Date post: | 28-Jan-2016 |
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ALF ROSS – DIRITTO e GIUSTIZIACAP I – I PROBLEMI DELLA JURISPRUDENCE
La jurisprudence è una parte della conoscenza giuridica che si distingue per i suoi problemi, oggetti, scopi e
metodi.; questo termine non è generalmente utilizzato nel continente, al suo posto sono utilizzati termini come
filosofia del diritto, scienza generale del diritto, enciclopedia giuridica, teoria generale del diritto.
Possiamo distinguere 3 indirizzi di ricerca sotto l’etichetta della jurisprudence:
Il problema del concetto o della natura del diritto: questo indirizzo comprende altri concetti
fondamentali che si considerano essenzialmente connessi al concetto di diritto, per esempio le fonti del
diritto, ed eventualmente concetti non necessariamente essenziali, come quello di proprietà..
La scuola di jurisprudence che studia questo tipo di problemi si chiama scuola analitica, perché di
propone di analizzare e definire concetti come quelli sopra ricordati. La scuola viene fondata
dall’inglese John Austin, che tenne una serie di lezioni , contenute nel’opera “The Province of
Jurisprudence Determined”; in vita egli non ebbe gran fama, solo più tardi la sua fortuna mutò.
Il più importante contributo del secolo alla filosofia del diritto viene da Hans Kelsen con la teoria pura
del diritto.
La scuola analitica nel suo complesso porta l’impronta di un formalismo metodico, in cui il diritto è
considerato un sistema di norme positive, veramente effettive; in questo caso la scienza mira solo ad
accertare la validità della norma nel diritto vigente, senza occuparsi di valori etici o considerazioni
politiche e neppure questioni relative a problematiche sociali, questo formalismo ha trovato
espressione nelle opere di Kelsen.
La purezza che egli rivendica della scienza giuridica, ha un duplice scopo: da un lato liberare la
scienza del diritto da ogni ideologia morale e politica e dall’altro liberarla da ogni traccia di
sociologia.
Il problema dello scopo o dell’idea del diritto: questo indirizzo si occupa di quel principio razionale
che conferisce al diritto la sua specifica validità o forza vincolante e che è il criterio per valutare la
“giustezza” di una norma giuridica. La branca della jurisrudence che si occupa di questi problemi è nota
come jurisprudence etica o filosofia del diritto naturale.
Questo indirizzo di pensiero è connesso con il punto di vista religioso o metafisico filosofico ed ha
una lunga storia che va dai filosofi greci ai giorni nostri, la sua base è la filosofia scolastica cattolica
nonché Kant ed Hegel.
Il problema dell’interferenza tra diritto e società: include i problemi relativi all’origine storica e
all’evoluzione del diritto, ai fattori sociali che oggi determinano il contenuto variabile del diritto, al suo
rapporto di dipendenza con l’economia ecc. Questo ramo della jurisprudence è nota come scuola
storico-sociologica e può essere divisa in due rami, uno prevalentemente storico e l’altro sociologico e
psicologico, al pari della jurisprudence analitica anche essa è recente, con pochi precursori nel XVIII
secolo.
In Inghilterra Maine fondò la scuola di jurisprudence storica che si occupò del rapporto tra diritto e
società nei tempi antichi; vi sono molti studi di sociologia che interessano particolarmente il campo
della criminologia.
La sociologia del diritto a poco a che fare con la scienza empirica, essendo piuttosto un sorta di
interpretazione metafisico-spiritualistica dei concetti di diritto e giustizia.
Il problema del diritto naturale costituisce una delle questioni permanenti e fondamentali di ogni jurisprudence,
ed è abbastanza curioso porre una domanda simile, per chiarire la situazione è necessaria una breve
digressione linguistica.
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Per enunciato linguistico intendo un consapevole impiego del linguaggio in uso effettivo, scritto e orale; dal
linguaggio quale fenomeno fisico va distinto il suo significato, che può essere di 2 tipi, espressivo o sintomatico
e, rappresentativo o semantico.
Ogni enunciato è espressivo, cioè è espressione o sintomo di qualche cosa; in più certi enunciati hanno un
significato rappresentativo cioè l’enunciato indica o simbolizza uno stato di cose.
Posti questi preliminari si possono delineare le seguenti distinzioni concettuali:
1. Enunciati che hanno insieme un significato espressivo e rappresentativo, come l’enunciato “Mio padre è
morto”, il significato espressivo è espressione di un bisogno di comunicare un fatto ad altre persone
mentre il suo significato rappresentativo è detto asserzione, cioè lo stato di cose è come segue, cioè
“mio padre è morto”
2. Enunciati che hanno solo un significato espressivo come “Ahi”, perché mi sono scottato, esso non è
emesso con intenzione, non asseriscono che mi sono fatto male, non simbolizzano nulla, non hanno
significato rappresentativo ma sono portatori di una carica emozionale, talvolta sono addirittura un
riflesso automatico.; tali enunciati sono detti esclamazioni.
In tale categoria confluiscono fenomeni eterogenei come il comando, la direttiva, la supplica, il
suggerimento, il desiderio,l’ammonimento e la richiesta.
Di conseguenza abbiamo tre tipi di enunciati linguistici:
1- Esclamazioni – enunciati senza significato rappresentativo e senza alcun intento di esercitare influenza
2- Direttive – enunciati senza significato rappresentativo, ma con intento di esercitare influenza
3- Enunciati di asserzione – cioè enunciati con significato rappresentativo.
In questo quadro ci poniamo la domanda: a quale categoria appartengono le norme giuridiche?
Sembra ovvio che esse siano direttive, esse sono nate per guidare le persone a comportarsi in un certo modo
desiderato, un Parlamento è un organo centrale per il controllo sociale.
Il fatto che norme giuridiche siano direttive è piuttosto ovvio quando contengono espressioni di norma usate
nelle direttive, ad esempio nelle disposizioni penali che sanciscono che un soggetto andrà punito in determinato
modo, o nelle norme civili che sanciscono che una persona deve oppure può o non deve fare qualcosa.
Lo stesso vale per una norma che si presenta al modo indicativo e che contiene espressamente una descrizione
(asserzione), ad esempio quando viene stabilito un vincolo o una responsabilità.
La norma giuridica non è vera e non è falsa, è una direttiva.
Ci si pone la domanda se le frasi che ricorrono in un qualsiasi libro di diritto siano direttive, dal punto di vista
logico; apparentemente esse lo sono, perché non pare esserci alcuna differenza tra le frasi usate dai giuristi e le
norme giuridiche ma, non stante la somiglianza deve esserci però una differenza di significato logico delle
stesse frasi nei due contesti.
Infatti le frasi contenute nei testi giuridici intendono in qualche modo descrivere e non prescrivere, e mirando a
alla conoscenza del diritto vigente esso deve consistere in asserzioni e non in direttive.
Ogni proposizione contenuta in un materiale giuridico deve essere intesa con la clausola generale che l’autore
sta presentando il diritto vigente in un ambito specifico, ad esempio il diritto dell’Illinois o della California.
Nella lingua inglese non vi è una chiara distinzione tra diritto come insieme di norme giuridiche e conoscenza
delle diritto come proposizioni circa le norme giuridiche, manca dunque un’espressione corrispondete alla
continentale “scienza del diritto”.
Immaginiamo che 2 persone giochino a scacchi e che una terza sta a guardare, se questa non sa nulla degli
scacchi non capirà cosa sta succedendo, se conosce altri giochi capirà che si tratta di un gioco ma non capirà le
singole mosse e non avrà idea dei problemi implicati in una particolare posizione degli scacchi sulla scacchiera.
Se invece lo spettatore conosce gli scacchi ma ben poco la teoria del gioco,, comprenderà che i movimenti dei
pezzi in gioco sono mosse prescritte dalle regole e, se non è un principiante, sarà, entro i limiti, in grado di
prevedere le mosse successive.
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Ma se è un principiante gran parte del gioco resterò per lui un rebus, non comprenderà la strategia dei
giocatori….la probabilità di prevedere la prossima mossa aumenta se oltre alle regole del gioco si conosce
anche la teoria del gioco e si conoscono i giocatori.
Le considerazioni circa il gioco degli scacchi contengono insegnamenti interessanti.
Nel gioco degli scacchi, l’intera serie di eventi, le mosse dei pezzi, risultano azioni rilevanti per gli scacchi; il
movimento del pezzo è considerato una mossa del gioco.
Se teniamo d’occhio i giocatori, comprendiamo ciascuna mossa fatta da ciascun giocatore dal punto di vista
della conoscenza degli scacchi e della teoria del gioco e al fine del gioco.
È necessario sottolineare che la conoscenza di cui stiamo parlando non è quella di tipo casuale, le mosse non
stanno in qualche relazione casuale reciproca ma la connessione tra esse è stabilita con l’ausilio delle regole e
della teoria sugli scacchi; la connessione è quella del significato.
La presenza di un compagno è un fattore essenziale del gioco degli scacchi, infatti non è possibile che una
persona si proponga da sola lo scopo di vincere a scacchi, senza un compagno non ci sarebbe partita.
Tutto questo ci suggerisce l’idea che il gioco degli scacchi può essere inteso come un modello semplice di
fenomeno sociale; la vita sociale umana, infatti, non è un caos di azioni individuali isolate l’una rispetto all’altra,
ma numerose azioni individuali sono rilevanti ed hanno significato in relazione ad un insieme di comuni
concezioni di regole.
Anche qui c’è un gioco reciproco che è motivato e acquista il suo significato dalle regole comuni del gioco
sociale.
Esaminiamo più a fondo le regole degli scacchi; penso alle norme elementari degli scacchi e non alle regole di
teoria degli scacchi. Queste ultime al pari di altre regole tecniche esse hanno la natura di giudizi teorici di tipo
ipotetico e partono dall’esistenza delle regole elementari degli scacchi e come altre norme tecniche la loro
forza direttiva è condizionata da un interesse, in questo caso quello di vincere la partita.
Anche le regole elementari degli scacchi sono direttive, benché siano formulate come asserzioni circa la
capacità o il potere dei pezzi di muoversi, esse mirano direttamente a guidare il giocatore.
Queste direttive sono sentite da ciascun giocatore come socialmente vincolanti, per cui il giocatore è
spontaneamente indotto ad un certo tipo di azione.
Le regole degli scacchi non sfumano nella moralità, cioè nessuno formalmente desidera violarle, infatti il
desiderio di barare nasce dal fatto che il giocatore ha un scopo diverso da quello di puro e semplice di vincere
secondo le regole.
Come è possibile stabilire quali norme regolano il gioco degli scacchi?
Si potrebbe affrontare il problema dal punto di vista comportamentistico, limitandoci a ciò che può essere
accertato mediate l’osservazione esterna delle azioni e rilevando certe regolarità, ma questo non ci porterebbe
ad una conoscenza completa delle regole degli scacchi.
La cosa più semplice sarebbe riferirci ai regolamenti ufficiali, ma anche questo potrebbe non bastare, perché
non è detto che tali regole corrispondano poi alla pratica.
Non possiamo fare altro che adottare il metodo introspettivo, scoprendo quali norme sono effettivamente
sentite come socialmente vincolanti dai giocatori; esse sono effettive nel gioco ed esternamente accertabili
come tali; è dunque necessario chiedere ai giocatori da quali norme si sentono vincolati.
Possiamo allora dire che una norma degli scacchi è “valida” quando in un certo gruppo questa norma è
effettivamente seguita perché i giocatori si sentono socialmente vincolati alla direttiva; il concetto di validità
negli scacchi implica dunque 2 elementi: uno si riferisce alla reale effettività della regola che si può stabilire
mediante osservazione esterna e l’altro si riferisce al fatto che la regola è sentita come socialmente vincolante.
Lo scopo di questa discussione sugli scacchi è finalmente chiaro, serve da guida per stabilire che il concetto
“norma valida negli scacchi” può funzionare anche per il concetto di “diritto valido”.
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Anche il diritto può essere considerato come consistente in parte di fenomeni giuridici e in parte di norme
giuridiche in reciproca correlazione, troviamo che un largo numero di azioni umane sono interpretate cine un
insieme coerente di significati per mezzo delle norme intese quali schema di interpretazione.
Ad esempio A compra una casa da B, si scopre che la casa è piena di termiti e A chiede una riduzione di prezzo
a B che si rifiuta, allora A fa causa a B.
Queste connessioni non sono spiegabili con osservazioni fisico-biologiche ma risiedono entro ciascun singolo
individuo e le possiamo interpretare con l’aiuto dello schema di riferimento “diritto valido”.
Il termine diritto valido sta allora ad indicare l’insieme astratto di idee normative che servono come schema di
interpretazione dei fenomeno giuridici in azione, il che implica che le norme siano affettivamente seguite
perchè sentite come socialmente vincolati.
La distinzione tra fenomeni del diritto e norme giuridiche è la base per distinguere due branche del diritto:
1. Sociologia del diritto – si occupa del diritto in azione
2. Scienza del diritto – si occupa delle norme giuridiche
Possiamo dire che diritto in azione e norme giuridiche sono due facce della stessa realtà, due punti di vista
ciascuno dei quali presuppone l’altro.
La scienza dal diritto rivolge la propria attenzione al contenuto ideale ed astratto delle direttive ed ignora la
realtà del diritto in azione e mira a scoprire il contenuto ideale che funziona come schema di interpretazione del
diritto in azione e a presentare questa ideologia come un sistema completo.
Le proposizioni conoscitive devo consistere in asserzioni, asserzioni concernenti norme, dunque la scienza
del diritto è una scienza concernente norme e non di norme.
Tutta via la scienza del diritto non può esistere separata dalla sociologia del diritto, infatti la scienza che trascuri
la funzione sociale del diritto risulta insoddisfacente.
Come abbiamo visto, oltre ad una conoscenza delle regole elementari degli scacchi serve si è mossi anche dallo
scopo di giocare e dalle proposizioni di teoria degli scacchi, lo stesso vale per il diritto, infatti il giudice non è
guidato solo dalle norme del diritto ma anche dalle finalità sociali e dalla conoscenza teorica delle connessioni
sociali rilevanti; per tale motivo vi è stata una sollecitazione affiche la scienza del diritto rivolgesse la propria
attenzione alla realtà della vita sociale. La sociologia del diritto, come branca della scienza, è ancora così
nuova che è difficile stabilire di cosa si occupi concretamente ma un campo di ricerca di particolare interesse è
l’interferenza tra diritto e società.
Le due principali branche del diritto possono così essere suddivise:
Scienza del diritto
1. scienza del diritto in senso stretto - si occupa di un certo sistema giuridico in una certa società, essa poi si
suddivide in un certo numero di branche come si vedrà nel capitolo VIII.
2. storia del diritto – descrive un diritto vigente nel passato e ne studia lo sviluppo storico; questa branca si
distingue dalla scienza del diritto vigente in due ulteriori sensi. Primo, il momento presente si distingue da tutti
gli altri in quanto è quel punto del tempo a quale è pervenuto in corso della realtà e sta per entrare nel futuro.
Il diritto valido non è mi un fatto storico ma è sempre una calcolo rivolto al futuro; ciò attribuisce alla scienza
del diritto vigente carattere di incertezza e facilità che l’incertezza diminuisca.
In secondo luogo se le storia del diritto manca di contatti con la politica del diritto, presenta un più stretto
rapporto con la sociologia del diritto. Essa mira non sono a descrivere il diritto in un dato momento, ma anche
ad illustrare il suo svolgimento.
3. diritto comparato – ha il più ampio scopo di descrivere il diritto valido nei diversi paesi, sia come studio dei
diritti contemporanei o studio dei diritti storici,
Sociologia del diritto
1. sociologia generale del diritto – si divide in più parti, una parte generale e una serie di branche
specializzate:
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a) la parte generale si occupa delle caratteristiche generali del diritto in azione, della sua struttura e della sua
dinamica senza riferimento a particolari branche del diritto. La ricerca può rivolgersi allo studio di un tipo di
comunità, indagando gli aspetti tipici del diritto in azione in quella società.
b) le varie branche specializzate corrispondono a particolari sfere del diritto, come la criminologia, la scienza
politica, le relazioni industriali, le ideologie politiche ecc…
2. sociologia applicata del diritto – come le scienze naturali applicate, ha un campo di studio la cui scelta e
adattamento vengono compiuti in base a problemi pratici da risolvere
Abbiamo così descritto i 3 spetti tradizionali della jurisprudence lasciando aperta la questione di come questa
branca di studio del diritto debba essere definita; abbiamo detto che si poteva rispondere sulla base di una
rassegna generale dei vari aspetti mediante cui può essere intrapreso lo studio del diritto, ma il risultato pare
essere, tuttavia, negativo perche nessuna delle branche sembra possedere carattere di studio filosofico.
Quella che viene chiamata jurisprudence storico sociologica reca una così chiara impronta di una scienza
specializzata tra le altre, che sarebbe ingiustificato innalzarla sotto il nome di jurisprudence, al livello di uno
studio filosofico.
Quella che abbiamo chiamato jurisprudence etica, non compare nella rassegna perché è solo una
speculazione metafisica senza giustificazione scientifica.
Delle branche tradizionali resta solo la jurisprudence analitica, che però non sembra possedere carattere
filosofico e meritare dunque il nome di filosofia del diritto.
Come si spiega ciò?
La risposta va cercata nelle concezioni generali circa il rapporto tra filosofia e scienza.
La moderna filosofia fondata su presupposto empirico ritiene che la filosofia non ha oggetto specifico che sia
coordinato con quello delle varie scienze o sia distinto da esso, la filosofia non è una mera estensione della
scienza, essa non è affatto una teoria ma un metodo, questo metodo è l’analisi logica: la filosofia è la logica
della scienza e il suo oggetto è il linguaggio della scienza. Ne deriva che la jurisprudence non ha oggetto
specifico coordinato con l’oggetto della scienza del diritto e neppure distinto da esso; questo oggetto non è il
diritto ma è lo studio del diritto, essa sta su un piano più alto ma il confine tra jurisprudence e studio del diritto
non è rigido perché non esiste alcun criterio interno per delimitarne i campi.
Una delimitazione del suo campo può essere dato considerando i risultati cui perviene di fatto lo studio del
diritto.
L’analisi della jurisprudence può volgere la propria attenzione sia alla scienza del diritto che alla sociologia del
diritto.
Il rapporto tra interpretazione della natura e compito della jurisprudence risulta chiaro nei paragrafi precedenti e
l’autore fa alla fine del capitolo alcune osservazioni supplementari:
mentre la jurisprudence etica è stata respinta perché sprovvista di giustificazione scientifica, la sua
interpretazione storico-sociologica è stata respinta dal punto di vista sistematico, perché ha tutte le
caratteristiche per essere una scienza specializzata.
CAP II – IL CONCETTO DI “ DIRITTO VALIDO ”
Nel capitolo precedente abbiamo illustrato il concetto di “diritto valido” sulla base delle “regole del gioco degli
scacchi”, bisogna ora svolgere questa ipotesi in una teoria del significato di “diritto valido”.
L’ipotesi di lavoro proposta implica che le norme giuridiche funzionino come schema di interpretazione del
corrispondente diritto in azione così che si possa comprendere tali azioni ed, entro certi limiti, prevederle e
questa capacità dipende dal fatto che le norme sono sentite come socialmente vincolati.
Per sviluppare questa ipotesi occorre rispondere a due domande:
1- In che modo un determinato insieme di norme, noto come sistema giuridico nazionale , si distingua,
rispetto al contenuto, da altri determinati insiemi di norme.
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2- In qual modo si adatti al diritto il concetto di validità, una volta che la validità di un sistema di norma,
significa che il sistema, in forza della sua effettività, può fungere da schema di interpretazione.
Tornando agli scacchi, non ha senso la pretesa di definire le regole degli scacchi distinguendole per esempio
dalle regole del tennis o del pallone, “regole degli scacchi” è il nome di un insieme individuale di norme, che
non possono essere definite, ma solo indicate dall’esterno.
Il problema della definizione sorgerebbe solo se volessimo classificare sotto un’unica indicazione “regole dei
giochi” le regole per giocare a scacchi insieme a quelle per giocare a bridge; questo problema di definizione
non può sorgere se vogliamo soltanto descrivere le regole degli scacchi.
Lo stesso vale ad esempio per il “diritto Danese” che è il nome di un sistema individuale di norme che non
possono essere determinate ma solo indicate dall’esterno; “diritto Danese”, “diritto Norvegese”, “diritto
Svedese” corrispondono ai diversi insiemi individuali di regole dei giochi, il problema della definizione
sorgerebbe quando volessimo classificare questi sistemi individuali in un sistema giuridico e non se ci limitiamo
a descrivere il diritto danese valido.
Se ci proponiamo di limitare il compito della jurisprudence allo studio dei concetti presupposti dalla scienza del
diritto, il problema della definizione del diritto non appartiene alla jurisprudence, ma ciò non è mai stato
capito e si credeva che fosse necessario premettere una definizione tale da consentire di distinguere il diritto
da altre norme sociali; questo equivoco nasce dal fatto che si ignorava che il “diritto nazionale valido”
costituisce un’entità individuale.
Anche se il problema della definizione del diritto non rientra nel campo della jurisprudence converrà accennare
qualche opinione al riguardo. Le interminabili discussioni filosofiche circa la natura del diritto derivano dal
presupposto che il diritto tragga la propria specifica validità da un’ idea a priori, ma se si abbandonano questi
presupposti metafisici il problema della definizione perde di qualsiasi interesse.
La scienza del diritto si propone di dare un descrizione di certi sistemi nazionali individuali di norme. Esistono
diversi altri sistemi individuali e tutti sono dei fatti ma in ogni caso abbiamo bisogno di un termine per
descrivere questi fatti, anche se è solo un problema terminologico, che non ha nulla a che fare con
l’approvazione o la disapprovazione morale. La mescolanza di atteggiamenti descrittivi con atteggiamenti
morali, caratterizzanti le discussioni sul concetto di diritto, è un esempio di ciò che Stevenson chiama
“definizione persuasiva”.
Passiamo ora ad esaminare come un sistema giuridico nazionale individuale di distingua, nel contenuto, da altri
sistemi individuali di norme.
Un sistema giuridico nazionale, al pari delle regole degli scacchi, è un sistema individuale determinato da
un’interna coerenza di significato, data dal fatto che esse si riferiscono tutte alle mosse fatte dalle persone che
giocano a scacchi, dunque esse devono riferirsi a certe azioni poste in essere da certe persone…ma quali
persone e quali azioni?
La risposta è possibile solo cercando a chi si rivolgano queste regole e quale oggetto esse abbiano.
Le norme giuridiche possono essere distinte a seconda del loro immediato contenuto in due gruppi:
Norme di condotta : cioè le norme che prescrivono un certo gruppo di azioni
Norme do competenza o di procedura : sono quelle norme che creano una competenza,
esse sono direttive affinché le norme, emanate secondo una certa procedura, vengano considerate
norme di condotta..insomma è una norma di condotta indirettamente formulata, come le norme
costituzionali relative alla legislazione.
A chi sono dirette le norme di condotta?
L’art 62 dell’Uniform Negotiable Instrumentes Act, per esempio, apparentemente prescrive come si comporterà
una persona che ha accettato un titolo, ma questa non è una corretta spiegazione del suo significato normativo,
infatti l’art 62 è al contempo un direttiva per le corti circa il modo con cui esse dovranno esercitare la loro
autorità in caso che rientri sotto questa norma.
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Abbiamo 2 facce della stessa medaglia: la direttiva al privato è implicita nel fatto che egli conosce quali reazioni
può aspettarsi dalle corti, e se vuole evitare quelle reazioni, tale conoscenza è un invito a conformare la propria
condotta.
Le disposizioni di diritto penale sono formulate in questo modo, esse non dicono al cittadino di non
commettere omicidi ma dicono al giudice quale sarà la sentenza in tale caso; ciò dimostra che l’effettivo
contenuto di una norma di condotta consiste in una direttiva per il giudice, mentre l’istruzione per l’individuo è
una norma giuridica ricavata per metafora.
Le norme di competenza sono riconducibili a norme di condotta e perciò devono essere interpretate come
direttive alle corti.
La sentenza è il fondamento dell’esecuzione. Che costituisce potenzialmente un esercizio della forza fisica
contro chi non agisce secondo sentenza. Il giudice è una persona le cui attribuzioni sono stabilite da norme sia
di diritto privato che pubblico.
Possiamo allora dire che un sistema giuridico nazionale è un’insieme di regole che determinano le condizioni
alle quali la forza fisica sarà esercitata nei confronti della persona, esso predispone una organizzazione di
pubbliche autorità, cui spetta di ordinare e porre in essere l’esercizio; in breve, un sistema giuridico nazionale è
l’insieme delle regole per l’organizzazione e il funzionamento dell’apparato coercitivo dello stato.
Abbiamo ipotizzato che un sistema di norme è valido se funge da schema di interpretazione da un insieme di
azioni sociali, e questo è possibile se sono sentite come socialmente vincolanti.
Ma quali sono questi fatti sociali che costituiscono l’equivalente delle norme giuridiche?
Non possono essere che azioni umane regolate da norme giuridiche, queste sono norme che determinano le
condizioni alle quali la forza sarà esercitata dall’apparato statale; ne consegue che i fenomeni giuridici, come
equivalente delle norme, sono le decisioni delle corti e qui dobbiamo ricercare l’effettività che costituisce la
validità del diritto.
Un sistema giuridico nazionale può essere definito come insieme delle norme effettivamente operanti nella
mente del giudice poiché le sente socialmente vincolanti e dunque le osserva.
La prova della validità è che con questa ipotesi, possiamo comprendere le azioni del giudice come risposte a
determinate condizione ed entro certi limiti prevederle, come con gli scacchi.
Il comportamento del giudice è una risposta a certe condizioni a una risposta a certe condizioni determinate
dalle norme giuridiche.
Solo i fenomeni giuridici in senso stretto, l’applicazione del diritto delle corti, sono decisivi per determinare la
validità delle norme giuridiche. Non dobbiamo dimenticare che il diritto fornisce norme per il comportamento
delle corti e non dei privati, e solo nell’applicazione di esse possiamo ricercare l’effettività che condiziona la
validità delle norme.
Per esempio l’aborto criminoso costituisce reato, il vero contenuto del diritto consiste in una direttiva al giudice,
secondo cui dovrà infliggere la pena per l’aborto criminoso. La proibizione è un diritto valido, solo se ciò viene
effettivamente dichiarato dalla corti davanti alle quali sono portate e perseguite la violazioni del diritto, non ha
alcuna importanza che le persone si conformino o ignorino la proibizione.
Fino ad ora abbiamo utilizzato i termini “giudice” e “corti” indistintamente perché parlando di sistema giuridico
nazionale, ci riferiamo a NORME SUPERINDIVIDUALI, cioè proprie della nazione,che non variano da un giudice
all’atro.
La qualità di giudice può essere assegnato solo in riferimento al diritto valido, più precisamente le norme di
diritto pubblico che regolano l’organizzazione delle corte e la nomina dei giudici.
Prima di accertare se una certa norma di diritto privato è diritto valido, devo stabilire cosa si intenda per diritto
valido in tali senso. Ma con quale criterio?
Possiamo rispondere che il sistema giuridico forma un TUTTO, in cui le norme di diritto privato si integrano con le
norme di diritto pubblico, dunque la validità è una qualità predicabile dal sistema considerato come un tutto, la
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prova della validità sta dunque nel suo complesso, ma il fatto che la prova stia nel complesso non ci impedisce
di indagare se una certa norma particolare sia diritto valido, e questo significa che il problema non può essere
risolto se non riferendoci al diritto valido come ad un tutto.
Ciò che è diritto valido non può essere accertato mediante osservazione esterna della regolarità di azione dei
giudici, infatti magari un giudice per lungo tempo ha punito l’aborto ma, a causa della promulgazione di una
nuova legge, questa reazione improvvisamente muta, la validità non può essere accertata ricorrendo
all’obiezione del legislatore.
Il mutamento nel comportamento del giudice può essere compreso e previsto solo attraverso un’interpretazione
ideologica, cioè facendo ipotesi su un’ideologia che muoverebbe il giudice e motiverebbe le sue azioni.
Possiamo dire che il diritto presuppone non solo la regolarità nei comportamenti dei giudici ma anche la loro
esperienza nel sentirsi vincolati alle norme; dunque la validità comprende due aspetti: la conformità osservabile
esternamente ad un modello d’azione e l’esperienza di questo modello di azione come norma socialmente
vincolante.
Questo duplice aspetto del concetto di validità spiega il dualismo che contrassegna questo concetto nella teoria
metafisica del diritto, secondo cui diritto valido significa al contempo sia un ordinamento di fatto effettivo, sia
un ordinamento con forza obbligatoria derivatagli da un principio a priori.
Questo dualismo può portare a complicazioni sia logiche che epistemologiche, che trovano espressione in
alcune antinomie della teoria del diritto.
Ciò conduce all’asserzione metafisica secondo cui la stessa esistenza, nella sua intima essenza, coincide con la
validità.
Adesso esamineremo attentamente il metodo per provare se una data norma è diritto valido, cioè il metodo per
provare la verità della corrispondente asserzione dottrinale; parleremo prima delle norme di condotta e poi di
quelle di competenza.
È un procedimento della scienza empirica moderna che una proposizione circa la realtà implica che, tramite
certe procedure, seguiranno certe esperienze dirette, ad esempio se dico “questo è gesso”, implica che se lo
metto al microscopio avrà determinate qualità strutturali e se ci verso sopra dell’acido si produrranno
determinata reazioni chimiche.
Queste procedure sono chiamate procedure di verificazione e la somma delle implicazioni verificabili si dice
costituire il “contenuto reale” della proposizione.
La concezione di scienza del diritto si fonda sul presupposto che sul presupposto principio di verificazione debba
applicarsi anche in questo campo, e dunque che alla scienza del diritto debba essere riconosciuta come scienza
empirica.
Bisogna dunque chiarire con quale procedura si possano verificare le proposizioni della scienza giuridica.
Noi riteniamo che il contenuto delle proposizioni della scienza giuridica si riferisca alle azioni delle corti in certe
circostanze (ad esempio il contenuto reale della preposizione “dell’art 62 dell’Uniform Negotiable Instrument Act
è diritto valido nell’Illinois” (1) è l’asserzione che, a certe condizioni, la corti si comporteranno in conformità ad
esso) conseguentemente si dice spesso che una regola è diritto valido quando è applicata nella pratica delle
corti, ma questo modo di dire è vago ed approssimativo.
In primo luogo , non è chiaro cosa significhi “è applicata. Si riferisce s decisioni passate, presenti o
future?
Se uno chiede qual è il diritto valido in merito ad un certo problema vuole sapere come la controversia verrebbe
risolva dinnanzi alle corti, non vuole sapere le regole usate dalle corti fino a quel momento per decidere, perché,
per converso, una norma può essere considerata diritto valido benché non sia ancora stata applicata, ad
esempio nel caso di una norma di recente promulgazione, infatti essa è valida se vi è ragione di credere che
essa verrà applicata in una futura decisione giuridica. Possiamo dire che un’affermazione di diritto valido non
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può riferirsi al passato, ma neppure al futuro, perché asserire cosa è diritto valido ora, non può implicare la
previsione di come le corti reagiranno in futuro.
Queste considerazioni ci portano a concludere che i giudizi concernenti il diritto valido presente devono
intendersi riferiti a ipotetiche decisioni future a certe condizioni: se un’azione verrà promossa su un punto
regolato da quella particolare norma giuridica, e se nel frattempo non si sarà verificato alcun mutamento nel
diritto, allora quella norma sarà applicata dalle corti.
Le condizioni poste determinano così il metodo della verifica, per cui una preposizione circa il diritto valido è
verificata se vengono adempiute le condizioni prescritte e sia osservata la decisione.
In secondo luogo è necessario definire più precisamente che cosa significa che la regola è applicata
dalle corti.
Se prendiamo ad esempio l’art 62, il suo “essere applicato” non può riferirsi ad una decisione di contenuto bene
definito, e cioè che il trattario è obbligato a pagare la cambiale, poiché in base ad altre norme egli potrebbe
opporre eccezioni fondate. L’art 62 evidentemente appartiene, insieme a molte altre norme, ad un tutto
coerente di significato. La sua applicazione nella pratica legale è dunque uno dei fattori decisivi che
determinano la conclusione cui la corte è pervenuta, nelle decisioni in cui si suppone verificata la fattispecie
prevista dall’articolo.
A = art 62 dell’Uniform Negotiable Instrument Act è diritto valido nel momento attuale
in un certo stato.
Il contenuto reale dell’asserzione è la predizione che se un’azione in cui i fatti condizionati enunciati nell’articolo
sono esistenti è portata di fronte alle corti, e non vi sono stati mutamenti nelle condizioni a fondamento di A, la
direttiva dell’articolo formerà parte integrante del ragionamento che regge la decisione.
Ma il problema della verità di A non è ancora definitivamente risolto, infatti la verità di A non si identifica con la
nostra capacità di predire con certezza il risultato di una futura azione giudiziaria, ma in primo luogo dipenderà
dalla prova prodotta e da come essa verrà valutata, ad esempio se il giudice considererà i testimoni attendibili;
la decisività della prova è un fatto così soggettivo che da sola esclude ogni possibilità di calcolare
preventivamente con precisione il risultato di una controversia, senza considerare il problema
dell’interpretazione del diritto ed infine le idee che il giudice considera come diritto valido .
Questo ultimo punto è interessante, poiché la misura in cui il giudice è guidato da fattori diversi da quelli
ideologico -giuridici è importante, poiché essi si mescolano all’ideologia normativa che ispira il giudice.
Ma quale relazione esiste tra la motivazione e la sentenza, che naturalmente è quella che ci interessa
prevedere?
Esistono molte teorie in materia, la dottrina tradizionale ritiene che essa sia il risultato di un ragionamento e
dunque un sillogismo, la cui motivazione contiene le premesse il dispositivo e la conclusione. In contrasto con
loro altri studioso dicono che il giudice prende le sue decisioni ispirandosi ad intuizione emotive e a scopi pratici,
e una volta stabilita la conclusione in base ad essi, trova poi un’argomentazione ideologico - giuridica
soddisfacente per motivarla; insomma l’argomentazione giuridica contenuta nella motivazione non è altro che
una facciata destinata a corroborare la fiducia nell’oggettività della decisione.
Se il punto di vista tradizionale fosse esatto avremmo ottime basi per prevedere la decisione giuridiche future,
mentre secondo la teoria opposta la conoscenza dell’ideologia non guida il giudice nella decisione e dunque è
dubbio che si possa comprendere quando un giudice prende una decisione e che si possano fare previsioni
future.
Secondo i prevalenti studi giuridici la validità di una norma deve essere assoluta: una norma giuridica o è
valida o non lo è.
Ma nella realtà l’asserzione che una norma è diritto valido è altamente relativa; si può anche dire che una
norma giuridica può essere diritto valido in misura maggiore o minore a seconda del grado di probabilità con cui
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si può prevedere che la norma sarà applicata e questo grado di probabilità dipende dal materiale di esperienza
su cui la previsione è costituita, cioè dalle fonti del diritto:
La probabilità è alta e perciò la norma è maggiormente valida se la previsione è fondata su una
dottrina ben stabilita, sostenuta da un elevata quantità di precedenti indiscussi.
La probabilità è bassa e la norma ha minor validità se la previsione è basata su un precedente singolo o
dubbio.
Fra questi due estremi esiste una varia gamma di variazioni intermedie e dunque è erroneo considerare le fonti
come fossero tutte sullo stesso piano.
Abbiamo così cercato di interpretare il contenuto reale delle proposizioni che asseriscano che una certa regola è
diritto valido, diverso problema è sapere fino a che punto la scienza giuridica è e sarà uno strumento per la
conoscenza del diritto valido nel senso definito in precedenza.
Lo scopo del giurista è di esporre il diritto come un fatto, ma pochi si limitano a questo, nel caso il corpo del
diritto non sia determinato da un alto grado di certezza la maggior parte dei giuristi cercherà di ,manipolare i
risultati influenzando il giudice. Infatti appellandosi alla scienza giuridica o a considerazioni pratiche,
cercheranno di fissare una certa interpretazione del diritto nella speranza di influenzare le future decisioni
giuridiche.
Tali interpretazioni non sono più asserzioni ma, ma direttive sotto forma di consigli, richieste, raccomandazioni
rivolte al giudice, in una parola, direttive de sententia ferenda.
Il contenuto tipico delle opere dottrinali può essere così catalogato:
1. asserzioni descrittive concernenti il diritto valido con grado maggiore o minore di probabilità
2. direttive non descrittive
3. asserzioni descrittive concernenti fatti storici, economici e sociali e circostanze che fungono da
argomento per il primo o secondo caso.
Il ruolo relativo di 1+3 e 2+3 rispettivamente, varierà a seconda dello scopo pratico della esposizione e secondo
la personalità dell’autore.
Almeno nei paesi scandinavi, la maggior parte dei giuristi considera il lato pratico della dottrina, le direttive de
sententia ferenda come la parte più importante della loro opera, dunque il loro interesse è pratico e non
teorico.
Adesso tratteremo delle difficoltà di tracciare una rigida linea di confine tra le proposizioni della teoria
giuridica e quelle della politica giuridica.; questa difficoltà deriva dalla peculiarità propria a tutte le scienza
sociali in quanto distinte dalle scienza naturali.
Se un astronomo prevede un’eclissi di solo, questa previsione non esercita alcuna influenza sugli eventi
astronomici cui si riferisce.
Nel 1950 era stata previsto che in giugno i comunisti avrebbero marciato su Berlino; era possibile che una simile
marcia fosse stata organizzata ed essa avrebbe avuto luogo se la parte occidentale non avesse preso delle
contromisure a causa della previsione stessa, rendendola così falsa.
La peculiarità delle scienza sociali, nei confronti delle naturali, trova giustificazione nel fatto che la previsione,
la sua enunciazione e la fiducia accordatele costituiscono parte del fenomeno sociale cui sono riferite, infatti la
vita della comunità non può essere studiata con la stessa oggettività con cui si studiano i fenomeni
astronomici..Possiamo dire che la storia e il progresso della vita sociale sono in linea di principio indeterminati.
Non si può dunque segnare una linea rigida di confine tra giudizio descrittivi circa il diritto valido e attività
politico-giuridica.
In primo luogo è chiaro che è difficile tracciare tale linea; nei problemi giuridici, in cui sia possibile prevedere la
reazione della corte solo con basso grado di probabilità, il giurista può adottare due atteggiamenti, può mettersi
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ne panni del giudice congetturando le valutazione che da lui verranno fatte oppure può preservare le proprie
valutazioni trovando la soluzione cui sarebbe arrivato lui se fosse stato il giudice.
Nel primo caso il suo atteggiamento è descrittivo e le sue affermazioni sono scientifiche anche se il loro valore
di probabilità è basso, mentre nel secondo caso il suo atteggiamento è politico e il suo enunciato è una
direttiva fatta per indirizzare il giudice verso ciò che dovrebbe essere diritto valido.
In queste circostanze il risultato pratico sarà identico, indipendentemente dall’atteggiamento teorico o politico.
Qualche giurista darà precedenza alle considerazioni politiche, si sentirà portavoce di un ideologia e ammetterà
che la sua attività non è descrittiva, altri considereranno il fattore teorico come predominante e guarderanno le
proprie valutazioni personali come all’oggetto più sospetto intorno al ragionamento sul diritto valido.
In secondo luogo, e questo è il punto centrale, dobbiamo anche considerare che, per quanto teorico possa
essere l’intento, tuttavia l’interpretazione, come ogni altra previsione scientifico sociale, è essa stessa un fattore
politico-giuridico.
L’argomentazione che regge l’interpretazione che, in ipotesi, le corti applicheranno, è passibile di esercitate
un’influenza sulle corti e per tal via può diventare vera.
Per concludere: asserzioni concernenti il diritto valido sono, secondo il loro contenuto reale, predizioni di
avvenimenti sociali futuri, i quali sono fondamentalmente indeterminati e non consentono predizione futura e
ogni predizione è nello stesso tempo un fattore capace di influire su corso degli eventi.
Importante per un buon metodo giuridico è che il giurista sia in grado di offrire le proprie interpretazioni con la
consapevolezza che esse non possono essere enunciate come diritto valido con quella stessa certezza come
quando si tratta di norme ben stabilite.
Si può obiettare che la precedente interpretazione di diritto valido, esclude la possibilità di criticare una
decisione giuridica sbagliata ma quest’obiezione si fonda su un malinteso, infatti le concezioni qui sviluppate
non impediscono a nessuno di denunciare come sbagliata un decisione.
L’equivoco nasce dall’erronea concezione, criticata precedentemente, secondo la quale il problema della
validità di una norma è risolto quando sia stata emanata una decisione che ne confermi la regole.
Le norme di competenza sono norme di condotta formulate indirettamente, perciò la loro verificazione può
essere effettuata come per le norme di competenza.
Ad esempio il reale contenuto del giudizio con cui si afferma che le norme costituzionali concernenti il potere
legislativo sono diritto valido, è una previsione che le norme di condotta emanate dal potere legislativo, in
conformità della Cost, saranno applicate dalle corti, ma questo è possibile a certe condizioni.
L’interpretazione è possibile se le norme di competenza prevedono come conseguenza l’annullamento, per
regole di condotta non conformi alla Cost., o, pur mancando l’annullamento, quando le norme di competenza
producono conseguenze di responsabilità, cioè se le corti possono stabilire sanzioni contro la persona
responsabile di eccesso di competenza (procedura di impeachment, per giudicare la responsabilità dei
ministri in violazione di norme costituzionali)
Se la norma di competenza non ha nessuno di questi effetti la sua interpretazione come norma di condotta
formulata indirettamente non è possibile; né consegue che tali norme non possono essere considerate “diritto
valido”.
Sappiamo che un sistema giuridico nazionale è un insieme di regole concernenti l’esercizio della forza
fisica.
Una concezione diffusa definisce la relazione tra diritto e forza in un altro modo, per cui il diritto sarebbe da
regole sostenute dalla forza. Questo punto di vista considera le norme derivate e metaforiche di condotta come
l’art 62 dell’Uniform Negotiable Instrument Act, si può dire che esse siano sorrette dalla forza, perché se
l’accettante non paga corre il rischio di un procedimento giudiziario, sentenza ed esecuzione forzata.
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Questa interpretazione delle norme giuridiche non è accettabile perché si basa sul presupposto che la direttiva
dell’art 62 e la direttiva del giudice per sanzionare tale norma con la forza siano due cose diverse quando
abbiamo invece due aspetti della stessa norme.
Questa concezione di diritto non è ammissibile per un’altra ragione, cioè il fatto che risulterebbero escluse del
campo del diritto parti essenziale, cioè tutte le norme di competenza, in quanto esse non sono sanzionate con
la forza e le norme vere e proprie che hanno come scopo la garanzia del diritto, cioè la norme secondarie che
garantiscono le norme primarie di condotta, al loro volta garantite dalla forza tramite norme terziarie.
Dobbiamo dunque ribadire che il rapporto delle norme giuridiche con la forza sta nel fatto che le norme
concernono l’applicazione della forza e non che esse sono sanzionate con la forza.
Strettamente connesso ad esso è il problema sociologico - giuridico dei motivi che suggeriscono agli uomini di
comportarsi in modo conforme al diritto; i motivi umani possono dividersi in due gruppi:
Impulsi fondati sulla necessità che sono sentiti come “interessi”.
Impulsi impressi nell’individuo dall’ambiente sociale, sentiti come un imperativo categorico che
li obbliga, indipendentemente dai suoi interessi o addirittura contro essi.
Il secondo gruppo è interpretato come una rivelazione nella coscienza di una superiore validità, la quale, in
quando “dovere”, è in contrasto con la natura sensibile dell’uomo.
Quale parte hanno nella vita giuridica della comunità queste diverse motivazioni determinanti?
In merito alle norme giuridiche si deve ritenere certo che il giudice sia mosso da interessi disinteressati, dal
puro senso del dovere e non dal timore di sanzioni giuridiche, che sono possibili solo in caso estremo di
denegata giustizia a che sono nella pratica molto rare. Per i giudici delle corti inferiori può avere peso l’interesse
alla reputazione professionale e alla promozione, ma raramente ha importanza decisiva.
È da ritenere senza dubbio che non sarebbe mai possibile avere un ordinamento giuridico efficiente sei nella
magistratura non esistesse un vivo e disinteressato senso di rispetto e di obbedienza all’ideologia giuridico -
tradizionale.
Il problema si complica per le norme metaforiche di condotta, derivate dalle norme vere e proprie, come
l’art 62 dell’Uniform Negotiable Instrument Act, per cui la consapevolezza che un comportamento contrastante
comporterebbe un procedimento, una sentenza e un’esecuzione crea motivo per comportarsi in modo conforme
al diritto.
Questa non è l’unica ragione: molte persone obbediscono alla legge non solo per timore delle autorità ma
anche per rispetto disinteressato della legge e vedono la forza applicata non come brutale violenza ma come
giusto sostegno del diritto. Dove le norme sono ben applicate questo atteggiamento diventa automatico e non
vi sono impulsi a violare il diritto (poche persone combattono contro lo stimolo di commettere omicidio).
Questa componente ideologica e disinteressata è spesso descritta come coscienza morale, ma l’ambiguità del
termine morale può causare malintesi.
Infatti è vero che questo atteggiamento può avere natura di vera e propria disapprovazione inconsapevole
dell’atto ingiusto, ma ciò non è essenziale, perché anzi esso ha generalmente carattere formale per cui “la
legge è legge” e come tale va rispettata. Allo scopo di distinguere questi atteggiamento da quello “morale” vero
e proprio, usiamo il termine coscienza giuridica “formale” o “istituzionale”per il primo e “morale” o
“materiale” per il secondo.
Naturalmente esiste un limite entro cui i due atteggiamenti divergono,e superato tale limite, l’obbedienza al
governo e al diritto è soppiantata da coscienza rivoluzionaria e se i tempi non sono ancora matura per la
rivoluzione si mina l’ordine sociale con la propaganda e l’ostruzionismo.
Spesso coloro che sono soggetti ad effettivo regime di forza, non lo riconoscono come valido, e non riceve dai
propri soggetti approvazione ideologica sotto forma di coscienza giuridica formale ma viene obbedito solo per
timore; dunque il governante in tal caso non è un’”autorità” o “potere legittimo” ma è un perpetratore di
violenza, un “tiranno”.
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Queste reazioni emotive sono le esperienze che attribuiscono alla parola diritto la carica emotiva che ne fa un
“titolo d’onore”, ed esse sono l’origine della nozione metafisica di “validità” come qualità spirituale e morale
assegnata all’ordinamento giuridico.
Da un punto di vista scientifico descrittivo è comunque impossibile distinguere un “ordinamento giuridico” da
un “regime di violenza” perche la qualità contraddistingue il diritto non è oggettivo ma dipende da come è
sentito dalla persona, perciò un ordinamento può essere un ordinamento giuridico per un individuo e un regime
di violenza per un altro.
Volendo sarebbe possibile limitare il concetto di diritto mediante caratterizzazione psicologico - sociale per cui
un ordinamento è detto giuridico solo se riceve approvazione ideologica dalla maggioranza di coloro che sono
soggetti.
Ma questo non crea alcun vantaggio, infatti un ordinamento, approvato o no, è u fatto che richiede di essere
descritto allo stesso modo di un ordinamento giuridico.
Timore e rispetto, sono due forme di motivazione connesse tre loro, infatti la forza esercitata dalla polizia e dalle
autorità non è basata non solo su fattori fisici ma anche ideologici.
I cittadini ligi alla legge rispettano la polizia, anche se fisicamente sono più forti, perché se tutti i cittadini si
coalizzassero contro le autorità esecutive ne uscirebbero vincenti. I potere della polizia è basato in gran parte
sul rispetto e sulla credenza che essa eserciti la propria autorità i nome della legge.
Il controllo dei mezzi di coercizione dipende dalle capacità degli stessi esseri umani che li adoperano e dunque
devono esistere norme per l’esercizio della forza, osservate con obbedienza e non con timore.
Un uomo forte di sola forza fisica potrà dominarne pochi altri, nessun Hitler avrebbe potuto terrorizzare una
popolazione intera se non avesse ricevuto obbedienza da almeno un gruppo che maneggiava l’apparato di
forza.
Il potere coercitivo del diritto è tale in funzione della sua validità e la sua validità è in funzione della forza
effettivamente esercitata.
Inoltre l’obbedienza è rafforzata dall’abitudine, perciò qualsiasi ordinamento che si mantenga di fatto tende a
diventare ideologicamente approvato nel tempo, come ci conferma il filosofo tedesco Georg Jellinek come
“forza normativa di quanto effettivamente esiste”.
Timore e rispetto, forza e validità si condizionano a vicenda.
Nella concezione metafisica giustizia e forza sono diametralmente opposti, giusto è ciò che è idealmente
valido, mentre forza è un fatto sociale di predominio sugli uomini.
Ma come è possibile che la giustizia capitoli di fronte alla forza?Come la forza può creare giustizia?La giustizia
cederà alla spada?
Una concezione realistica non le considera opposte, infatti se per potere sociale(forza) intendiamo la possibilità
di dirigere gli uomini,allora il diritto è uno strumento di potere e il potere non è qualcosa che sta dietro il diritto
ma qualcosa che lo attraversa.
A seconda dei mezzi e della tecnica usata nell’esercizio del potere, si distinguono varie forme di potere, ad
esempio potere della violenza, economico, spirituale, ecc. Il potere politico è quello esercitato mediante la
tecnica del diritto, mediante l’apparato dello stato, la cui funzione è condizionata da fattori ideologici.
Ogni potere politico è “coscienza giuridica”, non esiste alcun potere nudo, cioè indipendente dal diritto o dalle
sue basi.
Non è necessario che la giustificazione ideologica si estenda a tutta la popolazione che vi è soggetta, ma basta
che lo sia per un gruppo ristretto, armato di coscienza rivoluzionaria.
Il termine diritto o sistema giuridico viene definito, non riveste interesse e i sistemi non traggono vantaggio ad
essere chiamati giuridici, per questo motivo l’autore riserva il termine “sistema giuridico” agli ordinamenti
normativi come le caratteristiche di un moderno sistema giuridico nazionale ben sviluppato , senza attribuirgli
alcun valore ideologico.
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Il concetto di diritto o sistema giuridico può essere caratterizzato da sue elementi: 1. in promo luogo il diritto
consiste in regole concernenti l’esercizio della forza, forza come sanzione, cioè come pressione per ottenere il
comportamento voluto, 2. in secondo luogo il diritto consiste non solo in norme di condotta ma anche di
competenza che istituiscono un insieme di pubbliche autorità delegate ad emanare norme di condotta ed ad
esercitare la forza in conformità di esse, possiamo dire che il diritto ha carattere istituzionale, esso è
espressione della società superindiividuale, è un ordinamento sociale.
Altri fenomeni nomativi variano in parte secondo il tipo di sanzione o a seconda che abbiano o no carattere
istituzionale:
1- Esistono fenomeni normativi che presentano una configurazione istituzionale simile a quella del diritto,
ma sono basati su sanzioni diverse dalla forza fisica.
Associazioni private e altre organizzazioni basate su sistemi di norme simili a quelle del diritto
chiamate “atto costitutivo” o “statuto”. Non è ordinamento normativo in quanto la sanzione non
consiste nell’uso della forza, monopolio dello stato, e la massima sanzione è l’espulsione
dall’associazione.
Il diritto internazionale ha carattere istituzionale ma come le associazioni non contempla
sanzioni fondate sulla forza fisica, la sanzione che deriva da decisione giudiziaria ha solo il carattere
di pubblica disapprovazione
2- In ogni comunità esiste una viva tradizione circa il modo di comportarsi in certe situazioni. Queste idee
sono inculcate nell’individuo sin da bambino mediante l’influenza dell’ambiente sociale, infatti il
bambino impara come mangiare, a dire “buongiorno”, a non dire parolacce, a non dire bugie ecc e
cresce così in un ampio complesso di regole che egli gradualmente assorbe e che poi si manifestano
come atteggiamenti automatici. Queste regole sono sentite come morali quando entrano in conflitto con
i desideri dell’individuo.
Nonostante queste regole abbiano origine sociale esse costituiscono, tuttavia, fenomeni individuali. Non sono
norme di competenza, non vi è un legislatore nel campo della moralità o della convenzione, la sanzione in
campo morale è la disapprovazione, emanata dal singolo individuo e non da un’autorità comune.
Per questo motivo non vi è una moralità “nazionale valida” ma solo atteggiamenti individuali più o meno
paralleli, alcuni prevalenti o tipici di determinati ambienti sociali.
Non è possibile parlare di “moralità”come di un fenomeno oggettivo, come si può fare per il diritto.
Nel diritto il timore delle sanzioni e il convincimento di essere vincolati a ciò che è valido operano come
componenti psicologiche della medesima azione mentre, nella moralità o nella convenzione, i corrispondenti
motivi operano ciascuno nella propria sfera indipendentemente l’uno dall’altro. Il timore delle sanzioni, motivo
interessato, induce la persona a certi comportamenti per evitare la disapprovazione, mentre il motivo
disinteressato, induce a comportarsi in modo che egli stesso possa approvare la propria condotta.
Questa duplice motivazione si delinea in modo chiaro nella moralità ma meno chiaramente nelle convenzioni
perché le divergenze individuali sono qui meno importanti.
Il termine moralità è spesso usato in senso più ampio, ad esempio si tende a chiamare “morali” tutti quegli
impulsi disinteressati sentiti con l’impronta della validità. In tal senso la coscienza giuridica formale ha un
carattere morale e i fenomeni morali entrano a far parte integrante dei fenomeni giuridici.
La relazione giuridica fondata sull’uso della forza ha carattere di pubblica disapprovazione indica che il tipo di
condotta è socialmente indesiderata, essa è qualificata come ingiusta e il modo di agire contrario è “doveroso”.
Sarebbe necessario distinguere le sanzioni che rimproverano da quelle che non rimproverano, per capire la
responsabilità per colpa dalla responsabilità assoluta.
Il problema della relazione tra diritto e morale deve proporre di mostrare la relazione del sistema istituzionale
del diritto con gli atteggiamenti morali individuali prevalenti nella comunità giuridica. Diritto e morale devono
essere in armonia tra loro e stare in rapporto di reciproca cooperazione.
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Tra i due sistemi si rilevano alcune tipiche differenze, perciò una reale comparazione tra diritto e morale risulta
difficile.
Le norme giuridiche si fissano in concetti che producono certezza ed oggettività nell’amministrazione della
giustizia, ma gli atteggiamenti morali sono in risultato delle reazioni dell’individuo in situazioni concrete.
In questo processo si sono sviluppate certe massime, accettate come guide morali, non sentite come norme
vincolanti ma solo come generalizzazione dell’esperienza, soggette a modifiche quando è necessario: questo è il
vero principio del detto “ i principi sono fatti per essere violati”. Infatti la massima deve essere adattata alla
luce di molteplici circostanze che il senso morale non può e non vuole razionalizzare in norme fisse.
La tendenza al diritto a darsi una forma razionale può svilupparsi, dunque, solo a patto di venire perennemente
in conflitto con la tendenza morale, a questo punto possiamo dire che diritto e morale sono insolubilmente in
conflitto.
Dove il diritto attenua la sua oggettività e accetta compromessi parliamo di moralizzazione del diritto.
Morale e diritto differiscono largamente nei loro effetti sulla vita sociale: il diritto è un fenomeno sociale, è un
ordinamento per la creazione delle comunità e il mantenimento della pace, meteo la morale è un fenomeno
individuale che può unire o mettere in conflitto le persone.
La nostra interpretazione di diritto valido differisce notevolmente dalla teoria giuridica continentale,
caratterizzata come realismo giuridico contrapposto all’idealismo giuridico che parte dall’assunto per cui
esistono due mondi corrispondenti a due differenti metodi di conoscenza :
a) Mondo della realtà :comprende tutti i fenomeni fisici e psichici temporali e spaziali che noi
apprendiamo tramite l’esperienza dei sensi.
b) Mondo delle idee o della validità: idee normative valide che noi apprendiamo
immediatamente per mezzo della ragione e per tanto sono a priori.
L’idealismo giuridico ritiene che il diritto appartenga ad entrambi i mondi.
Che cosa sia la validità , è una questione che non contiene ulteriori descrizioni, è un concetto a priori, dato da
un’intuizione diretta ed irriducibile della ragione, essa è anche una pretesa che obbliga in assoluto l’azione e la
volizione umana; soltanto chi obbedisca ad una pretesa valida agisce giustamente e tale “giustezza” non
ammette ne spiegazioni che prove.
La differenza tra diritto e morale può essere così formulata: mentre la morale ha origine nella ragione pura, la
validità del diritto è legata ad un contenuto materiale e temporale, il diritto positivo con il suo contenuto è
determinato storicamente.
La morale pura è validità mentre il diritto è contemporaneamente fenomeno e validità. L’idealismo si manifesta
in due versioni principali una materiale e l’altra formale.
La versione materiale fa dell’idealismo sul serio, l’idea specifica che si manifesta nel diritto è l’idea di
giustizia, essa costituisce il diritto. In altre parole, è il principio inerente al diritto che investendolo con la sua
forza obbligatoria lo fa valere come diritto., ponendo così dei limiti a ciò che può essere riconosciuto come
diritto.
Un ordinamento esistente che non soddisfi un minimum di pretese derivanti dall’idea di giustizia non è
riconosciuto come diritto ed è bollato come mero regime di violenza.
La versione formale, che ha trovato espressione in Kelsen, rifiuta la critica etica che il diritto naturale fa sul
diritto positivo, essa riconosce come diritto qualsiasi ordinamento esistente nel mondo dei fatti, ma nonostante
ciò, ritiene che la conoscenza del diritto miri ad apprendere ciò che è valido.
Inoltre la validità di una norma non può discendere da un fatto naturale ma solo da una norma superiore, ad
esempio la validità di una legge si fonda sulla validità della costituzione; per spiegare la validità delle
costituzione è necessario postulare una norma ancora più alta che, secondo Kelsen, viene presupposta: la
norma fondamentale la cui sola funzione è di attribuire validità alla costituzione.
Pensare giuridicamente secondo Kelsen, è pensare in termini di “ciò che deve essere” e non di “ciò che è”.
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In questa versione dell’idealismo la validità è ridotta ad na categoria formale di pensiero, senza alcuna pretesa
riguardo al contenuto materiale, la norma fondamentale è conformata al modo di reggere l’ordinamento che è
di fatto vigente.
L’ispirazione di fondo del realismo giuridico è l’esigenza di concepire la conoscenza del diritto conformemente ai
risultati cui la moderna filisofia empiristica è pervenuta.
Parecchie tendenze filosofiche si trovano d’accordo nel rifiutare la metafisica, intesa come conoscenza
speculativa basata su un apprendimento a priori della ragione,
Partendo da tali presupposti, non si può ammettere una specifica validità, ne la forma di una idea di giustiza
materiale e a priori, ne la forma di una categoria formale.
Come tutte le altre scienza sociali, lo studio del diritto deve essere, in ultima analisi, lo studi dei fenomeni sociali
e della vita della comunità umana, e la jurisprudence deve porsi l’obiettivo di interpretare la validità del diritto
in termini di effettività sociale.
Nella jurisprdence americana il termine “realismo” è usato in senso diverso da quello
appena indicato e cioè per indicare un certo scetticismo verso i concetto e le norme
giuridiche e verso la funzione che esse esplicano nell’amministrazione della giustizia. Al
tempo stesso il realismo americano considera anche il diritto come un fenomeno sociale,
come detto sopra.
Queste sono le posizioni delle due grandi correnti della jurisprudence, l’idealismo metafisico e il realismo
scientifico.
L’autore è convinto che la metafisica giuridica scomparirà con il tempo come è scomparsa nel campo delle
scienze naturali, perché l’interessa alle costruzioni metafisiche si affievolisce con il progredire della scienza
vera e propria.
Una delle maggiori difficoltà dell’idealismo giuridico consiste nello spiegare come un atto di legislazione, che è
un fenomeno sociale, possa produrre qualcosa di più dei semplici effetti sociali, cioè valide obbligazioni di
natura aprioristica; se si fa dell’idealismo sul serio si arriva così ad una limitazione pregiudizievole del concetto
di diritto, infatti è un principio scientifico che un oggetto va definito in base alle sue qualità oggettive e non
secondo una qualsiasi valutazione.
L’idea di diritto , può essere al massimo un0idea regolativa politico giuridica, ma non un momento costitutivo
del concetto di diritto.
E poi si cerca di attenuare la pretesa dell’idealismo giuridico dicendo che il diritto positivo deve essere in ogni
caso un tentativo di realizzare la giustizia, si introduce l’elemento soggettivo dell’intenzionalità che è difficile da
spiegare…questo tentativo di giustizia può riuscire o fallire…ma il tentativo non riuscito è comunque diritto?? La
spiegazione sarebbe tanto arbitraria quanto dire che il gatto è il tentativo non riuscito di creare una cane!
Infine se si respinge qualsiasi valutazione etica, come fa Kelsen, accettando come diritto valido l’ordinamento
che esiste effettivamente, la specifica validità diventa una cosa superflua. Come dimostra Kelsen determinando
la natura del diritto positivo, finche rimaniamo sui gradini più bassi dell’ordinamento giuridico, si può posporre il
problema della validità della norma riferendo la norma inferiore a quella superiore, ma tale procedimento non
può più essere usato quando arriviamo all’ipotesi iniziale, che non può essere di certo scelta arbitrariamente,
secondo Kelsen deve essere scelta in modo da coprire i sistema effettivamente vigente e appare così chiaro che
l’effettività è il criterio del diritto positivo e che l’ipotesi iniziale ha la sola funzione di investirlo di quella validità
richiesta dall’interpretazione metafisica delle coscienza giuridica. L’ipotesi iniziale è la fonte ultima dalla quale
scaturisce la validità, ramificandosi nell’intero sistema.
Tutte le teorie realiste interpretano la validità del diritto in termini di effettività sociale della norma giuridica,
cioè una norma è valida perché il suo contenuto ideale normativo è attivo nella vita giuridica.
Sull’espressione “è attivo” si distinguono due teorie giuridiche:
2- Realismo psicologico: una norma è valida se accettata dalla coscienza giuridica popolare, il fatto che la
norma venga o meno applicata dalle corti è un fatto secondario. Secondo tale concezione dovremmo
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cercare se la regola è accettata dalla coscienza giuridica popolare, nonostante essa non sia legata alla
legge
3- Realismo behavioriristico: trova la realtà del diritto nelle azioni delle corti, perciò una norma è valida se
esistono fondati motivi per ritenere che essa sarà accettata dalle corti come base delle loro decisioni,
che tali norme siano accettate dalla coscienza giuridica popolare è secondario.
CAP II – LE FONTI DEL DIRITTO
Nel capitolo precedente siamo arrivati alla conclusione che l’asserzione “A=D è diritto valido” consiste nella
previsione che, a certe condizioni, D verrà preso come base per la decisione di future controversie giuridiche,
benché il suo grado di probabilità possa variare considerevolmente.
La prevedibilità è un problema perché, a differenza degli scacchi, un sistema giuridico non solo è costituito da
un gran numero di norme ma è anche soggetto ad un continuo processo evolutivo. Se, nonostante ciò, la
previsione è possibile, ciò accade perche il processo mentale con cui il giudice decide di fondare la decisione su
una determinata norma, è una processo determinato da atteggiamenti e da concetti.
Questa ideologia è l’oggetto della dottrina delle fonti del diritto, che costituisce il fondamento dal sistema
giuridico e consiste in direttive che indicano il modo secondo cui il giudice dovrà procedere per scoprire la
direttiva rilevante per la controversia. È chiaro che questa ideologia può essere rilevato solo dl comportamento
effettivo dei giudici; l’ideologia delle fonti del diritto è l’ideologia che di fatto guida le corti.
La dottrina delle fonti del diritto, come qualsiasi dottrina concernente il diritto valido, è descrittiva di norme, non
espressiva di norme: è una dottrina in merito alle norme, non di norme.
Il termine “fonti del diritto” è connesso all’idea che l’ideologia consista in direttive che impongono al giudice di
applicare norme create secondo certe modalità di procedure. Il diritto fluisce da certe specifiche procedure
nello stesso modo in cui l’acqua fluisce da una fonte; questa concezione è calzante per le norme legislative, che
sono create mediante procedura di legislazione ma non per fonti ausiliarie, il precedente, le consuetudini e la
ragione, perché non indicano procedure ausiliarie per la creazione del diritto.
Stando così le cose è difficile costruire un concetto di “fonti del diritto”che includa fattori tanto vari quali la
legislazione, le consuetudini, il precedente e la ragione. È necessario sottolineare che la designazione “fonti del
diritto” non implica una procedura per la produzione delle norme giuridiche.
Possiamo dire che per “fonti del diritto” s’intende l’insieme dei fattori che influiscono sulla formulazione della
norma che sta a fondamento delle decisione del giudice, con la precisazione che tale influenza può variare.
Poiché l’ideologia delle fonti del diritto varia da un sistema giuridico all’altro, la sua descrizione è compito della
scienza giuridica, cioè della dottrina delle fonti del diritto mediante lo studio analitico dei modi con cui le corti
procedono di fatto per trovare le norme su cui vengono basate le decisioni.
In questo libro il criterio adottato sarà il grado di oggettivazione dei vari tipi di fonte; per grado di oggettivazione
si intende il grado con cui le fonti offrono al giudice una norma già formulata. Lo schema di classificazione sarà il
seguente.
Fonti completamente oggettivate
Fonti parzialmente oggettivate: consuetudine e precedente
Fonti non oggettivate: “libere” e “ragione”
LEGISLAZIONE
La fonte giuridica più importante del diritto continentale è la statuizione da parte delle pubbliche autorità, cui il
giudice si sente fortemente vincolato, anche se, nella pratica, tutte le corti disapplicano talvolta le norme
legislative non conforma alla coscienza giuridica predominante.
Infatti nella mente dei giudici vi è un limite al conflitto tra coscienza giuridica istituzionale e coscienza giuridica
materiale, in particolare accade che le più antiche norme legali decadano perché non conformi a situazioni ed
opinioni mutare.
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Storicamente ci volle lungo tempo perché le aurotirtà produttrici di diritto legislativo ottenessero generale
riconoscimento; Allen ritiene che ancora nel XIV secolo in Inghilterra non era raro che i giudici rifiutassero
l’applicazione del diritto legislativo, Coke C.J difese addirittura il diritto dei giudici di diritto comune di dichiarare
nulli gli atti del Parlamento, solo dopo il 1688 fu riconosciuta la supremazia del Parlamento.
La legge è diritto statuito creata mediante una risoluzione presa da certe persone e presuppone norme di
competenza che indichino le condizioni alle quali essa può essere esercitata.
La teoria delle fonti del diritto deve limitarsi ad esporre certi tratti caratteristici del diritto legislativo.
Qualsiasi statuizione in virtù di una competenza è nota comunemente con il nome di legislazione, che
comprende non solo la Costituzione e gli atti del Parlamento, ma ogni altro tipo di statuizioni subordinate e
autonome, perciò decreti legislativi, regolamenti di enti locali ecc…
Ogni statuizione acquista autorità in base a norme di competenza che stabiliscono le condizioni secondo cui
avranno forza di legge, queste condizioni sono divise in due gruppi:
1. Condizioni formali di competenza – definiscono la procedura con cui la statuizione viene eseguita,
compresa l’identificazione delle persone autorizzate a mettere in atto la procedura legislativa.
2. Condizioni materiale di competenza - definiscono l’oggetto o il contenuto della norma che può essere
emanata nella procedura indicata.
Combinando questi due ordini di condizioni possiamo dire che la statuizione ha forza di legge se è fatta da
un’autorità secondo la dovuta procedura e nell’ambito della sua competenza materiale.
La competenza ad emanare norme non si limita ad una singola autorità ma ad un complesso sistema di
autorità, odirinato su vari piani.
A1 è un’autorità ed è costituita da un insieme di norme di competenza, dette C1, che sono poste da un’autorità
superiore che chiamiamo A2, oppure no. Se esse sono posta da A2, allora A2 è costituito da un’altro insieme di
norme, C2, che a loro volta possono essere state poste dall’autorità superiore, A3, oppure no …ma le serie di
autorità non è infinita, perciò ne deriva che in ultima istanza le più alte norme di competenza non possono
essere poste ma devono essere presupposte, come accade per A3, che nostro esempio è la autorità più alta.
Questo significa che per questa autorità non esiste una norma superiore che determini le condizioni della loro
valida emanazione e neppure della loro modifica, dunque, è giuridicamente impossibile pronunciarsi sul modo
in cui la superiore ideologia istitutiva (presupposta) può essere modificata. Possiamo dire che il fenomeno della
modificazione è meramente una fatto psicologico-sociale, fuori da ogni procedura giuridica.
Negli Stati Uniti la più alta autorità è il potere delle norme contenute nell’art 5 della Costituzione, qualsiasi
modificazione di questo articolo sarebbe dunque un fatto antigiuridico. Ogni uomo politico al potere potrebbe
obiettare che esso possa essere modificato ma solo in base ad una certa procedura prevista dall’art 5 stesso.
Proviamo ora a costatare questo ragionamento : se una certa autorità, A3, può essere istituita secondo norme
poste da essa stessa, significa che è possibile che una norme determini le condizioni della sua emanazione e
perciò anche della sua modificazione. Una riflessività di questo tipo è tuttavia logicamente impossibile perché
una proposizione non può riferirsi a se stessa.
Tuttavia si sarà d’accordo nel dire che non si può immaginare una potere legislativo istituito da una legge e
che una legge non possa dettare le condizioni per la propria modificazione; le norme con questo scopo devono
trovarsi ad un livello più alto di quello della legge..
A tale proposito, la Costituzione è incapace di stabilire le condizioni per la propria modificazione e l’art 5
logicamente non fa parte della Costituzione ma contiene norme presupposte su un piano più alto.
Infine, se l’art 5 della Costituzione viene di fatto modificato con una procedura conforme alle sue stesse
norme, non si può considerare il nuovo art 5 derivante da quello precedente..questo è più comprensibile
usando u esempio meno complicato: se un monarca assoluto concede la carta costituzionale, il suo significato
giuridico può essere interpretato in due modi.
La nuova costituzione può essere stata concessa ed essere valida in virtù del potere assoluto del monarca, che
continua così ad essere la suprema autorità e perciò il potere assoluto che ha concesso la carta costituzionale
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può revocarla in ogni momento, oppure, la nuova costituzione potrebbero essere stata concessa dal monarca
con l’intenzione che essa non possa essere revocata e dunque essa non è derivata dal suo potere assoluto.
Di conseguenza o la Costituzione è derivata dalla precedente e ol potere assoluto del re resta immutato o la
nuova costituzione ha sostituito la vecchia, da cui non può perciò essere derivata.
Per le norme dell’art 5 Cost il problema è analogo, infatti se qualsiasi modificazione costituzionale richiede la
ratificata di ¾ degli stati, e questa maggioranza decide che in futuro la maggioranza dovrà essere di 4/5, la
nuova norma di modificazione non può considerarsi derivata da quella precedente.
Inoltre, non si può negare il fatto psicologico-sociale che un nuovo art 5 sarà più facilmente emanato se
approvato in conformità delle norme dell’art 5.
Per riassumere: qualsiasi sistema di diritto statuito è basato sull’ipotesi iniziale, la quale istituisce la suprema
autorità, che non è stata creata da un’altra autorità. Qualsiasi modificazione del diritto statuito mediante una
procedura giuridica prestabilita, è possibile solo all’interno di un sistema la cui identità sia determinata
dall’ipotesi iniziale e, qualsiasi modificazione di quest’ultima è un fenomeno extra sistematico, una
modificazione di fatto.
IL PRECEDENTE
I precedenti hanno sempre avuto un peso importante nella decisione delle controversie sottoposte alle corti,
non solo perché tale sistema fa guadagnare tempo e libera il giudice da dubbi e responsabilità ma anche
perché è strettamente connesso,con l’idea della giustizia formale.
Si possono avanzare però fondate ragioni per rompere questa antica prassi, soprattutto sotto la spinta delle
mutate condizioni sociali.
La dottrina delle fonti del diritto ha per oggetto tutti quegli elementi che influenzano di fatto il comportamento
del giudice ed è quindi importante solo la funzione determinante che il precedente esercita effettivamente;
questa dottrina è stata oggetto di ampie variazioni nei diversi tempi e nelle diverse società.
In occasione delle grandi codificazioni il legislatore ha spesso proibito che si interpretasse il diritto nel tentativo
di mantenere inalterata la propria opera; già Giustiniano vietò il riferimento al precedente. In Danimarca, dopo
l’introduzione del codice danese, agli avvocati fu vietato di citare i precedenti davanti alla corte suprema,
questo fino al 1771. Queste drastiche proibizioni risultarono tuttavia inefficaci.
Opposta a queste concezioni è la dottrina anglo-sassone, infatti nel XIII secolo era loro abitudine citare i
precedenti nel celebre Note Book Bractone raccolse quasi 2000 casi giuridici. La dottrina giuridica andò
evolvendosi solo molto gradualmente, acquistando una forma più definita nel XVII e XVIII secolo.
La dottrina ora generalmente accettata, detta dello stare decisis, può riassumersi nei seguenti punti:
a) una corte è vincolata dalle decisioni delle corti e in Inghilterra la Camera dei Lords e la Corte
d’Appello sono vincolate dalle loro decisioni
b) ogni decisione rilevante di una corte qualsiasi costituisce una valido argomento che va preso in
attenta considerazione
c) una decisione è vincolante solo riguardo alla sua ratio decidendi
d) un precedente non cade mai in disuso, ma uno molto antico non sarà norma applicabile a
situazioni moderne.
Sta di fatto che i giudici anglo-sassoni, malgrado tale dottrina, tengono poco conto di precedenti che non siano
in armonia con le mutate condizioni. La miglior prova si desume dal fatto che il diritto comune oggi non è lo
stesso di cento anni fa ms ha subito numerose modificazioni. Ciò non è escluso dalla dottrina dello stare decisis,
a cui non interessa che i precedenti siano vincolanti o no ma se siano in grado di offrire criteri oggettivi tali da
operare un’effettiva restrizioni della libertà del giudice nel valutare la loro forza vincolante.. Quest’ultima ipotesi
va negata per due motivi:
Il precedente è considerato vincolante solo in merito alla ratio decidendi, che è il principio
generale del diritto che deve essere assunto come base della decisione ma le asserzioni fatte dal
giudice che ha deciso nel caso precedente non vincolano il giudice, si ritiene anzi che egli sia
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autorizzato ad interpretare una decisione alla luce della propria ragione. Per spiegare questo un
giudice americano ha fatto il seguente esempio:in padre convince la figlia a rompere la promessa di
matrimonio fatta a B e una sentenza stabilisce che il padre non è responsabile nei confronti di B, in
base a questa sentenza possiamo creare un’ampia gamma di proposizioni, ad esempio 1. padri
hanno il diritto a convincere le figlie a rompere la promessa di matrimonio 2. entrambi i genitori
hanno tale diritto 3. i genitori hanno questo diritto sia nei confronti dei figli maschi che delle
femmine ecc…Alcune du queste affermazioni possono andare molto al di là di quando si possa
immaginare ma ci dicono che il giudice ha una considerevole libertà nell’interpretare la ratio
decidendi.
Anche se il giudice non vuole contestare la ratio decidendi del precedente, egli può distinguere il
caso vecchio da quello nuovo, valutando quali circostanze può scartare dal precedente.
Detto questo possiamo affermare che la dottrina dello stare decisis non è che un illusione, è un’ideologia
sostenuta allo scopo di nascondere ai suo sostenitori e ad altri la libera funzione creatrice del giudice.
D’altra parte è certo che i giudici continentali sono grandemente influenzati dalle precedenti decisioni, ma è
difficile sapere cosa accada in realtà.
Un’ideologia corrispondente a quella anglo-americana non è prevalsa nel continente, forse a causa del maggior
peso che ha avuto qui la legislazione come fonte del diritto.
In queste circostanze si deve riconoscere, che non è possibile fare un raffronto diretto tra i due sistemi circa
l’importanza del precedente ma possiamo farlo in base all’ideologia proclamate, che non mostra però la realtà
delle cose.
Possiamo indicare molte circostanze di fatto che illustrano la divergenza tra i due sistemi e fanno capire perche
precedente e legislazione svolgono una diversa funzione nei due sistemi.
In primis l’importanza esercitata dall’avoluzione del diritto dei giuristi accademici e dalla legislazione
sistematica, questo è un punto di fondamentale diversità tra i due sistemi. Infatti nella tradizione continentale il
diritto è un prodotto accademico, che si sforza di pervenire a principi generali cui coordinare le norme
giuridiche….senza questa tradizione accademica giungere alle codificazioni sarebbe stato impensabile. In
Inghilterra invece il giurista fu un pratico, il giudice con la sua influenza caratterizzò lo sviluppo del diritto e solo
in tempi moderni si manifestò la tendenza a sistemare il materiale giuridico elaborato in tal modo. Oggi anche l’
Inghilterra ha avuto un incremento delle opere dottrinali, il passo successivo sarà la codificazione per mano
degli organi legislativi e così il reale divario tra il sistema continentale e quello anglo-americano scomparirà.
Possiamo comprendere la concezione del precedente come fonte vincolante abbia avuto successo in un sistema
di diritto evolutosi con la prassi delle corti e caratterizzato da una legislazione subordinata, al contrario, il
giudice continentale non sentendosi responsabile dello sviluppo del diritto, ha lasciato alla legislazione ogni
tentativo di riforma del diritto.
Inoltre anche il modo di redigere le motivazioni ha un certo peso… infatti quelle inglesi sono note per lampiezza
con cui vengono discusse se concezioni giuridiche su cui si fonda la sentenza mentre la prassi continentale
segue indirizzi diversi, in Danimarca, ad esempio,si tende a redigere la motivazione in termini il più possibile
concreti con la conseguenza che hanno scarso valore come precedenti.
Un ultimo fattore è costituito dalla quantità e dall’accessibilità dei precedenti.
LA CONSUETUDINE
Si sa che la vita di un popolo primitivo è regolata nel dettaglio dalle consuetudini, un tipo di comportamento
generalmente seguito e sentito come vincolante, per cui il comportamento contrario produce la
disapprovazione da parte del gruppo.
Anche nel popolo più primitivo possiamo talvolta trovare un condottiero o un gruppo di anziani che, in caso di
dubbio, decidono se le sanzioni debbano o no essere applicate; questo può essere considerato il primo nucleo di
“pubblica autorità”, e da questo si sviluppa gradualmente un potere giudiziario organizzato e stabile, con
speciali organo.
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In tal modo per gradi cominciano a differenziarsi diritto e consuetudine, cioè le norme rispettate in virtù
dell’esercizio organizzato della forza fisica e le norme rispettate in virtù di reazioni spontanee non violente.
Il potere giudiziario precede sempre quello legislativo, infatti all’inizio il giudice pronunciava la sentenza
secondo le tradizionali consuetudini, gradualmente, queste furono adattate e sviluppate per corrispondere alla
pressione di nuovi bisogni.
Possiamo affermare che la consuetudine è il naturale punto di partenza dell’evoluzione giuridica e dal punto di
vista dell’evoluzione storica, il problema, studiato dall’ideologia politica, è quello della nascita di un potere
legislativo, che noi accettiamo come dato di fatto.
All’inizio la legislazione era la codificazione di un diritto già vigente, solo lentamente divenne uno strumento
politico sociale per la regolamentazione della vita della comunità, ma è facile vedere che il potere del legislatore
era limitato, perché il diritto fu incapace di trascinare con se la coscienza giuridica e rimase lettera morta.
Solo man mano che il diritto divenne sempre più rigido per opera della legislazione e della prassi delle corti, la
consuetudine perse terreno, e nella realtà odierna, salvo per usi commerciali, ha importanza minima.
Se la consuetudine sia o no fonte giuridica ha sollevato e solleva un problema di grande importanza nella
filosofia del diritto. Sembra ovvio che non ogni consuetudine possa essere considerata fonte del diritto, ma solo
le consuetudini giuridiche, cioè quelle caratterizzate da uno speciale elemento di natura psicologica, detto
opinio necessitatis sive obbligationis, cioè un sentimento di essere vincolati o la convinzione che il un dato
comportamento sia obbligatorio.
Tuttavia, tale spiegazione non può essere ritenuta esatta., infatti anche la consuetudine che mi induce a
presentarmi in pubblico con abiti convenienti è sentita come vincolante e il comportamento contrario porta la
disapprovazione. Non si può neppure caratterizzare la consuetudine attribuendole come elemento distintivo la
convinzione che il comportamento da essa richiesto sia giuridicamente obbligatorio, infatti tale convinzione
deve nascere da un criterio oggettivo.
La spiegazione della consuetudine come fonte del diritto va cercata nell’evoluzione storica del diritto; all’inizio
tutte gli aspetti della vita relazionale della comunità erano regolati dalla consuetudine, ma l’avvento di un
ordinamento giuridico fondato sulla forza fisica operò una distinzione tra le diverse relazioni, di cui alcune
furono lasciate alla consuetudine e altre assoggettate alla regolamentazione del diritto. Possiamo dire che la
consuetudine giuridica è semplicemente una consuetudine in una sfera di rapporti che è assoggettata alla
regolamentazione giuridica. Questa teoria spiega perché il giudice prenda in considerazione le consuetudini.
L’opinio necessitatis è sorretta dall’attesa di una reazione sociale di biasimo contro colui che ha violato la
consuetudine, e, nei rapporti soggetti a regolamentazione giuridica tale aspettativa è diventata aspettativa di
sanzioni giuridiche.
Una sentenza norvegese tratta di un proprietario di una fattorie di Trysil che fece causa pretendendo che i
piccoli proprietari, come era consuetudine,avessero il diritto di raccogliere la legna secca da qualsiasi terreno;
l’esistenza di questa consuetudine non fu riconosciuta, se invece fosse stata riconosciuta sarebbe stata una
consuetudine giuridica.
Al contrario la consuetudine di usare la toga nelle cerimonie universitarie non è consuetudine giuridica perché la
materia dell’abbigliamento non è normalmente regolata dal diritto, eccetto che nel caso delle uniformi.
In un sistema giuridico evoluto è chiaro che le consuetudini siano considerate fonti giuridiche, si può essere
incerti sul fatto che essa esista realmente o se il modello di comportamento non sia altro che un’abitudine o una
convenzione senza carattere normativo. Ma la distinzione tra uso comune(convenzione) e consuetudine bob è
sempre facile, come ad esempio decidere se uno sconto abituale sia solo per facilitazioni o per consuetudine.
Nei sistemi primitivi non può farsi una distinzione rigida tra consuetudine giuridiche e non perché la
differenziazione dei rapporti non è ancora completa. È compito del giudice decidere quali convenzioni devono
diventare diritto e quali no, come ne caso del diritto internazionale, in cui molte consuetudini diplomatiche e
concernenti il cerimoniale tra stati, sono di questo tipo.
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Nello stato moderno una consuetudine giuridica è indice di norme giuridiche, che a volte non sono rispettate e
vengono sostituite dalla norme consuetudinaria.
Il motivo per cui il giudice da rilievo alla consuetudine è costituito dall’elemento psicologico, cioè il sentimento
di obbligatorietà con cui la consuetudine è seguita, un sentimento tanto forte da prevalere in un certo gruppo di
persone, non importa per quanto tempo.
Quando si attenua l’esigenza del comportamento esteriore e del fattore tempo, il giudice varrà influenzato dal
mutamento della coscienza giuridica nella comunità.
In un campo particolare appare inadeguata che la consuetudine deve essere osservara per lungo tempo, infatti,
le consuetudini commerciali non sono molto antiche, ma sono obbligatorie nell’interpretazione dei contratti.
Allen, per il diritto inglese, ha formulato le condizioni per cui la consuetudine deve:
1. essere immemorabile, cioè esistere almeno dal 1189 2. essere osservata continuamente 3. essere esercitata
pacificamente 4. essere sorretta dall’opinio necessitatis 5. essere certa 6. essere ragionevole
Se si accerta che sussistono tali condizioni, esiste allora il dover del giudice di dichiarare la consuetudine diritto
valido.
LA TRADIZIONE CULTURALE (RAGIONE)
Abbiamo visto come il diritto emerga dalle consuetudini consolidandosi gradualmente con la prassi delle corti e
la legislazione,il diritto creato in questo modo è detto diritto positivo. Tale positività è più spiccata nel diritto
scritto ma anche ne diritto giudiziario, pur mancando di una formulazione verbale autoritativa.
Chiariamo che il diritto manato non è un fiat arbitrario del legislatore, ma il potere di quest’ultimo è un potere
sopra le menti degli uomini, vi è però un limite tre il leale rispetto della legge, le consuetudini di un popolo e la
tradizione culturale che le regge.
In ogni popolo esiste una comune tradizione di cultura, che da forma ad ogni manifestazione della vita di un
popolo, ai suoi costumi ed alle sue istituzioni giuridiche…è difficile descrivere la natura e l’essenza di questa
tradizione, possiamo dire che, rivestito della forma del mito, della religione, della poesia, della filosofia e
dell’arte, vive uno spirito che esprime una filosofia di vita, che è un’intima combinazioni di valutazioni e una
cosmologia descrittiva. Ma sarebbe erroneo ritenere che la tradizione culturale sia composta in parte da
atteggiamenti valutativi e in parte da concezioni della realtà.
Infatti il mito è una credenza relativa alla creazione del mondo e della natura, mentre religione, poesia, arte e
filosofia, con forme diverse, hanno gli stessi oggetti….Il concetto di credenza ha questa dualità. Una credenza è
un convincimento teorico la cui principale funzione è di esprimere una filosofia di vita.
La tradizione culturale non è immutabile e il fattore che ne determina lo sviluppo può essere ravvisato in una
coscienza che lentamente sorge dall’esperienza; questa da un lato condizione i mutamenti della tecnica in ogni
fase della vita e dall’altro stimola la revisione critica dei miti fondamentali.
È necessario richiamare l’attenzione su fatti elementari descritti negli studi di filosofia giuridica per chiarire
quanto sia irrealistico quel tipo di positivismo giuridico che limita il diritto in modo da comprendere solo le
norme che sono state poste in modo positivo. Le norme positive possono essere paragonate a cristalli che
stanno immersi in una soluzione satura e che si dissolverebbero se venissero messi in un liquido diverso, o
quelle piante che muoio se vengono tolte dal terreno nativo che la ha nutrite, lo stesso vale per le norme
giuridiche che non possono essere comprese isolandole dal mileu culturale che le ha generate.
Il giudice nell’adempimento della sua professione è influenzato dalla tradizione culturale, perché egli non è solo
un fenomeno biologico ma anche culturale. La tradizione culturale assume massimo luogo perché il giudice
interpreta il diritto nel proprio spirito, e la tradizione opera così come diretta fonte di diritto, ispirando il giudice
nel formulare la norma per la decisione.
Può accadere anche che il giudice non trovi tra le fonti la norma su cui basare la decisone e in tal caso può
sempre decidere a favore del convenuto considerando che “non esiste nessuna norma giuridica” a sostegno
della pretesa dell’attore. Ma potrebbe darsi che nel coso concreto una decisone a favore del convenuto appaia
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insoddisfacente al giudice, che non si sente di respingere la domanda dell’attore pronunciano che non esiste
norma in favore della sua pretesa.
L’assenza di una norma è sentita come una deficienza del diritto che deve essere colmata dal giudice;
sottopostogli il caso concreto, egli darà una decisone tale da sentirla giusta e cercherà di giustificarla
sottolineando gli spetti rilevanti del caso.
Quando in questo modo il giudice spiana la via ad un nuovo diritto può lasciarsi guidare dal suo senso di
giustizia, oppure cercare di razionalizzare le proprie reazioni analizzando le considerazioni pratiche; ma anche in
quest’ultimo caso la decisione emergerà da presupposti inerenti alla tradizione giuridica e culturale.
Quel che noi chiamiamo “ragione” o “considerazioni pratiche” è la fusione di una concezione della realtà con un
atteggiamento valutativo.
Il positivismo deve quindi essere respinto perché misconosce l’importanza di una determinata situazione
culturale nell’applicazione del diritto, al pari dobbiamo respingere l’atteggiamento antipositivistico che
interpreta la base non positiva delle norme positive in termini metafisici, come fondate su una coscienza
razionale a priori.
Possiamo dire che il termine positivismo è ambiguo, esso può significare sia “ciò che si fonda sull’esperienza”
sia “ciò cheè formalmente stabilito”. Una dottrina realistica delle fonti del diritto si fonda sull’esperienza ma
riconosce che non tutto il diritto è positivo nel senso di essere “formalmente stabilito”.
Si ritiene che una legge emanata secondo un procedura e correttamente promulgata sia diritto valido,
indipendente dalla sua applicazione da parte delle corti, al contrario, di rado si considera diritto valido quanto
deriva dalla “ragione”, ad essa serve il riconoscimento nella prassi delle corti. In merito alla consuetudine, la
dottrina corrente ritiene che, se esistono i requisiti per il suo riconoscimento, essa è in se diritto valido mentre
altri ritengono necessario una dichiarazione delle autorità o un riconoscimento delle corti perché possa essere
ritenuta diritto. Riguardo al precedente, come detto prima la questione non si pone nel continente, ma nel
diritto anglo-americano si ritiene che esso sia in se diritto valido.
Ma in che misura il diritto è già creato nella fonte stessa e in qual misura è il giudice a crearlo ex novo?
Considerare la legge in se come diritto significa che noi possiamo, con un grado di probabilità che sfiora la
certezza, prevedere che essa sarà applicata dal giudice, mentre, le norme derivanti dalla “ragione”, non sono
considerate immediatamente come diritto, perché possiamo solo fare congetture sulle reazione delle corti. Per
la consuetudine invece, esiste un ampio margine di libertà per il giudice di accettarla o respingerla.
Noi qui abbiamo fatto confronti basandoci su differenze di grado ma può accadere che anche una legge non
venga poi applicata dal giudice.
Gray nega che la legge sia, in quanto tale, diritto, ma secondo lui è un tentativo di creare diritto, e non
sappiamo il risultato di tale tentativo fin quando non vedremo se le corti accetteranno la legge e come la
interpreteranno. Egli ritiene dunque che il diritto consista solo nelle norme applicate dai tribunali e che tutto il
diritto sia creato dal giudice. Ciò implica che Gray veda il precedente come fonte che crea il diritto.
Tale concezione è illogica. L’autore non è d’accordo con la concezione di Gray, ma il suo pensiero è conforme a
quello di Jerome Frank, secondo cui dal ragionamento di Gray deriverebbe che nessuna norma sarà riconosciuta
come diritto se non applicata dalle corti e allora nessuna norma potrà essere, in quanto tale, diritto. Infine
afferma che il diritto non consiste in norme ,ma in un insieme di specifiche decisioni giuridiche.
Fornire una descrizione dettagliata delle fonti del diritto e della loro importanza in un sistema giuridico
specifico, è oggetto della jurisprudence che elabori una teoria generale delle fonti del diritto.
Tale descrizione è particolarmente interessante in riferimento alla fonte legislativa, infatti tutti i sistemi moderni
contengono norme sulle modalità procedurali per il diritto scritto, la promulgazione, l’entrata in vigore delle
leggi ecc
Sarà invece difficile tracciare in maniera analoga una dottrina delle fonti per il diritto non scritto; infatti il
tentativo di stabilire condizioni oggettive per l’influenza delle consuetudini, dei precedenti, e della ragione non
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sono altro che razionalizzazioni ideologiche per difendere la finzione che il giudice si limita ad applicare il diritto
oggettivamente esistente.
Mentre le legislazione è predominante nel diritto continentale, il diritto anglo americano continua a fondarsi
principalmente sul precedente, nel diritto primitivo la consuetudine era la fonte principale e lo è ancora oggi nel
diritto internazionale, nonostante si manifesti una crescente stabilizzazione del diritto; infine, la ragione, si
manifesta soprattutto dopo una rivoluzione, sino a che i vincitori non abbiano riformulato il diritto scritto
secondo lo spirito rivoluzionario. Dopo la rivoluzione bolscevica la filosofia di Marx e la coscienza rivoluzionaria
della classe operaia, ebbero funzione di fonte suprema del diritto, come l’ideologia del Fuhrer e il Main Kampf
dopo la rivoluzione nazista.
Una dottrina realistica delle fonti del diritto deve essere un’ideologia che effettivamente ispira le corti nella
ricerca delle norme su cui fondare le proprie decisioni. Secondo la concezione corrente la dottrina delle fonti del
diritto è normativa, non descrittiva, e mira prescrivere come i giudice deve comportarsi e non come si comporta
effettivamente.
Ma a quale sorta di dovere si riferisce questa dottrina?
Il dovere non può essere certo inteso come dovere morale, e neppure come dovere giuridico del giudice, perché
se così fosse il dovere dovrebbe fondarsi su una norma giuridica derivante da una fonte del diritto e quindi per
stabilire cosa sia fonte del diritto si dovrebbe presupporre la loro conoscenza entrando così in un circolo vizioso.
Questo difetto appare chiaro costruendolo sull’interpretazione dell’art 1 del c.c svizzero e sull’art 38 dello
Statuto delle Corte internazionale di giustizia. Tutto questo vale per il diritto scritto.
Lo stesso vale in linea di principio quando la dottrina delle fonti viene elaborata dalla cosiddetta “ragione”, ma
tali raccomandazioni non sono essenziali per descrivere il diritto vigente se le corti effettivamente non si
comportano in conformità.
Secondo i presupposti della filosofia idealistica del diritto si ritiene che il diritto possegga in se stesso una forza
vincolante o validità immanente e mataempirica, per cui il dovere del giudice è solo un’altra espressione del
concetto che il diritto in se, indipendentemente dalla sanzione fisica, possiede forza vincolante.
Se si accetta questa linea di pensiero non si hanno più fonti giuridiche indipendenti.
La dottrina tradizionale comprende soprattutto speculazioni di questo tipo:quale sia il fondamento della forza
vincolante, quali conclusioni si possono trarre circa la forza delle varie fonti e così via…tutto ciò è pura inutile
speculazione.
Si possono ricordare alcune teorie correnti:
a) Sul continente si è avuto un predominio della dottrina positivistica, ed il diritto statuito è la
suprema fonte di diritto.
b) Secondo la teoria giusnaturalista la fonte della validità del diritto è l’idea di diritto o l’idea di
giustizia, concepita come principio a priori. Il diritto emanato possiede forza vincolante in
misura in cui è realizzazione dell’idea di diritto.
c) La scuola giuridica romantica o storica ravvisa la forza vincolante del diritto non nel volere di
una sovrano ma nelle coscienza giuridica popolare. La consuetudine diventa così quasi
specchio dello spirito popolare e dunque suprema fonte del diritto.
CAP IV – IL METODO GIUDIZIALE (INTERPRETAZIONE)
Nel capitolo II abbiamo visto e spiegato la proposizione A=D è diritto valido, ma la dottrina giuridica non si limita
a proposizioni di questo tipo, essa contiene anche proposizioni che concernono l’interpretazione di D, cioè delle
norme ritenute diritto valido.
Tali giudizi interpretativi possono determinare il significato delle direttive indicando le circostanze in cui devono
applicarsi e come il giudice dovrà comportarsi. Ad esempio l’art 67 della costituzione danese dice che tutti i
cittadini hanno libertà di religione, la parola “cittadini” deve essere interpretata come comprensiva di tutti
coloro che hanno nazionalità danese, che nazionalità diversa.
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Si pone in problema se questi giudizi interpretativi sono considerati asserzioni circa ciò che è “valida
interpretazione”, come accadeva per le asserzioni di “diritto valido”; se così dovrebbero essere intesi come
previsioni che l’interpretazione dato sarà come quella delle corti.
Una previsione di questo tipo può fondarsi sui precedenti e se esso non fornisce alcuna indicazione studiando la
prassi si possono mettere il luce principi che guidano le corti quando applicano le norme generali ai casi
specifici.
Diciamo subito che non si può formulare un’ideologia del metodo con la stessa precisione con cui si formula
un’ideologia delle fonti, non si possono tracciare regole fisse, il massimo che si può ottenere è uno stile di
interpretazione o stile del metodo. Non c’è dubbio che il giurista di lascia guidare dallo stile che è di fatto valido
nelle corti, perciò: quanto più la sua interpretazione politica è conforme allo spirito che regge il metodo delle
corti, tanto maggiore è la probabilità che le corti si lasceranno influenzare da questi suggerimenti.
Nell’interpretazione nel diritto risulta chiaro che la conoscenza del diritto non può essere separata dalla politica
del diritto.
Una dottrina del metodo deve essere una dottrina che concerne il modo in cui di fatto le corti si comportano
quando applicano il diritto valido a situazioni concrete; la dottrina del metodo deve essere descrittiva e non
normativa.
Infine lo studio del metodo può dividersi in una parte dottrinale ed in una teoria generale.
Il compito della teoria generale consiste solo nel: 1. illustrare certi presupposti di fatto dei problemi di metodo
2. nell’inquadrare e caratterizzare i vari stili di metodo e di interpretazione che si riscontrano nella pratica.
I problemi di metodo assumono un aspetto diverso a seconda che si sia in un sistema in cui il precedente è la
fonte principale, come nel diritto inglese, o in un sistema, la cui fonte principale è la legislazione, come nel
continente.
Nel primo sistema il problema del metodo sta nel trarre una norma generale dai precedenti e applicarla
nel caso sottoposto. La situazione risulta complessa perché la norma generale può cambiare da caso a caso.
Spesso all’inizio di una serie di precedenti si troverà presupposta una norma generale di contenuto
indefinito, il compito del giudice è di decidere se il caso sottoposto differisca dal precedente in misura tale
da giustificare una decisione diversa. Il metodo in questo sistema è il “ragionamento per esempi”.
Nel secondo sistema il metodo riveste carattere di interpretazione di un testo proveniente da
un’autorità, la tecnica richiesta da questo metodo tende a scoprire il significato della legge e stabilire se
certi fatti cadono o no sotto essa.
Ogni interpretazione del diritto statuito parte da un testo e le linee e i punti che ne costituiscono l’aspetto fisico
possono influenzare il giudice, poiché hanno funzione simbolica.
Molte cose hanno funzione simbolica per certi gruppi di persone, come le insegne usate da un ufficiale ne
indicano il grado, e un distintivo all’occhiello indica l’appartenenza ad una certa associazione; ma è
fondamentale distinguere tra segni e simboli. Il fatto che il terreno è bagnato è segno che ha piovuto, il pianto di
un bimbo è segno che gli è accaduto qualcosa…..la differenza consiste ne fatto che il segno è “naturale”,
mentre il simbolo è “artificiale”, un prodotto creato dall’uomo ed è convenzionale.
Fra tutti i sistemi di simboli il linguaggio è il più evoluto, può manifestarsi sia in forma scritta che parlata, il
significato attribuitogli è chiaramente convenzionale, infatti nulla impediva di chiamare gatto l’animale che fa
“bau bau” e cane quello che fa “miao miao”. Il significato dei simboli linguistici è determinato dagli usi che della
comunità che parla quel linguaggio.
Gli usi linguistici possono rivelarsi solo attraverso lo studio del modo in cui si esprime la gente.
Quando parliamo di enunciato intendiamo la più piccola unità linguistica portatrice di un significato in sé
completo “Guarda, c’è un gatto” è un enunciato.
La comunicazione tra uomini ha per mezzo tali unità perché le parole singole non hanno un significato
indipendente ma solo un significato astratto dagli enunciati in cui esse ricorrono.
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Cosa significa la parola “tavola” in italiano?
A questa domanda possiamo rispondere solo studiando un gran numero di enunciati in cui essa è contenuta,
questa è la procedura adottata per la compilazione di un dizionario.
Il riferimento semantico della parola presenta una densa zona centrale in cui la sua applicazione è prevalente è
certa, e una zona in cui l’applicazione è meno usuale..ad esempio io non dubito di poter chiamare tavole un
mobile davanti cui mi siedo per scrivere. Una tavola operatoria può essere chiamata “tavola” o serve
necessariamente l’uso di una parola composta per descriverla?! Cercando cosa si intenda realmente con la
parola tavola non troveremo nulla.
Queste osservazioni sulla parola tavola valgono per tutte le parole del linguaggio comune, il loro significato è
vago e il loro campo di riferimento indefinito.
La maggior parte delle parole non ha un unico campo di riferimento, ciascuno è formato da una zona centrale
circondata da una fascia di incertezza, tali parole sono dette “ambigue”, come la parola “nail” che può voler
dire sia ago che unghia.
Riassumendo:
1. il possibile significato di una parola è vago e il campo di applicazione indefinito 2. La maggior parte
delle parole è ambigua 3. il significato della parola è determinata con maggior precisione se
considerata parte integrante di un enunciato definito 4. il significato di un enunciato è determinata con
maggior precisione se considerato nella connessione in cui è formulato.
Da 3) e 4) traiamo la conclusione ch il significato di una parola è in funzione della connessione.
L’interpretazione mediante connessione opera con tutti i fatti, ipotesi ed esperienze che possono far luce su ciò
che la persona voglia comunicare, è lo studio delle circostanze che offrono qualche indizio. Poi, poste la
circostanza, bisogna stabilire cosa possa essere ritenuto come contesto e come situazione.
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