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Rosario Tomarchio - La Musica Improvvisata, Paradigmi Generali e Declinazioni Palermitane

Date post: 10-Aug-2015
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Tesi di laurea triennale in Discipline della musica, Lettere e Filosofia - Palermo
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Università degli studi di Palermo LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea Discipline della musica LA MUSICA IMPROVVISATA Paradigmi generali e declinazioni palermitane Elaborato finale della laurea triennale Relatore: Candidato: Prof. Massimo Privitera Rosario Tomarchio A.A. 2009-2010
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Università degli studi di Palermo

LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea

Discipline della musica

LA MUSICA IMPROVVISATAParadigmi generali e declinazioni palermitane

Elaborato finale della laurea triennale

Relatore: Candidato:

Prof. Massimo Privitera Rosario Tomarchio

A.A. 2009-2010

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LA MUSICA IMPROVVISATAParadigmigeneraliedeclinazionipalermitane

IndICe 0. Prefazione

0.1 Premessa p. 7

0.2 Introduzione p. 7

0.3Ringraziamenti p. 8

PARTE I:

L’IMPROVVISAZIOne

1. Teoria

1.1 Introduzione p. 9

1.2 La definizione dello swing p. 10

1.3 RRF (Registrazione/Riproduzione Fonografica) p. 11

1.4 PAT (Principio Audio-Tattile) p. 12

1.5 CNA (Codifica Neo-Aurale) p. 12

1.6 Estemporizzazione p. 12

2. Storia

2.1 Introduzione p. 14

2.2 Musica d’arte ed ecclesiastica occidentale

2.2.1 Introduzione p. 14

2.2.2 Medioevo p. 14

2.2.3 Rinascimento/Barocco p. 15

2.2.4 Organistica p. 16

2.2.5 Periodo classico/Beethoven p. 17

2.2.6 Contemporanea p. 18

2.3 Rock e Jazz

2.3.1 Rock p. 19

2.3.2 Jazz p. 20

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3. Prassi

3.1 Introduzione p. 22

3.2 G.I.N.C. (Gruppo improvvisazione nuova consonanza) p. 22

3.3 Derek Bailey p. 24

3.4 Paul Bley p. 25

3.5 Esperienze personali p. 27

4. Sociologia – Psicologia

4.1 Introduzione p. 28

4.2 Emittente, il modello di Pressing p. 28

4.3 Ricevente, il ‘pubblico’ p. 29

4.4 La registrazione p. 30

4.5 Il processo è il prodotto p. 31

4.6 Capacità improvvisative p. 32

5. Pedagogia

5.1 Introduzione p. 35

5.2 Didattica p. 35

5.3 Consegne p. 37

5.4 Conclusioni p. 39

PARTE II

CURVA MInORe

6. Curva minore

6.1 Curva minore p. 41

6.2 Progetti passati p. 42

6.3 Il presente p. 43

7. Lelio Giannetto

7.1 L’uomo p. 44

7.2 Il musicista p. 46

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7.3 Il didatta p. 47

7.4 Discografia p. 49

8. L’intervista

8.1 Premessa p. 52

8.2 L’Intervista p. 52

8.3 Osservazioni p. 64

9. epilogo

9.1 Considerazioni finali p. 65

9.2 Progetti futuri p. 67

BIBLIOGRAFIA

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Prefazione

L’improvvisazione, immagine silenziosa, scarto dell’esistente, scandisce il tempo della creazione: essa poeticamente accade.

Non scivola sulle nostre figure, non traspare dalle nostre forme, non alterna come altro. Informa di sé la vita del suono.

Diventa, quindi, verità: suono vitale, mythos e logos, inscindibile fusione, assurda divinità.

L. Giannetto, IlContrabbassoparlante,Ipuntata –1997

0.1 Premessa La scelta di occuparmi di improvvisazione nella mia tesi di laurea è avvenuta senza attrito alcuno, né ripensamento. Da ormai quasi dieci anni la musica improvvisata, nelle sue forme più varie, è parte integrante della mia vita: essa è stata il cardine principale della mia crescita come uomo oltre che come musicista. La voglia dunque di analizzare e ampliare la diffusione di un argomento finora poco approfondito è il presupposto principale di questa tesi.

0.2 Introduzione Le finalità di questo lavoro sono due e consistono in prima istanza nel tentativo di dare un’illustrazione degli aspetti principali che riguardano il mondo dell’improvvisazione.

TEORIA: Ho deciso di partire dall’aspetto teorico in quanto risulta essere indispensabile nel proseguo della trattazione: ci permette, infatti, di avere finalmente un quadro chiaro di quello che, sia a livello etimologico che epistemologico, fino ad oggi è stato visto in maniera opaca o spesso non condivisa. Ciò avviene quasi esclusivamente grazie al lavoro illuminante di Vincenzo Caporaletti1, che nel suo Iprocessiimprovvisatividellamusica–Unapproccioglobaleè riuscito a dare una revisione sistematica al sistema musicale sin dalle fondamenta, introducendo e chiarendo concetti, come quello di estemporizzazione che, come dice Maurizio Franco: «appare da subito centrale per l’evoluzione degli studi in materia e apre un nuovo universo di indagine che rende improvvisamente datata la bibliografia intorno all’argomento» [Franco 2005, pag. 4].

STORIA: Non senza questa nuova definizione dei concetti d’improvvisazione ed estemporizzazione si può andare a elencare quelle che nella storia sono state riconosciute come pratiche improvvisative; vedremo, infatti, come i processiaudiotattili siano sempre stati presenti nella storia, dall’uomo primitivo fino alla musica contemporanea.

PRASSI: Andremo qui a vedere nello specifico, attraverso alcuni esempi particolarmente rilevanti, come tutto ciò abbia influito sulla prassi di alcuni artisti che, pioneristicamente, hanno portato avanti queste forme di musica (G.I.N.C. Derek Bailey, Paul Bley). In questo punto troverà spazio anche una piccola riflessione sulla mia esperienza personale.

1 Vincenzo Caporaletti: Musicologo, musicista e compositore, svolge dai primi anni Settanta attività professionale come concertista (chitarra classica) e come strumentista, compositore e arrangiatore negli ambiti della musica pop e rock. È stato elemento di punta del movimento progressiverock italiano, fondando il gruppo PierrotLunaire; in seguito, nel campo del jazz, ha collaborato con rilevanti artisti italiani e nord-americani. Contemporaneamente si è dedicato all’indagine musicologica: esiti della sua Teoria delle Musiche Audiotattili, volta a delineare un innovativo modello interpretativo delle esperienze musicali del jazz, del rock, della popular music contemporanea, sono stati recepiti in sede istituzionale dal Decreto MIUR 22/01/2007, n. 483 – DefinizionedeiNuoviOrdinamentiDidatticideiConservatoridiMusicae nel successivo Decreto MIUR 03/07/2009, n. 90 – SettoriArtistico-DisciplinarideiConservatoridiMusica.

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SOCIO/PSICOLOGIA: Dopo aver analizzato l’improvvisazione nella storia e nella prassi, passeremo ad analizzare brevemente alcuni studi su come l’attività improvvisativa sia legata all’aspetto sociale e psicologico dell’uomo.

PEDAGOGIA: Vedremo qui alcuni esempi di come l’improvvisazione secondo alcuni studiosi e docenti venga considerata un prezioso strumento pedagogico, musicale ma non solo.

La seconda parte è incentrata sull’approfondimento di una realtà musicale, organizzativa e artistica che è frutto della nostra terra e punto di riferimento internazionale: Curvaminore, nella figura del suo animatore Lelio Giannetto.

CURVA MINORE: Introducendo l’associazione palermitana, vedremo in breve alcune delle sue attività passate e presenti.

LELIO GIANNETTO: Fondatore, direttore, vero e proprio albero motore dell’associazione, oltre che musicista. Brevi cenni alla biografia e alla sua produzione discografica, utili a introdurre la successiva intervista.

INTERVISTA: Un felice incontro che mi ha portato a sentire e registrare come ‘suonano’ le parole della musica improvvisata in Sicilia, scoprendo la forza vivace di una mente aperta e disponibile al confronto, quella di Lelio Giannetto.Un viaggio nella musica palermitana, e non solo, dagli anni ottanta ai progetti futuri. Una tanto lucida quanto improvvisata disquisizione, costeggiante molti degli argomenti qui trattati, che partorisce alcune riflessioni, a mio parere, estremamente stimolanti.

0.3 Ringraziamenti Il principale ringraziamento va alla mia famiglia: mio padre, mia madre che mi hanno sostenuto e mi continuano a sostenere nella vita e negli studi con infinito amore nonostante le enormi difficoltà.

A Massimo Privitera per la sua disponibilità e gentilezza.

A Lelio Giannetto per l’incredibile capacità di trovare il tempo e la forza in tutto quello che fa compreso l’aiutarmi in questa avventura universitaria.

A tutti quelli che lavorando all’interno della sezione AGLAIA dell’UNIPA e nello specifico del corso di laurea in discipline della musica mi hanno permesso di approfondire e studiare rendendo così possibile quello che spesso è ritenuta un’utopia, fare ciò che piacefare.

Agli amici e dalle persone che mi sono state vicine su(o)pportandomi.

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PARTE I

L’improvvisazione

1 Teoria

Per improvvisazione si intende un’esecuzione musicale spontanea ed immediata, non vincolata dal sistema di scrittura o da un atto creativo che la preceda e che

stabilisca i materiali esecutivi. In realtà l’improvvisazione è spesso basata su modelli o stereotipi che fungono da guida ma che non costituiscono un impedimento troppo

gravoso all’espressione personale dell’esecutore. In tal senso, l’improvvisazione si situa in un terreno centrale tra la composizione e l’esecuzione pura e semplice.

Vi sono casi nei quali l’improvvisazione è prevista dal compositore ed inserita nelle opere musicali. Può essere lasciata completamente alla libera iniziativa

dell’esecutore (alea) o guidata attraverso prescrizioni più o meno rigide.

Wikipedia – Glossariomusicale

1.1 Introduzione

Nella prefazione di La definizione dello swing Vincenzo Caporaletti presenta l’idea di musicheaudiotattili raggruppando le definizioni di: musica popolare, musica orale, musica moderna, musica giovanile, individuando così «una qualificazione genetico-funzionale[…] riferita al contesto sociologico» [Caporaletti 2000, pag. 8] di tutte quelle che sono definite genericamente musiche extra-colte. Come vedremo in seguito, la rifondazione terminologica di Caporaletti si espanderà anche ad altri aspetti – RRF, groovemi, swing-idioletto e swingstruttura, PAT – fondamentali nella ridefinizione, non solo etimologica ma anche teorica e ideologica, del concetto di musica improvvisata. Ridefinizione alquanto preziosa per orientarsi in questo complesso argomento. Uno dei motivi principali di confusione è dato dal mancato utilizzo del termine, spesso più esatto, di estemporizzazione che è

«[…] in grado di risolvere le problematiche terminologiche che sorgono quando, per esempio, si vuole spiegare cosa faceva un musicista come Liszt quando improvvisava delle varianti su composizioni preesistenti, o Louis Armstrong quando interpretava con atteggiamento da improvvisatore una melodia scritta, ma anche il tipo di elaborazione che un percussionista africano attua intorno a schemi ben definiti, o come il maestro indiano di sitar costruisce le sue interpretazioni dei raga […] viene a collocarsi in una fascia intermedia fra quella della pura interpretazione letterale e l’improvvisazione vera e propria, quella, cioè, che produce una creazione ex-novo, un’invenzione del momento con caratteri ben più ampi di quelli della semplice interpretazione creativa. Una fascia che, rispetto agli aspetti visivi impliciti nella realizzazione della musica scritta, ci proietta in un altro ambito di pensiero: quello delle musiche in cui è presente una concezione audio-tattile» [Franco 2005, pag. 4].

Questa è la sintesi che Maurizio Franco svolge sul pensiero innovativo di Caporaletti basato sul principioaudiotattile (PAT):

«Principio sintetico, organico, globale, di adesione somatico-comportamentistica alla dimensione sonora, in funzione del quale il materiale musicale si configura e organizza in uno specifico senso linguistico-formale. Dà luogo a una modulazione fisico gestuale di energie sonore, agendo in modo determinante ai fini della strutturazione del testo musicale» [Caporaletti 2000, pag. 278].

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Siamo di fronte ad una riclassificazione dei principi generativi della musica. Si viene a creare una distinzione tra: musiche di natura eurocolta, basate su scrittura e rigidità esecutiva; musiche che possono essere appellate come improvvisate, estemporanee, aleatorie, libere o composizioni istantanee e le musiche di tradizione orale. Andiamo a vedere nello specifico il percorso che ha portato Caporaletti alla ridefinizione concettuale del mondo delle musiche improvvisate.

1.2 La definizione dello swing

Procederò con la sintesi di Ladefinizionedelloswing: il testo di Caporaletti dove vengono presentati per la prima volta, quasi tutti i concetti teorici della futura analisi sulle musiche improvvisate. La riflessione teorica fondamentale per l’improvvisazione parte da un elemento fondamentale del jazz, lo swing. Un termine per sua natura ambiguo ma fondamentale per quelle che sono le dinamiche interne alla struttura della musica jazz; termine che, se inteso come sinonimo di groove2, diventa ancora più il soggetto centrale di un progetto d’analisi delle musiche che possiamo cominciare a definire audiotattili, ad esempio il jazz ed il rock in tutte le loro forme. Caporaletti si rende conto che le definizioni di swing, fino a quel momento, risultavano troppo superficiali e decide di andare in fondo a quelle che sono le dinamiche di definizione delle musiche extra-colte. Nota così che uno dei principali errori concettuali e di definizione terminologica deriva dall’incongruenza tra il sistema generativo dello swing e quello analitico; si crea così una dialettica tra l’impianto teorico-musicale occidentale di natura visiva – e qui Caporaletti tiene in forte considerazione il pensiero di McLuhan3 – e il principio audiotattile. Swing, letteralmente dondolio, usualmente affiancato alla «tipica pronuncia ritmica ternarieggiante, dal carattere propulsivo rispetto all’andamento del brano» [Caporaletti 2000, pag.26]. Un termine per Caporaletti concettualmente divisibile in due grandi filoni, quello dello swing –idioletto e quello dello swing–struttura, termini che lo stesso autore illustra nella seguente maniera:

«Swing – idioletto: Sottocategoria del concetto di swing che ne indica l’aspetto più propriamente linguistico-musicale di particolare etimo ritmico fonico riconoscibile. È lo swing nell’accezione in cui è comunemente inteso. Swing–struttura: Sottocategoria del concetto di swing che ne identifica la peculiarità formante al di qua dei concreti investimenti formali che danno origine allo Swing–idioletto. È la dimensione immanente a qualsiasi tipo di etimo inflessivo nei linguaggi musicali di origine africano-americana, che si esplica attraverso il PAT» [Caporaletti 2000, pag. 278].

Swing – idioletto dunque come forma individuale, soggettiva, analizzabile al microscopio attraverso «gli elementi sonori di attacco, dinamica, emissione, le inflessioni timbriche [che] vengono a costituirsi come parte integrante dello swing, assieme alle loro determinazioni relative alla dimensione temporale, nel fattore di durata, inteso però a livello micro ritmico» [Caporaletti 2000, pag. 58]. Queste modificazioni espressive che avvengono a livello micro ritmico, sono chiamate da Caporaletti groovemi:

«Il groovema corrisponde alla più piccola unità temporale, teoricamente proporzionale all’unità di impulso (beat) di una pulsazione tendenzialmente isocrona (continuouspulse), passibile di attivazione sonora da parte del Principio audiotattile. È la particella sonora elementare dello swing» [Caporaletti 2000, pag. 277].

2 La parola inglese groove indica una serie ritmica che si ripete ciclicamente, generalmente ogni battuta. È un termine popolare, in uso già dagli anni sessanta. La sua traduzione letterale èsolco, esiste tuttavia anche il verbo inglese togroove, con il significato di divertirsi intensamente. Il termine groove si usa per definire un certo portamento del ritmo tipico di taluni generi come per esempio funk e r’n’b. Si differenzia da quello che nel jazz è definito swing soprattutto per un’indicazione più marcata di ripetitività. Caratteristica comune a entrambi i concetti è la possibilità di inserire minime variazioni all’interno della una sequenza ritmica.3 Il quale non solo suggerisce, involontariamente, il termine audiotattile, ma colpisce il pensiero di Caporaletti anche attraverso l’idea di “narcosi culturale” ossia «l’impossibilità di straniamento rispetto ai presupposti stessi della nostra visione del mondo, e dai principi che la informano»: conducendolo dunque a comprendere come la chiusura concettuale abbia creato una forzatura teorica ed etimologica dei termini applicati alle musiche extra-colte, che ha portato all’incapacità di poterle analizzare in maniera obiettiva.

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In altre parole il groovema è il corrispondente audiotattile della nota ed identifica le energie sonore di grandezza modulabile, analizzabili tramite gli spettri di frequenza. Analisi che sono state condotte con ottimi risultati dallo stesso Caporaletti, secondo il protocollo del modello analiticointegrato, e che dallo stesso sono così commentate proprio alla chiusura del testo:

«La razionalità che la filosofia novecentesca ha attribuito alle attività formativo-strutturanti della dimensione corporea è resa evidente in questi elementi, in ragione della loro euritmica complessione, proiettata nella luce della creatività storica dai nuovi linguaggi musicali del XX secolo, il jazz e le musiche audiotattili in generale. La sapienza architettonica degli artisti, attivata nell’azione del Principio audiotattile, continua a imprimere così nella sostanza della materia sonora – nella dimensione più riposta del tempo – strutture che solo un’analisi condotta all’interno del microcosmo formale può svelare, simili a cristalli di estrema cangiante geometrica bellezza» [Caporaletti 2000, pag. 274].

1.3 RRF (Registrazione/riproduzione fonografica)

Passando all’analisi di un altro testo di Caporaletti, Processiimprovvisativinellamusica–Unapproccioglobalepercepiamo, sin da subito, la necessità di entrare nell’idea della non neutralità del mezzo comunicativo. Questa riflessione parte ancora una volta dal sopracitato Marshall McLuhan4, il quale ci ha dimostrato come il medium modifica proporzioni, ritmi e schemi nelle relazioni umane e nella percezione del mondo; non agisce, come comunemente si è portati a credere, quale neutro veicolo d’informazione ma contiene un alto ruolo formativo. Per il sociologo gli effetti socio antropologici di un particolare medium sul sistema sensoriale –percettivo sono preponderanti persino rispetto alle norme d’organizzazione interna e funzionale dei meccanismi comunicativi. Da queste intuizioni, Caporaletti individua un nodo d’analisi concettuale fondamentale per il seguito della sua dissertazione sulle musiche improvvisate, creando così una chiara classificazione dei media presenti nelle diverse categorie musicali: mnemonico nelle culture orali, notazione scritta nella cultura visiva moderna e RRF (registrazione/riproduzionefonografica) nella cultura postmoderna elettronica. L’RRF è dunque il fulcro costitutivo (non senza l’apporto del PAT come vedremo nel prossimo paragrafo) nella definitiva separazione delle musiche audiotattili da quelle orali e visive. Andiamo a vedere come con l’aiuto di questo schema:

A questo punto dell’analisi, nasce la definitiva necessità di introdurre un nuovo elemento mediale, identificato da Caporaletti nell’espressione PAT.

4 Herbert Marshall McLuhan (Edmonton, 21 luglio1911 – Toronto, 31 dicembre1980) è stato un sociologo canadese. La sua fama è legata all’interpretazione degli effetti prodotti dalla comunicazione sia sulla società nel suo complesso sia sui comportamenti dei singoli. La sua riflessione ruota intorno all’idea secondo cui il mezzo tecnologico, che determina i caratteri strutturali della comunicazione, produce effetti pervasivi sull’immaginario collettivo, indipendentemente dai contenuti dell’informazione di volta in volta veicolata. Di qui, la sua celebre frase “il mezzo è il messaggio”.

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1.4 PAT (Principio Audio-Tattile)«[Il PAT è un] medium costituito dal sistema senso motorio del performer “che dà luogo a una modulazione fisico-gestuale di energie sonoro-musicali, agendo in modo determinante ai fini della strutturazione del testo musicale. Esso sancisce in senso estetico, l’insorgenza comportamentale aptico-corporea, di natura extratestuale, nel tradizionale dominio della Forma” ma soprattutto, si qualifica come elemento discriminante e alternativo rispetto alla formatività musicale, sia compositiva sia performativa, nei suoi risvolti materiali e simbolici, che si esercita attraverso il medium della notazione musicale» [Caporaletti 2005, pag. 74].

Come si può evincere dallo schema del paragrafo precedente, il PAT è lo strumento che ci permette di individuare e riconoscere quelle musiche che si differenziano dal mondo visivo creato dalla cultura occidentale. Il nucleo centrale del Principio audiotattile è formato da tutte le caratteristiche sonore espunte dal codice di decifrazione notazionale, perché considerate non misurabili, come se «i fondamenti epistemologici immanenti nel sistema teorico avessero interagito subliminalmente col pensiero creativo dei compositori, imponendo le proprie premesse e svalutando determinate direzioni di ricerca formale –estetica, a essi non coestensive» [Caporaletti 2005, pag. 76]. Musiche che a questo punto dell’analisi, possiamo distinguere anche da quelle orali per la presenza del concetto di opera e di mobilità estetica, entrambi rilevabili anche nell’aspetto ricettivo del PAT, la CNA(Codifica Neo-Aurale).

1.5 CNA (Codifica Neo-Aurale)«[Il] concetto di “opera” nel senso occidentale, come oggettivazione concreta di un’espressione soggettiva connotata da originale e distintiva intenzionalità creativa, (la “volontà di forma”), congiuntamente a proiezioni della nozione romantica di “genio” [è] immanente nella tradizione musicale scritta occidentale e assente in quella orale e inoltre come componenti semantiche di tali5 categorie [è evidente come] a determinate condizioni e con parzialmente mutate prerogative tornino a caratterizzare le espressioni formali della cultura audiotattile tecnologica, attraverso ciò che definiamo “codifica neoauratica”, con l’oggettivazione singolarizzante prodotta dal mezzo di registrazione/riproduzione fonografica della transitorietà evenemenziale» [Caporaletti 2005, pag. 77].

Un esempio lampante, di come la registrazione possa direzionare i meccanismi interni ai generi musicali contemporanei, lo si può individuare nel jazz ed in come l’ascolto delle registrazioni abbia notevolmente influito sul modificarsi e accrescersi di questo fenomeno, sia a livello sociale che formale. Basti pensare quanto, essendo staccata dalle convenzioni formali, la musica non scritta (o anche di natura estemporizzativa, il rock ad esempio) sia legata alla codifica che ne è data dal pubblico che spesso ne viene a conoscenza solamente tramite l’ascolto in disco. Mi sembra evidente come al giorno d’oggi, nelle musiche audiotattili, i supporti di registrazione abbiano sostituito la funzione vettoriale della notazione musicale, divenendo così la causa scatenante una serie di generi e manifestazioni musicali non più ascrivibili e codificabili all’interno della musica colta.

1.6 Estemporizzazione

Un ultimo approfondimento concerne la divergenza dei termini estemporizzazione e improvvisazione ed è fondamentale per andare ad analizzare correttamente la storia dell’improvvisazione. L’assunto teorico fa leva sulla distruzione della dialettica che vede opporsi l’improvvisazione e la composizione. Il concetto d’improvvisazione per Caporaletti nasce nel 1477 quando Johannes Tinctoris, nel Liberdeartecontrapuncti, afferma: «il contrappunto scritto comunemente è definito resfacta» vincolando la stabilizzazione semantica del concetto di composizione al medium semiografico, istituendo così il cantuscomposituse differenziandolo dal cantaresuperlibrum. 5 Riferendosi a quelle appena citate del concetto di opera, di genio, di volontà di forma.

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Tralasciando le accezioni negative che da quel momento il termine improvvisazione assunse, sappiamo che con questo termine oggi si è soliti rubricare l’attività presente in tutte le musiche precedenti alla composizione scritta, le musiche di tradizione orale, le musiche cosiddette pop (il rock e il jazz soprattutto) ma anche le musiche extraeuropee; cosa che comporta non pochi fraintendimenti e dubbi in merito. Per questo motivo risulta necessaria una separazione concettuale fra attività estemporizzativa e improvvisazione vera e propria.

Estemporizzazione è per Caporaletti quel «complesso di pratiche che poggiano sulla personalizzazione del modello la propria legalità formale» [Caporaletti 2005, pag. 106], oppure

«Forma del processo costitutivo di codifica testuale nelle musiche in cui agisce il principio audiotattile […] strategia creatrice, funzione sia del PAT, sia del processo di feed-back eventualmente derivante dall’uditorio, che si formalizza relativamente al modello e che interagisce con sistemi normativi in funzione di codici» [Caporaletti 2005, pag. 110].

Al contrario l’improvvisazione è presente in una quantità minima di realtà, quasi assente ad esempio nelle musiche di tradizione orale e nella maggioranza di quelle extra-europee (dove per europee s’intende diorigine europea), ed è connotata essenzialmente dalla

«Possibilità di trasmutazione della norma estetica [e] assume significato di volta in volta in relazione a tematiche extramusicali sovraordinate che concernono il valore attribuito all’individualità e originalità, in un dato contesto sociale, e la configurazione di concetti estetici come quello di “opera d’arte”, intimamente connessi nella musica occidentale colta con la composizione scritta» [Caporaletti 2005].

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2 Storia

Come può un modello teorico fondato su di un’opposizione categoriale generatasi all’interno di una specifica cultura (in questo caso la cultura della Modernità

europea) divenire il paradigma interpretativo per la prassi musicale di culture ad essa estranee (arcaiche, extraeuropee, contemporaneo-elettronica: in altri termini,

le culture non-moderne) tentando di renderne conto?

Vincenzo Caporaletti, Iprocessiimprovvisativinellamusica–Unapproccioglobale – 2005

2.1 Introduzione

In questo capitolo verrà presentata un’elencazione delle realtà storiche, dove sono state – e in parte sono tuttora maggiormente diffuse – le pratiche di natura estemporanea e improvvisativa: classica, contemporanea, organistica, rock e jazz.

2.2 Musica d’arte ed ecclesiastica occidentale

2.2.1 Introduzione La musica d’arte risente, com’è normale che sia, di tutti i fraintendimenti etimologici e concettuali di cui abbiamo parlato: sarebbe spesso più corretto fare uso di termini come interpretazione o estemporizzazione. Possiamo trovare un punto analitico di partenza nel manuale di storia della musica di Elvidio Surian dove, parlando del periodo classico ottocentesco, l’autore afferma:

«Crescono d’importanza la figura e il concetto stesso di autore. […] Il ruolo del compositore tende inoltre a staccarsi sempre più da quello del virtuoso interprete/improvvisatore e dal comune membro di un’orchestra. […] Così lo spazio aperto all’improvvisazione dell’interprete si restringe via via sempre più, fino quasi ad annullarsi (si estinguerà pressoché totalmente nel nostro tempo): restano le cadenze, mentre le ornamentazioni in funzione espressiva tendono a essere scritte per esteso, come nel caso delle opere di G. Tartini» [Surian 1995 vol.2, pag. 300/301].

Abbiamo qui la conferma di come in realtà fosse diffusa, almeno fino a quel momento, la pratica del compositore di estemporizzare sulle sue stesse composizioni durante le esecuzioni in pubblico e come questa sia andata nel tempo svanendo portandosi dietro un alone negativo di procedura poco valida. Anche Derek Bailey afferma qualcosa di molto simile:

«Quando si cominciò a ritenere la creazione musicale prerogativa particolare di una sola persona […] fu evidente che non si desiderava più la presenza di un elemento tanto aleatorio come l’improvvisazione. Gradualmente, l’improvvisazione venne confinata in aree accuratamente segregate, in genere nell’ambito della cadenza, e quindi, dopo un periodo in cui si menzionò il fenomeno principalmente per lamentarsene […] si passò al bando definitivo» [Bailey 1982, pag. 59].

2.2.2 Medioevo

Leggiamo la definizione di Michels delle prime comparse di estemporizzazione nella musica antica:

«Una delle cause per cui ancora oggi così poco si sa sulla prassi esecutiva della musica antica è il fatto che molto veniva improvvisato e quasi nulla annotato. Ciò riguarda l’improvvisazione di nuove parti, la realizzazione del basso continuo, l’inserimento di sezioni improvvisate come le cadenze dei concerti solistici (fino a Beethoven) e la prassi dell’ornamentazione» [Michels 1994, pag. 73].

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Un vasto campo di attività che dimostrano, una coesistenza delle pratiche visive e non. Ne abbiamo prova sin dalle prime forme di polifonia, originariamente l’organum6 era improvvisato; mentre un cantore eseguiva la melodia scritta (la cosiddetta vox principalis), un altro a orecchio forniva la seconda melodia trasposta (la vox organalis). Nel discantus supra librum l’unica cosa di cui si aveva notazione era la melodia, mentre l’accompagnamento delle voci aggiunte era implicito: dato che poteva essere improvvisato secondo una prassi dalle regole ben codificate, non si riteneva opportuno annotarlo. Nei ‘melismi’ alleluiatici, che consistono in fioriture melodiche molto estese fino a «40 note su una singola sillaba del testo» [Surian 1991 vol. I, pag. 72]. Per concludere ritengo sia interessante notare come

«Durante tutto il medioevo ed il rinascimento, il contrappunto improvvisatosulcantusfirmus (una pratica che era possibile trovare sia nella musica ecclesiastica che da ballo popolare) costituiva una parte essenziale dell’educazione musicale di ogni musicista, ed è considerata la più importante pratica di musica non scritta prima del periodo barocco».7

2.2.3 Rinascimento/barocco

Per quanto riguarda il rinascimento, è importante rilevare come questo periodo «pur se caratterizzato nei campi delle lettere e delle arti plastico-visive da una recisa affermazione dei portati della soggettività e dell’individualismo creativo – insomma, da prerogative visive – nella musica recava pur tuttavia forti connotazioni d’ascendenza orale-aurale, probabilmente irredimibilmente embricate nella natura simbolica della sostanza sonora stessa» [Caporaletti 2005, pag. 227]. Uno dei principali campi per l’affermazione di questa condizione erano le diminuzioni degli espedienti volti ad articolare le note più lunghe di una melodia, internamente alla specifica dimensione temporale, con valori più brevi e le ornamentazioni chiamate abbellimenti che rappresentavano il

«Dominio vero e proprio della pratica audio-tattile, in cui la nota subisce un trattamento vocale o tecnico-strumentale per cui le ornamentazioni assumono valore strettamente formulare. In particolare, con l’età Barocca è paradigmaticamente selezionata tutta una congerie di formule […] che cominciano a essere annotati (e), attraverso la simbologia appropriata, nelle composizioni» [Caporaletti 2005, pag. 228].

Va considerato, inoltre, che

«L’uso dell’abbellimento improvvisato si estendeva dalle forme sacre a quelle secolari, dalle arie operistiche all’oratorio, dalle cantate ai concerti sacri, dalle canzoni ai brani per sola voce di ogni sorta; tracce d’improvvisazione erano anche nelle forme strumentali8 che in quell’epoca andavano sviluppandosi, specialmente sonate e concerti. […] I passaggi degli italiani, gli agréments dei francesi, le graces degli inglesi e le glosas degli spagnoli9» [Bailey 1982, pag. 58].

Ne abbiamo una testimonianza scritta in Paganini: «I miei doveri m’impongono di suonare due concerti la settimana ed io improvviso sempre, con l’accompagnamento del piano. Scrivo prima l’accompagnamento e trovo poi il mio tema nel corso della improvvisazione» [Ibidem].

6 Organum: tecnica di canto sviluppata nel Medio Evo, forma primitiva di musica polifonica. Nelle sue prime fasi, l'organum coinvolgeva due sole voci: una melodia gregoriana, sovrapposta a se stessa in versione spostata di un intervallo consonante, di solito una quarta o quinta giusta. In questi casi spesso la composizione cominciava e finiva con un unisono, mantenendo la trasposizione solo nel corpus centrale.7 Cfr.http://en.wikipedia.org/wiki/Musical_improvisation – Testo in lingua originale: «Throughout the Middle Ages and Renaissance, improvised counterpoint over a cantus firmus (a practice found both in church music and in popular dance music) constituted a part of every musician’s education, and is regarded as the most important kind of unwritten music before the Baroque period».8 Anche la toccata viene riconosciuta come composizione dal carattere quasi improvvisativo, nella sua forma di “intonazione” praticata ad esempio da Andrea e Giovanni Gabrieli di cui poche ci sono arrivate in forma scritta proprio perché potevano essere improvvisate con facilità, o nei due libri di toccate stampati a Roma nel 1615 e nel 1627 di Frescobaldi, grande virtuoso ed improvvisatore.9 Anche nelle musichedaballo del rinascimento l'improvvisazione giocava un grande ruolo, soprattutto nelle ripetizioni.

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Ritornando a quanto anticipato nell'introduzione, rilevante fu la funzione che svolse lacadenzanel raccogliere tutte le pratiche di estemporizzazione che si erano man mano evolute; nel XVIII secolo, per esempio, era rappresentata da un punto coronato: il cantante o il musicista poteva sbizzarrirsi per tutta la durata della cadenza conformemente alla sua capacità di improvvisazione. Jean-Jacques Rousseau nel suo Dictionnairedemusique (1767) spiega così la cadenza:

«L’autore lascia a libertà dell’esecutore, affinché vi faccia, relativamente al carattere dell’aria, i passaggi più convenienti alla sua voce, al suo istrumento ed al suo gusto. Questo punto coronato si chiama cadenza perché si fa ordinariamente sulla prima nota di una cadenza finale, e si chiama anche arbitrio, a cagione della libertà che vi si lascia all’esecutore di abbandonarsi alle sue idee e di seguire il suo gusto. La musica francese, soprattutto la vocale, che è estremamente servile, non lascia al cantante alcuna libertà in tal sorta, ed il cantante sarebbe pertanto assai perplesso nell’usarne»10.

Per Lionel Salter, virtuoso di clavicembalo e direttore d’orchestra di musica barocca:

«La musica com’era scritta a quell’epoca costituiva una specie di aiuto per la memoria. Rappresentava soltanto lo scheletro di quello che sarebbe stato suonato […]. Handel stesso avrebbe probabilmente riso a crepapelle, perché non era proprio nelle sue intenzioni che la partitura fosse eseguita a quel modo, diciamo a sangue freddo […]. Credo che non distinguessero affatto, nelle loro menti, l’improvvisazione. Faceva tutto parte della esecuzione. Se prendiamo uno strumento da basso continuo, come il clavicembalo, la sua funzione non era solo quella di completare l’armonia e tenere uniti i vari elementi era molto più...» [Bailey 1982, pag. 59/60];

A questo proposito possiamo leggere in Surian «non sempre è possibile sapere con precisione come in effetti avveniva la realizzazione del basso continuo […]. Certo è che gli esecutori di allora avevano un’ottima dimestichezza con la tecnica della realizzazione improvvisata» [Surian 1991 vol. 1, pag. 265]. Un’altra affermazione importante l’abbiamo dallo stesso Bailey:

«Gli anni tra il 1600 e il 1750 sono stati chiamati “l’era del basso continuo”, anche se raggiunse forme di grande complessità e sottigliezza, il basso continuo altro non era, sostanzialmente, che la trasformazione di un’armonia di basso a nota singola in un accompagnamento pieno e completo […]. J.D.Heinichen11 scrisse, nel 1728: “E cosa è in effetti l’esecuzione di un basso continuo se non l’improvvisare, sopra un basso dato, le rimanenti parti di un’armonia completa?”» [Bailey 1982, pag. 62].

Per chiudere, vorrei riportare come

«Nel periodo tardo-barocco e post-barocco fu gradualmente imposto alla musica un sistema teorico formalizzato di regole e leggi. Questo fenomeno, pericolo mortale per qualsiasi musica improvvisata, si manifestò in parte con un flusso di libri sull’abbellimento, che cominciarono ad apparire verso la fine del periodo barocco; commentando questi libri, Ferand scrive: “essi cercano di annullare almeno in parte l’impulso verso l’improvvisazione” [continua con le parole di Heinichen] “pensarono che il miglior uso che si potesse fare della Ragione consistesse nello scrivere note entro strutture artificiali, perché così potessero essere esaminate e insegnate. […] Non c’era più motivo di chiedersi se la musica suonava bene o divertiva l’ascoltatore ma piuttosto se sulla carta sembrava a posto. In questo modo l’aspetto visivo12 guadagnò, senza che nessuno se ne accorgesse, il primo posto in musica […] l’Orecchio fu sottomesso e tiranneggiato...» [Bailey 1982, pag. 64, 68].

2.2.4 Organistica

Partiamo dal pensiero di un teorico della musica organistica spagnola, Tomas de Santa Maria (Arte de tañer fantasía, 1565), il quale consiglia «agli strumentisti di applicarsi allo studio della polifonia e della composizione contrappuntistica mediante l’imitazione dei capolavori vocali.Solo dopo essere passati attraverso questa severa disciplina, essi potranno sensatamente dedicarsi alla

10 Cfr.http://it.wikipedia.org/wiki/Abbellimento#Cadenza11 Per informazioni su Heinichen, Cfr.http://www.bach-cantatas.com/Lib/Heinichen-Johann-David.htm12 Confermando in pieno l’ipotesi di Caporaletti.

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liberaimprovvisazione» [Michels 1994, pag. 253]. La pratica improvvisativa propriamente detta, si è mantenuta, infatti, molto radicata nel mondo dell’organistica, non soltanto come pratica, infatti

«È stata accumulata una sterminata documentazione sul grande ruolo giocato dall’improvvisazione nello sviluppo di tutta la musica da chiesa. […] Ci sono documenti che mettono in risalto come musicisti quali l’organista cieco Francesco Landini, vissuto nel 14° secolo, siano divenuti famosi per le loro capacità d’improvvisazione» [Bailey 1982, pag. 77].

L’improvvisazione libera condusse «alla prima forma autonoma di musica strumentale: introduzioni, preludi, toccate e fantasie» [Bailey 1982, pag. 78] e si sviluppò in maniera costante fino al XX secolo, dove ebbe addirittura un’altra spinta dalla pratica dell’improvvisazione nell’ambito concertistico; specialmente in Francia, dove è divenuta un’attività specialistica e altamente sviluppata. Particolarmente interessanti, alcune affermazioni dell’organista improvvisatore Jean Langlais13, dalle quali emerge, attraverso la sua visione assolutamente moderna del processo improvvisativo, l’enorme importanza che l’improvvisazione assume nel mondo organistico:

«Non credo che esista qualcosa che si può definire come improvvisazione libera, perché per improvvisare, è necessario conoscere armonia, contrappunto e fuga oltrechéimprovvisazione» [Bailey 1982, pag. 89].

Rimandando così, l’improvvisazione al campo delle capacità. La visione pragmatica dell’organista, emerge dalla risposta alla domanda sul come mai sopravvivesse ancora la realtà improvvisativa nella musica organistica:

«Perché noi, in chiesa siamo obbligati a improvvisare sempre. Se il sacerdote è molto lento, siamo obbligati ad adattarci. Non possiamo suonare, per fare un esempio, un preludio di Bach. Allora improvvisiamo tutto» [Bailey 1982, pag. 90].

2.2.5 Periodo classico/Beethoven

Sappiamo che molti dei grandi compositori del passato erano anche ottimi improvvisatori, Paganini, ad esempio, era «acclamato specialmente per il suo eccezionale talento improvvisativo» [Surian 1993 vol. 3, pag. 116], ad Handel «piacevano molto le sue [stesse] improvvisazioni e i suoi abbellimenti degli a solo» [Michels 1994, pag. 317], nell’elenco degli ‘estemporizzatori classici’ potremmo citare anche: Mozart, Chopin, Mendelssohn, Lizst, Hummel, Anton Rubinstein, Paderewski, Grainger, Pachmann... un campo comune di ricerca molto diffuso fu il preludio,il quale veniva concepito come un modo per entrare in rodaggio, provare lo strumento, focalizzarsi sulla musica ed esibire destrezza tecnica; ma anche il duo strumentaleviolino-pianoforte dei quali ne abbiamo esempi dalle storiche combinazioni con Clement e Hummel o quella di Remenyi e Brahms o a due pianoforti con Beethoven e Wolfl, Mendelssohn e Moscheles o Chopin e Lizst. Prendiamo ad esempio, per questo periodo storico, l’operato di Beethoven. Il Surian ci fa notare che, il pianista di Bonn «veniva chiuso in cantina e anche picchiato per costringerlo a sedersi al pianoforte» [Surian 1993 vol. 3, pag. 15], una formazione molto dura che vedeva sicuramente nel momento della libera espressione uno sfogo, «il primo talento del giovane musicista si manifestò [infatti] per l’improvvisazione» [Ibidem], notizia di diverse fantasie e sonate lo dimostrano. Le prime battute dell’op.109 (piano sonata n.30) «suonano come una improvvisazione» [Pestelli vol. 7, pag. 262], un altro esempio lo abbiamo in «entrambe le sonate dell’Op.27 [alle quali] Beethoven diede il titolo Sonataquasi una fantasia […]. La sonata fantasia consentiva al compositore un’espressione più libera di idee derivate dall’improvvisazione» [Surian 1993 vol. 3, Pag. 26/27], anche in altri lavori

«Volle cimentarsi con la Fantasia, in particolare, nell’op. 77, Fantasiaperpianoforte, in Sol minore, del 1809, opera rimasta unica, per l’intrinseca concezione, nell’ambito della propria produzione […] questo brano è di notevole importanza proprio perché, come testimoniato da Carl Czerny, ci offre

13 Per informazioni su Langlais,http://www.jeanlanglais.com

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un’immagine strettamente attendibile dell’approccio improvvisativo di Beethoven; anzi, è possibile fosse addirittura la trascrizione di un’improvvisazione da lui eseguita al Teatro di Vienna il 22 Dicembre 1808» [Caporaletti 2005, pag. 244/245].

Nell’operato musicale dello stesso Czerny, «il criterio improvvisativo si orienta su moduli elaborativi progettuali motivico-tematici, espungendo tendenzialmente i residui valori connessi al PAT e designando, così, le linee portanti dell’apogeo dell’improvvisazione ottocentesca» [Ibidem,pag. 253], in un processo che Caporaletti definisce «visivizzazione» della prassi improvvisativa, e che culminerà il 12 Febbraio 1837 nel «famoso pronunciamento di Lizst sulla RevueetGazetteMusicaledeParis[contenente la] pubblica abiura del principio improvvisativo, con l’usanza di interpretare opere con libertà inserendo o eliminando componenti testuali» [Ibidem, pag. 257]; il suddetto pronunciamento porterà a considerare «sacrileghi i tentativi di manipolazione ed interpolazione di tipo improvvisativo» [Ibidem, pag. 258]. Tornando a Beethoven, è interessante notare come lo sviluppo delle forme libere influì nella sua opera in diversi periodi, abbiamo già visto la formazione e le sperimentazioni sotto forma di Fantasia, vediamo adesso come nel suo ultimo periodo di vita, tramite gli appunti di Adorno nei quali possiamo leggere: «dopo la lettura del Quartetto in mi bemolle maggiore op. 127, una delle sue opere più difficili ed enigmatiche. L’ultimo Beethoven fasparire le tracce. Ma quali? Questo è proprio l’enigma. Infatti qui il linguaggio musicale, d’altro lato, risulta nudo e – rispetto allo stile di mezzo – immediato. Fa sparire addirittura, per questo infestarsi della tonalità ecc., le tracce della composizione » [Adorno 2001, pag. 215]. Il filosofo ci presenta un Beethoven che ripensa all’eroicità del compositore, ridimensionandola, quasi rinnegandola attraverso un trattamento anticompositivo, che non è ancora la decomposizione dei compositori contemporanei, di cui ci parlerà Carapezza14, ma ne mostra le prime tracce.

2.2.6 Contemporanea

Questo progressivo allontanamento da qualsiasi forma non ‘visiva’ della musica non poteva che portare, considerati anche gli stravolgimenti politici e sociali che avvennero nei primi anni del XX secolo, a una rivoluzione formale dagli esiti sostanzialmente opposti: la musica seriale e quella aleatoria. Come vedremo non saranno solo queste le correnti della nuova musica e in realtà non fu neanche una distinzione così netta, vero è però che, per quanto si tentasse di infrangere le regole e di creare qualcosa di totalmente nuovo, si rimanesse comunque fermi all’idea di composizione. Paradossale l’uso delle partiture grafiche che rappresentano l’esempio, forse più lampante, dell’idea di ‘schiavitù’ visiva, rimane comunque in comune ai processi audiotattili la

«Tendenza all’introduzione di elementi d’imprevedibilità e d’indeterminazione all’interno delle creazioni musicali, spesso rubricati sotto la categoria di improvvisazione [es.] John Cage, Earle Brown, Morton Feldman, Christian Wolff e, con diversificati svolgimenti sul versante europeo: Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, Mauricio Kagel, Henri Pousseur, il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza o il gruppo AMM di Cornelius Cardew, assieme a molti altri, [i quali] si giustificano in base al concetto hegeliano di negazione, sia pure negli svolgimenti marcusiani di negazione determinata (o “scelta” determinata)» [Caporaletti 2005, pag. 260/261].

Una fuga dunque dalla serialità, dalla sua natura iperstrutturata. Tentativi sempre più sfrontati di mettere in dubbio i concetti stabiliti dalla tradizione; un tentativo anche di non cadere nel silenzio – vedi Evangelisti – post-weberniano, con

«L’eliminazione, nel quadro di controllo della partitura, del mandato tradizionale di rappresentazione diagrammatica degli eventi fonici, sostituita con la descrizione di pattern energetico-somatici la cui produzione è delegata alla creatività dell’interprete, ci indica chiaramente come sia avvertita l’esigenza di superare la cultura della scrittura tipografica in funzione di ciò che definiamo “paradigma audiotattile”» [Caporaletti 2005, pag. 264].

14 Ne Lecostituzionidellamusica – Flaccovio – Palermo 1999.

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In gran parte di queste forme entra a pieno titolo il medium RRF che ci tramanda interpretazioni diverse fra di loro (ad esempio i Numberpieces di Cage) se pur con la medesima partitura; dimostrando appunto che il concetto di opera si è ormai staccato dalla carta per passare al supporto di registrazione, operazione che stabilisce a sua volta distinte tradizioni esecutive. Esiste dunque una serie di gruppi musicali che hanno fatto riferimento all’attività improvvisativa tout court: il New Music Ensemble, il Musica Elettronica Viva, il The Theatre of Ethernal Music, il Sonic Art Group, la Scratch Orchestra, l’Improvisation Chamber Ensamble ed il ONCE Group. Gruppi che hanno visto operare al loro interno musicisti del calibro di: La Monte Young, Morricone, Rzewski, Curran, Cardew, Bertoncini, Globokar, Terry Riley, Lukas Foss... i quali «cominciarono a leggere nei suoni improvvisati-non oggettivati un “prodotto” e nella stessa conformazione comunitaria del gruppo improvvisativo, […] la realizzazione del progetto di liberazione dalle norme autoritarie e dalle contraddizioni che derivano dalla distribuzione sperequativa delle risorse economiche» [Caporaletti 2005, pag. 281/282].

2.3 Rock/Jazz

2.3.1 Rock

«Non è mai possibile determinare precisamente uno spettacolo in ogni sua parte […] la partitura non serve come espressione già perfetta della musica da eseguire ma va considerata invece come punto di partenza, come guida» [Bailey 1982, pag. 95], questo è quanto afferma Steve Howe, chitarrista eccellente degli Yes15, mostrando di avere le idee ben chiare sull’attività che è presente in tutti i fenomeni di musica ‘pop’ venutisi a creare dalla nascita del blues in poi, i quali hanno contribuito grandemente a creare la forma maggiormente diffusa di intrattenimento contemporaneo. Improvvisazione fu dunque, nel rock, uno strumento basilare, sin dagli albori nel blues, ma soprattutto dopo il ’6716:

«La sensazione emergente tra coloro con cui si lavorava era che ciascuno poteva avere la sua musica e che l’improvvisazione era in grado realmente di ampliare, in una determinata direzione, l’idea che fino allora si era avuta di un pezzo rock, della sua natura e identità. È tutto collegato al formato discografico, al passaggio dal 45 al 33 giri. Appena c’è stato un po’ più di spazio, c’è stato più tempo per suonare, per stare più larghi» [Bailey 1982, pag. 96].

Nella maggior parte dei casi si trattava di un’estemporizzazione, in pochi altri, soprattutto nei live (es. Jimmy Hendrix), s’improvvisava del tutto un brano. L’assolo è la forma espressiva principale nella stragrande maggioranza dei casi; per quanto l’accompagnamento potesse essere una spontanea interpretazione di riff più o meno complessi, stabiliti a priori, è nei momenti solisti dei vari componenti del gruppo che viene fuori l’anima di quasi tutte le forme del rock; nel rock progressivo o in quello psichedelico spesso l’estemporizzazione si trasforma in vera e propria improvvisazione collettiva con la creazione istantanea di forme non prestabilite e spesso molto innovative: Henry Cow, Frank Zappa, Gong, Soft Machine. Un fondamentale l’impulso fonico-materico al mondo del rock venne apportato da Jimmy Hendrix (grazie anche al lavoro dell’ingegnere del suono Robert Mayer che di Hendrix fu ottimo collaboratore) avvenuto con l’introduzione della «possibilità di distorsione/de-europeizzazione delle sonorità derivanti dall’utilizzo della saturazione della frequenza sonora dell’amplificatore Marshall, con la timbrica calda e pastosa mediata dal sistema quasi biologico dei dispositivi valvolari […]» [Caporaletti 2005, pag. 418] non senza la storica chitarra Fender Stratocaster ed il dispositivo

15 Storico gruppo Prog-Rock britannico attivo sin dagli anni 70.16 Anche Vinko Globokar è di questo parere: «un periodo di grande mobilitazione politica, e dell’insolito allineamento di varie arti (musica, danza, teatro, pittura) ai dettami dell’improvvisazione, la quale diventa dunque un fenomeno funzionale, uno strumento utilizzato per esprimere artisticamente la necessità di movimento e che si adatta completamente al livello culturale di ogni individuo che lo pratichi». Cfr. V.Globokar, Riflessioni sull’improvvisazione, Musica/Realtà – 11/6/1981, pag. 62/3.

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di commutazione timbrica Wah-wah il quale assieme ad altri “effetti sonori” [avevano il] fine programmatico di conferire una caratterizzante psichedelica al suono [e] connettevano l’esperienza hendrixiana […] direttamente all’alveo delle acquisizioni e delle ricerche di musica elettronica eurocolta» [Caporaletti 2005, pag. 419]. Questa disamina che avvicina Hendrix alla musica contemporanea ci viene confermata anche da Luigi Nono il quale proprio parlando di Hendrix afferma: «[sono] strumentisti che conoscono il segreto di come il suono si allontana da un punto fisso, non come va a terminarvi. Oppure il segreto di suonare una nota […] non come una nota ma come un campo sonoro» [Gamba 2003, pag. 48].

2.3.2 Jazz

Descrivere il jazz è un impresa ardua, sappiamo che la struttura fondamentale nasce dal blues e che spesso sfrutta la reinterpretazione di brani popular; la protesta, la voglia di riformare e farsi sentire sono altri fattori essenziali, ma alla luce di quanto abbiamo visto nel capitolo sulla teoria, possiamo intuire come gran parte del jazz non sia da attribuire al concetto di improvvisazione, bensì a quello dell’estemporizzazione, ed è per questo motivo che tratterò principalmente la sua forma maggiormente affine alle caratteristiche dell’improvvisazione: il free-jazz, chiamato anche “the new thing”. In esso

«Rileviamo notevoli caratteristiche antivisive, comuni sia ai passaggi “informali” sia alla musica basata su toniche timbrico-modali intese come pedali: la mancanza di principio lineare, di progressività, di un telos finalistico nell’orientamento formale del melos [ma] sarebbe un grave errore considerare il vasto coacervo che si riconduce al movimento free “storico” sotto il segno dell’informale: molte opere hanno precise strutture metriche e sezionali, che fungono da modelli generatori e figurali» [Caporaletti 2005, pag. 408/409].

Un movimento che trovò terreno fertile, oltre che negli USA, in Europa dove nel giro di pochi anni rivelò peculiarità specifiche, tanto da essere identificato come free improvisation17, o improvvisazioneeuropea, grazie a: Evan Parker, John Tilbury, Derek Bailey, Tony Oxley, Peter Brotzmann, Alexander Von Schlippenbach, Misha Mengelberg, Han Bennink, o Mario Schiano e gli altri artisti italiani che in anni recenti hanno avuto un punto di riferimento nell’Italian Instabile Orchestra. Un momento fondamentale nella storia del free jazz, è l’uscita del disco che darà al genere il nome e non solo: Freejazz–Acollectiveimprovisation (1960). Il primo disco jazz di improvvisazione continua, con questo titolo programmatico Ornette Coleman ed il suo doppio quartetto (Don Cherry, Scott LaFaro, Billy Higgins, Freddie Hubbard, Eric Dolphy, Charlie Haden e Ed Blackwell) fecero muovere al jazz un ultimo passo in direzione della musica contemporanea, svincolato dalle tradizioni del jazz, come beat, chorus, armonia tonale. Quaranta minuti durante i quali la struttura polifonica si raffina con brevissime imitazioni e con veloci reazioni nell’esecuzione collettiva. Le sezioni ritmiche suonano in un tutt’uno che accompagna l’intera improvvisazione con un ritmo pulsante e coinvolgente. Le sei sezioni chiave sono chiamate dai fiati a turno, i ‘soli’ non sono altro che un dialogo vero e proprio dentro il quale gli altri musicisti sono liberi di interagire come meglio credono (accentuando, spingendo o puntualizzando le idee musicali del ‘solista’). Considerato che non c’era un’idea chiara di quale strada dovesse prendere questa registrazione, ogni musicista ha semplicemente apportato il proprio stile precedentemente acquisito nell’insieme. Questo comportò la presenza di elementi convenzionali e melodie nelle singole voci, elementi che rendono questo disco molto più accessibile rispetto a molti altri album venuti in seguito sulla sua falsa riga.

«Questo linguaggio sembrava dissestare tutte le categorie consolidate, anzi, appariva esso stesso, per la furia iconoclasta di cui era intessuto e per l’intrinseca complessità, non possedere alcuna categoria

17 «Free music […] comparsa già nei primi anni del XX secolo quale frutto di una più generale crisi delle forme musicali tradizionali, laddove ‘nell’atto di rifiutare la contestualità prefissata […] rifiuta e rigetta il suo contesto sociale’» cfr. D.Tortora, riferendosi alle vicende dei futuristi italiani e citando T. Hodgkinson, Sulla libera improvvisazione, Musica/Realtà – 1984, pag. 121.

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che ne desse conto o che ne guidasse l’interna costituzione fenomenologica. Ekkehard Jost nel suo testo Free jazz [1974] introduce il concetto di motivicchainassociation, mutuato dalla tecnica della libera associazione d’idee praticata in psicoanalisi, definendolo “a new kind of motivic improvisation” attraverso cui intende dare conto delle procedure improvvisative della New music degli anni Sessanta. In questo processo, omologo al flusso di coscienza di Joyce o alla scrittura automatica dei surrealisti, “un idea nasce dall’altra, viene riformulata, e passa subito ad un’altra ancora. Per questo procedimento, che è della massima importanza per capire il modo di suonare di Coleman, vorremmo introdurre la formula Catenaassociativamotivica”18. Un’altra particolarità di queste strategie improvvisative è che nel free jazz “Queste si evolvono dal gruppo come insieme, non solo come singolo improvvisatore”19» [Caporaletti 2005, pag. 293].

Un illuminante supporto possiamo averlo dalle parole di Steve Lacy, virtuoso jazzista americano di sax soprano:

«Cecil Taylor cominciò a fare così [cercare nuovi territori] al principio degli anni ’50. […] Ma quando entrò in scena Ornette20, allora fu la fine delle teorie. Ricordo che in quei giorni disse, cercando con cura le parole: “Quello che abbiamo è una certa quantità di spazio e ci si può mettere dentro tutto quello che si vuole”. Quella fu la rivelazione. Si andava tutte le sere a sentire lui e Don Cherry e ci veniva più sete ancora di cose nuove, libere» [Bailey 1982, pag. 122].

Lacy, dopo avere affermato che il free-jazz oramai è congelato in forme più o meno standardizzate, confermando così il pensiero di Caporaletti, chiude l’intervista dicendo:

«Sono attratto dall’improvvisazione per via di qualcosa che, a mio avviso, ha grande importanza. Si tratta di una freschezza, di una qualità particolare, che si può ottenere solo improvvisando; qualcosa che sfugge alla scrittura. Ha qualcosa a che fare con l’idea di ‘limite’. Stare sempre sul confine con l’ignoto, pronti al salto. E quando si parte, dietro ci son tutti gli anni di preparazione e si è ricchi della propria sensibilità ma è sempre un salto nell’ignoto e ci sono gli strumenti che si sono preparati ma è sempre un salto nell’ignoto. […] Quello che scrivo serve ad arrivare con certezza a quel punto, di modo che sia possibile poi trovare il resto. In realtà è proprio ‘il resto’ quello che mi interessa veramente e credo che quello costituisca la sostanza del jazz» [Bailey 1982, pag. 125].

Vedremo, più avanti, un esempio di come il free-jazz si manifesti nella prassi, tramite la figura di Paul Bley.

18 Testo in lingua originale: «One idea grows from another, is reformulated, and leads to yet another idea. For this procedure, which isof the utmost importance for the understanding of Coleman’s playing, we would like introduce the term motivic chain association».19 Testo in lingua originale: «These are evolved by the group as a whole, not just by a single improviser».20 Coleman.

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3 Prassi

L’improvvisazione pianistica era per lui una necessità vitale. Ogni viaggio che lo portava lontano per qualche tempo dal suo strumento

suscitava in lui la nostalgia del pianoforte e, al suo ritorno, egli carezzava a lungo i tasti per liberarsi del peso delle esperienze tonali che erano cresciute in lui,

esprimendosi con improvvisazioni.21

Alexander Moskowsky, ConversazioniconEinstein – 1921

3.1 Introduzione

In questo capitolo analizzerò, in maniera più approfondita, alcune prassi22 musicali, prendendo spunto da alcune forme presentate nel capitolo precedente sulla storia dell’improvvisazione musicale. Cercherò di dimostrare come

«Una cosa resti indiscussa, dopo un secolo di esperienze e prove straordinarie – e di questo certamente abbiamo ragione di rallegrarci: essi (i processi improvvisativi) hanno riacquisito totalmente la preminenza avuta nell’antichissimo passato filogenetico, accomunando le varie tradizioni culturali sotto il proprio segno, con centralità empatica, vivificandole in un energia che i performer creativi continueranno certamente a perpetuare nelle musiche del futuro» [Caporaletti 2005, pag. 445].

Andiamo a vedere, dunque, alcune di queste prove: nel campo della musica contemporanea tramite l’esperienza, incredibilmente pionieristica, del G.I.N.C.; l’esperienza prettamente jazzistica di Paul Bley, che vedremo essere l’epigono della forma improvvisativa sotto molti aspetti; le esperienze estreme di Derek Bailey nell’ambito della improvvisazione libera di stampo europeo e per concludere alcune esperienze personali condotte con diverse tipologie di formazioni negli ultimi anni.

3.2 G.I.N.C. Gruppo improvvisazione nuova consonanza

Mi sembra adatto partire dalle parole di John Zorn23, tratte dalla copertina del bellissimo, quanto raro, cofanetto Azioni, contenente due cd, un dvd e un libretto, pubblicato per il G.I.N.C. da die Schachtel:

“Il gruppo fu un brillante e prolifico collettivo di compositori che esplorava tecniche estese e nuove fonti sonore attraverso il medium dell’improvvisazione. Benché prodotto del loro tempo, la loro musica rimane senza tempo. Furono essenziali nella creazione di una tradizione essenziale nella musica improvvisata occidentale dovendo poco o nulla a nessuno e creando parte della musica più strana mai creata. Furono assolutamente unici”24.

21 Testo in lingua originale: «Improvisation on the piano was a necessity of life. Every journey that takes him away from the instrument for some time excites a home-sickness for his piano, and when he returns he longingly caresses the keys to ease himself of the burden of the tone experiences that have mounted up in him, giving them utterance in improvisation». Cfr. Moszkowski, Alexander. Conversations with Einstein, Horizon, 1921.22 «La tradizione improvvisativa, lungi dal costituire un aspetto minore e trascurabile della storia della musica occidentale, ha comportato da sempre il ricorso a particolari abilità tecnico-espressive e quindi una disciplina e un magistero certamente non accessibile a tutti. La storia dell’improvvisazione […] risulta pertanto strettamente correlata a quella della prassi esecutiva». Cfr. D.Tortora – NuovaConsonanza.Trent’annidimusicacontemporaneainItalia, LIM 1990.23 John Zorn (New York, 2 settembre1953) è un compositore, sassofonista e multi-strumentista statunitense. Sebbene poco noto al grande pubblico, Zorn è un musicista estremamente attivo, con più di cento album a suo nome e un’attività che spazia tra svariati generi musicali. Probabilmente gli ambiti dove è più conosciuto sono quelli della musica contemporanea e di quella jazz; tra i suoi progetti più conosciuti vi sono il gruppo rock sperimentale Acoustic Masada o Electric Masada e il supergruppo Naked City, in cui hanno suonato musicisti del calibro di Bill Frisell e Joey Baron. Possiede l’etichetta Tzadik Records e ha lavorato con molti musicisti, in particolar modo nella musica improvvisata, fondendo musica contemporanea, jazz e rock (addirittura death metal e grindcore), e producendo molti progetti. Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/John_Zorn24 Testo in lingua originale: «Il gruppo was a brillian and prolific composer’s collective exploring extended techniques and new sound

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Ricordo perfettamente come al primo ascolto avessi percepito incredibili novità formali di altissima qualità, dovuta in gran parte alla peculiarità del G.I.N.C. di essere l’unico gruppo di improvvisazione formato esclusivamente da compositori; un elemento nuovo che viene percepito come la «perdita di significato del compositore in quanto soggetto singolo di creazione, in nome di un contributo che cessa di appartenere a ciascun musicista per divenire parte di una realizzazione collettiva [mediante] l’abilità di usare il sistema nella sua immediatezza» [Tortora 2006, pag. 10]; il tutto ruota intorno ad un equilibrio che Franco Evangelisti è riuscito a creare anche tramite gli esercizi di sua invenzione, basati sulla

«Capacità/disponibilità di ciascun membro del gruppo ad ascoltare gli altri e ad ascoltarsi, quasi un muoversi continuo dall’interno all’esterno, e viceversa, dell’esperienza esecutiva in atto. […] Gli esercizi elementari individuati mirano a realizzare “una fluidità di interventi, […] un lasciarsi andare in una sequenza di azioni sonore che iniziano, si sviluppano e si concludono secondo una logica formale interna ad ogni partecipante e comune nello stesso istante a tutti”» [Tortora 2006, pag. 13].

Nonostante l’apparente libertà totale, anche il G.I.N.C. si poneva (dichiaratamente) dei limiti strutturali se pur esigui, che consistevano semplicemente nel definire la formazione e la durata25 del brano da improvvisare. Il gruppo era inizialmente, nel 1964/5, formato da: Franco Evangelisti (fondatore), Carmine Pepe, Larry Austin, John Eaton, John Heineman, Rolan Kayn, William O.Smith e Ivan Vandor. Prenderà però una prima forma storicamente importante (storicamente perché ha avuto una durata di circa trent’anni26) con Evangelisti, Mario Bertoncini, Walter Branchi, Heineman, Egisto Macchi ed Ennio Morricone; nei primi anni settanta avverrà uno stravolgimento della formazione con la dipartita di Heineman, Bertoncini e Branchi, per motivi di natura concettuali27, e l’ingresso di Giovanni Piazza, Jesus Villa Rojo, Antonello Neri, Giancarlo Schiaffini e Alessandro Sbordoni. Con la scomparsa di Evangelisti nel 1980 iniziò una fase di sussistenza postuma, che assunse contorni sempre più vaghi, perdurante fino alla fine del decennio. Niente meglio, delle parole dello stesso Franco Evangelisti, possono aiutarci a descrivere l’incredibile attività di questo gruppo in tutte le sue sfaccettature; a partire dalla descrizione delle ragioni storiche su cui si fonda l’esistenza del G.I.N.C., vale a dire la formaaperta e l’influenza del jazz rassicurandoci sulla natura quantomeno binaria dell’improvvisazione di stampo europeo; dico quanto meno perché «nella storia della musica occidentale, l’improvvisazione è visiva28 più in chiave soggettiva, ma è relata con la storia di tutte le civiltà musicali, giacché è l’elemento generatore della musica» [Evangelisti 1991, pag. 65]. L’attività del G.I.N.C. è stata sottoposta a non poche critiche, una delle più aspre ad opera di Massimo Mila, che si possono riassumere nelle domande “Come improvvisa, adopera o no degli schemi? Ha abolito la scrittura?” [Evangelisti 1991, pag. 67] alla quale Evangelisti, in maniera chiara, risponde:

«Base essenziale del Gruppo è il senso di affiatamento che consente di trovare un terreno fertile di discussione e di operazione. L’impostazione critica e la modestia di ogni componente sono l’unica possibilità di intesa per un insieme di compositori che si uniscono per cercare un riferimento a un

sources through the medium of improvisation. Although very much a product of its time, their music remains timeless. They were instrumental in founding a radical tradition of western musical improvisation that owed little or nothing to anybody and created some of the strangest music ever made. They were utterly unique». J. Zorn dal cofanettoAzioni.25 «L’approssimazione alle durate stabilite è sempre stata piuttosto buona, ma la cosa veramente sorprendente era il fatto che oltre quella durata, con il tipo di materiale scelto, non si poteva andare e l’improvvisazione, un po’ magicamente, terminava». W. Branchi dal cofanetto Azioni.26 «Dopo anni di lavoro insieme ci si conosceva musicalmente talmente bene da sapere, ad esempio, chi di noi preferiva proporre idee musicali e chi conosceva l’arte del rispondere; tuttavia, ogni improvvisazione era una nuova esperienza, un allargamento di orizzonte nell’estremizzazione del gesto e del suono musicale» W. Branchi dal cofanetto Azioni.27 Evangelisti parlando dell’importanza degli esercizi preparatori «su questo punto sono state sollevate delle serie obiezioni in quanto v’è chi li ritiene inutili, sostenendo che potrebbero togliere al Gruppo la freschezza di espressione e, soprattutto, falsificherebbero il significato dell’improvvisazione. È stata questa una delle ragioni per cui il Gruppo ha cambiato alcuni membri. […] Sono convinto che i colleghi che pensano in questo modo abbiano ancora un residuo di romanticismo sull’arte e gli artisti. I quali, secondo loro, per dono soprannaturale, senza alcuna preparazione, arriverebbero al capolavoro. […] Anche l’improvvisazione dei popoli cosiddetti primitivi comporta tecnica ed esercizio» dal cofanetto Azioni.28 Vedi Caporaletti.

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linguaggio comune espressione del gruppo [il quale] si sforza di uscire dai limiti che si è autoimposti e getta, in alcuni casi, una luce davvero nuova e, con l’impiego straordinario di mezzi extramusicali, apre l’orizzonte di un nuovo sistema. L’invenzione continua del timbro, dei diversi attacchi dei suoni, l’impiego di mezzi elettronici in presa diretta, l’uso delle voci intese come impulso-fonemi» [Ibidem].

Sul rifiuto della notazione, dimostrando un ottimo desunto teorico, Evangelisti afferma:

«So che la composizione musicale e la sua tecnica sono legate a questi processi mentali di varia origine che maturano grazie a dei ripensamenti coordinati, espressi poi graficamente con la notazione. Ciò dovrebbe dare una maggiore garanzia dell’opera, ma alla garanzia non sempre corrisponde la prassi, dato che sovente si ascoltano opere brutte e volgari. Comprendo anche che nell’improvvisazione è insito un maggior pericolo perché “l’immaginazione istantanea è più suscettibile di falle che di illuminazioni”, come dice Boulez, e so che nella nostra civiltà occupa un posto particolare. Eppure, malgrado ciò, quello che conta è il risultato finale: l’ascolto» [Evangelisti 1991, pag. 68]. Sull’esistenza di schemi, alla suddetta scelta dei componenti e durata, Evangelisti aggiunge:

«Non si giunge all’improvvisazione collettiva per vocazione, vi si arriva dopo molti esercizi preparatori sui vari settori della tecnica musicale: tempo, rapporto delle altezze, timbro, dinamiche, aspetti grammaticali e sintattici, funzioni linguistiche di un periodo specifico, ascolto d’insieme. L’importanza di tali esercizi risiede, soprattutto in rapporto al comportamento, nella disciplina acquisita da ciascun componente con l’autocontrollo di situazioni musicali dalle più semplici alle più complesse. […] Uno degli aspetti più importanti di tale esperienza è costituito dal grado di concentrazione sui riflessi di alcune reazioni – provocazioni, come in un circuito controllato, in una sorta di feed-back al quale partecipano tutti i componenti in reazione a catena» [Evangelisti 1991, pag. 69, 70].

Evangelisti conclude la descrizione con due vere e proprie perle concettuali:

«Ritengo che l’idea di indeterminazione contenuta nell’opera aperta e la ricerca di esprimere ‘l’attimo fuggente’ nell’improvvisazione siano, nonostante l’uso di mezzi elettronici, i sintomi di un rifugiarsi istintivo in una manifestazione che ricollega la ‘nostra’ musica all’origine di tutta la musica […] un ritorno per moto istintivo alle origini che distrugge l’idea della conservazione dell’opera propria della nostra cultura […] si può affermare che l’opera portata all’ascolto, al pari delle opere composte, costa la fatica di averla prodotta nel tempo della sua durata fisica, vale a dire pochi minuti. Pertanto, si dovrebbe dedurre che se anche il sistema occidentale non dovesse rinnovarsi su altre basi, il suo impiego sarebbe ugualmente superato; i compositori siglerebbero delle opere che sarebbero soltanto letteratura o accademia. L’improvvisazione di gruppo, invece, lascerebbe uno spiraglio di salvezza se non altro per la possibilità di usare il vecchio sistema nella propria immediatezza, così come avviene nella musica indiana. Questa sarebbe l’unica magia ancora possibile alla musica d’oggi: la possibilità di essere non più scritta e quindi del tutto priva di miti verso quel personaggio chiamato autore» [Evangelisti 1991, pag. 71, 73].

3.3 Derek Bailey

Abbiamo già avuto modo di vedere, nei capitoli precedenti, come l’apporto teorico di Bailey sia stato di grande aiuto nella compilazione della parte riguardante non solo l’aspetto a lui più vicino, vale a dire quello del free, ma anche tutte le altre forme che sono state indagate nel suo grande lavoro bibliografico L’improvvisazione–Suanaturaepraticainmusica, se pur oramai datato (1980) rimane uno dei capisaldi nella letteratura del settore. Bailey fu dunque un pioniere non solo della prassi, padre del free-jazz chitarristico ma anche della teoria dell’improvvisazione propriamente detta. Il periodo di riferimento per l’inizio delle sue attività improvvisative musicali è, non so a questo punto quanto casualmente, molto vicino a quello del G.I.N.C. (1965), quando insieme all’allora bassista Gavin Bryars ed il percussionista Tony Oxley iniziò a sperimentare il mondo delle improvvisazioni libere, staccandosi dai linguaggi jazz comuni dai quali erano partiti, sotto il nome di JosephHolbrooke, spiegandone il perché così:

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«Accettammo quel ch’era implicito negli sviluppi più logici e appropriati del nostro modo di suonare e ci spingemmo là dove tali sviluppi portavano […] combinazione di interessi, entusiasmi, ossessioni, che naturalmente si sovrapponevano, in tutte le direzioni, portò, logicamente e organicamente, a una situazione in cui l’unico modo di coordinare i nostri sforzi e la sola possibile espressione di tale confluenza stava nella libera improvvisazione […] si trattò in tutti i casi più di una ricerca emozionale e istintiva di qualcosa ch’era logico e giusto, o almeno appropriato, per sostituire quello che avevamo ereditato e che trovavamo rigido, moribondo e formale» [Bailey 1982, pag. 166, 167].

In un meccanismo che iniziò con lo staccarsi dalla pulsazione continua29 e proseguì tramite alcuni espedienti variando continuamente l’armonia in maniera più o meno casuale per superare l’approccio inizialmente modale, questa esperienza purtroppo durò poco, qualche anno, come anche per la MusicImprovisationCompany (1968-71) composta (oltre Bailey ovviamente) da: Hugh Davies live electronics, Jamie Muir percussioni e Evan Parker sassofoni.

«La maggior parte della musica che allora suonavamo30 si può meglio descrivere, a mio avviso, con il termine di ‘improvvisazione strumentale’ […] nel senso indicato da Curt Sachs. […] È l’atteggiamento del musicista nei confronti dell’elemento tattile31, nei confronti dell’esperienza fisica del suonare uno strumento, nei confronti della ‘spinta strumentale’ che determina in buona parte il suo modo di suonare. Una delle caratteristiche fondamentali della sua improvvisazione, riscontrabile in qualsiasi cosa egli suoni, sarà data da come tiene a bada l’impulso strumentale. O da come reagisce a tale impulso. E ciò rendo lo stimolo e l’oggetto di questo impulso, lo strumento, l’elemento singolo più importante tra le risorse strumentali che ha a disposizione» [Bailey 1982, pag. 182].

Dall’idea anticipatrice di impulso strumentale, coincidente concettualmente con il pensiero di Caporaletti (PAT),Bailey ci introduce all’analisi del rapporto del musicista con strumento e registrazione, che analizzeremo in seguito nel quarto capitolo. Il mondo sonoro di Derek Bailey si è espresso non solo in queste esperienze di gruppo («il grosso del materiale del gruppo stesso verrà inizialmente fornito dagli stili, dalle tecniche e dalle abitudini dei musicisti che lo compongono. Questo vocabolario verrà poi sviluppato individualmente, nel lavoro e nella ricerca fuori dal gruppo, e collettivamente in concerto» [Bailey 1982, pag. 195]), ma gran parte in assoli; «L’improvvisatore ‘in solo’ lavora per vie simili […] si costruisce un vocabolario personale, e lavora per ampliarlo, sia nelle esibizioni sia durante le prove. […] L’improvvisatore ha bisogno di qualcosa che sia possibile variare all’infinito, e le cui parti siano tutte, sempre ed egualmente, disponibili […]» [Bailey 1982, pag. 195]. Bailey ha avuto collaborazioni di altissimo livello (Mengelberg, Bennink, Centazzo, von Schlippenbach, Zorn, Cyro Baptista, Cecil Taylor, Barre Phillips, Bill Laswell, Fred Frith, William Parker, Eugene Chadbourne, Pat Metheny, Joëlle Léandre, Thurston Moore dei Sonic Youth, Steve Lacy, Susie Ibarra, e veramente molti altri) in una discografia quarantennale che dimostra la sua costanza (perpetrata nonostante la malattia che gli impedì di stringere il plettro) nel portare avanti un discorso musicale con le più disparate tipologie di musicisti. Si va dai jazzisti ai musicisti noise-rock passando tra dj e percussionisti sudamericani; un vero e proprio eroe compianto della musica free.

3.4 Paul Bley

Due carriere parallele quelle di Paul Bley e di Derek Bailey, anche se nel primo è decisamente più presente il jazz tradizionale; la sua grandezza emerge quasi esaustivamente in questa descrizione che ne dà il New York Times:

«In ultima analisi, l’influsso di Paul Bley al jazz degli ultimi 50 anni – influsso che continua ad agire – è enorme. Profondamente originale ed esteticamente aggressivo, il signor Bley da tempo ormai, ha trovato il modo di esprimere i suoi lunghi, eleganti e voluminosi pensieri in una maniera che implica una completa autonomia dai dettami ma non è proprio free jazz. La musica si muove in un insieme fra profonda conoscenza storica ed i suoi stessi inviolabili principi»32.

29 Vedi l’idea di Continuouspulse in Caporaletti 2000.30 Bailey riferendosi alla M.I.C.31 Qui troviamo una definizione antesignana del PAT di Caporaletti.32 Testo in lingua originale: «In the final reckoning, Paul Bley’s influence over the last 50 years of jazz – and it continues – will be

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Dicevo quasi esaustivamente, perché è difficile riassumere in poche parole la grande mole di lavoro che è riuscito a portare avanti (oltre 200 registrazioni). Vediamo di entrare nel suo mondo anche grazie al lavoro di Arrigo Cappelletti nel libro Lalogicadelcaso pubblicato a Palermo qualche anno fa:

«In Paul Bley l’improvvisazione rivendica la sua autonomia: non più fill, come dicono gli americani, riempimento degli spazi vuoti lasciati dalla scrittura. Così facendo, dimostra di potere benissimo esistere da sola, senza puntelli, e al tempo stesso rivendica la sua nobiltà, quella di un modello compositivo diverso e alternativo rispetto al comporre tradizionale […] alla consapevolezza di un superamento del complesso di inferiorità del jazz nei confronti della musica colta, corrisponde un rispecchiarsi dell’improvvisazione in forme variegate, complesse e ogni volta nuove, ma consapevoli di essere forme, non semplici sfoghi o esplosioni di istinti primari» [Cappelletti 2004, pag. 16].

Un linguaggio veramente elegantissimo, quasi weberniano per l’uso incredibile del puntillismo, del silenzio; l’equilibrio insieme all’eleganza sono a mio parere i suoi punti di forza; un equilibrio che viene fuori subito al primo ascolto. Si attenderebbe da uno dei fautori del free-jazz un linguaggio aspro, dissonante e aggressivo; invece in Bley queste forme si rendono subdole, malinconiche, intime. Bley sceglie una lingua nuova, non si piega alla forma tumultuosa del free-jazz americano; avvicinandosi così all’improvvisazione radicale di stampo europeo, e questo equilibrio sembra impossibile, visto che riesce a suonare morbido e confortevole anche quando rifiuta e fa quel che vuole dei fondamenti del jazz (il tempo metronomico, l’armonia, l’accompagnamento pianistico standard, l’uso abbondante del silenzio). «Se questa musica continua a chiamarsi jazz è perché conserva il riferimento ad alcuni elementi della tradizione (il blues, gli standards), ma soprattutto perché, nella sua libertà, è imprevedibile, energica, rischiosa, avventurosa; in una parola, perfettibile» [Cappelletti 2004, pag. 29]. Parlavo di oltre 200 registrazioni, a fronte delle quali non c’è niente di scritto; si parla di soli due brani. Paul Bley che studiò armonia e composizione «non vuole più sentir parlare di musica scritta, musica alienata, morta oggettivata che non ha niente a che fare con la vita» [Cappelletti 2004, pag. 36]; eppure vi assicuro che all’ascolto della base discografica di Bley (almeno 10 album di diversa estrazione dal trio con Jimmy Giuffre, i piano solo33, all’esperienza elettrica, le primissime esperienze con Blakey e Mingus, le composizioni di Russell, i lavori di Carla Bley la prima moglie, e altro..) risulta veramente ai limiti del possibile un tale rapporto con la scrittura, per la sua lucidità espositiva, soprattutto negli aspetti più lirici e appassionati. Derek Bailey diede il suo apporto extramusicale tramite l’apporto teorico, mentre

«L’Improvising Artist Inc., una etichetta indipendente per produzioni audio e video, viene fondata da Paul Bley e Carol Goss nel 1974 a New York […] in pochi anni, dal 1974 al 1978, la IAI realizza circa venti LP, con musicisti come Jimmy Giuffre, Bill Connors, Ran Blake, Mike Nock, Marion Brown, Perry Robinson, Oliver Lake, Lester Bowie, Dave Holland» [Cappelletti 2004, pag. 79].

Non che l’apporto teorico in Bley sia del tutto assente:

«Sul finire degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta Paul Bley [fu] uno dei capiscuola del free,esponente di punta del movimento per la ‘liberazione’ del jazz da vincoli di ogni sorta, armonici e ritmici. Elemento essenziale del free era la cancellazione dei ruoli all’interno del gruppo, l’idea che disparità e gerarchie dovessero essere eliminate a vantaggio di una parità assoluta fra i diversi membri. Il modo più semplice in cui questa parità poteva essere dimostrata era improvvisare tutti contemporaneamente, perdersi in un sound di gruppo dove diventava difficile riconoscere

enormous. Deeply original and aesthetically agressive, Mr. Bley long ago found a way to expresshis long, elegant, voluminous thoughtsin a manner that implies complete autonomy from its given setting but isn’t quite free jazz. The music runs on a mixture of deep historical knowledge and its own inviolable principles». Cfr. Ben Ratliff, New York Times – Sunday May 21, 2006.33 «Per certi individualisti avvezzi alle sfide far parte di un gruppo è soprattutto un modo di far luce dentro se stessi, difendere la propria identità contro forze che tenderebbero a cancellarla e umiliarla. Se riusciremo a mantenerci fedeli a noi stessi anche in condizioni avverse o ostili, sembrano pensare, la nostra identità uscirà da questa prova più chiara e forte. Non solo; dal confronto con l’altro sé può darsi emergano aspetti di essa sconosciuti a noi stessi. Ma perché ciò avvenga sono necessari coraggio e convinzione, soprattutto la certezza di averla, un’identità. Ciò che può emergere soltanto dal confronto serrato con se stessi». Cfr. Cappelletti 2004, pag. 73, 74.

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le singole individualità e tuttavia ciascuno si sentiva a casa. Nonostante il suo amore per il piano solo e per il trio con pianoforte, in cui ha sempre svolto un ruolo da protagonista, e per il ‘corpo a corpo’ con altri musicisti nei suoi incomparabili duo, Paul Bley è sempre rimasto fedele all’idea di improvvisazione collettiva, affascinato dal pensiero di raggiungere con altri musicisti una empatia tale da consentire a ognuno di integrarsi perfettamente con gli altri rimanendo se stesso» [Cappelletti 2004, pag. 97].

Abbiamo parlato in parte del ruolo che il silenzio ha in Bley:

«Parafrasando Ludwig Wittgenstein, se non si ha nulla da dire, è meglio tacere, e Paul Bley insiste spesso sulla ‘necessità’ di chiedersi, prima di suonare una nota, ‘perché’? […] ci fa capire come la musica, anche quella totalmente improvvisata, segua un suo sviluppo, una sua crescita ‘interni’. Se noi non ci sovrapporremo a questo processo, non imporremo artificialmente le nostre scelte, trarremo da ciò un grande beneficio: quello di inserirci in modo spontaneo, fluido, naturale in un processo che, certo, ha bisogno di noi per compiersi, ma che ha bisogno anche di essere riconosciuto nella sua ‘ineluttabile’ logica» [Cappelletti 2004, pag. 99/100].

La sua musica, crea una poetica dell’imprecisione, una ricerca continua; pone le note ed i temi democraticamente sullo stesso piano, concentrata come un haiku, dunque antiripetitiva, la sua forma è la fluidità.

3.5 Esperienze personali

Dopo tali considerazioni di ordine storico, farò un breve cenno alle mie esperienze personali. Cominciai a suonare la chitarra classica da autodidatta, sin dal primo istante mi trovai a sperimentare, con le capacità rudimentali che avevo, a giocare con i suoni senza stare troppo a pensare sul fare la ‘cover’ di questo o quell’altro brano; questa abitudine non si è mai più allontanata dal mio approccio a qualsiasi strumento. In seguito, dopo esperienze di vario tipo in band rock locali, conobbi un appassionato di musica, e musicista per passione al tempo stesso (Giuseppe di Gregorio) che mi introdusse alla pratica dell’improvvisazione di gruppo, in contesti che, da oramai sei anni, sono variati innumerevoli volte sia per formazione che genere musicale (rock, blues, metal, punk, bossa, jazz, reggae, swing, manouche, flamenco, elettronica..); ma l’approccio concettuale rimane sempre lo stesso, una logica dell’improvvisazione basata sull’ascolto reciproco e sulla necessità di ‘respirare’34, prendere cioè contatto con se stessi, trovare lo spunto per lasciarsi andare liberamente nella musica. Gli esiti sono stati altalenanti: un discreto seguito di amici e appassionati ci segue ormai da tempo nelle jam session che andiamo organizzando, ed il feeling che si è instaurato fra i componenti del gruppo si manifesta in forme sonore inusuali ma concrete ed espressive. Questa mia esperienza mi ha portato alla curiosità di approfondire il medesimo approccio su diversi strumenti, ampliando così la mia pratica musicale anche all’uso del basso elettrico, contrabbasso acustico, pianoforte, sassofono contralto, batteria, live electronics e tutta un’altra serie di scoperte sonore (dovute anche alla frequentazione per diversi anni dei seminari del Roccella Jazz Festival in Calabria) che sono risultate fondamentali nel prosieguo della mia attività. A Palermo con due altri musicisti siciliani (Pietro Calvagna di Paternò e Salvatore Nicosia di Raffadali) ho trovato ambiente fertile per sperimentare queste forme improvvisative a livelli tecnici più alti,con esiti interessanti sia dal vivo che nelle registrazioni effettuate. Anche i linguaggi in questo caso hanno assunto un’espansione maggiore raggiungendo forme molto simili all’improvvisazione radicale di stampo europeo da una parte ed al jazz moderno dall’altra. Senza preclusione alcuna in tutte le occasioni di incontro musicale con l’altro, sia esso uno strumento, una persona (musicista e non) o un genere, per istinto mi trovo ad interagire in maniera libera, senza pregiudizi né limiti; credo che uno dei motivi principali per cui mi sento spinto verso l’improvvisazione sia che essa rappresenti la forma più vicina al poter captare il tutto. Nel tutto ed in qualsiasi istante o momento è insita un’infinita bellezza, che si può cogliere se bendisposti, ed è un lavoro che va fatto almeno in due, chi lo produce e chi lo riceve.

34 Termine che ho trovato usato nella stessa accezione in quasi tutti i libri analizzati per gli altri capitoli.

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4. Sociologia –Psicologia

L’improvvisazione non è mai stata trattata con il rispetto che merita.

Keith Jarrett, Theartofimprovisation– 2005

4.1 Introduzione

La prima cosa cui si è portati a pensare associando psicologia e musica improvvisata sono i «sintomi psicotici nella musica di un Bud Powell, nevrosi di vario tipo in Monk, Mingus, Young, e via con tutto l’elenco culminante in Charlie Parker, che a tutto ciò aggiungeva la possibilità di registrare ‘in diretta’ un vero collasso da overdose da eroina» [Caporaletti 2000, pag. 16]. Per non parlare di come veniva visto l’aspetto psico-sociale del jazz; ad esempio:

«Non è richiesto all’auditorio un civile e razionale self-control e alla musica si chiede di essere più che un godimento estetico, una psicoterapia, uno strumento di confessione pubblica, una catarsi, […] forse perciò, l’auditorio jazz è costituito soprattutto da soggetti nei quali, per ragioni naturali, sociali, storico culturali, più affiorano conflitti psicologici, e più si evidenzia una carenza di equilibrio e di armonia psichica» [Caporaletti 2000, pag. 17].

Non bisogna dimenticare come l’influsso di un sociologo, McLuhan, sia stato di grande aiuto per Caporaletti nella definizione del P.A.T. e come studiosi nel campo della psicologia-cognitiva fra i quali Sloboda e Sparti si siano applicati in maniera produttiva alla tematica dell’improvvisazione. Ritengo opportuno ricordare qui, rapidamente, i collegamenti con gli altri campi: nel teatro (Grotowski), nella poesia (Kerouac), nella danza (Rossella Fiumi), nella letteratura (Joyce), nel mondo delle arti visive (Pollock) oltre ché nella quotidianità attraverso il linguaggio.

4.2 Emittente, Il modello di Pressing

«La psicologia cognitiva è una branca della psicologia che ha come obiettivo lo studio dei processi mediante i quali le informazioni vengono acquisite dal sistema cognitivo, trasformate, elaborate, archiviate e recuperate. La percezione, l’apprendimento, la risoluzione dei problemi, la memoria, l’attenzione, il linguaggio e le emozioni sono processi mentali studiati dalla psicologia cognitiva»35. In altre parole «comela musica riesce a influire sulle persone» [Sloboda 1998, pag. 24] riferendoci tanto a chi produce l’evento sonoro (emittente) quanto a chi lo riceve (ricevente). Vediamo come funziona il meccanismo dell’emittente nel processo di improvvisazione: prende forma, nelle sue linee fisio-neuropsicologiche, all’interno di una generale sequenza di eventi, valida per rappresentare la modalità esecutiva di ogni performance musicale:

1. Complessi segnali elettrochimici sono trasmessi tra parti del sistema nervoso e attraverso il sistema endocrino e muscolare2. Muscoli, ossa e tessuto connettivo eseguono una sequenza complessa di azioni3. Ha luogo un rapido monitoraggio visivo, tattile e propriocettivo36 delle azioni4. I suoni sono prodotti dallo strumento o dalla voce5. I suoni prodotti e altri input sonori sono percepiti6. I suoni percepiti sono organizzati in rappresentazioni cognitive e valutati come musica7. Una successiva elaborazione cognitiva nel sistema nervoso centrale genera il profilo della susseguente azione e l’inizializza: il processo riprende dal punto 1 [Caporaletti 2005, pag. 24].

35 Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Psicologia_cognitiva36 La propriocezione rappresenta la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli, anche senza il supporto della vista.

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Questo è quanto afferma Jeff Pressing, il quale nota «come allo specifico dell’improvvisazione si attagliano particolarmente i punti 6 e 7, oltre al punto 3 [lo stesso Pressing 1984] ha evidenziato come 10 azioni o più al secondo possano essere solo pre-programmate non rendendo possibile l’improvvisazione; dal momento che non prevedono il margine temporale per la correzione di errori possono essere eseguite solo meccanicamente» [Caporaletti 2005, pag. 24, 25].

Diagramma del modello improvvisativo di Jeff Pressing

Gli studi di Jeff Pressing evidenziano

«Un complesso ed articolato modello descrittivo del processo improvvisativo su base psicologico-cognitiva, anche in vista delle implementazioni dell’intelligenza artificiale con la possibilità di realizzazione informatica del fenomeno; [il modello individua] due possibili identità: quella intenzionata e quella effettiva. […] In altri termini, distingue un suono immaginato al tempo t e la successiva percezione dello stesso suono eseguito nel tempo t+1, che concorre a sua volta, a ritroso, a definire l’immagine mentale del fenomeno. La distanza nel tempo tra la forma intenzionata e quella effettiva si riduce in base alle competenze acquisite e/o innate nel soggetto, che può immaginare con precisione variabile ciò che poi eseguirà» [Caporaletti 2005, pag. 30/33].

4.3 Ricevente, il ‘pubblico’

«La relazione che intercorre tra qualsiasi musica improvvisata e il suo pubblico è di natura molto particolare. La sensibilità dell’improvvisazione nei confronti dell’ambiente fa sì che l’esecuzione musicale sia totalmente condizionata dal pubblico […] (il quale) finisce per condizionare non solo l’esecuzione ma anche la scelta del materiale da impiegare» [Bailey 1982, pag, 103]. Il ricevente è parte fondamentale della forma e dell’estetica che assume una musica di natura audiotattile.

L’approvazione da parte del pubblico ha il potere di condizionare anche negativamente l’esecuzione,

«Quando un musicista nota una reazione positiva da parte del pubblico è tentato di riprodurre l’effetto che ha condotto a quella reazione e si può quindi comprendere come si determini un rapido deterioramento della musica eseguita […] Purtuttavia, improvvisare senza essere sensibili all’ambiente in cui si agisce è una contraddizione […] Innegabilmente il pubblico dell’improvvisazione, attivo o passivo, ostile o in sintonia, ha un potere che nessun altro pubblico ha» [Bailey 1982, pag. 103, 104].

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«Roland Barthes dice ascoltare è cercare di sapere ciò che sta per accadere... L’ascolto parla»37, musicisti e pubblico si ascoltano, creando insieme, mentre si fa. Düring «illustra la dimensione sociale che investe i fenomeni improvvisativi, innanzi tutto attraverso il principio della riconoscibilità» [Caporaletti 2005, pag. 60] attività evidente nelle musiche di tradizione orale; Lortat-Jacob «afferma che prima ancora che la musica sia trattata come forma deve essere considerata come conforme,attraverso regole di permanenza, al modello tradizionale presente nella memoria collettiva» [Ibidem]. Dunque ioapprezzoecondividose, prima ancora di conoscere, riconosco le forme costituenti che fanno già parte del mio bagaglio culturale; cosa che porta spesso ad un’accoglienza timida delle prime esecuzioni di eventi innovativi passati poi alla storia (di cui anche l’arte colta occidentale è piena). Nel nostro specifico campo di riferimento che riguarda la free music ed il free jazz, il valore della riconoscibilità:

«È sistematicamente e deliberatamente eluso […] i rimandi sono da cogliere nell’ambito delle pratiche artistiche novecentesche delle avanguardie ‘storiche’ […] la visione dell’improvvisazione, in quanto processo non oggettivato come prodotto finito, come modello di sovvertimento delle leggi di mercato capitalistiche» [Caporaletti 2005, pag. 67].

4.4 La registrazione

L’importanza del ricevente, rimanda a quanto sia importante nelle musiche audiotattili l’ascolto, live piuttosto che su disco, dell’evento. Sia Bailey sia Cardew si mostrano in qualche modo contrari alla registrazione di musica improvvisata, in quanto denaturante e incapace di rendere alcuni fattori condizionanti che appartengono all’ambiente:

«L’improvvisazione è nel presente, il suo effetto può vivere nelle anime dei partecipanti, sia attivi che passivi (cioè il pubblico), ma nella sua forma concreta è andato per sempre dal momento in cui si verifica, e non ha avuto alcuna esistenza precedente al momento in cui si è verificato, quindi non c’è alcun riferimento storico a disposizione. Documenti come registrazioni su nastro di improvvisazioni sono essenzialmente vuote, in quanto preservano soprattutto la forma che quel qualcosa ha preso, possono dare al massimo un accenno indistinto per quanto riguarda il sentimento e non possono trasmettere alcun senso del tempo e del luogo. A questo punto avrei fatto meglio a definire il tipo di improvvisazione di cui voglio parlare. Ovviamente un registrazione di un improvvisazione jazz ha una certa validità in quanto il riferimento formale, la melodia e l’armonia di una struttura di base, non è mai molto al di sotto della superficie. Questo tipo di validità svanisce quando l’improvvisazione non ha limiti formali. [Inoltre] È in qualche modo impossibile registrare un tipo di musica che deriva in qualche senso dalla stanza in cui viene eseguita con la necessaria fedeltà, la sua forma, le proprietà acustiche, persino la vista dalla finestra […] separata dal suo contesto naturale […] il contesto naturale fornisce lo spartito che i musicisti stanno interpretando inconsciamente nel loro suonare»38.

Su questo concorda anche Derek Bailey sia tramite le parole dell’organista Stephen Hicks «credo che l’improvvisazione dovrebbe essere suonata e poi dimenticata» sia con le sue stesse:

37 Cfr. P. Damiani, http://www.indire.it/musica2020/wp-content/uploads/2010/05/Larte-dellImprovvisazione-_Damiani.pdf38 Testo in lingua originale: «Improvisation is in the present, its effect may live on in the souls of the partecipants, both active and passive (ie audience), but in its concrete formit is gone forever from the moment that it occurs, nor did it have any previous existence before the moment that it occurred, so neither is there any historical reference available. Documents such as tape recordings of improvisation are essentially empty, as they preserve chiefly the form that something took and give at best an indistinct hint as to the feeling and cannot convey any sense of time and place At this point I had better define the kind of improvisation I wish to speak of. Obviously a recording of a jazz improvisation has some validity since its formal reference – the melody and harmony of a basic structure – is never far below the surface. This kind of validity vanishes when the improvisation has no formal limits […] it is impossible to record with any fidelity a kind of music that is actually derived in some sense from the room in which it is taking place – its shape, acoustical properties, even the view from the windows […] divorced from its natural context […] the natural context provide a score which the players are unconsciously interpreting in their playing. […] It is impossible to record with any fidelity a kind of music that is actually derived in some sense from the room in which it is taking place – its shape, acoustical properties, even the view from the windows […] divorced from its natural context […] the natural context provide a score which the players are unconsciously interpreting in their playing». Cfr. C. Cardew, TowardsanEthicofimprovisation – from Treatise Handbook – Edition Peters 1971.

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«L’improvvisazione accetta la sua caducità e anzi se ne fa vanto. Per molte delle persone che la praticano, una delle più tenaci attrattive dell’improvvisazione è la sua esistenza momentanea; nessun documento di ciò ch’è stato rimane [e] al contrario di molte altre musiche, la libera improvvisazione non ha ancora iniziato ad imitare il suo sé registrato […] la perdita, durante il processo di registrazione, della atmosfera in cui l’attività musicale si svolge […] “l’incontrarsi della musica con il luogo e l’occasione”» [Bailey 1982, pag. 87/191].

A tal proposito Bailey cita anche A. Danielou: «Della musica viva, in cui l’improvvisazione ha un ruolo essenziale, un disco fonografico ci dà solo un momento fissato, ghiacciato, come la fotografia di un ballerino» [Bailey 1982, pag. 191] su queste affermazioni credo sia interessante considerare come la registrazione, da molti viene vista come una limitazione, stia diventando vettore principale verso il futuro; è l’equivalente della trascrizione in partitura per la musica d’arte, come ci ha dimostrato Caporaletti. Occorre sfruttarla senza più averne paura, riconoscerne limiti e potenzialità, per renderla uno strumentocapace di trasformare in eterna quella realtà che finora (nella maggior parte dei casi) è stata considerata, come le sculture di ghiaccio, effimera. Non voglio negare l’importanza di assistere dal vivo alle musiche audio-tattili, proprio per i motivi di cui sopra, esposte in modo ancora più cogente da Collingwood: «[L’artista] ne fa (del processo artistico) un suo compito per esprimere non le sue emozioni... ma le emozioni che condivide con il pubblico, ciò che dice sarà quello che il pubblico dice attraverso la sua bocca (fig.) ci sarà qualcosa di più della mera comunicazione fra artista e pubblico, sarà collaborazione quella fra pubblico e artista»39.

4.5 Il processo è il prodotto Dell’importanza della performance abbiamo conferma negli studi di Dewey e Collingwood, i quali concordano nel dire che «in improvisational performance, the creative process is the product»40. Sawyer, che si occupa di analizzare questa affermazione, si meraviglia di come siano assolutamente assenti studi sulla creatività nei processi improvvisativi, nonostante questi siano facilmente rilevabili (creati sul momento dell’esibizione) e spesso di tipo collaborativo (importantissimo nelle forme di improvvisazioni teatrali), quindi di grande interesse per i ricercatori. Su questo adduce l’esempio della free-form in Picasso, dove le forme si evolvono sotto l’occhio dello spettatore (in questo caso una telecamera41) variando anche di parecchio dal punto di partenza (es. un piede può diventare un toro e viceversa). Gli studi basati sull’osservazione dei fenomeni improvvisativi, che vanno condotti non sul prodotto ma sul processo, possono portare alla scoperta dei processi relativi allo sviluppo dei potenziali in atto o allo studio sul campo di quelli che potrebbero essere benissimo definiti stati di trance. L’attività estetica risiede nell’esperienza immaginativa che, secondo questi studi, è il vero oggetto d’arte. Esperienza immaginativa che nell’improvvisazione coincide con il processo ed è esperita in pubblico, a differenza dell’arte comune, che avviene sui tavolini dei compositori, negli studi dei pittori etc. Anche Davide Sparti è dello stesso avviso:

«Se i paradigmi estetici con cui pensiamo la creazione artistica ricalcano sempre la pratica della product creativity (valutando l’improvvisazione con i criteri della composizione scritta), si generano dei fraintendimenti. Se al posto di un esecuzione rifinita e raffinata abbiamo un processo sperimentale, i criteri di valutazione dovranno essere legati alla produzione (di inizi), non alla ricezione (di un’opera finita). […] Non si tratta di fare un elogio dell’imprecisione. Bisogna però smettere di valutare solo quello che è stato «ottenuto», tanto meno in termini di pura gradevolezza. Improvvisando si erra, sia nel senso che si commettono errori, sia nel senso di vagare in direzioni sconosciute» [Sparti 2010, pag. 92/93].

39 Testo in lingua originale: «[The artist] takes it as his business to express not his own private emotions […] but the emotions he shares with his audience. […] What he says will be something that his audience says through his mouth […] there will be something more than mere communication from artist to audience, there will be collaboration between audience and artist». Cfr. R.G. Collingwood, ThePrinciplesofArt – Oxford University Press – New York.40 Trad. «Nella performance improvvisata, il processo creativo è il prodotto». Cfr. K. Sawyer, ImprovisationandtheCreativeProcess:Dewey,Collingwood,andtheAestheticsofSpontaneity–ThejournalofAestheticsandArtCriticism.41 Il film TheMysteryofPicasso di C. Renoir 1982.

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4.6 Capacità improvvisative

In quanto forma

«Di agire generativo e sociale [improvvisare è] come imparare ad attraversare una città: all’inizio chi cammina presta attenzione ai segnali, impara a memoria le strade. Con il tempo, grazie a questi landmarks acquisiti, il controllo sulla direzione passo dopo passo si rilassa, e il pedone può concentrarsi su altri dettagli, senza rischiare di smarrirsi: scopre le scorciatoie, gli angoli più belli e le zone da evitare, apprende a regolare l’andatura in funzione delle distanza» [Sparti 2005, pag. 128].

Le competenze che servono per imparare a muoversi dentro questi spazi, a diventare fluent,possono essere la fluidità stessa, l’immediatezza, il coraggio/fiducia in se stessi42, la memoria, la sensibilità, l’istinto collaborativo; tutte qualità che però sono in comune in maniera diversa con gli altri tipi di musica, prerogativa diversificante è la creatività43, la capacità di gestire un flusso imprevisto in maniera creativa e musicale. Non potendo qui approfondire tutte le capacità, prettamente tecniche44, proprie dei processi estemporizzativi nelle culture orali e non (titolati solitamente: improvvisare il jazz45, la chitarra rock, etc.); proporrò alcuni elenchi di virtù che il musicista improvvisatore, dovrebbe tentare di raggiungere.Per Cornelius Cardew46 sono le seguenti:

1. Semplicità: Il posto più desiderato è quello dove tutto diventa semplice. Per dirla con una ‘innocua contraddizione’ di Wittgenstein, ricordati come sei arrivato lì. 2. Integrità: Ciò che facciamo è importante, non solo quello che abbiamo in mente di fare. La differenza fra produrre un suono ed essere il suono stesso. 3. Altruismo: Per fare qualcosa di costruttivo si deve guardare al di là di se stessi. Non cadere nella documentazione, solide fondamenta possono permetterti di prendere il volo. 4. Tolleranza: In un gruppo devi accettare non solo la fragilità dei musicisti con cui suoni, ma anche la tua stessa. Superare la tua repulsione istintiva contro tutto ciò che è stonato (nel senso più ampio del termine). 5. Preparazione: Uno stato di veglia, non sai da dove o cosa stia per arrivare ma tieniti sempre pronto a coglierlo. 6. Identificazioneconlanatura: Musicalità è una dimensione perfettamente naturale della realtà, ogni attività musicale può essere vista come un’espansione

42 «Chi pratica l’improvvisazione, avverte il bisogno impaziente di oltrepassare quanto suonato in passato, ricerca l’esperienza del limite, l’esposizione ad una situazione di rischio (o di difficoltà), definibile come una situazione di cui non si può avere pieno controllo, e per affrontare la quale occorre attivare risorse inattese e dunque essere originali. […] Ecco perché il coraggio è parte integrante dell’improvvisazione» Cfr. G.Ferreccio / D.Racca, L’improvvisazioneinmusicaeletteratura; «L’improvvisazione sviluppa un’estetica dell’imprevisto. […] L’imprevisto però fa paura, così come il rischio, il vuoto, il silenzio: perciò molti musicisti si rifugiano in virtuosismi fini a sé stessi, formule reiterate che esprimono solo nevrosi personali e nessuna poetica. Il cliché è sempre in agguato, bisogna evitarlo o usarlo per inventare nuove possibilità narrative». Cfr. P.Damiani, L’artedell’improvvisazione–unsaperenelmentresifa; «tendiamo a celebrare l’improvvisazione come spettacolo quasi eroico in cui trionfano l’espressione – e la libertà – individuale […] l’improvvisazione è invece legata alla paura, paura dei luoghi privi di marcatori, timore dell’ignoto, terrore del non previsto, imbarazzo del fallimento, rischio del ridicolo, in una parola: paura del nulla e della nullità – che nulla (di interessante o apprezzabile) avrà luogo». Cfr. D.Sparti, L’identitàincompiuta–Paradossidell’improvvisazionemusicale.43 «In effetti, per qualsiasi cosa che proceda da ciò che non è a ciò che è, senza dubbio la causa di questo processo è sempre una creazione». Cfr. Platone, Simposio.44 «Nell’improvvisazione (qui intesa come estemporizzazione), il successo si basa non solo sul cogliere la struttura, ma anche sulla capacità di scegliere rapidamente degli elementi idonei, ma nuovi, che trovino la giusta collocazione in uno schema generale prefissato. Gli improvvisatori ottengono i loro risultati migliori quando suonano delle forme con vincoli molto stretti (per esempio una fuga, o, nel jazz, il blues) mentre i compositori possono con maggior probabilità innovare con successo le forme». Cfr. Sloboda, Lamentemusicale.45 «La competenza di chi improvvisa non va misurata in termini di virtuosismo ma in rapporto alla sua capacità di mobilitare strategie che assecondino la fluidità dell’improvvisazione, la sua natura di evento, l’aver luogo dell’evento. Evitando lo stallo e la noia. […] La padronanza tecnica è un presupposto che non ha alcun valore intrinseco. Anzi, a un certo grado di maturazione, la tecnica lavora alla scomparsa di se stessa, come se si auto annullasse». Cfr. D.Sparti, L’identitàincompiuta–Paradossidell’improvvisazionemusicale.46 Proporrò qui una versione tradotta e ridotta traendo spunto dal già citato; C. Cardew,TowardsanEthicofimprovisation.

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del canto (come lo potrebbe essere ad esempio per gli animali o meglio ancora i bambini). 7. Accettazionedellamorte: Da un certo punto di vista l’improvvisazione è la più grande espressione dell’attività musicale, perché è basata sull’accettazione della debolezza e dell’essenzialità della musica, oltre che della sua caratteristica più bella, la caducità. Il desiderio di immortalità è qui rinnegato in quanto ignobile.

Vediamo adesso le caratteristiche essenziali dello studio di Dewey e Collingwood:

1. Un’enfasi dei processi creativi piuttosto che su quelli produttivi: Come abbiamo già visto nel paragrafo precedente il processo è il prodotto. 2. Un enfasi sui processi creativi basata più sul problem finding che sul problemsolving. 3. Paragone dell’arte con il linguaggio parlato di tutti i giorni: arte come linguaggio solo dal punto di vista pragmatico e non sintattico. Per Dewey anche le chiacchierate quotidiane sono improvvisate, infatti i dialoghi improvvisati del teatro vengono considerati come un ‘caso speciale’ di conversazione quotidiana. Entrambi gli studiosi convergono sul fatto che tutti i linguaggi fanno parte dell’estetica. 4. L’importanza della collaborazione. 5. Il ruolo del Ready-made nell’improvvisazione: Il cliché nell’improvvisazione.

Maurizio Vitali, insegnante di musica oltre che ricercatore nel campo della pedagogia musicale, individua nell’ascolto, la capacità fondamentale dell’improvvisatore:

«La prima e più importante capacità da acquisire è l’ascolto e per raggiungerlo è necessario esercitare la concentrazione verso il proprio suono, verso l’ambiente sonoro e verso il suono degli altri. […] Un processo complesso dunque, che ha bisogno di tutto il potenziale corporeo e mentale delle persone coinvolte, del loro investimento affettivo, per poter produrre un evento comunicativo sentito come autentico, oltre che gratificante, per chi lo realizza. […] In tutte le tre direzioni dell’ascolto evidenziate – ascolto di sé, dell’ambiente, degli altri – è indispensabile saper valorizzare ilsilenzio» [Vitali 2004, pag. 12/13/14].

Alla presentazione sintetica del suo pensiero segue un adattamento del glossario, sugli ‘atteggiamenti facilitanti’ per un dialogo sonoro e una comunicazione empatica, stilato da Mauro Scardovelli47: 1. «Apertura: Atteggiamento di ascolto in cui i canali sensoriali sono aperti verso l’esterno. Comporta attenzione, ascolto, flessibilità, partecipazione attiva, capacità di attesa, fiducia incondizionata nelle persone e nel contesto. Richiede una sospensione del proprio giudizio e di qualunque imposizione del proprio punto di ascolto e del proprio punto di vista. 2. Sensibilità: Capacità di cogliere sfumature minime, micro variazioni, pluralità molteplicità […] senso di responsabilità verso la nostra storia e quella degli altri 3. Empatia: L’entrare in risonanza emotiva con gli altri, come conseguenza del condividerne il progetto espressivo. Sperimentare le possibilità di sentire e ascoltare ‘come se’ si fosse l’altro/a. 4. Pro-positività: Esprimere idee, intenzioni, progetti positivi. Valorizzare le risorse a disposizione, renderle ascoltabili, visibili ed efficaci... 5. Congruenza: Esprimere coerenza nell’azione, rimanendo il più possibile trasparenti nella comunicazione. Non aver paura di rivelare i propri sentimenti, ricercare fluidità, scioltezza, disinvoltura, agio nella relazione, senza perdere il senso della

47Cfr. http://www.musicoterapia.it/Scardovelli-Mauro.html

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critica, dell’autocritica... 6. Sinteticità: Saper cogliere gli elementi più significativi con rapidità, precisione, esattezza. Privilegiare la qualità rispetto alla quantità. […] Saper concludere, accettare il distacco. 7. Creatività: In musica può essere sinonimo stesso di ‘invenzione’ o di ‘improvvisazione’. È dire di sé e degli altri in forma nuova, come metafora dell’esistenza; esprimere fantasia, divergenza, saper cambiare i punti di vista e di ascolto. È esplorare e riorganizzare esteticamente il suono nel mondo.

Quanto più tali comportamenti si riescono a realizzare e a condividere nel gruppo, tanto maggiori saranno le possibilità di sviluppare integrazione e cooperazione e tanto migliore risulterà la qualità artistica del suono collettivo prodotto. Il risultato è il superamento del puro coinvolgimento emotivo, dello spontaneismo generico e del caos fine a se stesso» [Vitali 2004, pag. 16].

Per concludere presenterò il concetto di affordance48,vale a dire la possibilità di un azione non ancora intrapresa (e che non necessariamente verrà di fatto intrapresa) la forza perlocutiva (la circostanza che la musica esprime, allude, propone, insinua...) non sta allora nella musica, ma nel modo in cui essa è recepita. In sintesi, per improvvisare bisogna saper ascoltare e accettare quanto proposto da chi ha espresso qualcosa durante il turno precedente, elaborare quella sollecitazione in modo originale, personale e distintivo, creando novità e tensione, senza collocarla all’interno di una serie che risulta a tutti gli effetti un copione prestabilito. In modi diversi abbiamo visto come le capacità siano al centro dell’attenzione di diversi ricercatori, in ambiti di varia specie e come vi siano spesso degli elementi in comune, elementi sui quali si può certamente lavorare per creare una realtà pedagogica, realtà che in parte già esiste e di cui darò testimonianza nel prossimo ed ultimo capitolo della prima parte.

48 L’affordance è quell’insieme di azioni che un oggetto ‘invita’ a compiere su di esso. Il termine affordance infatti può, in questo contesto, essere tradotto con ‘invito’; questo concetto non appartiene né all’oggetto stesso né al suo usufruitore ma si viene a creare dalla relazione che si instaura fra di essi. È, per così dire, una proprietà ‘distribuita’. Ad esempio l’aspetto fisico di un oggetto permette all’utilizzatore di dedurne le funzionalità o i meccanismi di funzionamento. Il termine è stato introdotto nel 1966 dallo psicologo James J. Gibson. Più alta è l’affordance, più sarà automatico ed intuitivo l’utilizzo di un dispositivo o di uno strumento. Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Affordance

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5. Pedagogia

L’improvvisazione non è solo ciò che permette di convivere con lo strappo (disjunction) e il mutamento;

fornisce una tecnica di sopravvivenza fondamentale, peraltro compatibile con lo sradicamento e la discontinuità

così tipici dell’esistenza umana nel mondo contemporaneo.

Albert Murray, StompingtheBlues – 1976

5.1 Introduzione

La decisione di lasciare per ultimo l’argomento della didattica non è casuale, ma dettata dalla necessità di arrivare preparati all’idea di quanto questo aspetto sia importante. Il contatto con i suoni, è una delle principali esperienze estetiche quotidiane utili ad esperire le retifantasmatiche che si accumulano durante il corso delle giornate, insegnare musica dovrebbe voler dire innanzitutto educare al rapporto con i suoni. Uno dei fondamenti dell’insegnamento della musica improvvisata è l’ascolto. L’elaborazione di una parte fondamentale dell’essere umano, vale a dire quella spirituale, che è fondamentale per la salute dell’uomo, passa attraverso il superamento del lato razionale (la psiche):

«Ci troviamo nel mondo spirituale: quando non pensiamo più soltanto a noi stessi ma pensiamo a tutto insieme, quando ci sentiamo parte di qualcosa di assolutamente più grande e non pensiamo al nostro bene individuale»49.

In altre parole, quando ci predisponiamo all’ascolto dell’altro. In questa direzione si muovono le ricerche di Maurizio Vitali e Violeta Hemsy de Gainza, attraverso proposte sia teoriche che pratiche, come avremo modo di vedere nei paragrafi a venire.

5.2 Didattica

Insegnare l’improvvisazione sembra una contraddizione in termini, eppure come abbiamo avuto modo di vedere, nel G.I.N.C. ad esempio, gli esercizi sono fondamentali per sviluppare al meglio

49 Cfr. Mauro Scardovelli, http://www.youtube.com/watch?annotation_id=annotation_571392&v=vMr2H6BI5gM&feature=iv

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non solo il materiali sonoro ma anche il rapporto dei musicisti con esso. L’approccio all’insegnamento per chi si occupa di improvvisazione è radicalmente diverso rispetto a quello tradizionale, perché basato non sulla ripetizione bensì sulla creatività50. L’insegnamento dell’educazione musicale, come possiamo vedere nello schema, risulta, soprattutto nella scuola italiana, incentrato quasi esclusivamente sulla musica colta occidentale; è un po’ come se nell’insegnamento della storia dell’arte si prendesse in considerazione solo la scultura. L’improvvisazione non è affatto una parte della composizione, né l’estrema frontiera, bensì semmai punto di partenza o parte integrante (e viceversa). Un approccio completo dovrebbe dunque partire dalle basi del suono e del rapporto che si ha con esso a prescindere dallo strumento, dal genere o dall’istituzione musicale. Si darebbe così una visione completa dei mondi sonori esistenti, in una condizione priva di pregiudizi che permetterebbe di slegare la musica da una visione eurocentrica per permettere una conoscenza, un piacere ed una comprensione sempre maggiori. Le potenzialità dell’insegnamento inerente alla musica improvvisata sono enormi, e ancora poco indagate51.

«Ogni persona ha in sé delle competenze musicali di cui può essere più o meno cosciente; una delle funzioni principali del lavoro di improvvisazione musicale è quella di far emergere questo potenziale: scoprire il proprio suono, dalle radici più profonde alle possibilità di sviluppo che determinano la nostra identità musicale. […] È uno slancio d’amore verso noi stessi e di piacere per la conoscenza. […] Come l’autobiografia, l’improvvisazione musicale è esperimento di identità» [Vitali 2004, pag. 10].

Da queste frasi si evince subito l’idea di assoluta apertura che attraversa il pensiero di Maurizio Vitali. Abbiamo già visto in parte come la pratica dell’improvvisazione abbia delle ottime ripercussioni sull’aspetto psicologico della persona, soprattutto del bambino, che vede così crollare le paure ed i limiti che si vengono ad instaurare in un contesto educativo rigido, come quello tradizionale: «La ricaduta del lavoro improvvisativo sullo sviluppo delle identità musicali52 può tradursi concretamente nel graduale superamento del continuo bisogno di autoaffermazione (egocentrismo sonoro-musicale) e, allo stesso tempo, della diffidenza o paura dell’altro» [Vitali 2004, pag. 12].Per sua propria natura il lavoro di crescita musicale improvvisativa presuppone un interazione di gruppo, con una prerogativa che è quella dell’ascolto dell’altro,

«Un’esperienza nata per stimolare un modo emotivamente più significativo di vivere in modo globale, quindi anche musicale, la creatività. Valori universali quali la solidarietà, l’accettazione, la convivenza pacifica, il rispetto, potevano, attraverso l’esperienza musicale creativa progettata, trovare un riscontro positivo, un amplificatore emozionale attraverso cui vivere e condividere momenti che solitamente, a causa di pregiudizi culturali, incontrano difficoltà nel trovare libera espressione»53.

Questo è quanto si legge nelle motivazioni di un progetto scolastico portato avanti l’anno scorso dalla Dr.ssa Angela Freno in una scuola di Potenza. Tra gli obiettivi di questo progetto basato sull’improvvisazione musicale risultano: l’autostima, la consapevolezza delle proprie competenze musicali, l’empatia e uno spirito cooperativo e collaborativo, condivisione di regole, autocontrollo.

50 Ho sentito di recente Frank Gratkowski, importante figura dell’improvvisazione contemporanea, affermare pochi istanti prima l’inizio di un suo concerto «Why do I have always to be creative? I just want to watch a movie, an easy movie!» – «Perché c’è sempre bisogno che io sia creativo? Mi piacerebbe vedere semplicemente un film, un film semplice!», ironizzando appunto sulla necessità continua dell’approccio creativo nelle musiche improvvisate.51 «In linea di massima la pedagogia strumentale e vocale tende a formare degli interpreti capaci di eseguire le opere composte, ma si occupa ben poco di sviluppare la loro capacità inventiva e la loro creatività. Un fenomeno comune, che deriva dalla pedagogia tradizionale, è la passività dell’interprete, il suo disinteresse per tutto ciò che non verrà direttamente in contatto con i suoi problemi di interpretazione e di tecnica». Globokar, Riflessionisull’improvvisazione 1981.52 E possiamo vedere bene come il fattore identità sia una questione delicata nell’apprendimento «misconoscere significa subordinare socialmente […] si viene accusati di esibire una presa o una posizione scorretta, o una diteggiatura poco ortodossa; di produrre note sporche. Insomma di violare il codice imposto dall’istituzione pedagogica». Cfr. D.Sparti, L’identità incompiuta – Paradossi dell’improvvisazione musicale.53 Cfr. A.Freno, Ma che musica? Intermedialità e improvvisazione; http://gold.indire.it/datafiles/BDP-GOLD000000000026D30F/allegato%201.doc

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Altre parole, particolarmente rilevanti, della Dr.ssa Freno ci regalano una visione molto interessante:

«L’improvvisazione collettiva richiede una concentrazione non indifferente: quando si legge uno spartito, così come quando leggiamo un testo, la mente può momentaneamente vagare perché una parte di essa meccanicamente continua a leggere il testo: nell’improvvisazione perdere uno sguardo del conductur, o il file della trama narrativa significa aver perso il treno […] il gioco è diventato creativo, empaticamente forte, emotivamente gratificante […] nella didattica dell’improvvisazione, che può diventare una filosofia di vita, non occorre un programma precostituito ma una strategia […] educare all’imprevisto, educare al controllo delle proprie emozioni in situazioni del tutto nuove o che prendono pieghe e sfumature che non si erano ‘programmate’, significa educare alla vita, all’assunzione delle proprie responsabilità, a comprendere l’importanza del saper o non saper prendere una decisione opportuna al momento giusto. Strategia, come capacità di gestire con consapevolezza una performance improvvisativa, traslando sul piano psico-sociologico significa dunque capacità di adattamento, di autocritica e di osservazione e riflessione acuta della realtà di cui si è parte e di cui si contribuisce al cambiamento […] l’improvvisazione ha un potenziale educativo fortissimo: accresce la capacità di esplorazione consapevolezza (sonora), la capacità di analisi e di sintesi, la capacità di selezionare, capacità di autocritica»54.

5.3 Consegne La gestione della didattica musicale improvvisativa ruota in gran parte intorno alla consegna: «ordine o stimolo che induce a realizzare una determinata azione. Regola di gioco; in generale contiene la chiave per iniziare l’azione» [de Gainza 1983, pag. 26]. Le origini di queste regole per de Gainza possono essere di due tipi: musicali (specifici) o extramusicali (generali). Fra quelle specifiche abbiamo: suono, ritmo, melodia-armonia, forme, genere, stile; fra le generali: volume, colore, struttura, densità, fatti della natura. La funzione della consegna consiste «nello scatenare, attivare, canalizzare, orientare il processo d’improvvisazione, e nel dargli coscienza» [de Gainza 1983, pag. 28]. Ciò può avvenire attraverso diverse tecniche di lavoro: implicita/esplicita, individuale/di gruppo, aperta/chiusa (quanto più è generale, tanto più è aperta), semplice/composta, unica/di serie; diverse formalizzazioni: trama/forma, forma assente/esteriorizzata, forma indotta, forma prestabilita; diversi stili: improvvisazione libera, indagine/esplorazione/esercitazione, descrizione/racconto/evocazione, imitazione/corrispondenze, gioco con regole, automatismi. La struttura della consegna può assumere una forma a matrioska, formando così delle sottoconsegne come possiamo vedere nell’esempio successivo:

1) Suonare una melodia. 2) Melodia allegra. 3) Melodia per canzone da culla. 4) Melodia di valzer. 5) Melodia in La maggiore. 6) Melodia in La maggiore con accompagnamento di accordi fondamentali. 7) Melodia in La maggiore, forma A-B-A, con modulazione alla dominante.55

Andiamo a vedere degli esempi delle diverse possibili consegne:

1) Consegne musicali

a) Materiali - Improvvisare con accordi di I e V. - Esplorare la tonalità di La bemolle maggiore.

54 Ibidem.55 L’elenco non è ripostato in maniera integrale.

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b) Strutture - Improvvisare una conversazione che si trasformi in una disputa e termini con una riconciliazione.

2) Consegne extra-musicali

- Accarezzare lo strumento (aspetto affettivo). - Imitare un treno (mondo esterno). - Duetto: uno propone e l’altro segue o si adegua (aspetto sociale: comunicazione).

3) Dinamica

- Implicita (libera) / Esplicita: usare la chitarra (o il piano), come strumento a percussione. - Individuale: descrivere una tormenta / Di Gruppo: conversazione sonora. - Aperta: Far musica con vasetti di yogurt / Chiusa: Suonare un valzer in Do maggiore. - Semplice: Improvvisare con i tasti neri del piano / Composta Improvvisare un tema triste in 5/4 con variazioni. - Unica: Improvvisare un samba / Di serie: 1)imitare un orologio, 2) appare un cucù, 3) va fermandosi, scarico.

4) Formalizzazione - Forma assente: Le dita “attaccano” (riferimento all’aspetto tecnico del tocco pianistico) / Forma esteriorizzata: Improvvisare un carnavalito: 1) cercare di imitare la musica o i ritmi popolari di moda, 2) Sottoconsegna: immaginare di aver tra le mani delle maracas, e muoverle suonando qualsiasi accordo o gruppo di accordi, con cambiamenti rapidi e continui, senza concedersi il tempo di cadere in stereotipi. Non preoccuparsi della prolissità. - Forma indotta: Descrivere un quadro. - Forma prestabilita: Improvvisare un rondò.

5) Stile

- Improvvisazione libera. - Indagine/esplorazione: Indagare sui diversi modi di far “cantare” lo strumento. - Esercitazione: Far “scorrere” le dita. - Descrizione/racconto: Descrivere un crepuscolo in riva al mare. - Evocazione: Evocare il clima impressionista di Debussy. - Imitazione di un modello: Imitare il suono del vento e della pioggia. - Corrispondenze/Traduzione o riferimento: Tradurre in suoni la linea di un determinato disegno. - Automatismi: “Dattilopiano” muoversi sulla tastiera come se si trattasse di una macchina da scrivere. - Gioco con regole.

Materiali: matita e carta per ciascuno dei partecipanti, uno o più strumenti musicali.Partecipanti: vari. Inizio: si elegge o si sorteggia il primo improvvisatore. Svolgimento: il bambino improvvisa una musica adatta a rappresentare un personaggio scelto da lui, senza menzionarlo: per esempio un soldato, una ballerina, un pagliaccio… Gli altri annotano sul foglio il personaggio che, secondo loro, è stato rappresentato. Al termine dell’improvvisazione, il bambino rivela quale personaggio ha scelto, e quelli che hanno

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indovinato segnano un punto. Finale: il gioco si ripete, finchè tutti i partecipanti hanno fatto la loro improvvisazione; risulta vincitore il bambino con il punteggio più alto56.

Non solo de Gainza parla di consegne; anche Vitali ne rileva

«Una particolare importanza. Si è spesso portati a dedicare poca attenzione alla costruzione e alla formulazione delle consegne, non dando il giusto valore al fatto che essa rappresenta, l’esplicitazione del compito da svolgere ai fini del raggiungimento dell’obiettivo e devono essere comprese da tutti con massima chiarezza […] la consegna è spesso l’unico orientamento per l’avvio di un improvvisazione, essa esplicita le richieste, fornendo indicazioni più o meno precise/indefinite, sintetiche/articolate, implicite/esplicite e che possono interessare il materiale, il testo, i criteri organizzativi, la forma, la strumentazione, l’orchestrazione, ma riguardare anche il campo dei comportamenti, delle sensazioni e delle emozioni» [Vitali 1994, pag. 45].

5.4 Conclusioni

Abbiamo avuto modo, nel paragrafo precedente, di accennare ad appena alcuni aspetti cardine della didattica musicale. Sarebbe dispersivo riferire gli altri approcci o elenchi di esercizi perché, sostanzialmente, quello della didattica improvvisativa è un lavoro basato sulla libera scelta, quindi qualsiasi metodo può risultare funzionale; purché applicato con consapevolezza e capacità gestionale. Io stesso, di recente, ho partecipato ad un workshop sull’improvvisazione guidato da Frank Gratkowski ed ho avuto modo di constatare dall’interno quanto bene faccia l’approccio improvvisativo all’espansione delle capacità musicali, sotto moltissimi aspetti che vanno dall’interplay alla espressività, passando per la tecnica e la conoscenza dello strumento. Spero che questo genere di attività si espanda e un giorno venga riconosciuto dallo stato come strumento utile per l’insegnamento nelle scuole. Concludo questo capitolo con alcuni consigli pratici, per improvvisare con piacere, in forma di aforismi:

- Non suonare o cantare mai se non sei motivato o se non riesci a trovare un senso nel tuo suono o in quello del gruppo.- Non giudicare mai banali i suoni degli altri: anche se possono sembrare elementari o convenzionali, essi rappresentano il contesto che oggi ti è dato per lavorare insieme a loro.- Se non riesci a sentire chi sta suonando con te è perché stai suonando troppo forte.- Se ti sembra che gli altri stiano suonando troppo forte diminuisci il tuo volume sonoro.- Anche nella libertà più assoluta la forma musicale non dovrebbe essere mai confusa.- Un buon aiuto per far crescere l’improvvisazione è quello di prestare attenzione al bisogno di sviluppo presente nel proprio suono e nel discorso musicale del collettivo.- Bisogna sempre saper attendere fiduciosi che il senso si riveli, soprattutto nelle situazioni di maggior cambiamento della forma.- Nell’improvvisazione si creano spesso dei primi piani, delle prevalenze, degli snodi.

È opportuno richiedere fluidità al gruppo affinché sappia far emergere questi punti focali, indispensabili nella ricerca di una forma condivisa. [Vitali 1994, pag. 48/49]

56 L’elenco non è riportato in maniera integrale.

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PARTE II

CURVA MINORE

6 Curva minore

L’immaginazione governa il mondo.

Napoleone Bonaparte, Aforismi,massimeepensieri–1993

6.1 Curva minore«Curva minore, Associazione culturale, nasce nel capoluogo siciliano nel 1997 per opera prevalente di due musicisti, Gianni Gebbia e Lelio Giannetto, che intendono incentrare il loro impegno verso un offerta di manifestazioni ed eventi volti a illustrare e accogliere le forme dei nuovi linguaggi sonori, i percorsi storici da cui sono stati determinati e i loro presupposti teorici, artistici ed estetici […] la cronaca riporta che il 21 aprile 1997 i soci fondatori, recatisi presso il dottore Alberto Calì, Notaro di Palermo, determinarono di riunirsi in Associazione per le seguenti e prevalenti finalità statuarie: “[…] ideare, promuovere, organizzare, diffondere progetti artistici e culturali come festival, rassegne, concerti, stage, seminari, convegni, conferenze, mostre, corsi di formazione professionale, laboratori e manifestazioni artistiche e culturali in genere, promuovere progetti didattici nelle scuole di ogni ordine e grado, pubblicare materiali inerenti agli scopi sociali di cui sopra, costituzione di ensemble, gruppi ed orchestre musicali anche legate al teatro, alla danza etc. […]”» [Pennino 2009, pag. 49/50/51].

Obiettivi finora pienamente raggiunti e con ottimi risultati. Vediamo come lo stesso Giannetto illustra l’attività dell’associazione in una conferenza a Colonia:

«L’idea di costituire una nuova associazione nacque dalla necessità artistica precedentemente manifestata verso la metà degli anni ’90 in una Palermo in cui si respirava una rinnovata speranza causata anche da una crescente esperienza politica di abbattimento dei vecchi schemi e la proposizione di nuove configurazioni di gestione socio-culturale ed amministrativa della Città […] Curva minore nacque in un clima di aperta discussione su come e cosa potesse intendersi come musica contemporanea o se fosse più giusto intendere le differenti espressioni del tempo attuale come musiche contemporanee... […] Un principio fu subito chiaro: evitare il concetto di contaminazione che, quasi metafora linguistica di cattivo presagio, avrebbe spesso prodotto un continuo degradare dei principi fondanti di ogni singolo ambito sonoro o categoria del pensiero musicale: si pensò piuttosto di accostare, mettere insieme le profondità esistenziali di alcune esperienze e fenomenologie della musica a partire dai percorsi profondi della ricerca, della continua evoluzione o trasformazione come esigenze di espressione di senso attuale […]. Ci interessammo quindi di ricercare, con la logica dell’approfondimento piuttosto che dell’alternativa, quelle fenomenologie presenti nei contesti della musica suonata, lontana dal grande business, ma che di fatto veniva praticata con estrema dedizione e con profonda ragione di vita da musicisti, compositori, esecutori, suonatori, e che, benché fuori dal grosso giro mediatico – o forse proprio per questo – possedeva in sé quella profondità dell’Essere che continuava a resistere, nonostante i pochi mezzi a disposizione, alle leggi del Super-Mercato dilagante. Ci accorgemmo che questi fenomeni non erano legati o relegati solo ed esclusivamente alla cosiddetta musica contemporanea comunemente intesa come colta, accademica o, più restrittivamente alla Nuova Musica (Neue Musik), ma si estendevano ad altre fenomeni apparentemente lontani tra essi, ma in realtà molto più vicini di quanto non potesse sembrare. Ci riferiamo ai percorsi legati alla cosiddetta libera improvvisazione nelle diverse sue sfaccettature e linguaggi (Freie Musik, Free Jazz, improvvisazione radicale, soundscape, etc.), alla musica elettronica, ma anche alle musiche di tradizione orale scoprendo che proprio da queste si

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potesse da un lato procedere a percorsi di ricerca che avrebbero potuto dare un grande contributo alla costituzione di nuovi linguaggi di senso attuale, ove si considerasse l’elemento etno-antropologico alla base non soltanto della ricerca della storia, ma anche nella storia, cioè dei percorsi attuali e di come poter incrociare e relazionare la storia dell’antropologia del suono con quella che potremmo definire neo-antropologia del pensiero musicale e dei fenomeni attuali. Una risultante comune, in questo ‘gioco’ sulla ricerca all’interno dei percorsi sopra indicati, ci porta a considerare la pratica della costituzione istantanea della musica, che potremmo identificare non riduttivamente come improvvisazione,come un’esperienza fondamentale che incrocia diversi, se non tutti, ambiti musicali della storia passata, presente e, abbiamo modo di ritenere, anche del futuro. Da questo elemento basilare, una sorta di comun denominatore delle musiche, provammo così a cucire rapporti con i percorsi di derivazione accademica, con quelli dichiaratamente improvvisativi e anche, quasi per opposti, alle musiche di tradizione orale. È chiaro che ognuno di questi tracciati possiede in sé un’infinità di problematiche che da sole basterebbero ad riempire universi interi di pensiero e sentire musicale ed esperienze sonore applicate, ma noi abbiamo provato in questi anni a creare dei collegamenti: non contaminazioni, dicevamo, ma incontri tra esperienze differenti del fare e del pensare la/e musica/e»57.

Per quanto mi riguarda Curva minore ha rappresentato un salvagente culturale, giunto proprio in un periodo in cui, credevo non ci fosse più alcuna possibilità di ricevere stimoli concreti; un ponte con l’Europa, con la cultura contemporanea ed i suoi protagonisti.

6.2 Progetti passati

«Si cominciò a operare il 17 e il 18 agosto del 1997, nell’ex Convento S. Maria dello Spasimo, a Palermo» [Pennino 2009, pag. 52] con Praticheinusualidelfaremusicache andò avanti fino al 2000, con i risultati così descritti da Razete:

«È il tentativo di cambiare, di poco o di molto che sia, i consueti riferimenti orientativi delle mappe sonore, osservando e riconsiderando le differenti prospettive che tali variazioni comportano in relazione agli elementi costitutivi dell’arte del fare musica: il musicista, lo strumento, la composizione, l’esecuzione, l’ascoltatore. Mi affascina l’atteggiamento scientifico e speculativo del suo progetto e lo stupore genuino ed empirico con cui vi si abbandona; lo spirito carico di curiosità, rispetto e ironia che pervade l’approccio parimenti al vecchio e al nuovo; il suo porsi di fronte alla musica con trasparente incertezza e perfino con imbarazzo e la salda consapevolezza di voler percorrere sentieri poco battuti ed offrire all’ascolto panorami inusuali; il rigore con cui utilizza strutture e materiali canonici e la disinvoltura con cui ne assembra di nuovi, eterodossi e, spesso, anche improbabili; la sua capacità di esprimere sentimenti di impegno, travaglio e ricerca appassionata e, di contro, la levità, il senso ludico e il passo sghembo del suo procedere […]. Mi avvince, soprattutto, che le geometrie sottese da Curva minore, certamente non euclidee, concedano a musicisti ed ascoltatori uguali gradi di libertà nell’interpretare, dalle più diverse angolature, un medesimo tragitto sonoro» [Pennino 2009, pag. 53/54].

Dopo l’esperienza singola di Dreamin’California nel 1998 con la massiccia partecipazione di artisti d’oltreoceano, prese il via la fortunata (nel 2008 segna la 10° edizione) rassegna IlsuonodeiSoli (1999) dove si tratta ‘musica contemporanea di scrittura’, un’esperienza necessaria anche per «non cristallizzare né la proposta musicale né il pubblico cui essa veniva offerta, pena la negazione del teorema stesso su cui si fondava Curva minore, cioè la continua riforma dell’accostamento alla musica, la sfida progressiva del suo ascolto» [Ibidem]. La rassegna fu sostenuta da Federico Incardona, il quale ‘compose’ le note di sala della prima edizione individuandone una logica continuazione delle SettimaneInternazionaliNuovaMusica. Nel 2000 si assiste alla fuoriuscita di Gianni Gebbia dall’organizzazione e l’ingresso di Paolo di Vita come curatore delle vesti grafiche ed estetiche di Curva minore; nel 2001 ha inizio un’altra rassegna, Lamusicaattraversa/oisuonicome evoluzione delle praticheinusuali interrotte l’anno precedente; con queste due rassegne e l’esecuzione di Treatise di Cornelius Cardew presso il Teatro Massimo di Palermo nel 2002 l’associazione trova una definitiva affermazione; cosa che non frena affatto, anzi lancia, l’attività che si consoliderà negli anni a venire, fino ai giorni nostri. Oltre le rassegne succitate, figurano manifestazioni ‘fuori programma’: il progetto ed il tour di OndaMediterranea nel 2007; AscoltaPalermo/PalermoAscolta, ilciclo di seminari 57 Materiale inedito, gentilmente fornitomi da Lelio Giannetto.

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PensieroElettronico, l’OmaggioaJohnCage, i concerti per contrabbasso solista IlContrabbassoparlante e molti altri.

6.3 Il presente

Marcello Faletra: «Vi sono anche suoni che sono atopici (e atipici), che non provengono da nessun luogo, che non rinviano a nessun popolo, ma sono deliberatamente emessi da individui che tentano di instaurare un presente» [Pennino 2009, pag. 112]; questo è ciò di cui maggiormente si occupa Curva minore, creare e diffondere i suoni del presente e rendere presenti quelli del passato. Ciò avviene attraverso la capacità di intrecciare realtà diverse, senza limiti dettati da pregiudizio, in una continua ricerca e proposta che si sforza di instaurare ponti, connessioni fra le diverse scene (Olanda, Germania, Francia, USA, ma anche in Italia con Roma, Bologna...) e forme. Nel programma di quest’anno (2010) sono presenti: la musica classica con Beethoven forevernell’interpretazione di quattro sonate eseguite da Fabio Romano, la musica popolare con la performance (anche se con musiche originali) di Matilde Politi al Festival diMorgana, gli happening con le tre diverse interpretazioni di Macchinadisorganizzata, il jazz con i Potsa Lotsa in OmaggioaEricDolphy, l’improvvisazione radicale con Frank Gratkowski nell’EUconnection di altissimo livello nel duetto con Sebi Tramontana e nel quartetto con l’aggiunta di Davide Barbarino e Fabrizio Spera. Tutto ciò mostra come nella programmazione, continui a persistere la voglia di dare dignità e spazio a tutti i linguaggi musicali, trattandoli alla pari.

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7 Lelio Giannetto

L’idea, quando è causa di necessità esistenziale, esponenzializza la possibilità di resistenza.

Rischia di mantenersi nel tempo… e di essere, quindi, riconosciuta.

Lelio Giannetto, ContrabbassoparlanteXXIIpuntata – 2008

7.1 L’uomo

Lelio Giannetto è «Nocchiero di Curva minore e maître à penser della più vivace scena musicale contemporanea siciliana»58, come felicemente, definito da Gigi Razete in una Repubblica di qualche anno fa; ho ritenuto opportuno approfittare di questo spazio per esporre i suoi Pensierisparsisuunapoieticadell’Improvvisazioneallo scopo di avvalorare la mia tesi:

«L’improvvisazionenonèunostilemusicale; potrebbe essere uno stile di vita, un metodo, o meglio, un processo di costruzione. Non un linguaggio, forse un linguaggio di linguaggi, o anche un meta-linguaggio o una langue. Non ha regole grammaticali o sintattiche uguali per tutti, ma esige, attraverso una severa, impegnativa, pressante disciplina interiore e pratica, un controllo soggettivo, delle auto-regole, una sorta di autoregolamentazione continua affidata e inerente al singolo soggetto. Queste auto-regole, ovviamente, sono diverse da individuo a individuo, da persona a persona, possono dipendere da infiniti parametri, o condizioni dell’essere e dell’avere: essere come entità, unità di essenza; avere come conoscenza intellettiva/uale, ma anche pratico-esperienziale. Essenzibilità come congiunzione spirituale e materica, ideale e concreta: anima e corpo, mente e cuore, erosethanatos, legati insieme dal processo creativo dell’improvvisazione. La costituzione dell’Essere.

Processo di conoscenza attiva: discute e ridiscute continuamente in un inarrestabile moto continuo dove essere è non essere, dove nessuna possibilità dell’Essere rimane esclusa, dove tutto è possibile, l’ossimoro per antonomasia, la congiunzione degli opposti, la certezza del dubbio e/o il dubbio della certezza.

Continuum. Flusso continuo di coscienza (d’in-conoscenza?), consapevole o indotta sensibilmente da un sentire/sapere interiore, profondo, che lascia il dubbio al dubbio, assumendone quindi una certezza e un riferimento in relazione alla propria consistenza cognitiva e sensibile. Esperienza del Sé, quindi, non acquisizione oggettivata resa limite dalla forma definita, ma continuo e dinamico ricercare: senza il punto fermo, l’immutabile divinità, il dato certo, ma continua inarrestabile proiezione dinamica. Punto di fuga, piuttosto che punto fermo e immutabile. Si avverte un continuum in divenire. Tutto scorre: il processo è naturale, nella Natura delle cose. L’acqua del fiume scorre, ma il fiume è sempre lo stesso. È sempre lo stesso? Sin da piccolo il bimbo improvvisa ad esprimersi. Poi cresce e, indotto dall’ambiente/contesto in cui è immerso, si forma. La mamma, la famiglia, l’alfabeto, la lingua madre, la cultura socio-antropologica di riferimento, la cultura occidentale (il benessere?), il consumismo oggi/ieri? Le trasformazioni socio-politiche? L’evoluzione del pensiero e della/e società di nostra appartenenza demo-antropologica? Il mediterraneo padre? L’ellenismo? La società democratica? Il Grande Impero Romano? Il Medio Oriente? Gli Arabi? Gli Spagnoli? I Francesi? I Tedeschi? E oggi... la globalizzazione? L’acuirsi dei contrasti e delle contraddizioni? Le continue guerre? Lo scontro tra culture? Oriente/Occidente? La lotta per il potere? L’accaparramento energetico? Il potere dei numeri? dei muscoli? della cultura, dello sviluppo e della crescita intellettuale? della filosofia? filantropia?...

58 Cit. Gigi Razete, La Repubblica – 15 Novembre 2006.

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Musicaesocietà.Musicaèsocietà.La musica è quindi implicata nel processo di sviluppo sociale, culturale, filosofico, politico, antropologico, o è disconnessa e segue percorsi di autonomia estetica? È ancora oggi possibile concepire la musica come una divinità trascendente il contesto Naturale in cui essa vive e da cui e dove viene generata? Può la Musica essere immaginata come Una e al contempo essere molteplice? Può essa espandersi in infiniti rivoli, manifestazioni dove ognuna di esse ha una sua propria ragion d’essere, ma anche esprimere un non-essere ontologico a fronte di un plagio di se stessa? Mi riferisco alla differenza tra musica come merce di scambio controllata da un potere economico fine a se stesso e musica funzione di evoluzione del pensiero e della società umana e umanistica in senso più elevato e profondo, rivolta cioè a scandagliare contesti e problematiche ben diverse dal ‘va tutto bene’, ‘è tutto ok’, ‘pensiamo a divertirci’, ‘del resto che ce frega’, ‘si vive una sola volta’, ‘guarda come sono bravi’, eccetera eccetera.

Siviveunavoltasoltanto.Appunto! E varrebbe la pena di non sprecare questa importante opportunità. Occorre opporre resistenza per non perdere la propria esistenza, la propria identità pensante, la propria sensibilità capace d’intercettare vari gradi e diverse qualità.

Identificazionedellequalità.Le qualità si sviluppano evolvendosi secondo percorsi di crescita interiore, graduale e tuttavia continua e costante; ciò attraverso scelte di base e grande impegno nel voler perseguire obiettivi minimi, ma importanti strumenti nella costruzione del proprio Sé, della propria identità – pensante, critica, sensibile alla diversità come principio di non omologazione riduttiva – piuttosto rivolta ad una reattività, creatività, attivaattività vitale e vitalizzante. Le qualità sono dentro di noi, ognuno ne possiede in quanto appartenente alla specie umana, fanno parte della nostra Natura di uomini. Nella nostra iper-complessità di relazioni strutturali, ogni singolo individuo, ognuno di noi, possiede qualità che però vanno conosciute, riconosciute, esercitate, poste in essere, fatte diventare attive, vive appunto. Bisogna dar vita alle nostre qualità, bisogna dar vita a noi stessi. Bisogna continuamente rigenerarsi, rinascere, battezzarsi di continuo, di un battesimo laico, culturale, sensibile all’Umano evidenziando il divino ch’è dentro la nostra Specie, piuttosto che annientarci dentro al plagio di culti blasfemi plagiati a loro volta dal commercio. Bisogna circoscrivere ed annientare la morte dello spirito, dell’anima, e tenere sotto controllo le cause di questa morte spirituale ch’è l’unica che ci è concesso di poter arginare.Lamortedelcorpomatericoèecologica,lamortedellospiritoedelleideeèinnaturale:inquina.Vivereèunprocessonaturale.

L’improvvisazione non s’improvvisa. L’improvvisazione, contrariamente a ciò che possa sembrare, non avviene improvvisamente, dal nulla, ex abrupto, ma segue un lento, continuo e costante processo vitale. Essa è il segno costante della nostra vita. In ogni momento noi compiamo delle scelte: dal più semplice movimento al più complicato discorso. Qualcuno tempo addietro disse: «improvvisare è come comporre in piedi» (C. Cardew), in una situazione attiva, senza poter ripensare, ricredersi, cancellare, in quello stesso istante in cui ci poniamo, in cui ci manifestiamo, di ciò che si è appena detto. L’Uomo per sua natura è improvvisatore, per cultura ne perde questa coscienza. Quanti e chi ne hanno consapevolezza?

L’improvvisazione non è riduttiva. Spesso si attribuisce all’improvvisazione una valenza negativa, riduttiva rispetto ai protocolli oggettivi di comportamento (sia esso di natura tecnica, professionale, estetica, di società, istituzionale, ecc). In realtà siamo certi che essa abbia una natura strutturale, una NaturaNaturans, una sorta di movimento-generatore-di-vita (altro che riduzione!), un processo, un metodo, un canale. Abbiamo mai sentito parlare di teoria del Caos? Ma anche: se la teoria di McLuhan è esatta, il canale, il metodo di trasferimento dell’informazione si consustanzia con l’informazione stessa, diventa informazione informante. Non si arriva ad un prodotto dato, ad un oggetto definito, ma si tiene attiva l’informazione come un processo di continua relazione tra informazioni che ‘informano’ il Sè come parte di un tutto.

Processo,fine,mezzo. La certezza del dubbio, della sostenibileesigenzadell’Essere, della relazione di relazioni, del concetto e pratica di iper-testo, ci permettono di percepire le maggiori

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difficoltà di un processo in continuo movimento che non ci consente l’identificazione di un determinato oggetto, bensì soltanto la metodologia strutturale della nostra composizionereale, del nostro testo reale, e, nello specifico sonoro, della nostra musicareale.

Musica reale. Prende corpo dalla realtà, dalla reale esigenza di esprimere delle necessità, necessità interiori dettate dalla essenza più intima, più profonda, più importante della nostra costituzione umana e naturale. Capiamo bene, di conseguenza, che il nostro continuo e costante arricchimento e sviluppo interiore è fondamentale nel processo di dare/avere, in/out, introiezione/estromissione che è appunto mezzo e fine della nostra esistenza ed attività umana vitale. È fondamentale scegliere il nostro giusto orientamento ed effettuare le nostre scelte adeguatamente all’obiettivo ultimo da raggiungere.

EssereSuono. Nel raggiungimento del nostro scopo, nel trasferimento dell’informazione non dimentichiamo che forma e contenuto tendono ad unificarsi. La chiarezza espressiva è fondamentale e permette non solo una inequivocabile relazione – o relazione di relazioni – nella nostra sostanza umana tra profondo e superficie, ma crea, di conseguenza, un allargamento epistemologico della/nella dialettica langue/linguaggio: questo, se da un lato tende a togliere, a sottrarre la retorica della metafora ad un contesto ormai denaturalizzato, disumanizzato, dall’altro riconduce ad un’esperienza originaria, come una sorta di ritornoalfuturodelleorigini, al recupero di un’esperienza di comunicazione con se stessi e con gli altri-da-sé, che rifiuta il banale dell’essere, ma che mira alla semplice e vera essenza naturale dell’uomo: essere suono.

Quelsuonomiascolta. Il suono, langue o linguaggio, costituisce in sé una parte del tutto: l’altra parte è posseduta dal silenzio. Silenzio è Suono, ma anche suono è silenzio. Le capacità sonore del silenzio sono infinite. Ascoltare il silenzio per poter ascoltare il suono, per dar vita al suono, il suono interiore prima di tutto. La musica si ascolta, esiste grazie all’ascolto. L’improvvisazionenonèl’unicaviaoverità,maèunadellepossibili»59.

7.2 Il musicista

Giannetto, «svolge attività concertistica per la divulgazione del repertorio contrabbassistico classico, ma anche rinascimentale/barocco e contemporaneo. Attivo sulla scena jazzistica sin dagli anni ottanta, ha suonato con: Gianni Gebbia, Stefano Maltese, Francesco Branciamore, l’Orchestra Jazz Siciliana, Reinhardt Jazz Orchestra, Lino Patruno, Carlo Actis Dato, Jim Dvorak, Ernst Reijseger, Antonello Salis, Bruno Tommaso, Enrico Rava, Pino Minafra, etc. Si trasferisce a Bologna e costituisce, insieme a più giovani musicisti, il collettivo Basse Sfere per la promozione e la divulgazione delle musiche innovative. In quel periodo partecipa a numerosi festival internazionali collaborando con musicisti del calibro di Fred Frith, Butch Morris, Wolter Wierbos, Eva Kant e Specchio ensemble per la produzione di musiche originali sempre legate a percorsi trasversali di ricerca. Affronta con successo i corsi di specializzazione all’ISMEZ seguendo il ciclo di seminari: “Suono elettrico e suono acustico nel Jazz” nel 1988 e all’ “Arts Academy/Istituzione Sinfonica di Roma” sotto la guida del maestro Muzzi nel 1993. Approfondisce la conoscenza della letteratura e la tecnica classica applicata al suo strumento, studiando presso il Conservatorio Arrigo Boito di Parma e suonando con l’Orchestra Sinfonica di Parma con cui realizza alcune tournèe in Baviera ed in Svizzera. Trasferitosi nel 1994 a Palermo, si diploma in contrabbasso presso il Liceo Musicale di Catania ed inizia ad interessarsi di musica contemporanea eseguendo composizioni di autori quali: Scelsi, Cage, Berio o anche di compositori siciliani: Damiani, Crescimanno, Gagliano, Spagnolo, per citarne alcuni. Collabora con lo Zephyrensemble di Palermo per esecuzioni di opere contemporanee; con L’Orchestra Barocca LesElements; con il Dipartimento di Musica Antica del Conservatorio V.

59 Materiale inedito, gentilmente fornitomi da Lelio Giannetto.

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Bellini di Palermo. Ha realizzato musiche per il teatro lavorando insieme ai registi: Umberto De Paola, Giorgio Barberio Corsetti, Federico Tiezzi, Walter Manfrè, Massimo Verdastro, Beatrice Monroy; e per la danza con Virgilio Sieni. Insieme al regista Salvo Cuccia, ed al compositore e musicista elettronico californiano Bob Ostertag, ha realizzato Hortofonia, una performance multimediale tra suoni acustici, sampling ed immagini sonore virtuali. Collabora con la Fondazione del Teatro Massimo di Palermo per l’organizzazione e la promozione di eventi speciali legati alle musiche attuali e innovative rivolte ai giovani. Nel 2003 è direttore artistico della rassegna NuoveTracce – tra composizione e improvvisazione – realizzata presso la stessa Fondazione. Dal 2004 dà vita alla prima edizione di un’altra manifestazione, AcusticoCaustico – rassegna orientata non solo sulla musica in senso stretto, ma anche sul rapporto che essa può sviluppare insieme ad altre arti»60.

7.3 Il didatta

Allegherò qui l’intervista condotta da Sara Patera, riguardante l’attività di Giannetto, Curva minore, nelle scuole:

«Cercare di far capire la necessità della musica nella vita dell’uomo» [Pennino 2009, pag. 132]. E’ l’idea cardine che induce Lelio Giannetto, direttore artistico di Curva minore, a iniziare un rapporto con le scuole di Palermo. «Rapportochehainiziatoinqualemomento?Nella primavera del 2001. Un progetto – Il Suono dei Soli – cofinanziato dalla Provincia Regionale in collaborazione con alcune scuole.

C’èinizialmenteunafinalitàbenprecisainquestoprogettomusicaleperigiovani?Soprattutto far capire che ci sono tanti universi sommersi che non fanno parte dei percorsi mediatici. Abbiamo promosso un’indagine per sapere chi potesse essere realmente interessato al nostro progetto che aveva come riferimento le musiche contemporanee, sia quelle di natura istituzionale accademica, sia quelle sperimentali.

Sièstabilitounnumeroprecisodipartecipantialprogetto?Sin dall’inizio abbiamo fissato un massimo di trenta adesioni per ogni scuola, ed essendo il nostro un momento di iniziazione verso percorsi piuttosto profondi dell’espressione sonora, evitiamo di coinvolgere un numero troppo ampio di partecipanti che, in questo contesto, sarebbero ingestibili. Lavoriamo inoltre in orario extracurricolare chiedendo agli studenti un serio impegno.

Qualilereazioniimmediate?In una prima fase ero stimolato a seguire un programma di informazione in linea con i percorsi istituzionali della Storia della Musica, proponendo ascolti che partendo dalle musiche elleniche, arrivavano a Schönberg e Cage trattando anche del problema della notazione non convenzionale o di altri sistemi di composizione dei suoni. Ma oltre ai percorsi accademici l’interesse è rivolto anche a rappresentare le musiche altre, quelle che provengono dalla strada, dalla gente, dal cui senso espressivo si percepiscono le necessità sociali, esistenziali, reali o anche antropologiche di differenti contesti umani e culturali. Non era escluso da questo interesse l’imprescindibile esperienza del blues per la sua forte valenza di veicolo di trasmigrazione culturale, generatore tra l’altro del fenomeno jazzistico. Non abbiamo trascurato le dinamiche europee che hanno portato alla nascita e allo sviluppo del movimento dell’improvvisazione radicale sorto proprio agli albori degli anni ’70, né fenomeni come i Beatles nell’ambito della musica leggera ed evidenziando anche confronti fra fenomeni di cultura di massa.

60 Materiale inedito, gentilmente fornitomi da Lelio Giannetto.

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Qualilereazionideglistudenti/ascoltatori?Hanno mostrato curiosità, posto questioni. Il terreno vergine, per quanto riguarda la musica, li mette nelle condizioni di accogliere sia Mozart sia Cage senza alcun pregiudizio. Daquellafaseinizialeilprogettohatuttoraunasuacontinuità?Non ci siamo mai fermati. Ci seguono una trentina di studenti per scuola, ma abbiamo incrementato il nucleo operativo. Inoltre spesso portiamo i musicisti, italiani o esteri, che poi terranno i concerti, a incontrare i nostri studenti direttamente a scuola dando l’occasione ai giovani di intrattenere un rapporto diretto, non solo artistico, con questi musicisti.

Conquantescuolemantenetecostantequestaattività?Attualmente sono sei [nel 2007, n.d.c.]: tre a Palermo e tre ad Enna.

Aqualicompositorifateprevalentementeriferimento?Molto dipende dai programmi concertistici della nostra stagione anche se ‘classici’ come Schönberg e Cage sono imprescindibili. Teniamo a proporre le differenti espressioni della musica siciliana, Pennisi, Clementi, Sciarrino, Incardona, La Licata, Damiani, Sollima, Betta, Gagliano, Crescimanno, per far conoscere ai giovani cosa vive attorno a loro. Ci riferiamo e cerchiamo di evidenziare figure emblematiche, discusse e radicali fortemente innovative, o critiche, come il compositore inglese prematuramente scomparso, Cornelius Cardew, la cui opera per larghi tratti è stata intrisa da una profonda sollecitazione alla relazione compositore/esecutore, musica/pubblico/politica/società.

Comesièconfiguratoneltempoilprogrammainiziale?Hasubitomutamenti,ritocchi,adattamenti?Diciamo che nel tempo ho avuto la possibilità di acquisire una sempre maggiore esperienza nel riuscire a trasmettere ai ragazzi una miglior consapevolezza di ciò che c’è ma non si vede, o meglio non si ascolta. Grazie a una certa continuità di lavoro presso le medesime istituzioni scolastiche oggi formiamo due livelli di corsi: per i neofiti e per gli iniziati, avendo la possibilità quindi di svolgere alcuni approfondimenti.

L’itinerarioèsempreesclusivamentemusicale?Si tende piuttosto a una certa interdisciplinarietà che fa parte, oggi più che mai, di una dimensione, ipertestuale, globale.

Conqualecadenza,mensile?In realtà realizziamo dal mese di ottobre al mese di maggio un incontro pomeridiano in classe di due ore a settimana per ogni scuola, cui si aggiungono i laboratori per la preparazione di performance sperimentali realizzate dagli stessi studenti. Inoltre facciamo loro seguire gratuitamente, come premio del loro impegno, i concerti previsti dalle nostre programmazioni, incluse le conferenze introduttive, guidandoli alla fruizione dell’attività artistica.

Igiovaniseguonoconinteresseancheiconcerti?Almeno la metà del nostro pubblico è costituito dai nostri giovani studenti, motivati intellettivamente e stimolati a conoscere e seguire questi percorsi sonori piuttosto impegnativi. La prima edizione de Il Suono dei Soli vedeva l’afflusso di appena trenta presenze circa a ogni concerto. Oggi possiamo contare su una presenza media di circa centocinquanta persone a concerto, tra abbonati, pubblico pagante e gli studenti, alcuni dei quali, man mano che crescono, partecipano direttamente alle attività della nostra associazione.

QuandosiècostituitaCurvaminore?Esiste dal 1997, ma siamo contenti che, a distanza di qualche anno alcuni studenti universitari abbiano perfino chiesto le dissertazioni di laurea su questo fenomeno nuovo sorto a Palermo negli ultimi anni.

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Lamusicasiintrecciapoianchealcinema...Palermo è stata scelta come una delle basi per le selezioni del concorso internazionale per giovani musicisti europei “Strade del Cinema” che avrà poi sede ad Aosta. Il rapporto col cinema rientra nel rapporto tra la musica e le altre arti. Già nel 1998, per la seconda edizione del nostro festival Pratiche inusuali del fare musica, avevamo inserito alcune proiezioni di film incentrati su figure di musicisti non convenzionali. Nel 2000 si è realizzata la sonorizzazione dal vivo del film muto Faust di Murnau, in collaborazione con il Goethe-Institut Palermo. Poi, con il ciclo Il suono e/o l’immagine, abbiamo dedicato tre giorni al rapporto tra musiche sperimentali e tre differenti approcci alla comunicazione per immagini: il cinema muto (lo splendido Tabù sempre di Murnau), i corti di animazione, la video arte del situazionista catanese Alessandro Aiello. Abbiamo effettuato le sonorizzazioni, o musicazioni, dal vivo con il gruppo Sicilian Music Crew che riunisce musicisti provenienti da differenti zone della Sicilia. Nel novembre del 2005, in collaborazione con il Museo Interactivo de la Musica de Malaga, abbiamo realizzato Pulso1.0, un esperimento con speciali occhiali e alcuni sensori per la visione percettiva di Ballet Mécanique di Léger e Man Ray con le musiche di Antheuil. Tra le ultime produzioni dedicate al cinema non possiamo dimenticare lo splendido A sea of sounds in cui una serie di film siciliani (Cacciatori Sottomarini e Contadini del Mare rispettivamente di Alliata e De Seta) e olandesi sul tema del mare venivano musicati dal vivo da musicisti siciliani e olandesi. È grazie al nostro amore per il cinema che l’associazione di Aosta ci ha contattato ed è iniziato questo rapporto che ha permesso di portare sul podio dei vincitori il gruppo palermitano Hectormann Music Crew e anche il giovane violinista di Erice Alessandro Librio.

Tante,quindi,leattivitàrivolteaigiovani.Unimpegnodasostenere?È di fondamentale importanza, se si vuol costruire il futuro, rivolgere ai giovani le giuste attenzioni, star loro vicino attraverso corretti e coerenti modi di comunicazione dei contenuti, dato che la velocizzazione impazzita del sistema oggi in atto non permette loro di vedere, sentire, percepire quanto di più profondo ci sia da scoprire. Il contatto con i giovani ci permette di imparare da loro molto dei cambiamenti in atto, ma ritengo sia bene riuscire a comunicare loro anche le nostre ‘nuove vecchie storie’ fatte di altri contenuti, di altri segni»61.

7.4 Discografia

1988 Arabesques – Gianni Gebbia Group – Splasc(H) Records (LP)1989 PinoMinafraet...quellasporca1/2dozzina–Pino Minafra – Splasc(H) Records (LP)1990GianniGebbia,solo,duets,trio–Gianni Gebbia – Il Pontesonoro (CD)MaMaQuartetto–Carlo Actis Dato, Jim Dvorak, Lelio Giannetto, Mercello Magliocchi – Splasc(H) Records (CD)Outland–Gianni Gebbia Trio – Splasc(H) Records (CD)Zeroingeometria–Gianni Gebbia Trio – Soundevent Records (LP)1992Angelica‘92,FestivalInternazionalediMusica–AA.VV. – Caicai (CD)1993Angelica‘93,FestivalInternazionalediMusica–AA.VV. – Caicai (CD)Left–Lavoriincorso – AA. VV. – Stile Libero (CD)1994Suiten.1perdoppioquintetto – Specchio Ensemble – Caicai (CD)

61 L’intera intervista è tratta da G.Pennino, “CURVA MINORE, Contemporary sounds – Musica nuova in Sicilia 1997-2007”.

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1998Diatoms – L.Giannetto, T.Perkis – Curva minore Edizioni (CD)Pacifica – Fred Frith, Eva Kant ensemble – Tzadik (CD)1999Stone,Brick,Glass,Wood,Wire – Fred Frith & the International Occasional Ensemble – GraphicScores (CD)2000BigBandStory – Claudio Lo Cascio and his Sicilia Jazz Big Band – Claudio Lo Cascio 2000 (CD)Hildegard – F.V. Gaiezza, G. Gebbia, L. Giannetto – Curva minore Edizioni (CD)2002AnightinPalermo – Gianni Gebbia – Rastacan Records (CD)2008Sieseguonoriparazionidell’anima – Matilte Politi – Arcimiccica ERA (CD)2009Improtest- AA. VV. – Tallin collection edition (CD)IlsuonodeisoliCD-1 – AA.VV. – CURVA MINORE, Contemporarysounds – Musica nuova in Sicilia 1997-2007. Lamusicaattraversa/oisuoniCD-2 – AA.VV. – CURVA MINORE, Contemporarysounds – Musica nuova in Sicilia 1997-2007. OndamediterraneaCD-3 – AA.VV. – CURVA MINORE, Contemporarysounds – Musica nuova in Sicilia 1997-2007.

Volendo seguire un percorso cronologico ed individuare un primo periodo tra l’88 ed il ’90, spiccano fra tutti le collaborazioni con Gianni Gebbia di stampo jazzistico tradizionale con sentori di free, ma soprattutto l’LP PinoMinafraet…quella sporca½ dozzinadove le collaborazioni di Tommaso, Actis Dato ed Antonello Salis sono il valore aggiunto ad una vera e propria chicca della produzione jazzistica italiana. Nel secondo periodo che va dal ’90 al ’95 abbiamo le collaborazioni con Angelica a Bologna dove appare con qualche brano nelle compilation ultrasperimentali prodotte dal festival, il prezioso quartetto (dichiaratamente free) con Magliocchi alla batteria, Actis Dato e Dvorak ai fiati e l’interessantissimo doppio quintetto di Domenico Caliri per la descrivere il quale citerò una recensione a cura di Mirko Sabatini:

«Il disco in esame ha ormai qualche annetto, essendo uscito nel 1995, ma merita ampiamente questa pur ritardata presentazione, dato che si tratta di un lavoro che – per complessità formale e valore degli esecutori – non è frequente incontrare tra le produzioni italiane. Lo Specchio Ensemble è un gruppo di musicisti, in parte provenienti dal ben noto movimento bolognese Basse Sfere, riuniti da Domenico Caliri fin dal 1992 e che, nel 1994, con la Suite no.1 per quintetto doppio, dello stesso Caliri, si aggiudicò il premio ‘Iceberg – Biennale Giovani’, che rese possibile la registrazione di questo CD […]. Lo Specchio Ensemble prevede la disposizione dei musicisti in due gruppi “a specchio”, composti ciascuno da sax, chitarra elettrica, pianoforte, contrabbasso e batteria. La Suite è suddivisa in due parti principali, ed è poi frazionata in molte altre sezioni, spesso assai diverse tra loro e che arrivano ad includere tracce – le due ‘Pellicola’ – costruite ‘a posteriori’ da Massimo Simonini e Roberto Monari, rielaborando in studio materiale precedentemente registrato. Il clima è quello dell’avanguardia classica, con momenti di dodecafonia, di contrappunto, di pura improvvisazione – le ‘Transizioni’ – e molte parti scritte per l’intero ensemble. Per la complessità strutturale, il lavoro ricorda certe opere di area Rova (The Secret Magritte), ma per alcune sonorità ci riporta all’avanguardia chicagoana. Il jazz, inteso nella sua versione più tradizionale, non è in verità molto presente, sebbene l’eccellente lavoro dei due pianisti – Fabrizio Puglisi e Stefano De Bonis – e dei due fiati – Guglielmo Pagnozzi e Edoardo Marraffa – ne presenti con frequenza le impronte. L’ascolto del lavoro è impegnativo, ma può essere facilitato seguendo il succedersi delle parti nelle indicazioni del libretto. L’attenzione è comunque tenuta ben desta dai colpi di scena che si succedono: anche nei ‘Collettivi’ e nelle ‘Transizioni’, all’interno del caotico magma sonoro, svettano sempre le singole voci, senza una consequenzialità melodica ma con una propria necessità espressiva. E l’alternarsi di spazi nervosamente dinamici e

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momenti di cameristica delicatezza costituiscono l’aspetto più fruibile fin da un primo ascolto. Che non può rimanere isolato, se si vogliono cogliere, per quanto è possibile, le mille particolarità di questa complessa ed assai apprezzabile opera»62.

Dal ’95 al ’99, dopo un breve periodo di pausa, Giannetto è presente in alcuni incredibili lavori di Fred Frith che apportano non poco valore alle sue collaborazioni63 e la produzione a cura di Curva minore, Diatoms con Tim Perkis «il contrabbassista italiano (anche nel Trio d’Orchi, nello Specchio Ensemble, nell’orchestra Eva Kant e in altre formazioni) e il manipolatore elettronico americano sono più avventurosi ma meno coinvolgenti, perfettamente sintonizzata sui più recenti sviluppi delle pratiche improvvisatorie, la coppia padroneggia un gusto del grottesco e del gioco che a più riprese ricorda il pazzesco duo Edoardo Ricci/Eugenio Sanna»64. Dal ’99 al ’09 abbiamo la dimostrazione della grande varietà musicale nel lavoro di Giannetto: si va dalla musica popolare, nella collaborazione al bellissimo disco di Matilde Politi e l’operato (se pur maggiormente contaminato) di Onda mediterranea, al jazz tradizionale con Claudio lo Cascio e la sua band, passando per ANightinPalermocon: Gianni Gebbia – Alto Saxophone; Lelio Giannetto – Double Bass; Tom Nunn – The Bug; Miriam Palma – Voice; Garth Powell – Percussion, Saw, Waterphone; Gino Robair – Styrofoam, Cymbal, Bike Horn, Toy Reed; Damon Smith – Double Bass, vediamo come lo descrive il sito allaboutjazz.com:

«Il musicista e produttore Gino Robair ha organizzato questa registrazione poco dopo aver partecipato nel 1998 al festival Dreamin’ California a Palermo. I partecipanti, riuniti in diversi duo e trii per registrare brevi brani improvvisati, suonano di tutto, dagli strumenti tradizionali allo styrofoam ed una cosa chiamata ‘the bug’. Il risultato è, come si può facilmente intuire, un modo misto di fare musica qualcosa per tutti,tranne forse i fan di Tony Bennett. Anche se il sassofonista palermitano Gianni Gebbia suona solo in 7 dei 9 brani, la sua presenza assume grandi dimensioni qui. Le sue uscite discografiche, per l’italiana Splasc(h) e Rastascan nella maggior parte dei casi, ne documentano la straordinaria tecnica. Pensate un Eric Dolphy mischiato a Mats Gustafsson. Vale la pena cercare le sue incisioni in sassofono solo, la migliore probabilmente è finora Arcani Maggiori/Sonic Session Tarot (Rastascan2001). Il sax alto di Gebbia provvede a dare una grande prestazione in A night in Palermo. Suona con modalità di jazz classico in duo col bassista Damon Smith, accompagnando la cantante Miriam Palma ed i strani arrangiamenti di Robair che suona dei giocattoli mentre Tom Nunn lavora la sua scultura sonora ‘the bug’. Sicuramente la Shelley Hirsch della Sicilia, Palma unisce prestazioni d’opera con la parola parlata e vocalizzi di improvvisazione. Questa unione fra improvvisatori della West Coast (americana) e italiani apporta un altro strato alla crescente diversità della scena musicale creativa. Le collaborazioni qui ascoltate rappresentano un nuovo approccio all’imprevedibile di tutta la musica65»66.

62 Cfr.http://www.mirkosabatini.it/specchio_ensemble.php63 Cfr.http://it.wikipedia.org/wiki/Fred_Frith64 Cfr.http://www.musicclub.it/musicpedia.php?page=41365 Testo in lingua originale: «Musician and producer Gino Robair organized this recording shortly after the 1998 Dreamin’ California Festival in Palermo. The participants assembled in varying duos and trios to record short improvisational pieces, playing everything from traditional instruments to styrofoam and something called ‘The Bug.’ As you can guess, the results are a mixed bag of music making... something for everyone, except maybe Tony Bennett fans. While the Palermo born saxophonist Gianni Gebbia only plays on seven of the nineteen tracks, his presence looms large here. His recording output, mostly on Rastascan and the Italian label Splasc(h), document his extraordinary technique. Think Eric Dolphy meets Mats Gustafsson. His solo saxophone recordings are worth hunting for; the best so far might be ArcanaMajor/SonicTarotSession (Rastascan 2001). Gebbia’s alto saxophone provide the strongest performances of ANightInPalermo. He plays in straight jazz settings as a duo with bassist Damon Smith, accompanying vocalist Miriam Palma, and with the odd arrangements of Robair playing toys and Tom Nunn working his sound sculpture called The Bug. Definitely the Shelley Hirsch of Sicily, Palma combines operatic performances with spoken word and improvisational vocalizations. This union of West Coast and Italian improvisers adds another layer to the growing diversity of the creative music scene. The collaborations heard here represent a fresh approach to the least predictable of all music».66 Cfr.http://www.allaboutjazz.com/php/article.php?id=11533&recommended=1

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8 L’intervista

Non c’è niente di meglio per rendere evidente l’incertezza della modernità...

Michele Coralli –Altremusiche.it

8.1 Premessa

Sull’ottimo consiglio del professor Massimo Privitera, ho organizzato e condotto quest’intervista per documentare la testimonianza diretta di chi la musica improvvisata la vive in tutti i suoi aspetti, ed è stata una fortuna per me trovare una persona al tempo stesso così disponibile e vicina geograficamente. L’intervista ha avuto luogo Giovedì 4/11/2010 nel pomeriggio, è stata acquisita con un registratore vocale e trascritta in maniera pressoché integrale, alcune minime modifiche sono state apportate per rendere scorrevole la lettura; niente era stato preparato, avevamo deciso soltanto di ‘improvvisare’, vale a dire condurre la conversazione in maniera spontanea.

8.2 L’intervista

Io: Cominciamo parlando di Curva minore?

Lelio: L’esperienza di Curva minore è legata alla problematicità della comunicazione ad ampio spettro, nel senso che di solito un musicista, si ritrova a comunicare all’interno dei canali o ambienti musicali che frequenta. Come nel mio caso, avendo avuto un percorso abbastanza ‘comune’: dalla musica leggera al teatro dell’opera (con cantanti del calibro di Mario Del Monaco o Maria Callas che vidi da piccolo al Teatro Massimo), al rock ascoltato per radio durante i primi anni ’70 fin quando, folgorato dal jazz, scelsi di fare il musicista. Non nasco come musicista colto, ma autodidatta, sviluppando una capacità d’ascolto notevole facendo molto ear training, con una grande esperienza fatta nelle sale da matrimoni, cose inimmaginabili oggi, storie di 35/40 anni fa. Un altro tipo di underground, mentre c’era il punk a Londra qui il vero underground erano i matrimoni e le sale di ‘trattamento’ (come si diceva in slang italianizzato dalla gente di quel contesto da sottoproletariato in cui mi trovavo a suonare: un’esperienza gigante, indimenticabile, la più importante della mia vita!). Pinuzzu u sciancatu rá Guadagna, Pino Marchese, l’underground dei cantanti partenopei con i palchetti napoletani che ancora oggi possono considerarsi parte di una tradizione orale difficile da dimenticare o da raccontare, se non si sono conosciuti in prima persona certi contesti. Molti di quei personaggi, per intenderci, hanno fatto parte del casting di Cinico TV di Ciprì&Maresco? Non so se rendo l’idea! Per approfondimenti rimanderei al loro docufiction (più docu che fiction) Enzo! Domani a Palermo... provare per credere... Poi un’esperienza emblematica. Mi trovavo con i componenti del mio gruppo – col quale facevamo ai tempi cover dei Pooh o dei Genesis, PFM, ELP, Deep Purple suonando ad orecchio andando su un beat facile: già un 5/4 era una cosa insostenibile, per non parlare dei tempi composti più complessi il 7 o il 13... la duina e la terzina si parlava in questi termini allora, suonare senza conoscere i pezzi, impararli mentre suonavi e se sbagliavi il batterista ti lanciava una bacchetta in testa davanti alla sposa che ballava... un’esperienza che non voglio ne dimenticare ne rimuovere che anzi valorizzo tantissimo perché da lì ho imparato a fare musica d’insieme – e, mentre passeggiavamo in corso Vittorio Emanuele, sentii qualcosa che mi evocava musica. C’era un gruppo di musicisti che stava suonando presso la chiesa/auditorium SS. Salvatore: sentendo dei suoni strani, che in un certo qual modo mi colpirono, entrai incuriosito nonostante gli amici del gruppo volessero trattenermi con loro. Entro, salgo le scale e vedo della gente che a mio parere stava “accordando gli strumenti”... tra

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il pubblico venti, trenta persone e otto dieci musicisti, alcuni su una specie di palco (ex altare), altri anche sparsi, disposti nell’ambiente acustico.

Io: In che periodo ci troviamo?

Lelio: Che ti posso dire... tra il ‘78 e l’80 circa. Questi non finivano più di accordare gli strumenti: trascorsi cinque minuti, dopo qualche secondo di silenzio, il pubblico inizia ad applaudire e io pensai stesse finalmente cominciando il concerto. I musicisti, invece, si alzarono in piedi, ringraziarono con l’inchino e si ritirarono: era l’ultimo pezzo del concerto (ride) Questa esperienza fu per me come uno shock: me ne tornai a casa piuttosto in crisi pensando: “che cosa sta succedendo? Cos’è questa cosa?” E allora mi sentii come crollare il mondo: non stavano accordando... e allora, se non stavano accordando, io non riconoscevo quella come musica! Mi si aprì un universo, ma non capì subito questa cosa, continuai a fare la mia vita, i matrimoni, andavo a vedere i concerti dei Pooh, Pino Daniele allo stadio, fin quando cominciai a frequentare il Brass dei primi anni, e pian piano si schiusero tutta una serie di altre realtà. Velocemente, nell’arco di due o tre anni, entrai in un contesto, in un mondo che prima non riuscivo a vedere perché per me non esisteva, non lo riconoscevo, era come se il mio mondo fosse piccolo piccolo (come Ilborghesepiccolopiccolo di Cerami/Monicelli) e non solo dal punto di vista musicale... Provai a leggere la musica. Iscriversi al Conservatorio a 21 anni non è stata una cosa semplice con il Maestro di contrabbasso che ti guarda la mano e ti dice: “No, questa non è mano da contrabbassista, ma io farò di te...” personaggi un po’ strani, di quelli che ti devono vendere il contrabbasso, l’archetto... tutta una serie di meccanismi veramente allucinanti... vecchia scuola ma ancora purtroppo presente. Ebbe, quindi, inizio il mio percorso di crescita anche culturale, benché a scuola avessi tutti sette e otto non avevo una propensione da intellettuale, o di ricerca, c’erano delle cose in cui ero più propenso altre meno, ma dal punto di vista di cultura generale quando i miei coetanei parlavano tra loro sull’arte, sulla cultura, sulla società, mi sembrava quasi che scherzassero, facendo la finta, teatro, invece no: loro stavano seguendo i loro percorsi mentre il mio livello, i miei riferimenti erano altri: ero realmente... fuori. Sono comunque riuscito a vivere di musica, non ho mai fatto l’impiegato, mai avuto stipendi, in un modo o in un altro ho cominciato un percorso da autodidatta, un recupero culturale in tutti i sensi che ho portato avanti grazie ad una grande sensibilità, volontà, determinazione, passione amorosa per la musica come una necessità esistenziale senza cui non avrei mai potuto vivere. In questo percorso di crescita culturale ho voluto approfondire anche il livello pratico, della prassi, studiavo e con buon risultati Giurisprudenza, ma avevo determinate intuizioni che volevo sviluppare e conoscere: cercavo determinate direzioni che né i docenti di conservatorio né i miei compagni e colleghi di allora potevano darmi e allora non mi restava che andare via, cercare, a Catania, Trapani, Parma, Bologna, tornare, ripartire, trasferirsi fuori... un vero disastro, una specie di nomadismo di ricerca per la costruzione di te stesso... Poi l’attitudine musicale mi portò a sviluppare anche un percorso di autodidattica, autoformazione: ad esempio lavorai sul primo volume degli Aebersold per capire come funzionava il rapporto scala-accordi, l’accordo di settima, il blues, le 12 battute, il linguaggio jazzistico, l’improvvisazione… allora ritenevo ancora che il jazz fosse una pratica totalmente basata sull’improvvisazione… poi, crescendo capisci tante cose, le approfondisci e ti rendi conto invece di come funziona: mondi e universi che ancora oggi non vengono diffusi, non vengono divulgati. I programmi ministeriali, didattici, le scuole pubbliche e private, anche gli stessi corsi universitari sono spesso lontani mille miglia dia un percorso di avanzamento di conoscenza reale di ciò che l’uomo, l’arte, la musica hanno espresso e continuano ad esprimere.

Io: E possono esprimere.

Lelio: Sì! Sono troppo distanti, immaginiamoci l’utenza, il fruitore, il pubblico... tu sai che puoi costruire il bello, il bene, il giusto, delle cose importanti, e invece ti accorgi che attorno tutti vanno nella direzione opposta perché, un po’ arrogandosi il diritto di conoscenza (quello che so io

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è vero, la verità è quella che io posseggo), o per non avere la capacità di ascoltare, ci si ritrova nell’impossibilità di comunicare. Ho percepito intuitivamente che la cosa giusta da fare era conoscere i linguaggi, le lingue, le singole culture, o anche i singoli ambienti, chiusi ciascuno nel loro mondo e da solo riuscire a mettermi in relazione con tutti questi singoli mondi. Questo per me ha significato imparare la cultura, il linguaggio della cultura antica/medievale/rinascimentale, così come il linguaggio jazzistico o quello classico, quello contemporaneo... se io parlo di contemporaneo mi riferisco a tutta una serie di forme espressive mentre se di musica contemporanea ti parla un compositore di Neue-Musik la musica contemporanea probabilmente è solo quella, quella che va da Schönberg a Boulez o Stockhausen o addirittura, in molti casi, che non concepisce, che non comprende Cage o Cardew, il discorso ovviamente si complica...

Io: Siamo un po’ fermi a quella idea di musica contemporanea...

Lelio: Un discorso analogo avviene all’interno dell’improvvisazione dove spesso si ha la sensazione che esista musica di primo piano e di secondo piano, una più importante dell’altra… formule davvero deleterie, un settarismo incredibile in barba ai processi antropologici da cui tutti noi, uomini, bestie e non-uomini, dipendiamo. Non dobbiamo dimenticare che la musica che noi oggi definiamo colta viene dalla Musica, da quello che è l’espressione di un suono della natura, di un rito magico, sacrificale o anche dal lavoro, da un canto naturale, dalla divinità che l’uomo è in sé come Logos, come Verbo... queste cose le abbiamo dimenticate. Perché da un lato c’è un processo di evoluzione, si sviluppa un processo quasi ascetico, verticistico, piramidale; dall’altro si sviluppa una forma di deterioramento nel contesto sociale in funzione di un rapporto quali-quantitativo di quello che poi oggi, negli ultimi ottant’anni o forse anche da prima, rientra in ciò che possiamo definire, in senso stretto o lato, mercato... se parliamo di mercato dobbiamo allora tenere in considerazione anche l’avvento dello sbigliettamento col primo teatro a Venezia, con tutta una serie di problematiche veramente iper-complesse che non vengono quasi mai considerate. Per cui oggi quando ascoltiamo la musica... mi piace se mi fa ‘ballare’, ‘sballare’, ‘intrattenere con la pupa’... dimentichiamo che musica intanto è suono, la musica è una costruzione, molto spesso retorica – ove non funzionale per secondi scopi: se la musica è un linguaggio, il linguaggio fa uso della retorica, può essere positivo può essere una costruzione sociale. Utilizzando un linguaggio non verbale la musica e partendo da questo concetto, differenziandolo dal linguaggio verbale che invece dipende dalla lingua, è la lingua che ci permette una comunicazione su altri piani, allora lo stesso rapporto forse si può creare tra il suono e la musica. Il suono come elemento primordiale: se facciamo un’operazione di decostruzione e andiamo a riflettere sul suono, possiamo scoprire dei linguaggi naturali (che non sono solo il linguaggio degli armonici naturali... stiamo attenti, per cui poi si costruisce il sistema tonale che è una falsa rappresentazione del sistema naturale essendo legato al sistema temperato che, come sappiamo, è un sistema convenzionale...). Il discorso ridotto ai minimi termini è che per capire determinate problematiche, capirle dentro certe forme contestuali di... chiamiamole... verità o di sincere riflessioni sulla realtà del pensiero (o forse sarebbe più opportuno parlare di proiezioni della realtà pura?) svincolate dai processi accademico-istituzionali, dai processi lavorativi, che guardano all’impiego di questo tuo sapere per fare danaro o altro, se ci guardiamo svincolati da tutte queste condizioni, se sviluppiamo in noi una qualità di ascolto innanzitutto di noi stessi, con la consapevolezza che noi siamo niente rispetto a quello che noi non conosciamo, potremmo forse avere una visione interiore in direzione opposta, o di certo differente, rispetto alla mera realtà condizionata dall’iper-sistema sociale il cui consumo – e di conseguenza profitto economico – è il riflesso quasi unico di soluzione! perché quello che noi non conosciamo, specie in funzione della dialettica di solito inversamente proporzionale nel rapporto qualità/quantità, è un universo enorme rispetto a quello che noi abbiamo già acquisito e questo ce lo raccontano anche i filosofi dell’antica Grecia...

Io: L’importanza dunque di non chiudersi in compartimenti stagni, di non fare della musica una guerra concettuale.

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Lelio: Io ho difficoltà tuttora, benché poi mi sia diplomato, ho fatto delle scelte realmente importanti, ero il più avanti del mio corso di teoria musicale e solfeggio mi sono rifiutato di fare l’esame perché non sapevo fare le terzine col punto, mi dicevano “Si fa così ‘tàttata’ ”, ho rifatto il corso a Parma in un anno ho imparato quello che a Palermo in tre anni non ero riuscito a fare... veramente triste. Si! Ci sono troppe condizioni formalistiche, legate a una specie di benpensantismo, la gente, la società è debole dal punto di vista dell’analisi dei fatti e si rifugia nei formalismi... unborghesepiccolopiccolo o cose del genere... una società piccola piccola

Io: L’arretratezza che spesso ci condiziona...

Lelio: Oggi è un po’ diverso: nella mia sfera, e spero anche nelle altre, sembra ci sia un minimo di collegamento in più rispetto a prima; del resto se andiamo a guardare la storia e le cronache del tempo ci si rappresenta una Sicilia piena di grandi compositori, personalità, nella musica, nella cultura, nella scienza...

Io: Perché chi vuole, magari, deve impegnarsi di più...

Lelio: Però dipendono da forme d’individualità in cui tu da solo hai avuto l’istinto o il codice genetico o non so cosa che ti ha prodotto questo, perché poi obiettivamente la Sicilia è stata una terra ricca di cultura... e sono convinto che lo sia tuttora.

Io: Spesso però anche gli stimoli, questa terra con questa chiusura tende a darti pochi stimoli, invece una persona che sente il bisogno di andare avanti cerca continuamente stimoli, per cui se non hai una grande forza o la capacità di sfruttare quei pochi che ti arrivano non ti evolvi e resti fermo amalgamandoti alla società che ti circonda...

Lelio: Mi viene in mente un’immagine, la prima volta che ho visto un contrabbasso da vicino, e da li poi mi è entrato nell’anima, fu il contrabbasso di Giuseppe Costa a Villa Giulia saranno stati gli anni 82/83 e mi piacque tantissimo, già perché era bello, uno strumento così grande, che suonava e che dava questo suono così profondo, magico... io suonavo il basso elettrico, uno strumento simile per ruolo al contrabbasso, che sta dietro, come dire: la regia occulta che sta dietro tutto e da cui tutti dipendono perché se tu fai una nota piuttosto che un’altra fai sbagliare tutti, oppure se sai che una cantante vuole essere appoggiata in un determinato modo... infatti suonavo il basso proprio per le cantanti... (ride).

Io: Ma anche il vederlo decontestualizzato in quella situazione...

Lelio: Si, io non riuscivo a capire, “adesso facciamo Summertime” sentì annunciare questo pezzo... ecco era Enzo Randisi che suonava con Giuseppe Costa e Pippo Cataldo alla batteria, adesso non ricordo esattamente, si parla di più di trent’anni addietro... qualcosa come la Festa dell’Unità... Percepivo la melodia che magari conoscevo dalla radio ma non conoscevo proprio il linguaggio o la storia del jazz per cui mi ricordo che andai dietro il palco e chiesi a Giuseppe: “ma questo che strumento è?”, e alla sua risposta continuai: “ah... ma tu dai lezioni?”. Ero proprio un ragazzo di periferia. A proposito di quello che dicevi tu: da un lato lo stimolo, ma dall’altra la passione, una necessità, una forma di auto-stimolo. Lo stimolo te lo vai a cercare ovunque, è una cosa che tu hai dentro profondamente, benché fossi ignorante, incolto, (più o meno, in rapporto, come lo sono adesso) però c’era questo senso della profondità, la qualità del profondo, di avere il profondo dentro, consapevolmente o meno. Per cui: passione emotiva come densità umorale che tu senti di getto, questo grande desiderio interiore che si tramuta proprio fisiologicamente in dati umorali, sub-stanzialmente mi viene da dire, sostanzialmente. Come quando si dice “faccio il sangue marcio” (ride) qualcosa del genere, il fatto di sentire moralmente con il concettodelcuore, di Eros, questa forma di patetismo piena, turgida, che mi ha fatto da supporto in tutto il mio percorso fin quando poi

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ho maturato una consapevolezza di dover sviluppare anche un dato intellettivo, imparare a leggere e scrivere in musica... e non solo... sviluppare gli strumenti interiori per poter osservare le altre sensibilità del mondo attorno e dentro di me... In misura anche se appena sufficiente, ma per poter comunicare su più livelli, per potermi evolvere non solo in senso qualitativo ma anche quantitativo, su piani paralleli, o coordinati, o intersecabili, come piani su uno spazio volumetrico, che non va a detrimento della qualità, cioè riuscire a porre ponti di comunicazione con vari linguaggi, vari mondi, vari contesti, giusto per non riferirti sempre e solo alla tua identità come unica vera possibile, l’unica che varrebbe realmente la pena di conoscere, come se tutto il resto invece non fosse importante. Questa intuizione mi ha aiutato moltissimo: così è iniziato il percorso jazzistico; mi ricordo i primi gruppi con Gianni Gebbia. Abbiamo veramente fatto moltissimo insieme, grazie a lui devo dire, lui era molto più avanti. Un giorno mi venne a chiamare. Lui già suonava. Era in questo giro con i Costa, Cataldo, Bonafede, D’Anna, Cafiero... non so come fu, ma me lo vidi spuntare all’uscita di un matrimonio (io stavolta non suonavo), ero testimone di nozze, e mi disse: “dobbiamo fare una tournée in Sicilia per il decentramento del Teatro Massimo”. Alla festa di quel matrimonio mi ubriacai come due scimmie... le magie, come vedi esistono ancora... Per me, quei musicisti, erano delle meteore, inarrivabili, io andavo lì, i primi anni al Brass, in via Duca della Verdura, quando il Brass era il Brass, e mi sforzavo di capire quei linguaggi e non mi entravano, ne sentivo il beat, la pulsazione, qualcosa che poi ho capito essere il blues, quello che Ninni La Mattina, che era il batterista di Mario Renzi (giusto per dire!), nel giro dei palchetti chiamava usuffrimentu (ride) in questo slang schietto, molto sincero che esprimeva bene il concetto di blues, molto più di tante analisi funzionali che fanno veramente cacare (ride)... non che non sia importante l’aspetto musicologico, anzi, ma il più delle volte si fanno esercizi di stile o di compiacimento su una certa pedanteria accademica, quasi come riflesso di un’incapacità artistico-creativa...

Io: Che spesso non portano da nessuna parte...

Lelio: Fanno esercizi di stile sull’analisi musicologica, quando ci può pure stare, ma io mi sento molto più motivato da una ricerca socio-antropologica che non da un’analisi musicologica, per così dire (che poi non si sa se dire etno-musicologica o jazz musicologica...). Ci vogliono queste cose, però il concetto che mi arrivava era più vicino a quest’idea di suffrimentu, quasi come una forma di oralità del linguaggio, per dirla con Caporaletti quando parla del PAT; cioè: non è la terza minore aumentata (canta un esempio). È un SUONO, non è una nota: la bluenote è un suono che è diverso in ognuno di noi, altrimenti perde l’identità, lo spessore, perde necessità d’esistere; quel blues, quella frase o quella determinata espressione che è l’espressione di un’interiorità antropologicamente, psicologicamente, socialmente, culturalmente, intimamente profonda è tua, che ti riporta nei millenni o nei milioni di anni precedenti. È un suono senza età...

Io: L’unicità...

Lelio: ...il tuo anthropos, le tue capacità quasi immateriali, una specie di ponte fra gli inferi e il mondo dei vivi, io lo vedo così. Poi chiaramente nella costruzione del linguaggio della musica ciò si sviluppa, simbolicamente; però la bluenote, o il senso del blues, per me è questo riportarti in un mondo che non c’è più e che invece c’è sempre, una cosa che non è mai esistita o che è sempre esistita e mai esisterà, qualcosa del genere, un’assurdità anarchica, un vero paradosso, una forma ideale di essere suono. Una specie di isolachenonc’èchec’è.

Io: Credi dunque sia possibile risolvere questi meccanismi, queste problematiche di cui stiamo parlando? Se sì, come?

Lelio: Le scuole. Io sono stato fortunato, ho chiesto a mio padre quand’ero ragazzino di fare il conservatorio, mi rispose «No, perché il musicista non ha un avvenire sicuro» il risultato è che io in 50 anni ho sempre vissuto di musica e con la musica, invece mia sorella, «che essendo femminuccia e poi... sposandosi comunque suo marito avrebbe lavorato» (la mentalità piccolo borghese dei miei,

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ma molto diffusa ovunque…) ha fatto il conservatorio, si è diplomata a 17 anni. Ma lei non è una musicista, insegna educazione musicale a scuola ma non suona più... che tipo di educazione può insegnare? E così la maggior parte degli insegnanti: un sistema chiuso che non vive attivamente il contesto storico-sociale attuale cosa può partorire??? Il sistema scuola... che paradosso in negativo. Non entriamo poi nel merito della politica di oggi, la Gelmini e altre... frigidità del genere: ahahah, che disastri umani.

Io: L’aspetto pedagogico è forse quello più disastroso.

Lelio: Deleterio! Sia le strutture pubbliche che private: perché alla fine lo schema viene fuori da protocolli che possono essere alternativi, ma, come ci insegna la storia della filosofia o della sociologia, il concetto di alternativo non è un concetto che va a scavare le profondità della conoscenza, ma va a porsi sullo stesso piano dell’altro da cui ti vuoi distaccare, per rappresentare una figura temporanea che poi partorirà un’altra alternativa e così via. È una catena, una forma di trasformismo, per ridurla al linguaggio politico moderno, che non produce cambiamento, evoluzione, sviluppo, è il cosiddetto “tutto cambi perché nulla cambi” che noi, in terra di gattopardi... conosciamo bene. Più leggevo, più studiavo Rognoni, più mi rendevo conto di quante preclusioni o pregiudiziali... non sto dicendo che questi contesti non abbiano valore, beninteso! Anzi hanno un valore indispensabile e fondamentale nella nostra cultura occidentale. La cosa che mi dispiace, però, è che gli altri contesti musicali o sonori non vengano considerati o, quando va bene, considerati dietro un atteggiamento, come si dice, radicalchic, sopportazione o tolleranza degli altri linguaggi quasi come l’occidentale che nell’Ottocento o nel Novecento viaggiava, andava ad ascoltare le musiche dei popoli africani tribali e diceva che quella non era musica oppure “sì... però qua sono primitivi”, utilizzando come parametro d’analisi la cultura occidentale, valutando quella cultura infima, di secondo piano, di alcun valore rispetto a quella occidentale. La contrapposizione dialettica della verità credo possa considerarsi un’esperienza di circoscrivere ove non evitare... Hanno colonizzato il mondo: loro erano semplicemente i più arroganti, ma non erano i più belli, i più belli erano gli altri, gli autoctoni, tant’è che gli olandesi in Nuova Zelanda, mentre venivano accolti con i fiori, loro sparavano. Questa è l’espressione del potere della cultura occidentale! cosa vuoi che partorisca la cultura occidentale se non un sistema pressoché funzionalmente analogo a queste forme di arroganza? E’ assurdo questo. Chiaramente io parlo così da occidentale, non sono un profondo conoscitore di culture indiane, sud americane o degli indiani di America, ovviamente no, ma critico fortemente determinati atteggiamenti, adesso stiamo parlando di cosa? Di società, di cultura? No, stiamo parlando di musica. La musica non è un concetto di categoria della conoscenza, la conoscenza per categorie... io vedo sento percepisco le cose in un’altra maniera e non credo di essere illuminato, credo di essere una persona normale.

Io: Ma la normalità in mezzo a tanta negatività risulta un qualcosa di innaturale.

Lelio: Perché il sistema è costruito su un plagio dei valori, ed è veramente perverso, forse se non fosse stato così non sarebbe venuta fuori la psicologia, Freud e compagnia bella. Questo è un altro aspetto per il quale molti dei miei amici hanno fatto uso non solo di stupefacenti ma anche di psicologi. Io ho lavorato in autoanalisi, facendomi il famoso ‘esame di coscienza’ quando andavo a dormire la sera, ...“oggi cosa ho fatto, cosa non ho fatto?” come se stessi con un alterego, non alternativo ma complementare alla mia esistenza, alla mia persona, una specie di non-io. Parlavamo pocanzi dell’auto-sostentamento, dell’auto-stimolazione per andare avanti, per seguire un tuo percorso; questo è qualcosa di analogo, hai bisogno degli altri ma se non li trovi in qualche maniera devi auto-stimolarti.

Io: Cambiando argomento, ci tenevo a chiederti quali sono le realtà musicali che senti più vicine alla tua figura.

Lelio: Benché abbia fatto queste riflessioni, che sono espressioni del mondo, della vita e delle cose,

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ciò non significa che io abbia una conoscenza di tutto quello che succede intorno a me, me ne accorgo molto spesso parlando con giovani o meno giovani, generazioni precedenti o successive che mi strabiliano di novità, di cose che io non conosco. Posso forse dire che la mia conoscenza è abbastanza circoscritta, al di là degli interessi e delle ricerche, che ho dovuto compiere in funzione della necessità di relazionarmi con di quanti e quali mondi o ambiti possibili o comunque con quelli con i quali m’interessava poter svolgere delle interazioni per un senso di partecipazione l’uno dell’altro, per un senso di complementarietà della vita delle cose, del pensiero, della vita, della cultura e dell’esistenza.Uno dei punti di riferimento, una pratica che ritengo nasca con l’uomo – o anche prima, se si considera l’esistenza dei suoni in natura come kaos generativo – è quello delle pratiche improvvisative... nel corso dello sviluppo secolare delle culture dell’uomo, soprattutto in quella occidentale, perché nelle altre semplicemente non c’è il concetto d’improvvisazione come non c’è quello di musica come noi lo intendiamo – l’antropologia mi ha insegnato questo – o comunque si sviluppa successivamente, molto più tardi che nella cultura occidentale. Sono fortemente interessato, dicevo, a questi percorsi per una ragione di natura culturale, storica ed esistenziale, perché ritengo sia quasi una funzione umana naturale, in quanto uomo quindi: è come se non vedessi scissa la pratica musicale da quella umana. Posta questa condizione di base, ho compreso che l’andazzo della storia abbia costruito, strutturato, il sentire dei suoni in generi, linguaggi e si siano sviluppate, quindi, tutta una serie di ramificazioni a partire da ciò che il potere nell’occidente stabiliva attraverso i concili, restringendo ciò che poteva essere o meno considerato musica, lasciando pian piano fuori tutte le cose ‘dissonanti’, tutti i sistemi diversi da quello temperato, da quello tonale. Una costrizione quindi: mostruosa! La musica come linguaggio universale, una sorta di globalizzazione antelitteram, al di là di questo, io amo la musica, non amo... l’improvvisazione, per cui se, come ho fatto in passato, vado al teatro dell’opera ne godo, non tanto per una questione di appartenenza alla cultura occidentale, sulla quale avrei molte critiche da sostenere, ma come oggettiva espressione di un percorso di cui riconosco la validità per il dato sistemico che è riuscito a sviluppare, per cui godo di uno spettacolo globale dove c’è danza, coro...

Io: Sotto questo punto di vista dopo tutti gli sforzi che sono stati fatti per creare questa realtà, è assurdo, quasi, che questo meccanismo si sia inceppato, con le tecniche odierne si sarebbe potuto arrivare a concepire veramente qualcosa d’incredibile.

Lelio: Se ci fosse stata un’evoluzione del pensiero contemporaneo, che in parte c’è stata, ma non c’è stata una ‘crescenza’, chiamiamola così, da parte del pubblico, che non è stato incentivato a sentirsi motivare per conoscere, perché magari spesso le intelligenze hanno assunto atteggiamenti del tipo “io scrivo e chi mi ama mi segua” e/o per migliaia di altre ragioni: il teatro dell’opera è una forma di intrattenimento, è quasi come Sanremo, i Genesis, è, voglio dire, i Pooh, su altri piani... ma il linguaggio è lo stesso, il sistema tonale di organizzazione dei suoni è lo stesso: nei Pooh trovi la canzoncina, lì trovi la grande voce di Caruso o di altri grandi tenori, ma resta pur sempre uno spettacolo di intrattenimento della mondanità, della ricchezza, della nobiltà... il palco reale, il loggione, la platea... mia mamma per andare lì metteva la pelliccia, il ‘brillante’ e le calze con la riga dietro! (era comunque bellissima!). Da grande rigettai per le stesse ragioni cose come lo stadio e il teatro dell’opera pur rappresentando ambiti sociali distanti... ma non troppo. Rifiutai il business dello stadio. Adesso ci vado e mi diverto con mio figlio, al quale piace e non glielo voglio vietare: se avrà qualcosa da capire lo capirà da grande. Mi piace il gioco del pallone, il gioco di squadra... per vent’anni ho cancellato questa realtà: così come per il teatro ho recuperato... nonostante il poco tempo a disposizione, anche perché lavoro come un matto e mi manca tantissimo ascoltare musica o partecipare a spettacoli, concerti. Restringendo un attimo, rispondendo in maniera più precisa alla tua domanda, ne ho approfittato perché non sempre capita di sentirmi chiedere “tu che ne pensi”, generalmente è al contrario. L’esperienza dell’improvvisazione radicale di stampo europeo è un punto di riferimento per me. Globe Unity, London Musician Collective, Barre Phillips, Michel Doneda, Jean-Marc Montera... sono tantissimi i musicisti sia nell’ambito della musica contemporanea del pensiero colto o iper-colto, sia nella musica di forme legate a forme di auralità, come le forme del movimento d’improvvisazione radicale, come l’esperienza del post-free americano, in una dimensione europea dove si formava da

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un lato la Neue Musik, quindi non si resta svincolati da questa evoluzione sotto il profilo accademico. D’altra parte c’è un rigetto di determinate pratiche: la possiamo considerare musica da strada, una sorta di arte povera rispetto alla musica colta; parlo dell’improvvisazione radicale. Una specie, perché in realtà, come dicevamo pocanzi, il senso di profondo che trovi in quella radicalità non lo trovi molto spesso in altre espressioni della musica colta che però...

Io: Apparentemente passano per più alte...

Lelio: Esatto... non sono minimamente interessato a parlare delle ‘vicende Allevi’ perché non ritengo siano utili a niente e nessuno; però è anche vero che è così, che è sempre esistito un qualcosa, anche nei percorsi classici della musica come anche all’interno della produzione di uno stesso compositore, che si esprimeva con alcune composizioni estremamente profonde o radicali ed altre più legate ai piccioli, al guadagno. Questo è un altro rapporto importante, noi oggi analizziamo la musica in maniera strettamente musicologica, ma la musica è una funzione vitale e non è disconnessa da tutta una serie di sistemi di relazione, per cui quel compositore scrive quella composizione perché, perché, perché... Ci sono dei musicisti che hanno segnato la mia sensibilità, parlando da quando decisi di fare il musicista dalla fase jazzistica, cioè, in poi: Parker mi piaceva, ma mi colpì subito Monk. Quando cominciai ad ascoltare i primi dischi di jazz, Parker non lo potevo seguire mentre Monk mi piaceva per queste stranezze, questi suoni storti, queste dissonanze, così come mi piacque moltissimo Gesualdo da Vevosa, o Schönberg quando assunsi la consapevolezza di potere finalmente ascoltare anche quella musica di cui prima non avevo conoscenza e quindi facoltà d’accesso, per cui non la riconoscevo. Del resto sono stato molto colpito anche da Stravinskij. Mentre siamo stati abituati al bianco o nero, qual è il più bello? Sempre queste graduatorie, perché noi viviamo dentro queste gabbie, la gara, chi è il più importante? Questa guerra che dobbiamo fare per forza... Ma perché ancora oggi non riusciamo ad andare oltre? Dicevo, non puoi fare a meno di Parker (Charlie, ma anche di Evan o di William) come di Monk, di Stravinskij e di Schönberg, non puoi fare a meno di Evangelisti e di Cage, chissà se di Stockhausen... non lo so se ne puoi fare a meno o no; però ci sono delle cose di Stockhausen che mi piacciono, così come mi piace Cardew, benché fosse nemico giurato dell’opera di Stockhausen, ma che ci posso fare? A me piacciono le cose belle dell’uno e dell’altro; ci sono cose di Cage che proprio non mi piacciono, non m’interessano e ci sono delle cose di Stockhausen che magari non suscitano il mio interesse però sono dei fenomeni per i quali non puoi restare insensibile perché ci sono delle cose veramente pazzesche. E poi tanta, tantissima buona musica in ogni contesto... come fai a sceglierne o citarne solo alcuni? E tantissimi musicisti, compositori, ovunque, e poi... i suoni del nostro meraviglioso (a volte brutale) paesaggio sonoro...

Io: Il tuo rapporto con l’improvvisazione...

Lelio: In riferimento a quello che forse è il mio asse centrale, cioè il rapporto con l’improvvisazione, considero questa come forma espressiva del mio linguaggio, come caos creativo della mia esistenza. Io sono questo perché respiro quest’aria, perché vivo dentro questo contesto, perché lo riconosco come struttura portante; dal punto di vista didattico, però, faccio altro... ma io studio Bach! Amo, studio e suono le suite per violoncello solo o i pezzi che mi ha regalato il mio amico Giovanni Sollima (si alza e prende una partitura e legge) Giuseppe Colombi, 1645-1694, quattro composizioni per il violone, divertentissimo! (torna a sedersi). Stefano Scodanibbio mi ha regalato i suoi Studi per contrabbasso, difficilissimi! Ci sono dei musicisti che hanno particolarmente scolpito dentro di me delle cose incancellabili. Uno di questi è stato Peter Kowald, un contrabbassista che ho conosciuto in un momento in cui studiavo il jazz e l’impostazione d’arco in conservatorio – ero interessato a conoscere l’uno e anche l’altro; ma dopo un’ora di studio delle scale mi perdevo e cominciavo a emettere suoni, andandomene con la testa, cominciavo a sognare, mi fondevo senza bisogno di andare a spendere soldi dal pusher e me ne andavo in un mondo di sogno, onirico, non ti so dire, me ne andavo... Poi, ritornato in me, consideravo di aver perduto tempo: non ricordavo nulla di ciò che avevo fatto... tutto andato via.

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Altra persona che mi ha segnato dal punto di vista culturale ed emotivo è stato Gianni Gebbia con cui abbiamo maturato un rapporto bellissimo dal punto di vista musicale, grazie al suo spirito di iniziativa artistica, creativa, abbiamo organizzato il gruppo. Sostanzialmente erano i suoi pezzi ma li facevamo assieme, lui portava delle idee e li costruivamo insieme come si fa nella tradizione orale, senza partiture, senza parti... “Guarda questa idea melodica, guarda questa frase...”. Ma non posso, per onestà intellettuale, non citare altri amici la cui musica mi ha lasciato il segno: Federico Incardona e Giovanni Damiani. Gebbia, sentendomi una volta così sensibile a questa musica, mi regalò un disco di Kowald, Open secrets, dove, appena ascoltato – si parla di vinili – i primi solchi, per un momento ho pensato in maniera presuntuosa, non voluta ma dettata dalla assonanza estetica oppure come necessità interiore: “ma questo sono io!”, pensai tra me e me d’istinto, poi ho detto “che cazzo dici? Guarda questo come suona, questo è come tu vorresti essere!” (ride).

Io: Questo è proprio il genere di affinità che ti chiedevo.

Lelio: Se mi dici uno solo, io ti dico Peter Kowald, anche se il mio modo di suonare oggi è ovviamente notevolmente ben lontano come mi ha insegnato Joëlle Léandre, un’altra contrabbassista, mi ha detto “Kowald è Kowald, Léandre è Léandre... perché anche lei mi prese, l’ascoltavo tante di quelle volte e quando andavo a suonare in qualche maniera ero portato a suonare come... cioè utilizzando certi riferimenti e ho avuto anche poi la fortuna di fare un quartetto di contrabbassi con Barre Phillips (che molta influenza ha avuto anch’egli nel mio percorso) e Joëlle Léandre, poi i duetti con lei a Palermo... ma TU devi suonare – mi disse – come TU sei!”

Io: E’ un po’ jazzistico come discorso, cioè è spesso associato, diciamo, a quel mondo.

Lelio: Infatti Joëlle Léandre, che viene dal mondo dell’improvvisazione, non è svincolata da quello jazzistico, ma non è vincolata solo a quel tipo di linguaggio!

Io: Come invece erroneamente spesso si è portati a credere nel caso dell’improvvisazione.

Lelio: L’improvvisazione mette insieme tratti estetici, culturali, di sviluppo linguistico, di sensibilità, che provengono... come una specie di punto di confluenza tra diverse esperienze. Specialmente in Europa, il movimento d’improvvisazione radicale si sviluppa soprattutto in Europa, come punto di raccordo dell’identità europea, nel voler sviluppare l’identità europea. Perché allora negli anni 60/70 si sviluppò un atteggiamento anti-americano, ovvero non voler subire una colonizzazione dell’Identità europea da parte del sistema americano, anche dal circuito politicamente critico dall’interno del pianeta USA; ricavando alcuni punti del free jazz messi insieme ad alcune espressioni della musica contemporanea in senso stretto, si svilupparono come sappiamo alcune formule come quelle degli olandesi del “New Dutch Swing” come l’importantissima esperienza della “Istant Composers Pool” di Misha Mengelber, Han Bennink & Co... La versione tedesca invece, quella che può essere assimilata dall’esperienza “Globe Unity”, è abbastanza diversa perché la prima parla di jazz, anche se in salsa europea, con tratti legati al linguaggio contemporaneo, ma fortemente intrisi del linguaggio jazzistico, mentre la “Globe” è in qualche maniera più svincolata dallo schema brano, dallo schema compositivo della ‘forma’ e ti crea dei flussi di improvvisazione, magari partendo da delle idee meno strutturate su carta ma legate invece...

Io: Vissute...

Lelio: Si! A delle forme appunto più ‘vissute’! Dietro la grande, storica guida di Alex von Schlippenbach che, come sai, abbiamo avuto l’onore di avere qui a Novembre l’anno scorso, nel 2009, (per la prima volta! Capisci?! Per la prima volta: assurdo)... in quest’orchestra tra i fondatori c’era Kowald, sicuramente il musicista di riferimento cui mi chiedevi non può non essere che lui. In molti altri vari ambiti, però, sono stato colpito, nella musica antica ad esempio, da Carlo Gesualdo da Venosa per la stessa ragione per cui sono rimasto colpito da Monk in ambito jazzistico.

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Il primo era un principe, non era vincolato ai soldi che doveva ricevere dal signore ed era libero di esprimersi con le asprezze che gli altri non si potevano permettere... quindi la ricerca, le dissonanze... E’ un po’ come quando Stockhausen mi rispose, qui, al Biondo, forse l’ultima o una delle ultime volte che è venuto a Palermo, ponendogli la questione «Maestro: di John Cage?» (si parlava di alcuni compositori), mi rispose: «Di John Cage? Noi stiamo parlando di compositori e non di dilettanti!» a quel punto gli faccio «Ma allora Scelsi?» – «Ma Scelsi chi è?» mi rispose (ride)...

Io: Pensavo proprio a questo, la figura di Scelsi forse più si avvicina a quella di Gesualdo.

Lelio: Sì, e non è un caso. Ecco, per rispondere alla tua domanda, in questo territorio della musica contemporanea dentro cui, comunque, Scelsi vuoi o non vuoi rientra... Scelsi e Cage sono stati per me fondamentali, per l’approccio, per capire, oltre che per ascoltare la musica contemporanea, venendo io da forme radicali di improvvisazione. Capii solo molti anni dopo cosa volesse dire Cage quando affermava: «la mia musica non è improvvisata». L’ho capito dopo, ma all’ascolto io sentivo delle cose che erano in linea con quelle che facevo io, per cui pensavo “ma che dice questo qua? il solito stronzo che vuole fare l’immodesto, perché lui è l’autore”, poi dopo capisci tante cose... però sia Cage che Scelsi sono stati per me estremamente importanti e il legame con Léandre passa anche attraverso Scelsi, alla quale dedicò diversi brani tra cui Maknongan che è uno dei pezzi che mi ha particolarmente preso, insomma... In ambito rock visto che abbiamo parlato di jazz, di musica colta, di improvvisazione...

Io: Stavo per chiedertelo.

Lelio: A parte quei nomi più di mercato che abbiamo citato prima... Genesis, Led Zeppelin... è soprattutto la figura di Fred Frith che ho conosciuto e con cui ho suonato registrando due dischi; è stata un’esperienza molto forte...

Io: Parlavi anche di Henry Cow.

Lelio: Sì, anche questa esperienza degli Henry Cow, di cui Frith è stato uno dei fondatori, è bestiale, perché loro negli anni sessanta/settanta hanno sviluppato dal punto di vista estetico, politico, sociale, ma soprattutto dal punto di vista strettamente musicale, ciò che nessun altro ha mai più fatto... forse, ma con uno stile e dei presupposti e dei risultati abbastanza diversi, Frank Zappa può essere accostato al lavoro di Henry Cow, essendo entrambe comunque esperienze potenti, le più grandi secondo me, più importanti e vicine.

Io: Volevo chiederti, invece: associazioni, realtà organizzative, produttive, discografiche e concertistiche... come vedi la situazione in Italia e all’estero? Sappiamo bene che questi canali per quanto si sforzino di farsi notare, restano sempre un po’ isolati e spesso magari non sappiamo che ci sono altri canali che producono nelle nostre stesse direzioni...

Lelio: Guarda, più che isolati, per questioni di quantità di risorse materiali si è costretti a eliminare le spese legate alla comunicazione. Per esempio come puoi notare (indica i poster appesi) la comunicazione la facciamo e la esprimiamo ai livelli, credo, massimi, sotto il profilo della qualità del progetto grafico, anche perché Curva minore, nel suo procedere, ha coinvolto fisiologicamente, e tu sei diciamo un riflesso di questa cosa... così come ti sei motivato e interessato tu, hai sentito vicino a te qualcosa che ti ha fatto dire “no! voglio fare la mia tesi su Curva minore”, alla stessa maniera sono stati coinvolti altri operatori come Paolo di Vita, che è un designer di altissimo livello, che ha voluto dare il proprio contributo sviluppando un progetto: ha creato l’immagine – a parte i primissimi anni di Curva minore – ha sviluppato un lavoro sull’immagine, una cosa che se avessi dovuto pagare con le tabelle professionali, avrei forse potuto organizzare uno o due concerti l’anno, perché i livelli sono alti, non dico che è come lavorare come Renzo Piano, Kenzo ma sono espressioni altissime e in perfetta simbiosi con i suoni che Curva minore propone... molto meglio di Kenzo o Piano!

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Nel senso di una migliore affinità. Noi abbiamo lavorato sin dall’inizio sulla sfera locale pensando in maniera globale, o forse sarebbe meglio dire totale: ci siamo relazionati sulla base dei contesti più importanti, eravamo al pari delle strutture estere, notoriamente meglio servite da risorse strutturali più grandi, che lavoravano sugli stessi ambiti o in contesti pressoché simili se non addirittura a volte anche identici, parlo di MusiqueAction in Francia o del GRIM di Marsiglia, della Bimhuis di Amsterdam, o dell’allora Podewill di Berlino... strutture mega, da fare paura, cose incredibili, ancora quasi tutte attivissime (il Podewill purtroppo non c’è più) dotate di attrezzatura, risorse umane, finanziarie.

Io: Forse allora la Francia è quella più avanti.

Lelio: Non più avanti, anche in Germania, o in Olanda ci sono stati non pochi investimenti, e nonostante la crisi generale, sia in Germania che in Francia e la stessa Olanda si riesce a tenere: addirittura in Germania hanno incrementato l’investimento sulla cultura, ma anche in Norvegia, finanche in Estonia, mi fermo qua non entro nel discorso sennò... Per cui diciamo che Curva minore ha dovuto fare delle scelte: negli ultimi anni, a parte il 2010, abbiamo addirittura fatto affissione pubblica, per ragioni di scelta, di politica culturale e anche per ragioni di risorse, non abbiamo mai comprato spazi pubblicitari se non che l’affissione comunale. Negli ultimi anni abbiamo fatto abbastanza, sempre nei limiti minimi in cui possiamo muoverci noi: anche l’affissione, perché sono talmente belli questi manifesti che a vederli per la strada... sono delle vere e proprie sculture.

Io: Ne valeva la pena...

Lelio: Perché in mezzo a tanta immondizia vedere un’immagine del genere...

Io: Come una finestra...

Lelio: Sì, però avendo poche risorse devi necessariamente scegliere, io ho preferito fare tre o quattro concerti in più piuttosto che tappezzare la città di manifesti. Il resto della pubblicità lo facevo porta a porta nelle scuole, sviluppando progetti nelle scuole gratuitamente, chiedendo al preside “ho un progetto musicale”; risposta: “non abbiamo soldi!”, prima ancora di poter spiegare la non necessità di soldi.

Io: Quasi che se si propone qualcosa gratis, a costo zero, non viene accolta perché sembra non ne valga la pena...

Lelio: Il rischio c’è, ma devi anche sapere porgere all’attenzione del/la preside, devi lanciare dei segnali in modo tale che lui/lei capisca, e per fare questo ti devi preparare, e per prepararti devi studiare, ed è tutto quello che io e Curva minore – grazie alla partecipazione di giovani come Davide Barbarino, Valeria Fazzi, ma in passato tanti altri e ora forse anche tu – abbiamo fatto e stiamo ancora facendo. Prepararsi a relazionarsi con una pluralità di contesti, così come parlavamo prima delle musiche – barocca, classica, contemporanea, jazz, improvvisazione radicale, rock, la musica di tradizione orale che pocanzi non abbiamo citato, per esempio, a proposito dei linguaggi, dei mondi sonori, con cui ci siamo rapportati e che ci riconduce a Onda mediterranea – dovevi imparare a parlare coi presidi, con i docenti universitari, le istituzioni pubbliche, le amministrazioni e poi capisci “scandagliando il fondale”, e il termine mai potrebbe essere così appropriato (ride, ndr), degli amministratori legati al Comune, poi quelli della Provincia e quelli della Regione, quasi secondo una gerarchia di comunicazione... è una cosa incredibile... quindi mi sono attrezzato, anche perché, devo dire, che ho iniziato tardi questo tipo di attività... nel fare la mia scelta di vita per la musica, ho fatto prima giurisprudenza, poi ho lasciato... l’ultimo anno ho detto “No! Ho capito come si studia: adesso però voglio studiare e imparare di mio, per le mie cose, quello che realmente m’interessa” e quindi, in questo senso, mi sono sviluppato da autodidatta, ma avevo già maturato un meccanismo di acquisizione di livello universitario. Mi mancavano la tesi e sette materie. Ma credo di averne proposte molte di tesi su quello che è stato l’operato di Curva minore!

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Una follia: dove trovavo queste energie? Ti dicevo: ho iniziato tardi. È come se avessi avuto le riserve di circa trent’anni, in cui ho acquisito, ho osservato, guardavo gli altri. Ho imparato a suonare guardando gli altri, ero un campione di slap ma non ero andato a scuola da Mark Egan o Stanley Clark: io vedevo suonare, Mafalda, ai matrimoni, che faceva lo slap, lo chiamavamo Mafalda, un tipo assurdo, Enzo Graziano all’anagrafe, un magnaccione, c’aveva le buttane, una specie di Mingus dei matrimoni! Tirava di coca, arrestato più volte, “cutiddate”... ti dico gli ambienti underground quelli veri! Il fatto che abbia funzionato da collante sociale, attraverso i progetti scuola, con le possibilità di cui noi potevamo disporre, parlavo con i ragazzini di 16 anni e facevamo lezioni sulla musica contemporanea spiegando loro perché non erano capaci di riconoscere quella come musica, perché era stata un’esperienza che avevo vissuto io in prima persona...

Io: I ragazzi sono i più adatti...

Lelio: Non devono camparsi la famiglia, sono in una fase in cui sanno che il loro dovere è quello d’imparare per cui sono disponibili a recepire... hai colto benissimo! Queste sono state le motivazioni. Molti di questi ragazzi, Dario Mandracchia, Flavio Virzì, Alessandro Cartosio, Flora Pitolo, Filippo Cuti ex Meli... molti oggi sono fuori a specializzarsi, Mandracchia e Cartosio venivano dall’“Umberto” e Virzi dal “Cannizzaro”, Alessandra Sciortino, ex “Garibaldi”, oggi Lavora al Teatro Massimo e scrive per LaRepubblica, questi sono la prima generazione di Curva minore, gli allievi chiamiamoli così... le prime cavie di questo sistema di informazione quasi forzata (ride) che facevo loro, tu immagina di portare ai ragazzi un progetto a scuola, “Ciao ragazzi la scuola ha approvato il progetto, non ci sono crediti però vi porto ai Candelai a vedere i concerti gratis”... Candelai per un ragazzino di 14 anni di quel momento era l’emancipazione, un salto di qualità, usare espedienti psicologici per ’fregarli’ e fargli iniezioni di cultura, di musica, di suoni, di stimoli come dicevi tu.

Io: di vita...

Lelio: ...di vita, esatto! Oggi questi signori sono fuori e mi mandano e-mail scrivendomi “tu non hai idea di quanto ti ringrazio per ciò cui mi hai iniziato” e cose del genere... e o vivo anche per questo. «Vissi d’arte, vissi d’amore» diceva Mario Cavaradossi. Ma in alcuni casi sono stato io stesso avvicinato da alcuni giovani fuori sede come nel caso di Davide Barbarino e Valeria Fazzi residenti a Enna, allora studenti di antropologia e del DAMS Arte che mi hanno letteralmente insegnato moltissime cose a partire dalla storia della musica di oggi, quella che in parte trovi nei libri (non in quelli di testo universitari, intendo), in parte la puoi conoscere solo dal vivo o dalle ultimissime pubblicazioni. Grazie a questi ultimi ho potuto conoscere preziosissime fonti d’apprendimento: il loro aiuto, supporto materiale in tutte le attività di Curva minore dal 2000 in poi è stato letteralmente fondamentale. Oggi Davide e Valeria sono parte integrante della nostra associazione così come altri giovani musicisti che si sono avvicinati: tra questi spicca Alessandro Librio, un giovane di Erice, violista con attitudini compositive, ma anche dedito alla video arte, che mi fu presentato da Giovanni Sollima, che non smetterò mai di ringraziare per questo. Molti altri intanto si sono avvicinati: è una bella storia che mi conforta e circoscrive in parte la depressione che mi prende ogni qualvolta mi ritrovo con altri musicisti non tanto capaci di considerare musica ciò che non sia frutto della loro unica o spesso molto circoscritta conoscenza pratica... mi fermo qui, su questo punto.

Io: Un trampolino di lancio.

Lelio: Sì! Perché dicono, trovandosi molti ‘emigrati’ a studiare e formarsi all’estero: “qui mi fanno studiare Fred Frith che ho conosciuto grazie a te quindi sono preparato, già conosco queste cose, in Svizzera corsi di specializzazione, mi parlano di Evangelisti, di Nuova Consonanza, di Cardew di cose che abbiamo conosciuto grazie a te”. Mi riempiono, sono così carico, caro Rosario, […] il riflesso socio-culturale del territorio in cui viviamo, le espressioni minime, dalla munnizza al traffico, sono in qualche modo riflesso di questo decrescendo, di questo lasciarsi andare e di non

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produrre più beltà, funzionalità... questo è un disastro. Che poi: in realtà non siamo soli, perché vai a intercettare... come dicevamo prima, quelli che come te, come Paolo di Vita, il Museo delle Marionette A. Pasqualino, Gaetano Pennino, La Fondazione Buttitta, a tratti anche i Dipartimenti universitari, e tanti altri... paradossalmente anche assessori, gente della mia età, con storie politiche notevolmente distanti, perché i nostri fatti parlano da soli, non devo spiegare, noi non abbiamo un’appartenenza politica legata a quello a quell’altro clan che dir si voglia, ma esprimiamo un profilo culturale, una politica della cultura ben evidente, che è una politica progressista da un lato e conservatrice dall’altro, “riservatrice” più che conservatrice, come riserva naturale di un percorso che è in via d’estinzione. Punto i piedi con tutte le mie forze. Mi trascinano, ma io sto puntellando, facendo un moto contrario. Dicevo: questo tipo di risorse che in qualche maniera fanno da supporto, noi siamo partner europei chiamati dal Comune di Malaga per il Museo Interattivo della Musica di Malaga che vuole che io stili il progetto per il nuovo punto museale di fruizione innovativa che stanno svolgendo in un contesto europeo, dentro a questa rete c’è il Museo di Malaga, il Museo Nazionale di Liverpool, il sistema della rete museale della città di Cremona e la città di Palermo rappresentata soltando da Curva minore: non ci sono istituzioni, enti pubblici della Città, solo Curva minore. Le relazioni che abbiamo sviluppato col GRIM di Marsiglia o con Vandoeuvreles Nancy o con Berlino, con Monaco con l’Estonia, dove ho condotto Masterclass presso l’Università di Tallin […] devo anche dire che ho avuto il grande onore di ricevere considerazioni e supporto anche tra intellettuali della precedente generazione, anche in conflitto ideale tra loro, che hanno apprezzato, condiviso e anche supportato il nostro lavoro: questo per me è davvero un grande riconoscimento e produce alimento a continuare in un’opera, come si potrà immaginare, osteggiata da certi altri... operatori.Vedi quel contrabbasso? Tu fra sei mesi non lo vedrai più, perché lo sto mettendo in vendita...

Io: Non lo fare...

Lelio: E’ un opera d’arte quello strumento, un Oreste Martini del 1924 premiato con medaglia d’oro all’Expo di Parigi dello stesso anno. Lo devo fare perché devo fare uscire questa linea editoriale, non lo vendo per fare i giri alla fiera, lo vendo per fare musica, immagina quanto mi piange il cuore, è uno strumento meraviglioso, vale 50.000 euro, io con 50.000 euro faccio 10 volumi... […]

8.3 Osservazioni

Uno sfogo accorato, su tutte le tematiche che abbiamo avuto modo di vedere nei capitoli precedenti, un linguaggio sincero, quello di Lelio, che ci riporta alla fattività delle cose. È comunque un’intervista che avrebbe potuto trattare i temi in maniera molto più rigorosa e rigida ma che ha preferito lasciare trasparire le verità per come sono, vissute e non solo ragionate.

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9 Epilogo

Stiamo contribuendo a creare la coscienza dell’universo.

Alejandro Jodorowsky, Conversazionisulleviedeitarocchi– 2007

9.1 Considerazioni finali

Cos’è, dunque, l’improvvisazione? In fin dei conti resta ancora difficile definire l’essenza di questa musica. Trarrò spunto da alcune riflessioni che Lelio Giannetto ha condotto, sullo stimolo del mio lavoro universitario: «Facendo alcune riflessioni su come presentare, con parole scritte, ciò che è oggetto della presente, mi viene da porre, innanzi tutto, una semplice domanda: è possibile considerare l’improvvisazione come una sorta di spazio/tempo, di Logos, di conjunctio oppositorum? (scrittura-oralità, forma in continuo divenire, sempre uguale a se stessa e sempre diversa per costituzione, senso e ragione, intelletto ed esperienza emotiva, dinamica strutturale in continua evoluzione/trasformazione, continuum critico, ineffabile-inafferrabile tranne che nella ‘fotografia’ di una registrazione, che appunto costituisce una rappresentazione effimera, un’istantanea, un passato reale mai più realizzabile, un ossimoro tra concreta tangibile esperienza sonora ed impossibilità della propria riproducibilità come se riflettesse la non riproducibilità dello Spazio/Tempo).

Volendo contestualizzare dette riflessioni su ciò che ascoltiamo – essendo chi scrive anche parte in causa del dato sonoro – possiamo di certo asserire che si tratta di una specie di giococreativoedesistenziale.

GIOCO: Sì, si tratta di un giocare, non solo assecondando in senso linguistico i sinonimi di molte delle lingue, per esempio, europee (play, jouer, o anche in tedesco, ecc), ma anche come processo di costruzione nella relazione con se stessi (nel caso della pratica improvvisativa in solo), ma anche nel collettivo, dal duo a gruppi più ampi, dove il giocare assume anche una valenza antropologica, di condivisione del piacere di stare insieme.

CREATIVO: È piuttosto evidente che i processi di costituzione della musica, in questo gioioso condividersi, dipendono da un’infinità di elementi che entrano dinamicamente ‘in gioco’ sviluppando una serie di relazioni presumibili o imprevedibili il cui sistema (o sistema di sistemi) potrebbe portarci a verificare, microscopicamente/macroscopicamente, la presenza dell’idea/concetto di Kaos come catartico, o estatico generatore e contestuale finalizzatore di Sé, per Sé, in Sé.

ESISTENZIALE: Questo/i Sé, sopra ipoteticamente indicato/i come espressione/impressione creativa, non costituiscono la sola ragione o spiegazione del dato di esistenza. Quest’ultima, infatti, non è ‘circoscritta’ alla sola esperienza sonora: nel processo creativo d’immediatezza e irriproducibilità di cui dicevamo, funzione di quella complessa rete di relazioni sopra indicata. Il ‘risultato’ sonoro non si ‘limita’ quindi al solo contesto musicale, ma è il frutto, la risultante reale, della sintesi tra idea e materia, di ogni singolo individuo/persona capace di vivere questa pratica dell’improvvisazione con profondità strutturale e non ‘soltanto’ nella superficie»67.

Possiamo far corrispondere a queste tre caratteristiche accennate da Giannetto: l’aspetto ludico (primordiale paleo e ontologico), l’aspetto artistico e quello filosofico. Andiamo a vedere invece alcuni approfondimenti sugli aspetti artistici/culturali e filosofici.

67 Materiale inedito gentilmente fornitomi da Giannetto.

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«Del rapporto con i canali istituzionali della Cultura

Credo che uno dei doveri istituzionali dello studio e della ricerca in ambito musicologico, – o forse meglio in quello etno-musicologico o/e socio-antropologico – sia capire il perché delle pratiche fenomeniche nel contesto in cui esse ‘naturalmente’ si costituiscono e si manifestano: quelle, per esempio, che la politica globale del consumo e dell’esclusivo profitto economico sta velocemente deteriorando fino all’estinzione. Inoltre queste indispensabili discipline potrebbero forse occuparsi anche di alcuni dati che esprimono elementi di diversità, o, se vogliamo, innovazione rispetto al dettato ‘tradizionale’ della Tradizione: mi riferisco a nuove possibili forme (neo-tradizioni?), legate all’oralità che non sempre sono conosciute, né superficialmente né approfonditamente; ciò, probabilmente, a causa di un’incapacità delle strutture accademiche a cogliere cos’altro possa scaturire dai binari segnati dal sapere categorico e oggettualmente referenziale. Questo potrebbe essere compito dei ricercatori, ma, come sappiamo – sia dalle ultime tristezze di un’Amministrazione non certo qualificata o motivata, sia dalle prerogative accademiche di salvaguardia dal rischio di oltrepassare le, oggi metaforiche, Colonne d’Ercole – gli studi, a riguardo (almeno in Italia), non sono stati particolarmente generosi: di solito si preferisce approfondire, nel metodo come nei contenuti, le certezze acquisite richiudendo e fortificando i muri già costruiti, piuttosto che aprirsi a una continua, nuova o diversa, conoscenza di ciò che ci succede attorno. (Dice Paolo Emilio Carapezza: «conoscere l’Oggi per capire la Storia». Bene, mettiamolo in pratica!).

Nel rapporto con il Pensieroanalitico

Possiamo anche considerare l’esperienza della Musica come una fenomenologia a-scientifica, ma espressiva di Senso dell’Umano: non analisi a priori della costruzione sonora, rimandando eventualmente il processo analitico ad un tempo successivo al prodotto musicale. Prendendo in prestito le parole di Boris Porena – dalle sue Inquisizionimusicali – asseriamo che «le parole che parlano di musica producono analisi, ma si collocano su un livello di comunicazione differente»; aggiungerei che se l’analisi dovesse controllare la fenomenologia della corporeità (il corpo-vivo, il Leib di Scheler insieme alla sua struttura pulsionale intesa come Triebstruktur), si rischierebbe di risolvere la musica in un qualcosa di natura analitico-intellettuale, ove non strettamente ideale-trascendentale, come accade a proposito di certa musica contemporanea legata a processi di iper-complessità, strutturale quanto ideale, o come meglio potrebbero definirsi. Si crea, cioè, tra analisi e suono un rapporto condizionale dell’espressione, evidenziando presupposti quasi agli antipodi rispetto ai ‘processi’, o meglio, alle pratiche della musica d’interesse etno-antropologico. Con questo, non vogliamo disconoscere l’importanza di alcune metodologie di composizione del pensiero musicale colto, ci mancherebbe: vogliamo però focalizzare la nostra attenzione a ciò che riceve e rimanda Senso a partire dalle densità umorali generatrici, attraverso i suoni, di pratiche vitali dell’uomo che è essere sociale ed automaticamente predisposto a funzioni di relazione e scambio, a prescindere dal presupposto analitico di effusione/diffusione dei suoni.A riguardo mi è molto piaciuto l’impegno di Vincenzo Caporaletti nello sviluppare profonde considerazioni dalla veste teorica ben pronunciata e che riguardano la messa in opera del Principio Audio-Tattile (PAT) e della Codifica neo-auratica (CNA) come principi utilissimi alla comprensione e alla successiva analisi del fenomeno sonoro-musicale legato alle pratiche improvvisative: rimando ai suoi scritti per un serio approfondimento italiano sul tema»68.

L’analisi si conclude con un aspetto, da non sottovalutare, che possiamo individuare in quello sociale e nelle sue ripercussioni sulla politica.

68 Ibidem.

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«Dal punto di vista politico

Per esempio si potrebbe far riferimento a una fenomenologia di derivazione africana-americana (per dirla alla Caporaletti) sviluppatasi a partire dai ’60: mi riferisco alla componente rivoluzionaria del Free-Jazz. Questa tendenza concreta del fare musica in Europa ha assunto caratteristiche che potremmo definire di sincretismo fenomenologico e che sembra “costretta a subire” la forse terribile identificazione di Movimento di Improvvisazione Radicale (o Free Music): da circa cinquanta anni si creano così contesti musicali con implicazioni anche di natura politica, sociale, ove non anche epistemologica e, a tratti, anche estetizzante, che vengono però diffusi su scala globale, seppur a macchia di leopardo. Si sviluppa, cioè, una “Tradizione” che però, pur nella sua omogeneità di presupposto, esprime anche delle peculiarità culturali, regionali o localizzate che dir si voglia. Credo anche che, per la qualità delle trasformazioni nelle relazioni politico-sociali, per la densità di queste capacità relazionali associate alla velocizzazione dei processi di produzione e di comunicazione, questo “breve” decorrere temporale che ha partorito una così diffusa esperienza musicale espressiva di Senso dell’Umano, si possa funzionalmente comparare a quelle forme secolari di Cultura dell’Uomo sviluppatesi attraverso pratiche reali (mi piacerebbe scrivere Reali). Improvvisazione radicale quindi, che va alla radice, all’origine del/i sistema/i come a creare il Logos, a creare l’universo volumetrico del linguaggio e non a porsi, ad appoggiarsi, ad una struttura/logos/linguaggio già nota apportando delle varianti/variazioni non strutturali, ma soltanto nella sfera orizzontale di un sistema ipoteticamente bidimensionale. Ovviamente non intendiamo con queste piccole riflessioni arrogarci il merito di aver inventato chissà-che-cosa: sosteniamo, piuttosto, che il frutto di questo lavoro arriva seguendo un tracciato storico ben definito; o, se vogliamo, anche indefinibile sotto il profilo dell’appartenenza fenomenologica. Riteniamo infatti che, tra le tante valenze costitutive dei processi attivi di tale pratica, si possa considerare quella antropologica come una delle più rilevanti e non solo per gli aspetti rituali, ma anche per la valenza sociale che detta pratica può manifestare nel complesso sistema della comunicazione nel mondo degli umani»69.

L’analisi si conclude brillantemente, rilevando nella valenza antropologica il fondamento delle pratiche improvvisative; andando a cogliere un punto cardine, della differenza fra musiche audiotattili e non, Giannetto ci suggerisce di ricercare all’interno dei fondamenti stessi della natura umana l’istintualità musicale. Come respirare, cibarsi, proteggersi, esprimersi improvvisando fa parte della natura umana ed è un aspetto che ci accomuna, detronando il compositore dalla figura romantica di superuomo e riconsegnando l’attività musicale all’uomo, sempre più consapevole della sconfitta che gli ideali superegoici hanno avuto, dalla shoah a venire; sempre più foglia di un albero che lascia risuonare la natura che è dentro e fuori di se l’essere umano sente il bisogno di improvvisare.

9.2 Progetti futuri

Per concludere esporrò i progetti che ho intenzione di intraprendere una volta portato a termine questo corso di studi. Sono felice di avere ricevuto, in seguito al lavoro svolto per l’intervista con Curva minore, una proposta di collaborazione a lungo termine che ho intenzione di intraprendere e portare avanti con il massimo dell’impegno e della determinazione. Al tempo stesso spero di riuscire a proseguire gli studi, nella specialistica in Musicologia. L’interesse per la musica improvvisata è in continua crescita ed il fascino che suscita, in me e nelle persone che ne sono coinvolte, mi regala l’ennesima conferma che il percorso che ho deciso di intraprendere è valido e merita tutto il mio impegno.

69 Ibidem.

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