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Rivoluzione

Date post: 28-Mar-2016
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Gino Souvarine Gualandi, cresciuto nella Livorno rivoluzionaria di inizio Novecento, la lascia, giovanissimo, per giungere a Milano. Conosce gli scioperi operai nei primi anni del secolo, incontra la violenza e l’inquietudine di un primo amore inconfessato. Saranno le parole di Margherita a condurlo sul Carso, nella disperazione delle trincee e nell’entusiasmo delle imprese degli Arditi e del nascente fascismo. Un fascismo vissuto e descritto con le parole prima della dedizione, poi del dubbio, che sopraggiunge sbrecciando dolorosamente certezze e convinzioni. Nella vita di Souvarine, dei suoi figli, Vittorio e Bruno, e poi dei suoi nipoti si dipana la storia di una famiglia e la storia di tanti italiani. “Rivoluzione” è la parola che accomuna i cuori di tre generazioni, ognuna pronta a dare o a togliere ad altri la vita per un sogno, un ideale.
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Massimo Ghelardi Rivoluzione romanzo
Transcript

Massimo Ghelardi

Rivoluzioneromanzo

Dello stesso autore

Il mercante armeno

Massimo Ghelardi

RivoluzioneRomanzo

Editrice FiorentinaSocietà

© 2012 Società Editrice Fiorentinavia Aretina, 298 - 50136 Firenze

tel. 055 [email protected]

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isbn 978-88-6032-225-8

Proprietà letteraria riservataRiproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

Copertina a cura diStudio Grafico Norfini (Firenze)

A Mirella che prese per mano Massimoa Enrico, giovane anarchico, nel 1972a Enrica, custode di affetti e memorie

Rivoluzione

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prologo

Pisa, anno 1972

Venne il cattivo tempo, la pioggia inzuppava gli eskimo. Nell’aula magna della Sapienza l’aria impregnata di panni ba-gnati e fumo di sigarette ottundeva le voci dei capannelli che ascoltavano distrattamente l’analisi politica che il compagno di Avanguardia Operaia elargiva all’assemblea.

In attesa dell’intervento di Lotta Continua che avrebbe infiammato la platea con pochi slogan di immediata presa, i ragazzi più giovani, inebriati dall’aria greve, dalle luci degli austeri lampadari offuscate dal fumo, dalla parola “rivoluzio-ne” che ricorreva nei lunghi estenuanti interventi, respirava-no l’odore delle compagne, in un turbine di sensazioni e scon-volgimenti che facevano loro invidiare, detestare e adorare i capi, ai quali soli, sembrava, fosse riservato il privilegio del libero amore.

Si maceravano nella tempesta provocata dal contatto con corpi femminili, con lunghi capelli sfiorati e annusati, torna-vano a casa la sera pieni di parole, desideri, di voglia di ri-voluzione, di voglia di scopare, portandosi dentro il fumo, le luci, gli odori, il chiasso dell’assemblea appena conclusa, l’impazienza esasperante di confondersi di nuovo, l’indoma-ni, nella calca che precede il corteo per esplodere nell’urlo degli slogan.

Venne il cattivo tempo, a Pisa la pioggia di novembre ren-deva lucidi e scuri i mattoni delle spallette dei lungarni; le sedi della rivoluzione, sparse nelle vecchie strade del centro, accoglievano compagni che si alternavano al ciclostile. Sui vo-lantini sigle diverse: Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Federazione anarchica, Lega dei Comunisti, Circolo Carlo Marx, Servire il Popolo.

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Si avvicinava il 12 dicembre del 1970, primo anniversario della strage alla Banca dell’Agricoltura.

In ogni città si organizzavano manifestazioni e ci si prepa-rava agli scontri con la polizia.

Per Bruno ed Emanuele erano straordinarie le sensazio-ni che tumultuavano nell’animo durante le ore antecedenti alla manifestazione: la paura, l’orgoglio di esserci, la vo-glia di partecipare allo scontro con la polizia, tanto temuto quanto desiderato, e tutto questo esaltato dal loro essere anarchici, dal sentirsi depositari di un ideale e non di un’i-deologia.

Sembrava straordinario quello stringersi del cuore, quella scarica di adrenalina che scorreva nel sangue passando dinan-zi alla caserma della Polizia, in via S. Francesco, nel vedere le camionette che si riempivano di agenti, che preparavano elmetti e scudi e poi, più avanti, in via Cavour, la caserma dei carabinieri, altre camionette e i moschetti. Ci passavano davanti per raggiungere il luogo di concentramento del cor-teo, oltre l’Arno, ci passavano davanti per godere di quella tempesta nel cuore.

Aveva diciassette anni Bruno e quindici Emanuele. Ama-vano i loro genitori, borghesi e moderati, con quello strano, contradditorio sentimento che a quel tempo ispirò una scritta comparsa sui muri dei licei: «voglio essere orfano».

I sentimenti si accavallavano, li esaltavano e turbavano allo stesso tempo, accrescendo la voglia di partecipare a un’epoca straordinaria della vita e della futura rivoluzione.

La manifestazione si concluse senza incidenti. La sera il ritrovarsi a casa di altri compagni finì di sciogliere la tensione in lunghe discussioni.

Altre assemblee, altre manifestazioni.A Pisa passava il tempo e la loro vita. In Italia molto sangue veniva versato nelle strade e forse

alimentava alcuni dubbi, sempre respinti, però, giù nel pro-fondo, quasi con vergogna. La scelta politica era talmente le-gata al gruppo di amici che era impensabile poterla porre in

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discussione senza dover abbandonare quella che a diciotto anni è la vita, la sicurezza la passione: l’amicizia, appunto.

Cambiare, pensare diversamente da come fino a un certo punto si è pensato e si è dimostrato di pensare, significava tra-dire e dover rinunciare agli amici con i quali si stava crescen-do. Impossibile solo a pensarci, ed ecco, quindi, per soffocare i dubbi, l’inasprirsi delle idee e degli atteggiamenti.

E poi tornò il bel tempo, la primavera dell’anno 1972, ben poco era mutato nella vita quotidiana del movimento a Pisa. Ben poco era cambiato nella vita di Bruno ed Emanuele.

Giocavano con il sole e con la loro età.In quell’anno il gruppo anarchico Pinelli era cresciuto, la

sede della Federazione anarchica si trovava in via S. Martino, nelle grandi soffitte di un antico palazzo. Nella sala più grande, arredata con alcune file di poltrone da cinema, tra bandiere ros-sonere, ne spiccava una, grandissima, completamente nera e un ritratto di Pietro Gori. Il gruppo era formato prevalentemente da studenti delle scuole superiori. L’anarchismo che li aveva af-fascinati viveva nei libri di Malatesta, negli scritti e nelle poesie di Pietro Gori, nelle figure dei vecchi compagni, Nilo e Fore-sto. A quest’ultimo, in particolare, erano tutti molto legati. Una persona semplice, quasi paterna, che dell’ideale viveva l’aspetto umanitario, e la fierezza di una storia sconfitta ma bella.

Giorni convulsi di fine di aprile del 1972; per il 5 maggio era previsto un comizio di Niccolai, esponente del Msi, a chiusura della campagna elettorale.

Sui muri della città Lotta Continua affisse centinaia di ma-nifesti e un unico grande slogan, «cascasse il mondo sulla città niccolai non parlerà».

In città la tensione era grande e percepibile, dinanzi alle scuole il volantinaggio ininterrotto, si susseguivano le assem-blee. Tutti erano consapevoli che sarebbero arrivati allo scon-tro con la polizia. Il comizio era stato confermato: si sarebbe svolto in Largo Ciro Menotti. In pieno centro della città.

Lotta Continua e tutti i gruppi rivoluzionari vivevano que-sta concessione come una provocazione.

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Bruno ed Emanuele, la sera, spenta la luce, ognuno nel proprio letto, testa a testa separati dal mobiletto divisorio, ne parlavano.

Rivoluzione, anarchia, comunismo, Marx e Bakunin, pa-role e nomi sui quali si spendevano emozioni e vite.

La rivoluzione: sembrava di esserci dentro quel giorno sul Ponte di Mezzo. Arrivò il corteo, giù da Corso Italia, tra le bandiere rosse spiccavano le poche bandiere nere degli anar-chici.

Dinanzi, oltre il ponte, piazza Garibaldi era presidiata dai poliziotti.

La Celere con i tascapane gonfi e i gipponi. I carabinieri sui lungarni di tramontana.Il ponte era un lembo di terra tra due grandi eccitate paure.Di là dall’Arno: i celerini, gli elmetti, le celate calate sul

volto, mani strette sui manganelli, volti tesi.Dall’altra parte del ponte: il corteo, la rivolta, Lotta Conti-

nua in testa e poi gli altri gruppi ognuno con le proprie ban-diere sui corti bastoni da scontro.

Si alzò il coro dell’Internazionale, cantavano Bruno ed Emanuele e sembrava un’avventura: il canto metteva i brividi e la voglia di guerra.

E poi di nuovo gli slogan gridati.Il sole si abbassava sul fiume e il ponte era un lembo di

terra tra sogni diversi. I due ragazzi non conoscevo i sogni degli elmetti schierati

contro, esistevano solo i loro, quelli che salivano nel canto co-mune che animava i cuori dei poeti violenti della nuova storia.

Dinanzi, il silenzio degli scudi e delle celate travestiva e nascondeva i sogni dei ragazzi in divisa che Pasolini aveva difeso e cantato a Valle Giulia.

Alle prime cariche della Polizia il corteo sbandò, si sciolse, si frantumò in gruppi diversi, i gruppi organizzati e preparati alla battaglia.

La Polizia caricava in Corso Italia mentre i dimostranti si dividevano e fuggivano in via La Nunziatina e piazza La Pera.

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Il Lungarno fu interrotto da una barricata formata dalle auto lasciate in sosta. Terminate le molotov già preparate pri-ma degli scontri, altre ne vennero predisposte prelevando la benzina dalle auto.

Gli scontri si svolsero durissimi, a lungo, finché gli agenti non dispersero le ultime resistenze e superarono l’ostacolo della barricata dilagando in Lungarno.

Un anarchico, Franco Serantini, fu catturato e picchiato.Portato in carcere morì nella notte del 6 maggio 1972. Non cascò il mondo sulla città.Non cascò il mondo sulla città ma Franco perse la vita, i

sogni, la gioventù, il suo futuro.

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bandiere nere – bandiere rosse

Livorno-Genova, 1892

«Sovare, porta gli zerri a tuo padre e poi torna subito a casa».Sovare, una semplificazione familiare di Souvarine, era

il primo nome di Gino. Suo padre, lettore appassionato del Germinale di Zola, così aveva iscritto il neonato all’anagrafe, imponendolo, contro la volontà della moglie Maria, a ricordo del minatore anarchico, protagonista maledetto del romanzo. Per accontentarla avevano scelto Gino come secondo nome.

Così, secondo le circostanze, il figlio veniva indifferente-mente chiamato Souvarine o Gino

Non era felice quando la mamma lo incaricava di porta-re qualche pietanza al babbo. Spesso erano zerri, pesci della dimensione poco più grande dell’acciuga, fritti e conservati sotto pesto, aglio e aceto.

Ogni volta che suo padre, Ferruccio Gualandi, si trattene-va all’osteria Vita Nova con i compagni, Sovare doveva por-targli un piccolo tegame con la cena.

Il Circolo anarchico era composto da due stanze, ambedue con il soffitto a volta. Nella prima, lunga e stretta, trovavano posto un banco in pietra e un grande lavandino. All’estremità del banco era posizionata una damigiana dalla quale i compa-gni mescevano il vino nei boccali.

Alle pareti, fiocamente illuminate da lampade a petrolio, erano appese copie dei giornali rivoluzionari e disegni a car-boncino di rivolte popolari, frutto della fantasia o delle inter-pretazioni di vicende reali di un pittore, dotato e misero, che trovava a Vita Nova apprezzamento e un bicchiere di vino.

La seconda stanza, più ampia, era attrezzata con alcuni tavoli, panche e un lungo banco in legno scuro quasi addos-sato alla parete opposta a quella d’ingresso, dietro trovavano

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posto tre sedie e, distesa sulla stessa parete, lunga quanto il banco stesso, la bandiera anarchica, nera orlata di rosso.

Ferruccio era tornato da Genova dove anarchici e sociali-sti aveva definito le proprie posizioni e constatato l’incompa-tibilità di una comune organizzazione.

Mentre il secolo stava vivendo i suoi ultimi anni, il movi-mento operaio italiano aveva riunito i delegati delle organiz-zazioni socialiste e anarchiche e, a Genova, consumò la prima scissione della sua lunga storia.

Un’assemblea tesa, nervosa, nella quale i delegati di so-cialisti e anarchici si erano scontrati tra invettive e proteste senza riuscire, per molte ore, a dare un senso allo scontro che si stava consumando: dopo anni di lotte comuni e di violente dispute, per le due anime del movimento operaio era giunto il momento di prendere definitivamente atto che le strade si dividevano irrimediabilmente.

«Il congresso senza Malatesta è un’assurdità». Ferruccio parlava ad alta voce per farsi sentire dal compagno vicino, tanto era il frastuono per le grida e i fischi che accompagnava-no le parole degli oratori socialisti o anarchici. «Turati vuole la scissione, vogliono un partito riformista, vogliono tradire il popolo e la rivoluzione. Sono giunti preparati e determinati, mentre noi…».

L’assenza di Errico Malatesta era avvertita da molti anar-chici con angoscia. Era lui che si era opposto con decisione alla svolta riformista di Costa, sacrificando, con l’intransigen-za della sua militanza segnata dalle galere di mezzo mondo, la storia di una lunga amicizia, rotta non appena il socialista aveva accettato il mandato parlamentare e prestato quel giu-ramento nelle mani del re che suonava come una bestemmia al cospetto del popolo. Quell’amicizia, temprata nel fuoco delle battaglie comuni, non aveva trovato più ossigeno vitale nelle ceneri del compromesso con la borghesia.

Ma se Malatesta, fuggitivo in Svizzera, inseguito da un mandato di cattura, era assente, non mancavano certo espo-nenti di rilievo dell’anarchismo.

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Pietro Gori, avvocato, poeta, oratore trascinante, combat-tente dell’ideale e per questo esule in Europa e nelle Ame-riche, era riuscito a rientrare in Italia e poteva tener testa ai socialisti Prampolini e Turati.

Genova proletaria che digradava di caruggio in caruggio verso il mare, cercando l’aria libera e pulita che potesse di-sperdere il puzzo dei vicoli, sapeva, aspettava, ospitava quegli uomini, quelle pagliette e quei berretti flosci che a stento fa-cevano ombra a sguardi di fuoco, quei fiocchi neri annodati spavaldi a camicie senza colletto.

Genova proletaria li proteggeva.In quei caruggi, in cui l’odore delle reti dei pescatori si me-

scolava a quello delle stanze umide e malsane che non trova-vano aria sufficiente a dare fiato e respiro a lenzuola e maglie sudate, in molti si aspettavano che quegli uomini generosi, quei delegati delle associazioni di mutuo soccorso, dell’Inter-nazionale, delle leghe socialiste e degli anarchici, quegli uomi-ni che tutti insieme contavano centinaia d’anni di carcere o di esilio, potessero trovare, nel greve agosto, il soffio potente del vento di maestrale a cacciare dai vicoli il puzzo della miseria: il soffio potente della rivoluzione sociale.

Ma così non fu.Il movimento operaio si divise e il giorno successivo socia-

listi e anarchici proseguirono, divisi e in luoghi diversi, i loro congressi.

Pietro Gori, politico intelligente ma soprattutto poeta uso a percepire i sentimenti del cuore, aveva ben chiaro che la scissione appena consumata con i socialisti aveva creato per-plessità, delusione, sgomento nell’animo di molti delegati anarchici.

«Compagni, fratelli, è accaduto quanto non avremmo mai voluto che accadesse. Conosco la vostra amarezza perché è la mia stessa amarezza.

Molti di coloro che hanno abbandonato questa sala erano nostri amici fraterni, compagni di battaglie e di galera, li ab-biamo conosciuti uno a uno come uomini coraggiosi. Forse

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saremo nuovamente insieme nel prossimo futuro sulle barri-cate della libertà.

Forse.L’abbandono da parte loro della lotta intransigente per

l’uguaglianza sociale ha lasciato sgomenti i vostri, i nostri ani-mi, ma dobbiamo riconoscere che quanto avvenuto ieri ha fatto chiarezza e sarà faro di azione nel tempo futuro.

Loro chiedono il voto, loro accettano di sedere in quel parlamento ove siedono i nemici del popolo, loro credono che nel parlamento si possa agire in nome del popolo.

Bando agli inganni, ai giochi di parole, non sarà il parla-mento della borghesia oggi o dei socialisti domani quello che darà giustizia, emancipazione, uguaglianza.

La via del voto è una falsa strada.Non vogliamo elemosina, non vogliamo le briciole del

banchetto borghese.Noi vogliamo un mondo libero per tutti, un mondo di

eguali e questo si ottiene solo con la rivoluzione sociale.Viva la rivoluzione, viva l’anarchia!».Tutti, nessuno escluso, parteciparono all’ovazione.Pietro Gori aveva letto nel loro animo e aveva detto le pa-

role che ciascuno aspettava.Il congresso riprese vigore, seguirono altri interventi. Mol-

ti anarchici avevano bisogno di parlare, avevano bisogno di riaffermare la propria fede per cacciare dai cuori ogni nero presagio. Ma se riuscirono a rassicurare se stessi, la scissione pose il seme della sconfitta.

Ferruccio aveva partecipato al congresso ed era tornato a Livorno amareggiato e fiero nello stesso tempo: i sociali-sti avevano scelto la collaborazione con la borghesia, ma gli anarchici no! Loro avrebbero continuato la battaglia in nome dei proletari d’Italia e del mondo.

Quella sera Ferruccio avrebbe esposto ai compagni di Li-vorno gli esiti del congresso.

«Vieni Sovare» accolse il figlio con uno scappellotto «met-titi a sedere con noi».

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Gli tolse il piatto dalle mani e prese un pesce, invitando con un gesto gli altri a servirsi.

«Ha detto mamma che devo tornare subito a casa».«Dai siediti che nessuno ti mangia» «Babbo, è buio».«E tu hai paura del buio? Non c’è niente nel buio. O forse

hai paura di quel diavolo con cui ti riempie la testa tua madre. Diavoli e preti; accidenti a lei! Li vedi questi uomini? Loro sono i diavoli, guarda le mani. Lo vedi? Sono nere. Sono nere perché hanno spalato carbone all’inferno. Sono i diavoli nelle cui mani brucia il fuoco della rivoluzione sociale. Anche il tuo nome è nero, Souvarine, è il nero e il buio della miniera da cui scaturirà la luce della libertà».

Ferruccio parlava serio e feroce. Gino lo guardava impau-rito.

indice

3 Prologo

8 Bandiere nere – Bandiere rosse

13 Carabinieri

15 Giuseppe Bandi

23 Il pugnale

25 Sangue

27 La fuga

30 Sciopero

37 Margherita

48 Casa Sarfatti

54 Volontario

59 In trincea

63 Il ritorno

71 Mussolini

77 Fasci di combattimento

83 Loredana

89 Battaglia in città

96 Una famiglia per Gino

101 Guerra

108 Vittorio

122 Il notaio Degortes

127 Servizio segreto

134 Missione in Corsica

143 Bruno e Vittorio

149 Il segreto di Cardona

167 Bombardamento

173 O.V.R.A.

185 Fuga a Cagliari

189 Carabinieri: arrestate Mussolini

197 Rosaria Figuera

202 Due spari nella villa

207 Viaggio di notte

214 Bruno

219 Cardona è salvo

228 Armistizio

234 Livorno è libera

237 Epilogo

Finito di stampare

nel settembre 2012da Atena.net (Grisignano - Vi)

Questo volume è stampato su carta ecologicaFabriano Bioprima

Book da100 gr


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