definire la natura dell'amore, come nasce e si
sviluppa, ma hanno incontrato molte difficoltà.
Una distinzione classica che si introduce è quella tra compassione e passione. La compassione è un
sentimento di intimità e di affetto che però non comporta passione o eccitazione psicologica
(relazioni di amicizia, o sessuali di lungo periodo). La passione invece presuppone un intenso
desiderio nei confronti dell'altra persona.
Alcuni studiosi hanno proposto la teoria triangolare dell'amore, secondo cui l'amore è composto
da tre elementi basilari: l'intimità, la passione e l'impegno. Sternberg ha creato una scala per
misurare questi aspetti, i quali possono combinarsi a vari livelli per formare diversi tipi di amore.
2.2 Il ruolo della cultura
La cultura svolge un ruolo fondamentale nello stabilire come le persone vedono la loro relazione
amorosa e cosa si aspettano da essa.
L'amore romantico è un aspetto importante, a volte cruciale, del matrimonio all'interno delle
società individualistiche, mentre lo è di meno nelle culture collettivistiche. In queste ultime,
contano molto di più le aspirazioni della famiglia e degli altri membri del gruppo, e i matrimoni
vengono spesso combinati.
3. Le cause dell'amore
Alcuni principi che regolano l'attrazione iniziale possono essere applicati anche alla relazione
amorosa, anche se in questa entrano in gioco altre variabili.
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3.1 L'evoluzione e la sociobiologia
L'approccio sociobiologico all'amore è basato sull'idea che l'evoluzione del comportamento umanoè avvenuta perché si è massimizzato il successo riproduttivo. Esso sostiene che per i due sessi
questo si traduce in differenti pattern comportamentali: i maschi si accoppiano spesso con molte
femmine, mentre le femmine prestano maggiore attenzione alla scelta del maschio. Questo
spiegherebbe le diverse strategie messe in atto dagli uomini e dalle donne nelle relazioni amorose.
Le donne quindi cercherebbero un uomo che possa provvedere alle risorse richieste e fornire il
sostegno necessario per crescere la prole (aspetto economico-sociale). Gli uomini cercherebbero
una donna che sia in grado di riprodurre la specie (aspetto fisico-salute).
Molti studi hanno confermato queste ipotesi, ma allo stesso tempo alla teoria sono state avanzate
critiche, in quanto da una parte è considerata troppo flessibile e in grado di spiegare qualsiasi cosa,
dall'altra troppo semplicistica per spiegare il comportamento umano.
3.2 Stili di attaccamento e relazioni intime
Un'altra teoria sostiene che il comportamento che si esprime nelle relazioni adulte si basa sulle
esperienze passate, come il rapporto genitori-figlio.
Sono stati identificati tre tipi di relazioni madre-bambino (stili di attaccamento):
• attaccamento sicuro: il genitore risponde ai bisogni del bambino e manifesta emozioni
positive; il bambino ha fiducia nella madre, non teme di essere abbandonato, si sentevalorizzato e accettato.
• Attaccamento evitante: il genitore è freddo e distaccato e respinge i tentativi del bambino di
stabilire l'intimità, per cui questi alla fine tende a sopprimere questi tentativi.
• Attaccamento ansioso/ambivalente: il genitore ha un comportamento incoerente; in questo
caso il bambino diventa ansioso, perché non riesce a prevedere il comportamento dei
genitori.
Il particolare stile di attaccamento appreso da bambini viene, secondo la teoria, generalizzato a
tutte le relazioni che si hanno nell'età adulta: una persona sicura svilupperà relazioni mature edurature; quella che ha subito lo stile evitante sarà meno capace di avere fiducia negli altri e di
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stabilire relazioni; quella che ha appreso lo stile ansioso/ambivalente avrà l'esigenza di stabilire una
relazione con il partner ma avrà paura che le sue attenzioni non vengano ricambiate.
Per quanto riguarda le relazioni tra persone influenzate da diversi stili di attaccamento, si èsperimentato che le relazioni ansioso-evitante funzionano abbastanza bene, perché i due tipi sono
sostanzialmente complementari. In particolare vanno bene le relazioni donna ansiosa-uomo
evitante, perché i rispettivi ruoli si adattano bene agli stereotipi di genere presenti nella cultura.
Gli studi hanno tuttavia rilevato che gli stili di attaccamento possono anche variare, sia in relazione
al tempo che al tipo di relazioni che le persone stabiliscono. Inoltre bisogna dire che spesso le
valutazioni sono fatte a partire dai ricordi di infanzia delle persone, che spesso possono essere
imprecisi.
3.3 Le relazioni a lungo termine e lo scambio sociale
Come si è visto, gli studi sul campo hanno confermato in gran parte le conclusioni della teoria dello
scambio sociale. Ma hanno anche evidenziato che occorre tener conto di un altro fattore importante:
il livello di investimento personale.
L'investimento è dato da ciò che l'individuo mette nella relazione, e che perderà al momento della
rottura della relazione stessa. E questo comprende sia fattori concreti come le risorse finanziarie e
immobiliari che fattori intangibili come il tempo e l'energia emotiva. In generale, maggiori sono gli
investimenti fatti in una relazione, minori sono le probabilità che finisca, anche se la
soddisfazione è bassa e le alternative sono allettanti.
Questo approccio riesce a spiegare anche situazioni in cui si tenderebbe a pensare che le relazioni
dovrebbero interrompersi, come nei casi delle donne maltrattate.
3.4 L'equità nelle relazioni a lungo termine
Nelle relazioni a lungo termine, la teoria dell'equità opera in maniera diversa rispetto a quelle
occasionali. Si tratta più di un “dai e ricevi” generico, piuttosto che di uno scambio equamente
misurato.
Nelle relazioni di scambio, che di solito si stabiliscono fra conoscenti, si tiene il conto dei costi e ci
si sente svantaggiati quando si crede di dare un contributo maggiore alla relazione. Nelle relazioni
di condivisione invece (tra amici, familiari e innamorati) le persone rispondono ai bisogni del partner senza guardare se otterranno in cambio qualcosa.
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4. La fine delle relazioni intime
La fine di una relazione è una delle esperienze più dolorose della vita. Gli studiosi hanno
cominciato ad occuparsi del tema, cercando di individuare quali sono le fasi in cui si sviluppa e le
motivazioni che lo provocano.
Un modello che viene utilizzato è quello dell'investimento sopra presentato. In termini di
dialettiche relazionali invece, si è trovato che spesso le relazioni finite sono esempi di “attrazioni
fatali”, in cui le qualità che hanno dato inizio al rapporto sono spesso le stesse che ne causano la
fine. In pratica le relazioni che iniziano con una forte dose di novità hanno bisogno di essere
bilanciate da alcuni aspetti di prevedibilità, ovvero c'è bisogno di un rapporto complementare.
Si è trovato inoltre che il ruolo giocato al momento della decisione di interrompere la relazione (chi
lascia, chi è lasciato, decisione reciproca) è l'unico fattore che permette di prevedere come i soggetti
vivranno l'esperienza della rottura. Ovviamente chi sta più male è chi è stato lasciato, mentre la
decisione reciproca è quella che permette maggiormente di evitare reazioni fisiche e psicologiche
negative.
PARTE TERZA – INTERAZIONE SOCIALE
Capitolo 10 – Il comportamento prosociale
Il comportamento prosociale è definibile come qualsiasi azione commessa allo scopo di arrecare
beneficio ad un'altra persona. Un comportamento prosociale che non tiene conto del proprio
interesse è l'altruismo.
1. I motivi alla base del comportamento prosociale
Quali sono le motivazioni del comportamento prosociale? Le persone aiutano gli altri anche quando
non hanno niente da guadagnarci, o solo quando hanno qualche ricompensa?
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1.1 La psicologia evolutiva: istinti e geni
I biologi hanno utilizzato i principi sulla selezione genetica propri della teoria dell'evoluzione per
spiegare alcuni comportamenti sociali, come l'aggressività e l'altruismo, dando vita alla psicologia
evolutiva.
Secondo il meccanismo evolutivo, il comportamento altruistico avrebbe dovuto estinguersi, in
quanto meno favorevole alla riproduzione della specie rispetto a quello egoistico. Gli psicologi
evoluzionisti hanno allora cercato di giustificare l'esistenza dell'altruismo in tre modi:
• selezione parentale: le persone possono aumentare la probabilità di trasmissione dei proprigeni non solo avendo figli, ma anche curando che i propri consanguinei abbiano una
discendenza. Quindi sarebbe evoluzionisticamente positivo un comportamento altruista
verso i consanguinei. Le verifiche sperimentali hanno confermato questa ipotesi: le persone
in situazioni di pericolo danno la priorità alla salvezza dei propri parenti stretti.
• La norma della reciprocità: le persone aiutano gli altri con l'idea implicita che questo
comportamento verrà ricambiato. In ragione del suo valore di sopravvivenza, questa norma
di reciproca assistenza potrebbe aver assunto base genetica.
• L'apprendimento delle norme sociali: abbiamo bisogno di apprendere dagli altri le regole
e i costumi della nostra società, per poter sopravvivere e vivere meglio. Una di queste regole
è proprio il valore dell'aiuto reciproco.
La psicologia evolutiva è un approccio interessante, ma molti psicologi restano comunque scettici
sul fatto che i comportamenti sociali possano essere fatti risalire alle nostre origini ancestrali e si
siano propagati per via genetica.
1.2 Lo scambio sociale: i costi e le ricompense dell'aiutare
La teoria dello scambio sociale, con le sue similitudini basate sulle leggi di mercato (benefici-costi),
postula che il comportamento altruistico può essere fondato sull'interesse individuale.
Aiutare può essere remunerativo in molti modi, ed è un investimento nel futuro. Aiutando gli altri
possiamo anche ottenere approvazione sociale e quindi maggior autostima. I costi naturalmente
possono essere alti, legati al pericolo, al dolore, all'imbarazzo e al tempo che si perde.
Fondamentalmente la teoria dello scambio sociale sostiene che, quando i costi superano i benefici,
le persone non si comportano più in modo altruistico. In altre parole, il vero altruismo nonesisterebbe proprio.
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1.3 Empatia e altruismo: la motivazione pura dell'aiuto
lo studioso Batson, pur ammettendo che le persone in molte situazioni aiutano gli altri per
motivazioni egoistiche, sostiene che esiste anche l'altruismo puro, e che questo entra in gioco
quando avvertiamo empatia per la persona bisognosa d'aiuto (ovvero avvertiamo parte della
sofferenza che questa persona sta vivendo). Nel caso che non si stabilisca empatia, allora entra in
campo lo scambio sociale.
Naturalmente non è semplice stabilire le motivazioni di un comportamento complesso qual'è quello
umano, e per giungere allo scopo Batson e i suoi colleghi hanno messo a punto particolari
accorgimenti sperimentali.
2. Le determinanti personali del comportamento prosociale: perché alcune persone aiutano più di
altre?
2.1 Le differenze individuali: la personalità altruistica
Gli psicologi si sono interessati alle qualità che portano un individuo ad aiutare gli altri in varie
situazioni: la personalità altruistica.
In realtà, com'è noto, la personalità non è l'unica determinante del comportamento. Bisogna
considerare anche i fattori situazionali e le pressioni ambientali. Infatti le prove sul campo hanno
dimostrato che individui che da un punto di vista personale avrebbero dovuto aiutare di più si
comportavano in maniera completamente diversa, e meno altruisticamente di altri, a seconda delle
situazioni. La personalità quindi pare non essere un componente fondamentale dell'altruismo.
2.2 Differenze di genere nel comportamento prosociale
Secondo gli stereotipi di ruolo maschili e femminili, gli uomini dovrebbero essere più in grado di
compiere prestare aiuto in azioni eroiche e cavalleresche, mentre le donne in situazioni di
volontariato o assistenza domiciliare. Ed in effetti gli studi hanno dimostrato che gli uomini sono
nettamente la maggioranza tra le persone che si sono segnalate per aver aiutato sconosciuti.
2.3 Differenze culturali nel comportamento prosociale
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Si potrebbe ipotizzare che gli individui appartenenti a culture collettiviste abbiano maggior
probabilità di sviluppare un comportamento altruistico. In realtà, le persone di ogni cultura aiutano
con maggior frequenza i componenti del proprio ingroup, e meno quelli dell'outgroup. I fattori
culturali influiscono sulla forza dei confini di demarcazione tra questi due gruppi. I membri diculture collettivistiche, in cui l'ingroup è molto più definito, hanno molte più probabilità di aiutare i
membri di quest'ultimo, ma meno di aiutare i membri dell'outgroup rispetto agli appartenenti alle
culture individualiste.
2.4 Gli effetti dell'umore sul comportamento prosociale
Le ricerche hanno rivelato che l'umore, ovvero lo stato emotivo in cui ci troviamo, influenza inmaniera importante la nostra disposizione ad aiutare gli altri. Questo perché:
• quando siamo di buon umore, tendiamo a vedere di più gli aspetti positivi degli altri
• aiutare è un buon modo per aumentare le nostre sensazioni positive
• lo stato d'animo positivo accresce la quantità di attenzione prestata ai propri sentimenti, e
quindi anche ai nostri valori, tra cui ci può essere l'altruismo.
Anche un tipo di cattivo umore accresce l'altruismo: il senso di colpa. Aiutare riduce il sentimentodi colpevolezza. Anche la tristezza può essere determinante. Si tratta evidentemente di altri aspetti
della teoria dello scambio sociale: aiutiamo per aiutarci.
3. Le determinanti situazionali del comportamento prosociale
Per comprendere a fondo il fenomeno del comportamento prosociale, abbiamo bisogno di
considerare anche la situazione sociale in cui si trovano le persone.
3.1 Ambiente rurale vs. urbano
Le persone che abitano in piccole città o ambienti rurali sono più portate ad aiutare gli altri. Questo
può dipendere dal più alto grado di socievolezza e fiducia reciproca rispetto agli ambienti urbani.
Alcuni hanno anche ipotizzato che chi abita in città sia sottoposto ad un bombardamento continuodi stimoli che lo spinge ad un comportamento più introverso ed egoistico (ipotesi del sovraccarico
urbano).
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3.2 Il numero di testimoni: l'effetto testimone
Casi accaduti realmente in ambiente urbano e ricerche di laboratorio hanno dimostrato che, quando
si tratta di ricevere aiuto, il numero dei testimoni non offre alcuna garanzia di rapida assistenza.
Anzi, è vero il contrario: maggiore è il numero di testimoni che assistono ad un'emergenza,
minore è la probabilità che qualcuno di essi aiuterà la vittima: è l'effetto testimone.
La possibilità di avvertire un evento come un'emergenza dipende da molti fattori, anche contingenti,
come la capacità di concentrarsi. Inoltre molto dipende dal fatto che gli altri intorno a noi
interpretino ciò che accade come un'emergenza. Se la situazione presenta aspetti ambigui, ci
affidiamo all'influenza sociale informazionale, con tutti i vantaggi e i problemi che questocomporta. A volte si presenta il fenomeno dell'ignoranza collettiva, in cui nessuno sa cosa fare e
gli individui sono portati a pensare che non vi sia una situazione di pericolo che invece è presente.
E' poi presente il problema dell'assunzione di responsabilità: una volta stabilito che c'è
un'emergenza, dobbiamo essere in grado di capire che aiutare tocca a noi, e non a qualcun'altro.
Quando ci sono molti testimoni, si verifica il fenomeno della diffusione di responsabilità, per cui
nessuno percepisce una forte spinta ad intervenire. Ciò accade soprattutto se non sappiamo se gli
altri siano già intervenuti.
Anche il fatto di sapere o meno quale tipo di aiuto dare è importante: se non sappiamo come aiutare,
è più probabile che non interverremo.
Infine, esistono molti altri fattori che possono farci scegliere di non intervenire: la mancanza di
esperienza, il timore di sbagliare o di metterci in pericolo, ecc.
3.3 La natura delle relazioni: relazioni di condivisione vs. relazioni di scambio
Una grande quantità di ricerche si è concentrata sull'aiuto tra estranei. Nella realtà, molte situazioni
di aiuto si verificano tra persone che si conoscono bene, come famigliari, amici, ecc.
In questi casi si deve distinguere tra relazioni di scambio e relazioni di condivisione, così come
prima evidenziate. Le relazioni di scambio sono tipiche fra estranei o tra persone che non siconoscono bene. Le relazioni di condivisione invece sono caratterizzate dalla volontà di aiutare gli
altri.
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Le ricompense per l'aiuto sono importanti anche nelle relazioni di condivisione, ma è probabile che
in questo caso non ci si aspetti un ritorno immediato, ma dilatato o spostato nel tempo. Si tratta di
relazioni che implicano uno scambio a lungo termine.
Altri studiosi hanno comunque evidenziato la natura fondamentalmente diversa delle relazioni di
condivisione, rilevando che le persone sono meno interessate ai benefici che ricevono, e più a
soddisfare semplicemente i bisogni degli altri.
Questo significa che le probabilità di aiutare un amico sono notevolmente superiori a quelle di
aiutare un estraneo, anche in caso che non ci aspettiamo alcuna ricompensa.
C'è solo un'importante eccezione a questa regola: quando un certo compito ha molta importanza per
noi, potremmo essere portati ad aiutare di più un estraneo a compierlo, in quanto vedere un amicoriuscire meglio di noi in un campo che rappresenta molto per la nostra autostima ci crea qualche
problema.
4. Come può essere migliorato il comportamento prosociale?
Migliorare i fattori della personalità che aiutano il comportamento prosociale può essere utile. Maancora più importante è abbattere le barriere che si frappongono tra chi aiuta e chi è aiutato.
Essere consapevoli dell'influenza degli altri in situazioni di emergenza può aiutarci a superare
l'indifferenza e la fuga dalle responsabilità. E naturalmente è anche importante capire che l'aiuto
non va imposto indipendentemente dal fatto che la persona lo voglia o no. Ricevere aiuto in certi
casi può essere dannoso per l'autostima. Si deve quindi dare sostegno, non cercare di dimostrare la
nostra superiorità.
Negli ultimi anni si è andato sviluppando un nuovo campo di ricerca, la psicologia positiva. Questa
si pone come correttivo all'enfasi posta dalla psicologia clinica tradizionale sugli aspetti negatividella malattia mentale. In particolare si cerca di concentrarsi sul corretto funzionamento umano e su
come aiutare la salute mentale.
Capitolo 11 – L’aggressività
1. Che cos’è l’aggressività
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Si definisce azione aggressiva il comportamento intenzionale volto a provocare un dolore fisico
o psicologico.
Un’altra utile distinzione è quella tra:
• aggressività ostile: risultato della rabbia, l’unico scopo è infliggere dolore o danno
• aggressività strumentale: l’intenzione di far del male è un mezzo per raggiungere uno
scopo
1.1 L’aggressività è innata o viene appresa?
Il dibattito è ancora aperto sulla natura istintuale o appresa dell’aggressività. Freud teorizzò la
presenza di un istinto vitale (Eros) e di un istinto di morte (Thanatos) che provoca l’aggressività. E
questa energia negativa deve trovare sfogo, altrimenti si giunge alla malattia. Per Freud la società è
fondamentale per aiutare l’individuo a sublimare l’istinto e volgere l’energia distruttiva verso un
comportamento accettabile o utile.
1.2 L’aggressività è istintuale, situazionale o opzionale?
Le ricerche sulle presunte origini istintuali dell’aggressività sono condotte in larga parte sugli
animali. I risultati sono molto controversi, e comunque non sono ancora emerse prove decisive a
favore di questa ipotesi. Sembra che l’aggressività si sia evoluta e mantenuta in funzione del suo
alto valore di sopravvivenza, ma contemporaneamente gli organismi hanno sviluppato meccanismi
inibitori che permettono di sopprimere l’aggressività quando un comportamento più vantaggioso è
possibile. Quindi l’aggressività sembra essere condizionata dall’esperienza e dal contesto
sociale.
1.3 L’aggressività nelle diverse culture
La situazione sociale, quando si tratta del comportamento degli esseri umani, assume un importanza
maggiore. I pattern innati sono flessibili e suscettibili di infinite modificazioni. E questo è
dimostrato dalla diversità che le culture umane presentano nel loro grado di aggressività.
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E’ quindi evidente che il comportamento aggressivo può essere modificato, e questo è motivo
fondamentale di interesse per gli psicologi sociali.
2. Le cause biochimiche e neuronali dell’aggressività e la loro influenza
Una struttura particolare del cervello, l’amigdala, sembra essere in grado di controllare
l’aggressività sia negli esseri umani che negli animali. Anche qui però c’è una certa flessibilità:
l’effetto dello stimolo neuronale può essere attenuato da fattori sociali.
Alcune sostanze chimiche influenzano l’aggressività. La serotonina, un neurotrasmettitore, sembra
avere un effetto inibitorio. E naturalmente anche alcuni farmaci hanno effetti in questo senso. Ad es.
il testosterone produce un aumento di aggressività, sia tra gli uomini che tra le donne.
2.1 Aggressività e genere
Se il livello di testosterone condiziona l’aggressività, se ne deduce che le donne sono
generalmente meno aggressive degli uomini. Le donne hanno comunque modi diversi di
manifestare la propria aggressività, e le differenze di genere si attenuano in presenza di
provocazione.
La base biologica del comportamento meno aggressivo delle donne sembra essere confermato dalle
ricerche, che hanno dimostrato che, nonostante i cambiamenti sociali avvenuti in tempi recenti nella
condizione femminile, non si è riscontrato un aumento corrispondente dei crimini violenti
commessi da donne.
Queste differenze dovute al sesso sono praticamente universali. La cultura influisce, ma noncancella il divario.
2.2 L’alcol e l’aggressività
Com’è noto, l’alcol tende ad abbassare le inibizioni contro la manifestazione di comportamenti
vietati dalla società, tra cui l’aggressività. Il legame è noto agli studiosi: chi è già tendente alla
violenza, lo diventerà ancora di più sotto l’effetto dell’alcol.
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2.3 Gli effetti del dolore e del malessere sull’aggressività
E’ dimostrato che il dolore, o altre forme di malessere fisico come il caldo, l’umidità,
l’inquinamento, possono abbassare la soglia del comportamento aggressivo.
3. Le cause situazionali che portano all’aggressività
3.1 Frustrazione e aggressività
Un individuo avverte frustrazione quando sente interrotto il cammino verso un obiettivo o una
gratificazione che si aspetta. Questo spesso porta all’aggressività.
Vi sono diversi fattori che possono accentuare la frustrazione e aumentare la possibilità di una
reazione aggressiva. Ad esempio, la vicinanza allo scopo o all’obiettivo dei nostri desideri.
Maggiore la vicinanza, maggiore la frustrazione e quindi più probabile la reazione.
L’aggressività aumenta anche quando la frustrazione è inaspettata.
Naturalmente la reazione aggressiva si verifica quando anche le condizioni situazionali sono
favorevoli. Fattori importanti sono le caratteristiche di chi provoca la frustrazione, e la nostra
capacità di reagire efficacemente Inoltre, se la frustrazione appare comprensibile, legittima o non
intenzionale, non vi sarà probabilmente reazione aggressiva.
Anche il livello di aspettativa è importante: la frustrazione non è causata dalla deprivazione, ma
dalla deprivazione relativa, ovvero la sensazione di avere meno di quanto pensiamo di meritare.
3.2 Provocare direttamente e rispondere per le rime
Un altro fattore scatenante dell’aggressività è il bisogno di rispondere a una provocazione
rappresentata dal comportamento aggressivo di un’altra persona. Anche qui naturalmente conta
l’intenzionalità della provocazione, nonché le eventuali circostanze attenuanti , che però devono
essere note al momento della provocazione.
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3.3 Il ruolo degli oggetti aggressivi
La semplice presenza di uno stimolo aggressivo, un oggetto normalmente associato con
l’aggressività, può aumentare la probabilità di un comportamento aggressivo. La diffusione dellearmi è quindi in grado di far aumentare il tasso di violenza. E questo è stato dimostrato in numerose
ricerche ed esperimenti.
3.4 L’imitazione e l’aggressività
Una causa fondamentale dell’aggressività è la presenza di altre persone che si comportano in
maniera aggressiva,. Questo è vero soprattutto per i bambini, e specialmente quando avvertonoche l’aggressività viene compensata (ad esempio negli sport violenti).
E’ un fatto che una grande percentuale di genitori che maltrattano i loro bambini sono stati a loro
volta maltrattati dai loro genitori (teoria dell’apprendimento sociale). E non è una questione
genetica, come hanno dimostrato gli esperimenti di laboratorio.
3.5 Gli effetti della violenza nei media
Numerosi studi indicano che maggiore è la quantità di violenza che gli individui vedono in
televisione da bambini, maggiore è la violenza che mostreranno una volta diventati adolescenti e
adulti.
Naturalmente la violenza in televisione ha un impatto ancora maggiore sui giovani che sono già in
qualche modo inclini al comportamento violento, ma anche per quelli meno aggressivi la prolungata
esposizione può portare ad un aumento significativo dell’aggressività.
Bisogna anche tenere conto che la quantità di violenza proposta dalla televisione è tale che gli
effetti rilevati potrebbero anche solo essere dovuti al fenomeno del priming.
Le stesse conseguenze sembrano essere provocate dai videogiochi violenti.
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I bambini e i giovani in generale sono i più sensibili e influenzabili, ma gli effetti della violenza dei
media si riscontrano anche negli adulti.
Inoltre, sembra che l’esposizione continua ad eventi violenti produca un effetto mitigante sullanostra sensibilità, fino ad aumentare la soglia di tollerabilità della violenza nel mondo reale.
Esistono in conclusione quattro ragioni distinte per cui l’esposizione alla violenza nei media
aumenta l’aggressività:
4.
1. “Se lo fanno loro , posso farlo anch’io”: indebolimento delle inibizioni
2. “Ma allora è così che si fa”: imitazione
3. “Forse sto avvertendo delle sensazioni di aggressività”: priming, interpretazioneerrata delle proprie sensazioni
4. “Un altro scontro brutale: cosa c’è sull’altro canale?”: diminuzione del senso di
orrore e di commiserazione verso le vittime
3.6 La violenza aiuta a vendere?
Gli spettacoli violenti in televisione sembrano essere graditi dal pubblico. E quindi il messaggio per
i pubblicitari e i produttori è che la violenza aiuta a vendere.
E’ stato però dimostrato che le persone che guardano spettacoli violenti non ricordano facilmente le
marche pubblicizzate durante il programma. Forse i pubblicitari dovrebbero rivedere le proprie
strategie.
3.7 La pornografia e la violenza contro le donne
Negli USA negli ultimi quaranta anni i casi di stupro e violenza sulle donne sono quadruplicati.
Una delle possibili spiegazioni risiede nei “copioni sessuali” che gli adolescenti apprendono
quando crescono fino a raggiungere la maturità sessuale. Questi comportamenti, appresi
implicitamente dalla nostra cultura, fanno pensare che il ruolo delle donne sia quello di resistere alle
avance sessuali, e che quello dell’uomo sia di persistere.
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Un altro dato che fa pensare è che l’aumento degli stupri ha coinciso con la sempre maggiore
disponibilità di materiale pornografico. Gli studi hanno però dimostrato che non esiste correlazione
tra questo materiale e i crimini a sfondo sessuale. Esiste però a quanto pare un collegamento tra la
pornografia violenta e una maggiore accettazione della violenza sessuale nei riguardi delle donne.
4. Come ridurre l’aggressività
4.1 Punire l’aggressività riduce il comportamento aggressivo?
La punizione, in caso di comportamento aggressivo, può avere un effetto controproducente, essendo
anch’essa un atto di aggressività. E questo è dimostrato dai casi frequenti di bambini con genitoriaggressivi e punitivi che diventano violenti da adulti.
Come si è già visto in precedenza, inoltre, la punizione severa spesso aumenta l’attrazione verso il
comportamento proibito, mentre una punizione più leggera spesso porta all’autogiustificazione e ad
abbandonare il comportamento stesso.
Per gli adulti il discorso si fa più complesso. Quasi tutti i sistemi giudiziari comportano pene severe
come deterrente contro i crimini violenti. Gli studi hanno però dimostrato che l’efficacia della penaè condizionata alla sua applicazione rapida e certa. E questo nel mondo reale non avviene quasi
mai.
E le statistiche confermano questa ipotesi: le pene severe non sembrano scoraggiare i crimini
violenti, meno che mai la pena di morte.
4.2 Catarsi e aggressività
E’ opinione comune che fare qualcosa di aggressivo riduca i propri sentimenti aggressivi. Si tratta
di una semplificazione eccessiva del concetto di catarsi proprio della psicoanalisi.
In realtà le ricerche smentiscono il luogo comune. Né svolgere attività sportive violente, né
guardare spettacoli violenti, né compiere direttamente atti aggressivi ha l’effetto di diminuire
l’aggressività. Anzi, pare che gli effetti siano esattamente opposti. Questo in quanto aver già
manifestato la nostra aggressività rende più facile ripetere l’azione, che ci appare maggiormente
legittimata. Inoltre, commettere un atto di aperta aggressività verso una persona cambia i proprisentimenti verso di essa, aumentando quelli negativi, e aumentando la probabilità di ripetere il
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comportamento violento in futuro. E’ il noto effetto della riduzione della dissonanza cognitiva,
che produce conseguenze tragiche anche negli eventi bellici.
4.3 Gli effetti della guerra sull’aggressività generale
Quando una nazione è in guerra, anche la popolazione non combattente diventa più incline a
commettere azioni aggressive. Le statistiche lo dimostrano. Si tratta in realtà di un gigantesco
effetto televisivo di violenza di massa, che produce indebolimento delle inibizioni, conduce
all’imitazione dell’aggressività, riduce la nostra sensibilità verso l’orrore. E ci fa credere che i
problemi complessi si possano risolvere con la violenza.
4.4 Come affrontare la rabbia
Se la violenza conduce all’autogiustificazione, che a sua volta produce altra violenza, ci si chiede se
non dovremmo reprimere i nostri sentimenti di rabbia.
In realtà, provare rabbia è una cosa completamente normale, e non comporta necessariamente la
manifestazione di comportamenti violenti. Si possono trovare modi di esprimerla in maniera non
aggressiva, soprattutto comunicando i propri sentimenti alla controparte, e cercando di raggiungereuna maggiore comprensione della situazione.
Gli effetti positivi dell’aprirsi non sono dovuti semplicemente allo sfogare i sentimenti, ma anche ad
una consapevolezza di sé che normalmente accompagna questa apertura.
Un modo efficace per ridurre l’aggressività provata da un’altra persona è intraprendere qualche
azione volta a diminuire la rabbia e la frustrazione che ne sono state le cause. Se chi è causa
della frustrazione si assume le proprie responsabilità e chiede scusa, il comportamento aggressivo
probabilmente non si manifesterà.
Anche il fenomeno dell’imitazione può essere sfruttato in senso positivo: se si mostrano ai bambini
esempi di persone che reagiscono in maniera non aggressiva, educata e controllata, ci saranno
maggiori probabilità che essi si comportino nella stessa maniera in situazioni di provocazione.
Nella maggior parte delle società, sono le persone cui mancano adeguate capacità sociali a essere
più inclini alle soluzioni violente dei problemi interpersonali. Occorre quindi insegnare allepersone come comunicare la loro rabbia e le loro critiche in maniera costruttiva, come condurre
negoziati e arrivare a compromessi, come tenere conto di più dei bisogni e desideri altrui, ecc.
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Dato che una delle più potenti giustificazioni alla violenza è la disumanizzazione delle vittime, uno
dei mezzi fondamentali per combattere l’aggressività è cercare di sviluppare l’empatia tra le
persone.
Capitolo 12 – Il pregiudizio: cause e rimedi
1. Un fenomeno sociale onnipresente
Potrebbe sembrare che solo i gruppi minoritari siano oggetto di pregiudizio da parte della
maggioranza dominante. In realtà il pregiudizio è un fenomeno onnipresente, che riguarda tutti e
può intercorrere in entrambi i sensi, dal gruppo minoritario alla maggioranza e viceversa.
La nazionalità, l'identità etnica, il genere, le preferenze sessuali o la religione, ma anche l'aspetto
fisico, possono causare etichettamento e discriminazione. La semplice antipatia nei confronti di un
gruppo può diventare qualcosa di molto peggio e condurre alla svalutazione degli altri come esseriumani, alla tortura, alla morte e al genocidio.
Chi è vittima di pregiudizio in prima istanza soffre di una diminuzione dell'autostima, che è
fondamentale nel condizionare il comportamento e le aspirazioni. Chi ha bassa autostima ha alte
probabilità di essere una persona infelice e delusa.
Il pregiudizio causa abbassamento dell'autostima ad es. negli afroamericani e nelle donne nellasocietà USA, anche se in tempi recenti le cose sembrano essere migliorate. Ma il problema del
pregiudizio è ancora ben lungi dall'essere risolto.
2. Definizione di pregiudizio, di stereotipo e di discriminazione
Il pregiudizio è un atteggiamento, e come tale comprende le tre componenti affettiva, cognitiva e
comportamentale.
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2.1 Il pregiudizio: la componente affettiva
Il temine “pregiudizio” si riferisce alla struttura generale dell'atteggiamento e alla sua componente
affettiva. Tecnicamente, esistono pregiudizi positivi e negativi, ma gli psicologi sociali usano iltermine solamente per riferirsi ad atteggiamenti negativi. In particolare, il pregiudizio si definisce
come un atteggiamento ostile o negativo nei confronti dei membri di un gruppo, basato solo
sull'appartenenza a quel gruppo. I tratti individuali o i comportamenti del bersaglio del
pregiudizio passano inosservati o vengono accantonati.
2.2 Gli stereotipi: la componente cognitiva
All'interno di una data cultura, esistono elementi normativi che presentano una certa similarità,
anche perché le immagini relative vengono continuamente diffuse dai media. Lo stereotipo è
quindi una generalizzazione condotta su un gruppo di persone, in cui caratteristiche identiche
vengono attribuite a tutti i membri del gruppo, senza tenere conto delle variazioni individuali.
Gli stereotipi, una volta formati, sono molto resistenti al cambiamento.
Gli stereotipi rispondono al bisogno della nostra mente di semplificare il mondo. Concentriamo la
nostra energia per costruire atteggiamenti accurati solo verso le cose che più ci interessano, mentresemplifichiamo le credenze verso il resto.
Lo stereotipo può quindi essere anche utile per affrontare gli eventi complessi fino a quando si basa
sull'esperienza ed è accurato. Non così se lo usiamo per annullare le differenze all'interno di una
classe di persone.
La stereotipizzazione è particolarmente potente nelle differenze di genere. Ad esempio la credenzagenerale che vede le donne maggiormente portate alla cura degli altri (dei figli in particolare) e
meno autoritarie. In questo caso la psicologia evoluzionista suggerisce che la realtà è molto vicina
allo stereotipo culturale. In campo lavorativo ci si aspetta il successo più dagli uomini che dalle
donne, e in conseguenza di queste aspettative si giudicano più severamente gli uomini se falliscono,
mentre se le donne hanno successo, si spiega la cosa con fattori quali la fortuna o la costanza. E
questo tipo di stereotipi agiscono anche nelle menti del gruppo stereotipato.
Per quanto riguarda l'aspetto comportamentale, la combinazione delle credenze stereotipate con una
reazione emotiva negativa si traduce in comportamento scorretto o violento: la discriminazione(ovvero l'azione ingiustificata negativa o dannosa verso i membri di un gruppo semplicemente
a causa dell'appartenenza a quel determinato gruppo).
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Una particolare forma di discriminazione in opera negli USA è quella contro gli omosessuali, che
non sono protetti da leggi nazionali come le donne, le minoranze etniche o gli handicappati.
3. Le cause del pregiudizio
Gli psicologi evoluzionisti sostengono che tutti gli organismi tendono ad essere più amichevoli nei
confronti dei loro simili, e a mostrare paura e avversione verso i differenti. Ma il pregiudizio non si
verifica solamente in base ad aspetti biologicamente ovvi dell'apparenza umana, ma anche tra
persone che nutrono credenze diverse. C'è sicuramente quindi anche un'influenza culturale sul
formarsi dei pregiudizi. E questi si possono formare anche a partire da differenze insignificanti
come il colore degli occhi, la lunghezza dei capelli e il modo di vestirsi (vedi l'esperimento Elliot).
3.1 Il modo in cui pensiamo: la cognizione sociale
Il pregiudizio si potrebbe definire come il lato oscuro della cognizione sociale umana. La
tendenza a categorizzare e a raggruppare le informazioni per formare degli schemi e utilizzarli per
interpretare le informazioni nuove, ad affidarsi ad euristiche potenzialmente inaccurate e adipendere da processi erronei della memoria, sono aspetti cognitivi che possono portare agli
stereotipi negativi e alla discriminazione.
Il primo gradino del pregiudizio è la formazione dei gruppi, la categorizzazione delle persone
secondo certe caratteristiche. In questo modo ordiniamo il mondo e ci prepariamo a rispondere agli
stimoli nuovi. La categorizzazione è quindi utile e necessaria e possiede implicazioni profonde.
Gli individui tendono a costituire un “ingroup”, ovvero un gruppo in cui si identificano e di cui si
sentono membri. Gli altri fanno parte dell'”outgroup”.
Ma qual'è il meccanismo che produce atteggiamenti positivi verso i membri dell'ingroup e negativi
verso l'outgroup (che viene detto “ingroup bias”)?
Una delle possibili spiegazioni, confermata peraltro sperimentalmente, è che l'identificazione in un
gruppo, e la credenza nella superiorità del proprio gruppo rispetto agli altri, produca un aumento
dell'autostima.
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Un'altra delle conseguenze della categorizzazione sociale è la percezione dell'omogeneità
dell'outgroup: i membri dell'ingroup tendono a percepire i membri dell'outgroup come più
omogenei di quanto siano in realtà, e anche più dell'ingroup stesso.
Cambiare i pregiudizi con argomentazioni logiche e razionali è molto difficile. Questo perché,
in primis, è forte l'influenza della componente affettiva dell'atteggiamento, che come si sa non è
minimamente influenzata dalle spiegazioni logiche. Inoltre, l'atteggiamento tende a organizzare il
modo in cui si elaborano le informazioni rilevanti rispetto all'oggetto dell'atteggiamento stesso. Più
specificamente, se abbiamo opinioni o schemi su certi gruppi, faremo più attenzione alle
informazioni coerenti con le nostre opinioni, le richiameremo spesso alla mente e le ricorderemo
meglio rispetto alle informazioni che non sono coerenti. Questo ovviamente renderà sempre più
forte il nostro stereotipo.
Gli stereotipi riflettono le credenze culturali: in ogni cultura esistono descrizioni facilmente
riconoscibili che riguardano i membri di un particolare gruppo. Anche se non ci crediamo, li
conosciamo sicuramente. E paradossalmente, alcuni esperimenti hanno dimostrato che influenzano
anche i nostri giudizi. Si tratta del fenomeno dell'attivazione del pregiudizio.
L'attivazione del pregiudizio agisce a livello automatico, precedendo l'elaborazione controllata
dell'informazione. Se quindi siamo distratti, impegnati o poco attenti, lo stereotipo può sfuggire al
controllo e spingerci a dare valutazioni che vanno contro le nostre opinioni consce.
Il meccanismo del pregiudizio automatico però sembra agire in maniera molto diversa a seconda
delle caratteristiche individuali.
Un altro modo in cui viene perpetuato il pensiero stereotipico è il fenomeno della correlazione
illusoria, ovvero il caso in cui, aspettandoci che due cose siano collegate, inganniamo noi stessi
fino a credere che davvero lo siano, nonostante la realtà mostri il contrario.
E' più probabile che si verifichi correlazione illusoria quando gli eventi o le persone sono
caratteristici e visibili, cioè quando sono diversi dalla nostra quotidianità. I membri di un gruppo
minoritario sono per definizione distinti, così come individui che hanno una professione o capacità
non corrispondente allo stereotipo.
E' possibile modificare le credenze stereotipiche? Sono state proposte tre teorie:
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1. Il modello di contabilità, in cui ogni informazione che contraddice lo stereotipo porterebbe
alla sua modificazione
2. il modello di conversione, secondo cui lo stereotipo cambia a seguito di un'informazione
particolarmente saliente e forte
3. il modello di sottotipizzazione, secondo cui si crea un nuovo sottotipo o sottocategoria di
steteotipi che si adattano all'informazione discordante.
In realtà si è visto che gli stereotipi cambiano soprattutto in accordo con i modelli 1 e 3, mentre il
modello di conversione non ha avuto conferme sperimentali.
3.2 I “biases” attribuzionali
Facciamo delle attribuzioni per comprendere il comportamento di una persona quanto di un gruppo.
Come si legano queste attribuzioni al pregiudizio e alla discriminazione?
Il noto “errore fondamentale di attribuzione” è una delle cause principali della persistenza degli
stereotipi. Se l'errore viene rivolto ad un intero gruppo di persone o ad un outgroup, si trasforma in
stereotipo (errore ultimo di attribuzione). Ogni informazione situazionale o sociale che possa
spiegare il comportamento del gruppo viene sistematicamente ignorata o accantonata.
Negli USA è presente un fenomeno (curva di Bell) secondo cui le prestazioni scolastiche di alcuni
gruppi etnici risultano gerarchicamente classificate secondo l'ordine asiatici-angloamericani-
afroamericani. Un fattore che chiaramente influenza questo fenomeno è la minaccia dello
stereotipo: gli afroamericani, in situazioni valutative, sentono l'apprensione di confermare con il
loro comportamento lo stereotipo negativo dell'inferiorità intellettuale. Questo condiziona la loro
prestazione, confermando alla fine lo stereotipo. Lo stesso meccanismo si verifica con gli stereotipi
di genere.
Quando un membro dell'outgroup non si comporta come ci si aspetterebbe secondo lo stereotipo,
paradossalmente si tende ad attribuire questo comportamento “anomalo” a fattori situazionali,
mantenendo così l'attribuzione disposizionale di gruppo intatta.
Le persone che non sono mai state oggetti di pregiudizio trovano difficile capire cosa significa
essere “bersagli”. Essi cadono così spesso nella trappola di biasimare la vittima, attribuendo i loro
guai a mancanza di carattere e capacità. Tutto ciò rientra nella “visione del mondo giusto”,secondo cui nel mondo alla fine opera un principio di giustizia per cui ognuno ha quello che si
merita. Questo ci rassicura perché pensiamo che non ci capiterà mai niente di brutto se ci
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comportiamo in maniera corretta. E per rafforzare la nostra convinzione siamo anche disposti a
distorcere i fatti e le ricostruzioni retrospettive.
3.3 La teoria del conflitto realistico
Ogni genere di problema inerente il fenomeno ingroup-outgroup viene in realtà aggravato dalla
reale competizione economica, politica o di stato. La teoria del conflitto realistico sostiene che un
conflitto reale fra gruppi si instaura quando le risorse sono limitate. La competizione si genera dai
sentimenti negativi sviluppati nei confronti del gruppo contro cui si compete, e da qui al pregiudizio
e alla discriminazione il passo è breve.
Quando le risorse scarseggiano, i membri dell'ingroup si sentono più minacciati da quelli
dell'outgroup, e quindi vi è maggiore possibilità che si sviluppino pregiudizi, discriminazione e
violenza. Le ricerche correlazionali condotte sui fenomeni violenti durante le situazioni di crisi
confermano questa ipotesi.
In situazioni in cui non esiste un outgroup identificabile contro cui rivolgere le proprie
rivendicazioni, si fa strada la possibilità che si crei un capro espiatorio. Il caso degli ebrei nella
Germania nazista è esemplare. Tuttavia non sempre è così facile separare il pregiudizio causatodalla competizione da quello dovuto al fenomeno del capro espiatorio.
In ogni caso gli individui, quando sono frustrati o infelici, tendono a mostrare più aggressività nei
confronti dei gruppi che sono non graditi, visibili, e relativamente privi di potere. Le forme in cui si
manifesta l'aggressività dipendono da quanto permesso o approvato dall'ingroup in questione.
3.4 Le regole normative
Un comportamento sociale innocuo come il conformismo può diventare particolarmente pericoloso
quando entra in gioco il pregiudizio. Se viviamo in una società in cui le informazioni stereotipiche
abbondano e il comportamento discriminatorio è la regola, la maggior parte di noi svilupperà
atteggiamenti ostili e pregiudizi. In questo caso si parla di razzismo o sessismo istituzionalizzato.
Il conformismo normativo opera nel senso di indurre atteggiamenti pregiudiziali e comportamenti
discriminatori nelle persone che vogliono conformarsi ed adattarsi alle posizioni prevalenti della
maggioranza. E questa molto spesso è la causa principale del pregiudizio.
5/11/2018 Psicologia sociale - slidepdf.com
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In tempi recenti i cambiamenti normativi negli USA hanno fatto diminuire i comportamenti
discriminatori. Ciò non significa però che il pregiudizio sia stato eliminato: in realtà molti
mantengono i propri stereotipi, ma sono diventati più attenti a non mostrarli in pubblico. Questo
fenomeno viene chiamato pregiudizio moderno.
La conseguenza è che il razzismo e il sessismo devono essere studiati attraverso misure indirette enon intrusive. Recenti ricerche effettuate anche in Europa hanno dimostrato che il pregiudizio
nascosto ha un'influenza importante sulle opinioni delle persone circa le politiche di immigrazione:
non si parla di rimandare gli immigrati a casa loro, ma neanche ci si dà da fare per migliorare le
relazioni e i diritti civili degli stessi immigrati.
Nel caso del pregiudizio contro le donne, sono presenti le stesse forme latenti, che però in questo
caso si traducono in atteggiamenti ambivalenti, che fanno parlare di sessismo ostile e sessismo
benevolente. In ogni caso il sessismo, di qualunque valenza sia, serve a giustificare i ruoli sociali
tradizionali e stereotipati delle donne.
4. Come si può ridurre il pregiudizio?
Se il pregiudizio non si riesce a combattere su basi razionali, in quanto comporta anche aspetti
emotivi e cognitivi, può essere importante favorire le occasioni di contatto tra ingroup e outgroup.
Ma il semplice contatto non è sufficiente.
4.1 L'ipotesi del contatto
Diversi esperimenti sociali di integrazione che comportavano il contatto tra etnie diverse al fine di
ridurre il pregiudizio reciproco non hanno dato i risultati sperati, specialmente tra i bambini.
Sembra invece che il contatto abbia effetti positivi quando le persone hanno status uguale e perseguono gli stessi scopi.
4.2 Quando il contatto riduce il pregiudizio: le condizioni
Come hanno dimostrato diversi studi sperimentali, il contatto tra gruppi diversi, per avere un'utilità
nella riduzione del pregiudizio, deve basarsi su alcune condizioni:
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1. I due gruppi devono essere in situazione di interdipendenza, ovvero devono cooperare
per raggiungere uno scopo comune
2. i membri del gruppo devono essere uguali in termini di status e di potere
3. il contatto deve avvenire in condizioni amichevoli e informali, con contatti personali
4. gli individui devono percepire i membri dell'outgroup come tipici del loro gruppo
5. devono esserci regole sociali che promuovono e sostengono l'uguaglianza tra i gruppi
se tutte queste condizioni vengono rispettate, ci si può attendere una riduzione dei pregiudizi, degli
stereotipi e dei comportamenti discriminatori.