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Abbonamenti versamento sul conto corrente bancario: Banca Intesa IBAN: IT37 G030 6901 4950 5963 0260 158 intestato a SATURA ASSOCIAZIONE CULTURALE ANNUALE EURO 30,00 SOSTENITORE EURO 50,00 Anno 3 n° 11 terzo trimestre Autorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008 In copertina Luigi Grande - L'uomo e il cane, 2010 SATURA è un trimestrale di Arte Letteratura e Spettacolo edito dall'Associazione Culturale Satura Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l'autorizzazione scritta della Direzione e dell'Editore Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile per la redazione per la pubblicazione vanno inviati a: SATURA associazione culturale, piazza Stella 5/1 16123 Genova Le opinioni degli Autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quella della direzione della rivista Tutti materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti SaTuRa Trimestrale di arte letteratura e spettacolo Redazione Giorgio Bárberi Squarotti, Milena Buzzoni, Manuela Capelli, Giuseppe Conte, Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone Redazione milanese Simona De Giorgio via Farneti,3 20129 Milano tel.: 02 74 23 10 30 e-mail: [email protected] Direttore responsabile Gianfranco De Ferrari Segreteria di Redazione Valentina Isola Collaboratori di Redazione Silvia Barbero, Agnese Campodonico, Barbara Cella, Maura Fidenti, Maura Ghiselli, Federica Giudici, Valentina Isola, Flavia Motolese, Sara Odorizzi, Simone Pazzano, Elena Putti, Susanna Rossini, Serena Vanzaghi Editore SATURA associazione culturale Amministrazione e Redazione SATURA piazza Stella 5, 16123 Genova tel.: 0102468284 cellulare: 338-2916243 e-mail: [email protected] sito web: www.satura.it Progetto grafico Elena Menichini Stampa Sorriso Francescano Via Riboli 20, 16145 Genova
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Anno 3 n° 11terzo trimestreAutorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008

In copertina Luigi Grande - L'uomo e il cane, 2010

SATURA è un trimestrale di ArteLetteratura e Spettacolo editodall'Associazione Culturale SaturaProprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, ancheparziale, di testi pubblicati senzal'autorizzazione scritta della Direzionee dell'Editore

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Progetto graficoElena Menichini

StampaSorriso Francescano

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sommario

03 IL GIOVANE LEOPARDI DALLE SUE PRIME LETTEREDavide Puccini

09 UNA POESIALasciare queste stanze Giuseppe Rosato

10 LA VOLPONAGuido Zavanone

15 UNA POESIAElegia dell’osteria del ferro sette Bruno Bonfanti

16 IL LAURO E LA ROSAFlora PetrarchescaRosa Elisa Giangoia

28 UNA POESIAQuel momentoFernando Bizzarri

29 LA RONDE È UN GIOCOGiuliana Rovetta

35 DUE POESIELa montagnaFelice NataleMaria Luisa Gravina

37 THÉ A CEYLONMilena Buzzoni

48 LÀ IN ALTO SULLA MONTAGNAOmaggio a Jean FerratPhilippe Popiéla

55 COSTANTINO NIGRAUn Piemontese alla corte di FranciaSimonetta Ronco

58 UNA POESIASoufle d’amo Soffio d’animaSergio Arneodo

60 PROSPEZIONIPer ricordare Margherita FaustiniDi Liliana Porro AndriuoliUna seconda possibilitàdi Rosa Elisa GiangoiaUna donna nell’ombradi Rosa Elisa GiangoiaUna scrittrice si presentadi Rosa Elisa GiangoiaIl dramma di Cainodi Giuliana RovettaGioielli maschili in mostradi Simonetta Ronco

65 INTERVISTA LUIGI GRANDEFranco Lecca

74 FUMETTOTHE MELODY AT NIGHT, WITH YOUSualzo, “L’improvvisatore”Manuela Capelli

80 CULTURA E DINTORNISiamo senza finanziamenti? I soldi sono finiti!Fiorangela Di Matteo

82 TEATROAppuntamento a teatroSilvana Zanovello

85 L’ANGOLO DI FRINOElia Frino

87 DUE POESIEL’acqua e la pietraMa dove?Mario Pepe

89 VETRINA FULVIO BIANCATELLIMiriam CristaldiCIRA D’0RTASara OdorizziMARCO DE BARBIERISara OdorizziSILVIO MAIANOSilvio MaianoEVA REGUZZONIElena PuttiGUIDO ROSATOFranco Boggero

101 RUBRICAGenovaValentina Isola ChiusaSilvia BarberoMilanoSerena VanzaghiPaviaSilvia BarberoWhistableSusanna Rossini

109 FESTIVALE DELLALETTERATURA DEL CRIMINEMario Napoli

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IL GIOVANE LEOPARDI DALLE SUE PRIME LETTERE

di Davide Puccini

La prima lettera che ci sia pervenuta, indirizzata al padre Monaldo, ri-sale al 16 ottobre 1807 ed è scritta integralmente in latino, data compresa: «Re-cineti postridie idus Octobris millesimo octingentesimo septimo»1. Occasioneè l’arrivo del precettore, don Sebastiano Sanchini (che rimarrà in casa Leopar-di fino al 20 luglio 1812, occupandosi dell’educazione di Giacomo, di Carlo eanche di Paolina), salutato con entusiasmo: «Dilectissime Pater. / Quatuor suntdies ex quo iterum summa nostra laetitia studia incepimus, quae utinam jux-ta tui, ac Praeceptoris desiderium evenirent» (‘Carissimo Padre. / Sono quat-tro giorni che ho ripreso con grande gioia gli studi, che voglia il cielo riesca-no secondo i desideri tuoi e del Precettore’). Era allora più comune di oggi cheun fanciullo di buona famiglia all’età di nove anni padroneggiasse già il lati-no, e dunque non sarà il caso di chiamare in causa il precoce genio leopardia-no, ma certo è molto leopardiana l’affermazione che segue: «In haec incumbe-re toto animo volo, et erit gratius mihi studium, quam ludus» (‘Voglio fare ognisforzo a questo scopo con tutta la mia volontà, e mi sarà più gradito lo stu-dio del gioco’). Perciò suona tanto più sorprendente l’avversativa che compa-re subito dopo: «Tamen cupio etiam interdum animum relaxare, et tu cogita-re debes mihi indulgere» (‘Tuttavia desidero anche di tanto in tanto rilassarelo spirito, e tu avrai certo intenzione di essere indulgente con me’). È perfinocommovente questa timida difesa del proprio diritto alla spensieratezza, e ilfatto stesso che fosse necessaria ci dice quanto in realtà quel diritto fosse in-sidiato. Così la successiva dichiarazione d’amore filiale risulta quasi una resaa discrezione: «Hoc spero, quia scio quantum me amas, et vellem posse respon-dere, sicut debeo, benevolentiae, quam mihi demonstras» (‘Lo spero, perché soquanto mi vuoi bene, e vorrei poter ricambiare come è mio dovere la benevo-lenza che mi dimostri’).

Di quasi un anno e mezzo posteriore è la seconda lettera, alla madre Ade-laide Antici, databile 26 marzo 1809 (non ne possediamo più l’autografo, manon c’è ragione di dubitare della sua autenticità): «Carissima signora Madre, /Già ben prevedo, che una critica inevitabile mi sia preparata. Questa compo-sizione, mi par di sentire, è troppo breve, ed in qualche luogo lo stile è basso.Io non so che rispondere a questa critica, ma mi contento di pregarla a consi-derare la scarsezza del mio ingegno e a credermi. / Di lei carissima signora ma-

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3I L G I O V A N E L E O P A R D I D A L L E S U E P R I M E L E T T E R E

1 Tutte le citazioni sono tratte da G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati

Boringhieri, 1998, 2 voll. Facciamo riferimento alle pagine del testo o delle note, che si trovano alla fine

del secondo volume con numerazione continuata. La prima lettera si può leggere a p. 3.

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dre / Dev.mo, Um.mo, Obbl.mo Servo / Giacomo Leopardi» (p. 4). La compo-sizione in oggetto, L’entrata di Gesù in Gerosolima, è identificabile con la «Pro-sa alla mia Genitrice composta a sua richiesta nel giorno della Domenica de-gli Ulivi 1809» ricordata nell’Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardidall’anno 1809 in poi, che si può leggere in ogni edizione integrale delle ope-re leopardiane2, al n° 32. Non c’è bisogno di giudicarla3 per vedere se merita omeno le critiche paventate: quel che conta è che ancora una volta il piccolo Gia-como è costretto sulla difensiva, si sente impari rispetto al compito che gli vie-ne assegnato e finisce per invocare come unica attenuante – figuriamoci! – «lascarsezza del suo ingegno». Possiamo soltanto immaginare il carico psicolo-gico a cui è sottoposto da parte dei genitori, almeno in questo coalizzati con-tro di lui.

Con la terza lettera, che può essere datata con sicurezza 6 gennaio 1810,si cambia completamente registro: «Carissima Signora / Giacché mi trovo inviaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra Con-versazione, ma la Neve mi ha rotto le Tappe e non mi posso trattenere. Ho pen-sato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro Portone, epoi tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagattelle per cotesti fi-gliuoli, accioché siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro,quest’altro Anno gli porterò un po’ di Merda. Veramente io voleva destinare aognuno il suo regalo, per esempio a chi un corno, a chi un altro, ma ho temu-to di mostrare parzialità, e che quello il quale avesse li corni curti invidiasseli corni lunghi. Ho pensato dunque di rimettere le cose alla ventura, e faretecosì. Dentro l’anessa cartina trovarete tanti biglietti con altrettanti Numeri. Met-tete tutti questi biglietti dentro un Orinale, e mischiateli bene bene con le vo-stre mani. Poi ognuno pigli il suo biglietto, e veda il suo numero. Poi con l’anes-sa chiave aprite il Baulle. Prima di tutto ci trovarete certa cosetta da godere incomune e credo che cotesti Signori la gradiranno perche [sic] sono un brancodi ghiotti. Poi ci trovarete tutti li corni segnati col rispettivo numero. Ognunopigli il suo, e vada in pace. Chi non è contento del Corno che gli tocca, facciaa baratto con li Corni delli Compagni. Se avvanza qualche corno lo riprende-rò al mio ritorno. Un altr’Anno poi si vedrà di far meglio. / Voi poi Signora Ca-

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2 Si veda per es. G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni con la collaborazione

di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, vol. I, pp. 996-98; Id., Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di L. Fe-

lici e E. Trevi, Roma, Newton & Compton, 1997, vol. I, pp. 1036-38. 3 La riportiamo per comodità del lettore: «Apritevi, o Cieli, e voi venite, o Angeli beati, a contemplare il Re

della gloria assiso su vil giumento entrare in Gerosolima. Mirate come d’intorno ad esso si affollano esul-

tanti gli Ebrei, e sulla via stendono le vestimenta, ed innalzano verdi rami di olivo. Udite i gridi di allegrez-

za, e le voci, che il giubilo del loro cuore dimostrano. Evviva, evviva il figliuol di Davidde, benedetto sia

quello che viene in nome del dio d’Israello. Ma oimè, sento che voi mesti mi rispondete, noi non possia-

mo mirarlo senza rammentarci che fra pochi giorni, dentro le mura di questa stessa città, noi lo vedremo

sospeso ad una croce, palpitare, agonizzare, spirare. Che questi medesimi, i quali ora lieti ed esultanti l’ac-

colgono, saranno i suoi crocifissori. Questa è l’amara rimembranza che intorbida tutta l’allegrezza di que-

sta trionfante entrata. Ben voi dite, Angeli santi, ben è ragionevole la vostra risposta. Oh Dio, oh Dio quan-

to sei per patire affin di redimerci!» (pp. 2121-22).

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rissima avvertite in tutto quest’Anno di trattare bene cotesti Signori, non solocol Caffe che già si intende, ma ancora con Pasticci, Crostate, Cialde, Cialdo-ni, ed altri regali, e non siate stitica, e non vi fate pregare, perche [sic] chi vuo-le la conversazione deve allargare la mano, e se darete un Pasticcio per serasarete meglio lodata, e la vostra conversazione si chiamerà la Conversazionedel Pasticcio. Frattanto state allegri, e andate tutti dove io vi mando, e resta-teci finche [sic] non torno ghiotti, indiscreti, somari scrocconi dal primo finoall’ultimo. / La Befana» (pp. 4-5). È indirizzata alla marchesa Volumnia Rober-ti (alla quale, d’accordo con il padre, rivolgeva le lettere che non dovevano es-sere lette dalla madre), e la firma «La Befana» è sufficiente a chiarire il carat-tere dello scherzo, destinato a ragazzi suoi coetanei o ancor più piccoli di lui;tuttavia è ugualmente sorprendente e in un certo senso rassicurante scoprireun Leopardi che fa il verso a Mozart nell’uso della scatologia, che si lascia an-dare per un momento al normale istinto di adolescente, nonostante il peso delgenio che deve sopportare, che finalmente smette di sorvegliarsi e di scusar-si. D’altra parte si noti il travestimento linguistico antiquato della lettera, scher-zoso anch’esso, certo, ma che implica una cultura e un dominio del registroespressivo inaudito per un adolescente: per limitarci ai casi più evidenti, Con-versazione per ‘compagnia’ o ‘comunità di persone che vivono insieme o si fre-quentano’, l’uscita in -a del futuro trovarete ripetuto tre volte, arcaica e spe-cificamente senese o anche settentrionale e soprattutto veneziana4, le incertez-ze di raddoppiamento anessa (due volte), Baulle, avvanza, troppe e troppo in-consuete per essere casuali. Leopardi sta già tentando di mescolare a terminidell’uso quotidiano termini letterari, nel significato o nella forma, come poi faràcon ben altri esiti espressivi nella poetica del vago e dell’indefinito che carat-terizza gli idilli, accostando il comune caro al desueto ermo e i poetici augel-li alla pedestre gallina.

Ma, dopo la breve eccezione, si torna subito alla regola, e la vigilia di Na-tale dello stesso 1810 è costretto a giustificarsi con il padre di fargli gli augu-ri «colle mani vuote», cioè senza accompagnarli con una qualche produzioneletteraria, secondo l’uso che era invalso in casa Leopardi per le festività, an-che se della feconda produzione giovanile del poeta è sufficiente testimonian-za l’Indice ricordato, dove troviamo ben sei volumi di Componimenti poeticinel 1809, Carmina varia latini e Componimenti berneschi nel 1810, e molto al-tro ancora in prosa e in versi nei metri più disparati: «Il ritrovarmi quest’an-no colle mani vuote non m’impedisce di venire a testificarle la mia gratitudi-ne augurandogli ogni bene dal Cielo nelle prossime festive ricorrenze. Certoche ella saprà compatirmi per la mia sventura lo faccio colla stessa animosi-tà, colla quale solea farlo negli anni trascorsi. Crescendo la età crebbe anchel’audacia, ma non crebbe il tempo dell’applicazione. Ardii intraprendere ope-re più vaste, ma il breve spazio, che mi è dato di occupare nello studio fece,

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5I L G I O V A N E L E O P A R D I D A L L E S U E P R I M E L E T T E R E

4 Cfr. G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1966-1969, §§

587-88.

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che laddove altra volta compiva i miei libercoli nella estensione di un mese, oraper condurli a termine ho d’uopo di anni. Quindi è che malgrado le mie spe-ranze, e ad onta del mio desiderio, non mi fu possibile di terminare veruno diquelli, che mi ritrovo avere cominciati […]. I vantaggi da lei proccuratimi in ognigenere, ma specialmente in riguardo a quella occupazione, che forma l’ogget-to del mio trastullo mi ha riempito l’animo di una giusta gratitudine, che nonposso non affrettarmi a testimoniarle» (pp. 6-7). Naturalmente l’occupazionecongeniale è quella dello studio e della scrittura, e qui vediamo un Leopardidodicenne in piena crisi di crescita, che tenta «opere più vaste» senza riusci-re a finirle: ancora sulla difensiva, certo, ma già con un barlume di coscienzadel proprio valore.

Così il Natale successivo, prese meglio le misure del tempo a disposizio-ne, rimedia prontamente con una tragedia, per di più scrivendo al padre in fran-cese il 24 dicembre 1811: «Tres-cher Pere, / Encouragé par vôtre exemple jeai entrepis d’ecrire una Tragedie. Elle est cette, que je vous present. Je ne ai pasmoin profité des vôtres œuvres que de vôtre exemple. En effet il paroît dansla premiere des vôtres Tragedies un Monarque des Indies occidentelles, et unMonarque des Indies orientelles paroî dans la mienne. Un Prince Roïal este leprincipal acteur du second entre les vôtres Tragedies, et un Prince Roïal sou-tient de le même la partie plus interessant de la mienne. Une Trahison est par-ticulierement l’objet de la trosieme, et elle est pareillement le but de ma Tra-gedie. Si je sois bien, ou mal reussi en ce genre de poesie, ceci est cet, que vousdevez juger. Contraire, ou favorable che soit le jugement je serais toujours /Vôtre / Tres-humble Fils / Jacques» (p. 8). La tragedia è La virtù indiana, com-posta nel 1811 da un Leopadi tredicenne prendendo spunto, come lui stessoci dice, dalle tre tragedie del padre, Il Montezuma (1799), Il Convertito (1800)e Il Traditore (1803), e puntualmente ricordata nell’Indice 1809 al n° 39. Nel-l’opera cercheremmo invano verità e forza drammatica, ma non manca sciol-tezza ed efficacia di versificazione, e qua e là affiorano molte reminiscenze clas-siche perfettamente digerite e rielaborate. Si noti per esempio il sapiente chia-smo «si serbi / al trono il rege, il genitore al figlio» (vv. 434-35) o la sonora al-litterazione «Quanto costi al mio cuor cura nemica!» (v. 653), e d’altra parte l’emi-stichio tassesco «Amico, hai vinto» (v. 135), che riprende per virtù d’orecchiole parole di Clorinda morente (Ger. lib. XII 66 1), o il recupero virgiliano «altrasalute / non resta a noi, che il non sperarne alcuna» (vv. 444-45), che traducequasi alla lettera lo scultoreo «Una salus victis nullam sperare salutem» di Aen.II 354.

La lettera successiva, del 28 gennaio 1812, quindi soltanto di un mesecirca posteriore alla precedente, è indirizzata alla sorella Paolina, designata peròcon il soprannome di Don Paolo: così la chiamavano spesso Giacomo e i fra-telli perché portava i capelli corti e indossava una veste scura simile a un abi-to talare, tanto che nei cosiddetti giochi dell’altarino era delegata a celebrarela messa. Vale la pena di leggerla per intero: «Ricevo in questo momento il pli-co che voi m’inviate accompagnato da una obbligantissima lettera. Essa è bendegna per la sua brevità di esser commendata da’ Lacedemoni, e dagli altri po-

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poli della Grecia, i quali dovendo rispondere in lettera ad alcuna inchiesta noniscrivevano talvolta, che la semplice parola “nò”. Il piacere che voi mi avete fat-to col torre a copiare il mio picciol Compendio di Logica non vi sembrerà for-se si grande quanto lo è in realtà. Un buon copista è assai raro, ed io non re-puto lieve vantaggio l’averne ritrovato uno che sia conforme al mio desiderio.Il restauratore dell’Italiana Poesia Francesco Petrarca lamentavasi che avendoegli in poche settimane condotto a fine il suo libro latino “De Fortuna etc.” nonpotea dopo più anni averne copia, che pienamente il soddisfacesse poiché dimille errori eran ripiene tutte quelle, che egli aveva avute da’ varj Copisti. Seio fossi vissuto al tempo di Petrarca, e l’avessi udito lamentarsi meco in tal modoavrei facilmente appacificate ed acquietate le sue querele coll’insinuargli di dar-vi a copiar la sua opera, e son certo, che malgrado la sua delicatezza in que-sta materia egli ne sarebbe rimasto soddisfatto. Né crediate che il mestier delCopista sia da disprezzarsi. Teodosio uno de’ più grandi Imperatori d’Orien-te s’impiegava ancor egli nel copiare gli altrui scritti, e non vivea che del de-naro ricavato da questa non ignobil fatica. Voi potrete dirmi, che Teodosio nonoperava in tal modo perché di se degno riputasse un tal genere di lavoro, masolamente per un effetto della sua profonda umiltà, e virtù Cristiana, ma io perconvincervi di quanto hò preso a dimostrarvi vi apporterò un altro esempio.Non ci dipartiam dal Petrarca. Egli avendo intrapreso di fare un viaggio, nonben mi rammento per qual fine, e ritrovata cammin facendo un [sic] opera diCicerone, di cui non avea per anche contezza, non istimò cosa vile il copiarloda capo a fondo. Ma è omai tempo di finirla poiché mi avvedo che avendo fat-to l’elogio dello stile laconico stò per cadere nei difetti dello stile Asiatico. Sono/ affmo per servirvi di cuore / Giacomo Leopardi» (pp. 8-9). Da una parte il no-mignolo scherzoso e la sorridente e garbata ironia per la brevità della letteradella sorella, che alla fine diventa autoironia per la lunghezza della propria, cirimandano al legame affettuoso con i fratelli che riscaldò sempre il cuore diGiacomo; ma dall’altra la complessità stilistica e l’ampiezza dei riferimenti cul-turali, sia pure dilatata forse proprio per sforzare il tono in senso lievementeironico, oltre al fatto stesso di impiegare Paolina come copista, ci dicono cheil poeta quattordicenne sta ormai uscendo dall’adolescenza, anche se il Com-pendio di Logica a cui si accenna è probabilmente nient’altro che un esercizioscolastico5.

Ce lo confermano definitivamente, dopo un salto di tre anni (e dunqueil Leopardi ha 17 anni), le lettere seguenti del 15 aprile e del 15 luglio 1815 al-l’abate Francesco Cancellieri, il quale nella sua Dissertazione intorno agli uo-mini dotati di gran memoria ed a quelli divenuti smemorati, con un’Appendi-

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5 Lo scritto, non conservato, è quasi certamente da identificarsi con il n° 26 dell’Indice 1809, dove compa-

re il titolo Logicae Omnium brevissima complexio: estratta da quella di Del Giudice. L’opera di riferimen-

to è Logicae et ontologiae eclecticae elementa ad usum studiosae juventutis autore patre Odoardo Del Giu-

dice ordine minorum de observantia in episcopali perusino S. Basilii Collegio philosophiae professore, Pe-

rusiae, ex Typographia Constatiniana, s.d. [non prima del 1791]; editio altera emendata, illustrata, aucta,

Perusiae, ex Typographia Baduelliana, s.d.

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ce delle Biblioteche degli scrittori sopra gli eruditi precoci, la memoria artifi-ciale, l’arte di trascegliere e di notare, ed il giuoco degli scacchi (Roma, Bour-lié, 1815) aveva menzionato alle pp. 87-90, esprimendo vivo apprezzamento,alcuni scritti di Giacomo, in particolare il Porphirii de vita Plotini et ordine Li-brorum eius Commentarius Gr. lat. ex versione Marsilii Ficini emendata cumnotis amplissimis et praevia commentatione e il De vitis et scriptis rhetorumquorundam qui secundo post Christum saeculo vel primo declinante vixerunt,facendo riferimento anche al lavoro in corso sui Fragmenta PP. secundi saecu-li et veterum auctorum de illis testimonia collecta et illustrata gr. lat. Il giova-ne erudito ringrazia un po’ ampollosamente per la lusinghiera citazione: «Digratissima sorpresa mi fu il ricevere la desiderata opera, ma […] nel ravvisar-vi dentro il mio nome, io fui confuso, e sopraffatto di riconoscenza. Un uomoaffatto sconosciuto, e che non può attendere una miglior sorte, vedendosi ono-revolmente rammemorato in una egregia opera, non può non concepire sen-timenti di gratitudine verso il benevolo autore. Egli ha diritto di sperare, cheil suo nome giunga alla posterità con quello dell’insigne Scrittore, che ne hafatta menzione. Noi non conosceremmo Achille, se Omero non ne avesse par-lato, la immortalità del poeta garantisce quella dell’Eroe. Io mi veggo così as-sicurato di vivere alla posterità nei suoi scritti, come i grandi uomini vivononei proprj. Ma io nomino Achille, e dovrei piuttosto rammentare Tersite. Nonaltro infatti che il luogo di questo infimo Greco, mi conviene nella sua opera,in cui infiniti esempj di prodigiosa dottrina, ricercati con ammirabile diligen-za, e verificati con esattezza geometrica s’incontrano ad ogni tratto» (pp. 11-12). Ma le lodi non assopiscono il senso critico del Leopardi; infatti i tre scrit-ti ricordati (del 1814 i primi due e del 1814-15 il terzo) compaiono nell’elen-co di opere steso il 16 novembre 1816 ai ni 18-20 sotto la rubrica «da brucia-re senz’altro»6.

A questo punto il nostro discorso può considerarsi concluso: la prodi-giosa erudizione del giovane Leopardi ha preso il sopravvento e i corrispon-denti delle lettere successive saranno l’editore Antonio Fortunato Stella, l’illu-stre filologo Angelo Mai, non ancora cardinale ma già bibliotecario all’Ambro-siana di Milano, e poi Pietro Giordani, che come è noto contribuì in modo de-terminante alla presa di coscienza del proprio valore da parte di un isolato stu-dioso di provincia che compiva i primi passi nel mondo della cultura. Ma que-sto è, appunto, un altro discorso; come è un altro discorso che un prometten-te filologo, dopo una «conversione letteraria» dal vero al bello, sia diventatouno dei più grandi poeti che l’umanità abbia conosciuto.

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6 Cfr. Tutte le opere, cit., vol. I, p. 1000; Tutte le poesie e tutte le prose, cit. vol. I, p. 1039.

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UNA POESIA

di Giuseppe Rosato

Lasciare queste stanze sarà comelasciare le tue braccia, dall’abbracciouscire d’una vita ch’era parsanon dovessero gli anni mai toccare,immune, come se per sempre immunedalla morte, alla morte inaccessibile.Lasciare queste stanze sia la solagrazia residua, se dal mare un ventovenga già fatte polvere a raccoglierlele dispolpate braccia, che così,così, aria nell’aria,alle tue mi riportino.

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LA VOLPONA

di Guido Zavanone

Riassunto delle puntate precedenti (1)

Maria, detta la Volpona, è un’anziana, ricca e scaltra vedova che vive nel culto

del denaro. Ha una piccola corte o “squadra” come lei la chiama: una lontana

parente, Laura, che le tiene compagnia per vari periodi dell’anno, due dome-

stiche, Elisabetta ed Eufemia, un’infermiera e un’insegnante cinese di yoga,

molto assidue. Le cinque donne prestano i loro servigi quasi gratuitamente, es-

sendo state designate da Maria quali eredi in un testamento che la Volpona ha

mostrato loro ad arte, minacciando poi continuamente di modificarne o revo-

carne le disposizioni. Vivono così sotto ricatto, ma a sua volta Maria è succuba

di una sorta di santona, Gianna, che le assicura, sotto la sua guida, una posi-

zione di privilegio anche nell’aldilà.

La Volpona è tutta tesa ad accrescere il proprio patrimonio e, con ingegnosi

quanto spregiudicati artifici, riesce ad acquistare, a prezzo quasi irrisorio, un

grande appartamento di proprietà della Parrocchia, per poi destinarlo a Casa

di riposo per anziani, che gestisce senza scrupoli.

Maria ha un solo cruccio: è stata recentemente aggredita e derubata in casa ad

opera d’ignoti, che sospetta siano stati agevolati da qualcuna delle persone che

la circondano.

La Casa per anziani viene visitata da Gianna, che prodiga utili consigli per la

nuova iniziativa di Maria: in particolare le suggerisce di adornare la piccola

cappella, interna alla Casa, con un grande quadro, di proprietà di Maria, raf-

figurante la Madonna di Medjugorie.

(1) apparse sui numeri 5, 7, 9 e 10 di questa rivista.

“Nessun maggior piacere che confrontare la propria ricchezza con l’al-trui miseria.” Così diceva, tra sé e sé. Maria parafrasando, a suo modo, il som-mo poeta. Che gusto –pensava- essere ricchi se lo sono anche gli altri?

Proprio in quei giorni non mancavano notizie che sembravano fatte ap-posta per sollevare il suo spirito nella sfera della più convinta autostima: fa-miglie che non arrivavano alla fine del mese con lo stipendio o la pensione emagari contraevano debiti destinati a rimanere insoluti; giovani alla dispera-ta (o rassegnata) ricerca d’un lavoro; precari che non avrebbero mai potuto pro-

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grammare un futuro: tutto questo non le procurava alcun senso di sofferen-za o di disagio, tanto meno di colpa. Piuttosto la serena soddisfazione di es-sere meritatamente al di sopra di tante umane miserie.

Alla televisione vedeva scorrere di continuo, sulla grande scena del mon-do, immagini terrificanti di terremoti, inondazioni, epidemie, carestie e altrepiaghe bibliche; questo non la turbava affatto. Era la terra – pensava – che siscrollava di dosso i troppi pesi di cui la gravava un’insensata prolificazione.

Don Carlo, che la conosceva molto bene (a sue spese), soleva dire che nonconosceva persona più forte di Maria nell’altrui sventura.

E, tuttavia, nella sua impermeabilità ai sentimenti si poteva scorgere consorpresa una falla ed era la devozione incondizionata, quasi canina, per l’ami-ca Gianna e la preoccupazione sincera per le sue precarie condizioni di salu-te, che le impedivano persino di venirle a far visita.

Per la verità una qualche forma contenuta di simpatia Maria provava an-che per altre persone, tutte contrassegnate dal requisito indispensabile d’es-serle utili senza pretese di corrispettivo.

Davanti a tutti veniva il compianto marito, che aveva accumulato in unavita una piccola fortuna per lasciarla poi interamente a lei; ed ora s’acconten-tava di un semplice ricordo in occasione delle Feste natalizie e della Comme-morazione dei defunti.

Tra loro, di vita intima ve n’era stata ben poca; ma quale profonda con-sonanza nel dedicare ogni pensiero, ogni palpito del cuore al denaro! Ecco, quan-do riandava col pensiero alla vita di sacrifici affrontata insieme e alla comu-ne gioia al lievitare del gruzzolo, non riusciva a trattenere la commozione.

Tra i vivi, una certa benevolenza nutriva per il figlioccio Carlo, “il miobancario” lo chiamava, che si era trasferito da Roma appositamente per starevicino a lei e, pur continuando la sua attività in Banca, curava gratuitamentel’amministrazione della Casa di riposo San Pio. Aveva certo le sue mire, pen-sava Maria, ma non le mostrava, e questo le piaceva.

Un piccolo posto nel suo cuore, lo occupava anche la vicina di casa Eu-genia che, quando alla domenica le due domestiche facevano vacanza, anzi bal-doria, per usare l’espressione di Maria, le portava un bel piatto fumante di la-sagne e un dolce, fatto in casa con le sue mani.

Tutte le altre persone che la circondavano erano invece delle mercena-rie, a cominciare proprio dalle domestiche che da quando lavoravano anche nel-la Casa San Pio avevano rivelato tutta la loro inaffidabilità pretendendo di es-sere messe in regola con i contributi previdenziali.

Certo, nel giorno successivo alla visita di Gianna, la gratitudine di Ma-ria era tutta rivolta all’amica, la quale, nonostante i suoi malanni e i suoi pro-blemi famigliari, era venuta a “visionare” la Casa San Pio e a prodigarle utili con-sigli, tra cui quello, prezioso, di collocare, nella disadorna cappella dedicata alSanto, il quadro raffigurante la Madonna di Medjugorie.

D’improvviso, un pensiero curioso le attraversò la mente: come potevaGianna sapere di quel quadro e descriverlo così bene se le sue visite – a partequella del giorno precedente – risalivano sicuramente a prima dell’acquisto del

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dipinto? E, ieri, Gianna non era entrata nella camera matrimoniale dove il qua-dro recuperato era appeso.

L’interrogativo divenne presto angoscioso, e Maria sollevò la cornettadel telefono e chiamò l’amica. La quale, dinanzi alle argomentate perplessitàespresse da Maria, rispose con calma: “Ma io sono sicura di aver visto il qua-dro, se no come avrei fatto a descriverlo?”

“Ma è proprio questo – replicò Maria - Dove puoi averlo visto? In casa miacertamente no.”

“Forse presso chi te l’ha venduto” azzardò Gianna.“Ma come potevi sapere che ora il quadro è mio” incalzò con voce tur-

bata Maria.Gianna comprese che le sue difese vacillavano e tentò una sortita dispe-

rata, un colpo d’ala della sua fervida fantasia: “Bene, vuoi proprio saperlo? Ioquel quadro l’ho sognato, in ogni particolare. A un dato momento la Madon-na è uscita dalla cornice e si è chinata su di te che dormivi, sorridendo.”

Gianna contava sul grande ascendente religioso esercitato sull’amica, maquesta volta il gioco non funzionò. Maria era, sì, suggestionabile, ma non erauna stupida e, in fondo all’animo, non era neppure credente; ora stava reagen-do anche al cocktail di religioni propinatole da Gianna. Si sentiva presa in giroe, recuperate le sue facoltà critiche addormentate dalla santona, esclamò conforza: “Esigo una spiegazione seria. Ti aspetto qui domani da me. Ti pagheròil taxi” aggiunse sferzante.

“Verrò” assicurò Gianna, che non scordava di essere la principale bene-ficiaria delle disposizioni testamentarie della sua ricca amica.

E Gianna venne, dimenticando i suoi asseriti acciacchi. Era consapevo-le di giocarsi tutto in una partita per lei difficile.

“Non credi più ai sogni” cominciò Gianna con tono di affettuoso rimprove-ro. Ma vide l’ira dipingersi sul volto di Maria e con prontezza s’aggrappò a un’ul-tima scialuppa: “Ora ricordo: me ne hai parlato tu, del quadro.” Ma non aveva fat-to i conti con la ferrea memoria di Maria: “Con te non ho mai parlato di quadri” –disse lei perentoriamente. E, a questo punto, volle assestarle il colpo definitivo: “Nonnegare, so che sei coinvolta nel furto dei miei quadri”. Così dicendo la guardavafisso negli occhi, adottando in tutto e per tutto il metodo “inquisitorio” insegna-tole proprio da Gianna: convincere il sospettato di conoscere ormai la verità.

E Gianna crollò perché aveva visto infrangersi tutte le sue difese; e ma-ledì la sbadataggine del giorno prima. Ma, nel capitolare, ricorse all’arma fem-minile per eccellenza, debole tuttavia se usata nei confronti d’altro soggettofemminile e di Maria in particolare. Scoppiò in lacrime e, tra l’uno e l’altro sin-ghiozzo, rese, secondo la terminologia giudiziaria, ampia confessione. Comin-ciò parlando dei suoi figliuoli, Gerardo ed Anselmuccio, bravi ragazzi ma tan-to sfortunati, che non trovavano lavoro ed erano caduti nelle mani d’ignobiliindividui che li avevano trascinati nel giro della droga e non solo. Gianna sa-peva bene che il suo cuore materno non avrebbe trovato alcuna rispondenzain quello di Maria, del tutto insensibile alle problematiche genitoriali, ma de-siderava allontanare il più possibile da sé le responsabilità dell’accaduto.

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Dunque – spiegò Gianna – erano stati i suoi sventurati figli ad introdur-si nell’appartamento, essendosi impossessati, di nascosto, delle chiavi che Ma-ria le aveva affidato per ogni malaugurata evenienza: “Li ho visti arrivare – rac-contò – nottetempo, carichi di quadri in cui mi parve di ravvisare alcuni cheavevo ammirato anni prima nella sala di casa tua. Ordinai loro di riportarli su-bito dove li avevano presi, ma essi risposero che ciò sarebbe equivalso a con-segnarsi alla Giustizia. Il mattino dopo vennero alcuni individui che si porta-rono via i quadri che io avevo intanto potuto osservare attentamente ad unoad uno. Ho taciuto con te, un po’ pensando alle conseguenze giudiziarie per imiei figli, un po’ anche alle possibili rappresaglie da parte di quei loschi figu-ri. Ma soprattutto non volevo mettere in gioco la nostra amicizia, che mi è piùcara d’ogni altra cosa al mondo.”

Maria ascoltava e taceva. E poi, cosa davvero imprevedibile, si mise a pian-gere essa pure. Perché, davanti a lei, si dissolveva, all’improvviso, un mito, unmondo crollava in cui aveva creduto ed era, addirittura, il mondo dell’aldilà dove,secondo le fantasiose affermazioni di Gianna, le attendeva un posto privilegia-to perché loro due erano avanti a tutti lungo gl’itinerari dello spirito. Come cre-dere ancora all’amica se questa aveva saputo mentire così bene quando lei cer-cava affannosamente gli autori dell’efferata aggressione e i quadri sottrattile?Ricordava che Gianna aveva persino gettato sospetti sulle persone a lei vicine,ed era giunta a suggerirle il modo per smascherarle.

D’improvviso sentì un grande vuoto intorno a sé, ora che l’unica amica,su cui tanto fidava, le aveva mostrato il suo volto menzognero. Persino le ric-chezze accumulate le apparivano prive di senso, destinate ad essere preda dipersone avide e malfide.

E le sopravvenne anche il pensiero, l’incubo della morte, non più traghet-tatrice verso un mondo migliore, ma quella che l’avrebbe separata da quantoera stato fino allora lo scopo della sua vita, il vitello d’oro cui aveva tutto sa-crificato.

Queste riflessioni le affollavano la mente dolorosamente; a tal punto chenon s’accorse neppure che Gianna, nel frattempo, era uscita silenziosamente,salutando appena con un gesto della mano.

Gianna era ancora piangente quando sulle scale incontrò la domesticaEufemia. La quale, dinanzi a spettacolo così inusitato, non poté trattenersi: “Èmorto Budda?” chiese con divertito sarcasmo.

Ma proprio questa battuta volgare ebbe l’effetto di aiutare Gianna a usci-re dalla sua prostrazione.

“Fatti gli affari tuoi, puttana” le rispose, mentre scompariva nel traffi-co della città.

Tutto il pomeriggio, Maria fu in preda allo scoramento. E la notte ebbegl’incubi.

Sognava di distribuire i suoi beni tra i poveri e di rimanere povera e men-dica in mezzo a loro.

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“No” – si disse al risveglio – “I poveri la loro povertà se la meritano, nonrispettano il denaro. San Francesco non sapeva quel che faceva e, oltretutto,non donava del suo, ma dello sventurato padre”.

Così, ripresi saldamente in mano i suoi beni, Maria poté ritrovare se stessa.Più tardi si recò, com’era solita fare, nell’amata Casa di riposo. All’in-

gresso c’era sempre, rassicurante e benedicente, la statua di San Pio. Intravi-de anche, passando dinanzi alla cappella dedicata al Santo, il quadro della Ma-donna di Medjugorie, causa involontaria dei suoi dispiaceri. Nello studio am-ministrativo c’era Carlo che, al suo passaggio, alzò la testa salutando la ma-drina con deferenza. Sfoggiava sempre la sgargiante cravatta che aveva susci-tato, chissà perché, i sospetti di Maria e che era ormai completamente scagio-nata. Adesso era contenta di avergliela regalata.

Le venne incontro l’infermiera Elena, premurosa e sorridente. Teneva inmano una cartella clinica, sventolandola a mo’ di saluto. La mostrò quindi aMaria. Riguardava uno degli ospiti più anziani, di cui il gerontologo che pre-stava la sua opera presso la Casa di cura aveva annotato l’improvviso aggra-varsi delle condizioni di salute. Il medico – raccontò Elena per meglio rappre-sentare la situazione - dopo la visita aveva scosso la testa e aveva levato gli oc-chi verso l’alto come altro non restasse che affidare il malato al buon Dio. “Pre-sto si libererà un posto per la persona raccomandata dal Vescovo” argomen-tò con serena professionalità l’infermiera.

“Bene” – disse Maria – stropicciandosi le mani.E in quel momento le fu chiaro che la Casa per anziani era e restava la

sua vera ragione di vita. Si sentì confortata e, per rasserenare viepiù l’animo,sollevò la cornetta del telefono e chiamò la Segreteria del Vescovo.

(continua)

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UNA POESIA

di Bruno Bonfanti

ELEGIA DELL’OSTERIA DEL FERRO SETTE

Qui, in alto, sulla Costa degli Orecchi,tra goffi resti dell’incendio estivo,il simposio notturno si è disperso.Con risa un po’ artefatte e abbracci monchisi è spento, ormai, l’afoso cicaleccio.Mute per la distanza, all’orizzonte,le gocciole di fuochi artificialimuoiono nella pece opaca e densache la luna trafigge col suo raggio.La intermittente sistole del faroaccarezza la fitta ragnateladi lumi che imprigionano la notte.Del brulichio che trepida nel buiocercano un senso la vecchiaia e il vino.Ma la festa è finita ed è calatosulle quinte di scene consueteil sipario che limita il proscenio.Mentre rumino sillogi avventatepoggia Saturno, il vecchio, la sua manosulla mia spalla ed è lieve ed è greve,il suo sguardo accorato è piombo e fumo.Ha con sé il sestante e l’astrolabio,la cabala ed i numeri segretie la cieca Signora che dispensaalla Rosa dei Venti semi e spore.Forse è concluso il giro del compassoma non, certo, è l’addio quello che avverto.

(Pulsante è il ribollio del non finito)

Poesia premiata il 5 ottobre 2010 al Concorso “Milano Duomo”

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IL LAURO E LA ROSA

Flora petrarchesca

di Rosa Elisa Giangoia

Da un esame del Canzoniere del Petrarca emergono tre linee d’interes-se per quanto riguarda la presenza di fiori e piante. Infatti, se da un lato Pe-trarca continua la tradizione trobadorico-stilnovistica dei riferimenti alle rose,ai gigli e alle viole, dall’altro innova in quanto introduce l’idea della bellezzagratificante degli alberi da frutto (pruni, meli, peri, ecc.) fioriti in primavera suprati punteggiati da fiori colorati, infine, elemento di assoluta novità e di gran-de rilievo è la comparsa del lauro come señhal.

Fondamentali sono in Petrarca gli elementi floreali nella caratterizzazio-ne del ritratto della donna amata1, in quanto nella sua poesia avviene il pas-saggio dall’uso della rosa per indicare genericamente la bellezza femminile al-l’utilizzo di questo fiore per svariati fini significativi, oltre a vero e proprio ele-mento del ritratto, in particolare per indicare le labbra. La canonizzazione sipuò ritrovare nel sonetto CXXXI (Io canterei d’amor sì novamente):

et le rose vermiglie infra la nevemover da l’ora et discovrir l’avorio2

(vv. 9-10). Qui il poeta con rose vermiglie indica le labbra di Laura, con neve il can-

dore delle guance e con avorio i denti della donna amata, secondo una catenadi accostamenti disomogenei tra elementi del mondo vegetale, naturale e ani-male. Anche nel sonetto Quel sempre acerbo et onorato giorno (CLVII) le rosevermiglie indicano le labbra di Laura, ancora una volta in accostamento diso-mogeneo con perle per indicare i denti:

perle et rose vermiglie, ove l’accoltodolor formava ardenti voci et belle(vv. 12-13).Nel sonetto Onde tolse Amor l’oro, e di qual vena (CCXX) con l’espres-

sione e ‘n quali spine / colse le rose (vv. 2-3) il poeta usa le rose per indicareil meraviglioso incarnato delle gote di Laura. Quest’immagine deriva dal Can-

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1 Molte indicazioni su questo tema si trovano in G. Pozzi, La rosa in mano al professore, Edizioni Univer-

sitarie, Friburgo S., 1974; Il ritratto della donna nella poesia d’inizio Cinquecento e la pittura di Giorgio-

ne e Nota additiva alla “descriptio puellae, in Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi, Milano 1993, pp. 145

– 171 e 174 – 184 e in D. De Robertis, Le violette sul seno della fanciulla, in Forme e vicende. Per Giovan-

ni Pozzi, a cura di O. Besomi (et al.), Antenore, Padova 1988, pp. 75 – 99.2 Tutte le citazioni del testo del Canzoniere del Petrarca sono dall’edizione a cura di Sabrina Stroppa (Ei-

naudi, Torino 2005).

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tico dei Cantici (sicut lilium inter spinas sic amica mea inter filias 2,2), con so-stituzione della rosa al giglio, come nel sonetto O d’ardente vertute ornata etcalda (CXLVI) in cui le rose sparse in dolce falda / di viva neve (vv. 5-6) sonole guance colorite nel pallore del volto. Ma le rose servono anche per indicareil bel colore rosato della mano di Laura nel sonetto O bella man, che mi ristrin-gi ‘l core (CXCIX), in cui il poeta dice:

Candido leggiadretto et caro guanto,che copria netto avorio e fresche rose,chi vide al mondo mai sì dolci spoglie?(vv. 9-11)ancora con accostamento disomogeneo tra un elemento vegetale (rose)

ed uno animale (avorio) per evidenziare il contrasto cromatico della leggiadramano femminile. Ancora le rose servono al poeta nel sonetto Non pur quell’unabella ignuda mano (CC) ad indicare il profumo sublime dell’alito di Laura coni versi:

li occhi sereni et le stellanti ciglia,la bella bocca angelica, di perlepiena et di rose et di dolci parole(vv. 9-11)sempre con accostamento disomogeneo perle…rose.Le rose candide e vermiglie diventano elementi che fanno tornare in men-

te la bellezza di Laura nella canzone CXXVII (In quella parte dove Amor mi spro-na) quando si dice:

Se mai candide ròse con vermigliein vasel d’oro vider gli occhi miei,allor allor da vergine man còlte,veder pensaro il viso di colei ch’avanza tutte l’altre meraviglie(vv. 71-75)La visione che suscita la memoria è in questo caso una natura morta ante

litteram, una composizione floreale che si carica di forti valori simbolici: si trat-ta di rose bianche e rosse collocate in un vaso d’oro da vergine man (v. 73), cheformano il ritratto di Laura in base alla topica dei colori, in quanto le rose can-dide alludono all’incarnato del bianco collo, quelle vermiglie al dolce foco del-le guance, mentre l’oro del vaso riporta al colore delle chiome.

La rosa serve a Petrarca anche per indicare la superiore regalità di Lau-ra nei confronti delle altre donne nel sonetto Qual paura ò, quando mi tornaa mente (CCXLIX) in cui dice:

I’ la riveggio starsi humilemente,tra belle donne, a guisa d’una rosatra minor fior; né lieta né dogliosa,come chi teme, e altro mal non sente.(vv. 5-8)e nel sonetto L’aura, che ‘l verde lauro e l’aureo crine (CCXLVI) con i versi:Candida rosa nata in dure spine,

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quando fia chi sua pari al mondo trove,gloria di nostra etate?(vv. 5-8)Qui compare la candida rosa del Paradiso dantesco (XXXXX), con però in fi-

ligrana anche il testo, già menzionato, del Cantico dei Cantici (sicut lilium inter spi-nas sicut amica mea inter filias, 2,2) con trasferimento del colore del giglio alla rosa.

Le rose fresche nel loro naturale contesto della primavera avanzata delmese di maggio sono protagoniste del sonetto CCXLV in cui il poeta rievocacon gioia l’episodio di un giorno felice, quando un vecchio esperto d’amore,forse Amore stesso, appunto in un giorno di maggio, incontrando lui e Laura,donò una rosa a ciascuno, accompagnando il dono con parole gentili: ora si ral-legra al ricordo, ma teme che Laura cambi i suoi sentimenti:

Due ròse fresche, e còlte in paradisoL’altr’ier, nascendo il dì primo di maggio,bel dono, e d’un amante antiquo e saggiotra duo minori egualmente diviso,con sì dolce parlar e con un risoda far innamorare un uom selvaggio,di sfavillante e amoroso raggioe l’un e l’altro fe’ cangiare il viso.- Non vede un simil par d’amanti il Sole –dicea, ridendo e sospirando inseme;e stringendo ambedue, volgeasi a torno.Così partia le rose e le parole;onde ‘l cor lasso ancor s’allegra e teme:o felice eloquenza! O lieto giorno!Le rose per Petrarca conservano il loro fascino, anzi lo riverberano sul-

la persona di Laura, anche se sono ricamate su una sciarpa posata sulle spal-le della donna. Infatti nel sonetto Questa fenice de l’aurata piuma (CLXXXV) dice:

Purpurea vesta d’un ceruleo lembosparso di rose i belli omeri vela:novo habito, e bellezza unica e sola.(vv. 9-11).La novità di rilievo nella poesia del Petrarca sta nel fatto che egli intro-

duce il fascino del paesaggio primaverile caratterizzato dagli alberi fioriti e daiprati punteggiati di fiori multicolori come scenario d’elezione su cui colloca-re la figura di Laura. È il paesaggio di Vaucluse che impreziosisce la figura diLaura, quando nella canzone Chiare, fresche e dolci acque (CXXVI) si dice:

Da’ be’ rami scendea(dolce nella memoria)una pioggia di fior’ sovra ‘l suo grembo;ed ella si sedeahumile in tanta gloria, coverta già de l’amoroso nembo.Qual fior cadea sul lembo,

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qual su le treccie bionde,ch’oro forbito e perleeran quel dì a vederle;qual si posava in terra, e qual su l’onde;qual, con un vago erroregirando, parea dir: Qui regna Amore.(vv. 40-52)L’immagine di Laura sotto la pioggia di fiori, come ha mostrato Enrico

Fenzi3, costituisce un’amplificazione dell’epifania di Beatrice (Purg. XXX, 28-32),ma si ricollega pure a tutta una rete di riferimenti classici, dalla pioggia di fio-ri che ricade sul puer della IV Ecloga di Virgilio (Ipsa tibi blandos fundent cu-nabula flores, v. 23), alla rigenerazione primaverile del cosmo, che possiamotrovare nel proemio del poema di Lucrezio4 e in Claudiano5, al trionfo di Amo-re su cui Venere sparge fiori dall’alto dell’Olimpo6. In questo modo il tradizio-nale locus amoenus7 si arricchisce dell’elemento di fascino dato dagli alberi infiore e nello stesso tempo appare come il regno di Amore, dunque di Venere,come suggerisce l’affermazione conclusiva della strofa Qui regna amore.

In questa canzone gli elementi della natura sembrano rendere tutti con-cordemente omaggio alla donna amata, infatti agli alberi in fiore si aggiungo-no i fiori indistinti che rallegrano con variegato cromatismo il verde dei pratinella prima strofa:

Chiare, fresche e dolci acque,ove le belle membrapose colei che sola a me par donna;gentil ramo ove piacque(con sospir’ mi rimembra)a lei di fare al bel fianco colonna;herba e fior’ che la gonnaleggiadra ricoverseco’ l’angelico seno(vv. 1-9)Questi versi riprendono quelli della canzone precedente (Se ‘l pensier che

mi strugge CXXV):Qualunque herba o fior colgocredo che nel terrenoaggia radice ov’ella ebbe in costumegir fra le piagge e ‘l fiume,e talor farsi un seggiofresco, fiorito e verde.(vv. 69-74)

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3 F. Petrarca, Il Canzoniere e i Trionfi, a cura di E. Fenzi, Salerno Ed., Roma 1993.4 Lucr., De rer. nat. I, 1-42.5 Claud., De raptu Proserpinae I, 1-75.6 Ov., Am., I, 2, 39-40.7 E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it. (a cura di R. Antonelli), Firenze.

La Nuova Italia, 1992 (ed. orig. Bern 1948), pp. 207-223 (Il paesaggio ideale).

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in cui già compare, Laura quasi gemma preziosa sullo sfondo di un pae-saggio verde e variegato dalla fioritura primaverile. Così in questa fantasia crea-tiva del Petrarca, che si sostanzia della doppia vista che gli deriva dalle memo-rie letterarie e dall’osservazione del circostante paesaggio di Vaucluse, avvie-ne quella modificazione che arricchisce l’immagine classica del locus amoenuscon i fiori degli alberi e dei prati e lo trasferisce dal piano della meditazionee della quiete a quello del godimento amoroso. Infatti la primavera fiorita ri-porta sempre Petrarca al momento del suo innamoramento. Anche nella can-zone In quella parte dove Amor mi sprona (CXXVII) dice:

Ma pur che l’òra un pocofior’ bianchi e gialli per le piaggie mova,torna a la mente il locoe ‘l primo dì ch’i’ vidi a l’aura sparsii capei d’oro, ond’io sì sùbito arsi.(vv. 80- 84)Qui l’indicazione floreale è cromaticamente più precisa, con il riferimen-

to a fiori bianchi e gialli, mossi dalla brezza. Possiamo immaginare anemoni,pratoline, primule, fiori di tarassaco e di citiso, tutti fiori bianchi e gialli, chepunteggiano i prati in primavera e che nei testi medievali vengono indicati inmodo generico, dato che per lo più si era persa la nozione dei loro nomi pre-cisi che avevano invece in età classica.

Ambiente ed atteggiamento simili si ritrovano nel sonetto CLXII in cuiil poeta elenca tutti gli elementi del luogo ove Laura si aggirò, con invidia neiloro confronti:

Lieti fiori e felici, e ben nate herbeche madonna pensando premer sòle;piaggia ch’ascolti sue dolci parole,e del bel piede alcun vestigio serbe;schietti arboscelli, e verdi frondi acerbe,amorosette e pallide vïole;ombrose selve, ove percote il soleche vi fa co’ suoi raggi alte e superbe; o soave contrada, o puro fiume,che bagni il suo bel viso e gli occhi chiari,e prendi qualità dal vivo lume;quanto v’invidio gli atti onesti e cari!(vv. 1-12)Qui abbiamo una precisazione per quanto riguarda la flora con l’indica-

zione delle vïole, fiore sempre presente nella poesia italiana fin dalle origini,a cui vengono attribuiti due aggettivi (amorosette e pallide) di aree semanti-che differenti, il primo inerente la sfera affettiva, sottolineata dalla forma di-minutivo-vezzeggiativa, il secondo puramente cromatico.

Anche nel madrigale Or vedi, Amor, che giovenetta donna (CXXI) i fiorie l’erba servono per connotare l’ambiente in cui si trova Laura:

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Tu se’ armato, et ella in treccie e ‘n gonnasi siede, e scalza, in mezzo i fiori e l’erba,ver’ me spietata, e ‘ncontra te superba.(vv. 4-6)

I fiori sono sovente indicati dal Petrarca senza precisazione botanica, tal-volta semplicemente con il termine dantesco di fioretti (IX, 6), diminutivo e vez-zeggiativo a cui noi abbiamo sostituito “fiorellini”, tal’altra con una precisa indi-cazione cromatica. Così in Dal lito occidental si move un fiato, / che fa securo ilnavigar senz’arte, / e desta i fior tra l’erba in ciascun prato (XLII, 8-11), per indi-care che la natura tutta gioisce del ritorno di Laura. Altrove (XLVI, 1) con il versod’apertura L’oro e le perle e i fior’ vermigli e bianchi si ha ancora un’enumerazio-ne di elementi disomogenei preziosi e floreali per indicare i capelli, i denti, le lab-bra e le guance di Laura: anche qui i fiori non necessitano di precisazione bota-nica, in quanto valgono solo per il loro cromatismo ricco di implicazioni metafo-riche. Alle erbe e ai fiori botanicamente indeterminati fa ricorso ancora il Petrar-ca per connotare idillicamente il mondo in cui si è rifugiato, probabilmente Vau-cluse, al fine di sfuggire l’ambiente corrotto di Avignone, novella Babilonia, nel so-netto De l’empia Babilonia, ond’è fuggita (CXIV) quando dice:

Qui mi sto solo; e come Amor m’invita,or rime e versi, or colgo herbette e fiori,seco parlando, e a tempi migliorisempre pensando: e questo sol m’aita.(vv. 5-8)Ma tra i fiori e l’erba, sempre botanicamente indistinti, si possono an-

che conservare le orme di Laura: infatti il poeta nella canzone Se ‘l pensier chemi strugge (CXXV) dice:

Così avestù ripostide’ be’ vestigi sparsianchor tra’ fiori e l’erba,che la mia vita acerba,lagrimando, trovasse ove acquietarsi!(vv. 59–63)Non solo, ma tutta la natura si allieta al passaggio di Laura e ne invoca

la presenza, secondo quanto dice il poeta nel sonetto Stiamo, Amor, a vederla gloria nostra (CXCII) con i versi

L’erbetta verde e i fior di color’ millesparsi sotto quel’ elce antiqua e negra,pregan pur che ‘l bel pe’ li prema o tocchi.(vv. 9-11)Qui la connotazione cromatica dell’erbetta e il moltiplicarsi dei fiori in

una miriade di colori, insieme ad altri elementi del sonetto, fanno di Laura unafigura da Paradiso Terrestre, modellata sulla Matelda dantesca. La correlazio-ne con la Commedia è sottolineata dall’elce antiqua e negra, elemento di de-rivazione classica e dantesca, in quanto nel Purgatorio si dice dentro a la sel-

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va antica (XXVIII, 23), mentre l’aggettivo negra, riferito all’elce o leccio ha un’ascen-denza classica: ilice sub nigra dice Virgilio (Ecl. VI, 54) e nigraque sub ilice èin Ovidio (Metam. IX, 664).

Con ancora più scoperta memoria dantesca (cfr. Purg. VIII, 100: Tra l’er-ba e i fior venia la mala striscia), seppur con ripresa virgiliana (latet anguis inherba, Ecl. III,93), i fiori e l’erba diventano allegoria delle insidie terrene tra cuisi nasconde il serpente tentatore nel sonetto Poi che voi et io più volte abbiamprovato (XCIX), quando il poeta dice:

Questa vita terrena è quasi un prato,che ‘l serpente tra’ fiori e l’erba giace.(vv. 5-6) Il binomio botanicamente indistinto fiori e erba, seppure con scoperta

memoria oraziana (cfr. carm. I, 22, 17-20: Pone me pigris ubi nulla campis /arbor aestiva recreatur aura), si ritrova anche nell’incipit del sonetto CXLV Pon-mi ove ‘l sole occide i fiori e l’erba, che prosegue con una lunga serie di indi-cazioni ambientali per sottolineare che in qualunque luogo verrà a trovarsi ilpoeta continuerà sempre ad amare Laura.

Petrarca gode pienamente il fascino del paesaggio primaverile, che di persé costituisce ai suoi occhi un incentivo all’amore. In questo spirito viene usa-to il vocabolo fiori come parola-rima di forte valore evocativo nella sestina Làver’ l’aurora, che sì dolce l’aura (CCXXXIX) in cui ritorna sei volte per indicarela stagione primaverile, evocata per allontanare con i versi Laura dal suo atteg-giamento crucciato nei confronti del poeta. A connotare questa stagione con-tribuiscono in particolare le rose e le viole, secondo un accostamento che di-verrà poi canonico e che incontriamo nella canzone Ben mi credea passar miotempo omai CCVII) quando il poeta dice:

così rose e vïoleà primavera, e ‘l verno à neve e ghiacci(vv. 46-47),mentre le viole diventano di per sé elemento connotante la primavera nel-

la canzone In quella parte dove Amor mi sprona (CXXVII) quando si dice:In ramo fronde, o ver vïole in terra,

mirando a la stagion che ‘l freddo perde,e le stelle miglior’ acquistan forza,negli occhi ho pur le vïolette e ‘l verdedi ch’era nel principio de la mia guerraAmore armato…(vv. 29-34)Qui la vista delle viole che annunciano la stagione primaverile fa tornare alla

mente del poeta le violette e il verde che erano sul terreno quando s’innamorò diLaura, o forse i colori della veste di Laura nel giorno del primo incontro, o delle ghir-lande di cui era allora adorna la sua chioma. Petrarca rappresenta Amore armatodi violette e di verde per indicare che la dolcezza della primavera è di per sé un in-centivo ad amare. Nella stessa canzone ritorna più avanti il riferimento alla prima-vera come stagione dell’innamoramento, ma questa volta indicata come il tempo in

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cui l’aria un poco / fior’ bianchi e gialli per le piaggia mova (vv. 80-81). Le noctur-ne vïole per le piagge (v. 64) sono nella canzone-frottola Mai non vo’ più cantar co-m’io soleva (CV) un elemento un po’ misterioso (forse nocturne vuol dire “scure”,riprendendo l’aggettivo nigrae di Virgilio Egl. X, 39) che si affianca ad altri, come lefere selvagge entr’a le mura (v. 65), per indicare le sensazioni spiacevoli che il poe-ta prova per il disprezzo di Laura nei confronti del suo amore. Ma le viole servonoanche al Petrarca nel sonetto S’una fede amorosa, un cor non finto (CCXXIV) per in-dicare un particolare colore del volto, del suo volto contrassegnato dalla sofferen-za per l’amore non ricambiato (s’un pallor di vïola e d’amor tinto, v. 8). Infine le vio-le si alonano di mestizia nel sonetto Spirto felice, che sì dolcemente (CCCLII) in cuiil poeta rivede Laura, ormai morta, mover i pie’ fra l’erbe e le vïole, / non come don-na, ma com’angel sòle (vv. 6-7).

Il fatto più rilevante è comunque che Petrarca infranga la tradizione, ormaiconsolidata lungo la linea trobadorico-stilnovistica, che faceva della rosa il simbo-lo della bellezza femminile e usi il lauro, la pianta sempreverde che richiama l’eter-nità della poesia, come señhal della donna amata. Nascondere l’oggetto del proprioamore dietro un nome fittizio risaliva per linea immediata ai provenzali e più in-dietro ancora agli elegiaci latini, ma era pur sempre un nome di persona (nei poetilatini con equivalenza metrica) che nascondeva un altro nome di persona, quello rea-le della donna. Da parte del Petrarca vi è la novità di utilizzare un elemento bota-nico. Ma il termine “lauro” non è certo casuale: esso si colloca infatti in una fitta retedi suggestioni letterarie. Innanzitutto richiama la tradizione mitologica dell’alloro,generatosi dalla trasformazione in albero di Dafne, la fanciulla invano amata da Apol-lo, secondo il racconto di Ovidio nelle Metamorfosi8, poi si lega per elementi fone-tici a aura e ad auro/aureo, quindi stringe in un’unica catena l’elemento della natu-ra, quello della vitalità atmosferica e quello della sostanza più preziosa, soprattut-to nella concezione medievale, l’oro. La sintesi di questi legami è espressa dal Pe-trarca nel verso iniziale del sonetto L’aura che ‘l verde lauro e l’aureo crine (CCXLVI,1) in cui, attraverso un triplice gioco di parole, vuole indicare che l’aria muove, so-spirando dolcemente, la chioma verde dell’albero dell’alloro e la chioma bionda del-la donna amata. Il lauro, poi, dall’ascendenza mitologica di pianta particolarmentecara ad Apollo (in quanto il nome della fanciulla amata Dafne in greco indica la pian-ta del lauro o alloro, che in latino è lausus di genere femminile) sposta l’attenzionedel lettore sulla “laurea”, cioè sulla corona di rami della pianta con cui venivano or-nati i poeti, tanto agognata dal Petrarca stesso, fino a far ipotizzare che la figura fem-minile di Laura non abbia una vera consistenza di persona reale, ma sia soltanto laproiezione di una materializzazione del desiderio di gloria del poeta9. Inoltre carat-

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8 Ov., Metam. I, 452-567.9 Nel Secretum Agostino rimprovera Francesco di aver fatto nascere la sua poesia e l’amore per la gloria

dall’amore per Laura e dal nome di lei, che lo induce all’amore del lauro, mentre Giovanni Colonna in una

lettera esprime il suo dubbio sull’identità storica e reale della donna, questione a cui il Petrarca dà un’eva-

siva ed arguta risposta: “Quid ergo ais? finxisse me michi speciosum Lauree nomen, ut esset et de qua ego

loquerer et propter quam de me multi loquerentur; re autem vera in animo meo Lauream nichil esse, nisi

illam forte poeticam, ad quam aspirare me longum et indefessum studium testatur; de hac autem spiran-

te Laurea, cuius forma captus videor, manufacta esse omnia, ficta carmina, simulata suspiria. In hoc uno

vere utinam iocareris; simulatio esset utinam et non furor!” (Familiares II, 9, 18).

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teristica di questo particolare señhal petrarchesco è soprattutto la complessità del-le ascendenze ovidiane, in quanto anche il termine aura trova interessanti riscon-tri nel poeta latino. Per questo dobbiamo far riferimento al mito di Cèfalo e Procri,presente in Ovidio, sia nell’Ars amatoria 10 che nelle Metamorfosi 11. Procri, erronea-mente, teme che il suo sposo, Cèfalo, ami una ninfa di nome Aura, in quanto egliinvoca questo nome quando è a caccia, desiderando che l’aura frizzante del matti-no lo ristori dalle fatiche venatorie. Aura è quindi una donna supposta e temuta, dal-l’ipotesi di esistenza della quale discende la morte di Procri, che, appostatasi die-tro un cespuglio, per cogliere il marito in compagnia della presunta rivale, viene col-pita dal giavellotto del suo sposo, anch’egli indotto in inganno, tanto da scambia-re la moglie nascosta dietro il cespuglio per un animale a cui dare la caccia. Ma dal-l’analisi dei rapporti tra elementi petrarcheschi e testi ovidiani si possono trarre al-tre interessanti considerazioni. Secondo Ovidio, Amore per vendetta ferisce Apol-lo con un dardo d’oro e Dafne con uno di piombo (Metam. I, 470-471). Possiamo ri-cordare che nell’Attica vi era una miniera da cui si estraevano piombo argentifero,ocra e cinabro: si chiamava Laurion. Per Petrarca, che conosceva i labirinti dell’er-metismo e dell’alchimia, e le cui metafore non erano soltanto giochi di un’immagi-nazione sentimentale, il piombo alchemico rappresenta lo stato caotico, pesante emorboso del metallo, ovvero dell’animo umano. E quindi il piombo aurifero del lau-rion è analogo a Dafne-Laurus colpita dal dardo di piombo. Dafne è la metafora del-la psiche ancora incatenata al proprio io, della psiche “plumbea” che è riluttante al-l’opera alchemica. Ma la fuga della ninfa, secondo il racconto di Ovidio, non dura alungo: stremata, implora il padre Peneo di trasformarla e di toglierle quella figurache le era troppo cara. Così, a poco a poco, Dafne perde la sua “natura plumbea” esi trasforma in una pianta, in particolare una pianta dalla vasta chioma, simbolo del-l’aria, secondo Eraclito, nell’Allegoria d’Omero12. Quando poi Apollo l’abbraccia e dice:“At quotiamo coniunx mea non potes esse, / arbor eris certe” (Metam. I, 557-558),Dafne cede infine al dio pervaso d’Amore, diventa aria impregnata del fuoco delloSpirito, ovvero sapienza: ecco perché a Petrarca interessa tanto giocare sull’analo-gia tra aura e lauro. Un ulteriore collegamento, sempre di natura alchemica, si sta-bilisce con l’aureo crine. Infatti se Dafne-Laura diventa aria, impregnata del fuocodello Spirito-Sapienza, il suo “crine”, ovvero la sua psiche, da plumbea si trasformain dorata. L’oro, diventato luce solidificata, cioè Sole terreno, esprime alchemicamen-te sia la perfezione metallica che quella umana. Comunione che il Petrarca raffigu-rerà, dopo la morte dell’amata, nel famoso sonetto dell’Aurora (CCXCI):

Quand’ io veggio dal ciel scender l’Auroraco la fronte di rose e co’ crin’ d’oro,Amor m’assale, ond’io mi discoloro,e dico sospirando: Ivi è Laura ora.(1-4).

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10 Ov., Ars am., III, 683-746.11 Ov., Metam. VII, 661-865.12 Eraclito, Questioni omeriche. Sulle allegorie di Omero in merito agli dei, ETS, Pisa 2005.

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Particolarmente interessante è studiare la fenomenologia poetica del lau-ro petrarchesco, che ha sempre verdi rami (V, 13) e solitario verdeggia (CLXXXVIII,3), e mai foglia non perde (XXIII, 40), da cui si coglie acerbo frutto (VI, 13), chespande una dolce ombra (XXIII, 168), risparmiato dalla folgore (XXIV, 1-2), ina-spettatamente schiantato dalla morte che sembrerebbe dovergli essere estra-nea e che invece trasforma la vita dell’amante nell’esercizio della poesia del-la memoria e del rimpianto, ricogliendo le sue sparte fronde (CCCXXXIII, 7).

Nel sonetto Sì travïato è ‘l folle mi’ desio (VI) il poeta nella prima strofe ri-legge da un punto di vista soggettivo il racconto ovidiano della metamorfosi di Daf-ne; se infatti la descrizione del poeta latino era incentrata sulla disperata fuga del-la ninfa fino al momento cruciale della sua trasformazione in albero, nel sonettosi guarda alla fuggitiva con gli occhi pieni di desiderio del dio che la insegue. Nel-la seconda strofe, Petrarca riprende alcuni punti essenziali della narrazione ovi-diana, ma li riferisce a se stesso e al suo folle… desio. Poi sull’immagine della fugadi Dafne si innesta quella della corsa sfrenata della passione mal governata dallaragione, attraverso la metafora del cavallo che non si riesce ad indirizzare per lasecura strada. In questo modo la vicenda di Dafne viene in qualche modo mora-lizzata e nello stesso tempo si passa dal contesto classico a quello cristiano conla sottolineatura che il moto inarrestabile della volontà del poeta si compie sol pervenire al lauro (v. 11), da cui si coglie un frutto che non è quello della vita, ma quel-lo acerbo che rende più dolorose le piaghe della mortalità (vv. 12-14). Il lauro di-venta in questo modo figura di quel lignum vitae il cui frutto interdetto porta a mor-te, attraverso il peccato originale. In questo modo Petrarca rovescia le categorie concui nel Medioevo si moralizzava la metamorfosi di Dafne, concependola come ilraggiungimento della perfezione, e fa del lauro la meta di ogni desiderio e nellostesso tempo la punizione di questo. Diventa infatti la ragione di ogni moto, oc-casione di mortalità, e nello stesso tempo dolorosa impossibilità di riscatto dellamortalità, tramite l’acerbo frutto (v. 13).

Nel sonetto La gola e ‘l sonno e l’otïose piume (VII) il lauro, messo in pa-rallelo con il mirto (Qual vaghezza di lauro, qual di mirto? v. 9), può essere, an-che per il contesto, un chiaro simbolo della piena affermazione artistica nel-la poesia, a cui il poeta aspira, così come desidera un appagante amore, sim-boleggiato dal mirto, la pianta per tradizione classica sacra a Venere (cfr. Vir-gilio, Ecl. VII, 2). Nello stesso tempo, però, il lauro e il mirto possono essere sim-boli della poesia eroica e amorosa, di cui sono anche il premio.

Ancora legata a memorie ovidiane è la canzone Nel dolce tempo de la pri-ma etade (XXIII), in cui sulla falsariga di quelle ovidiane di Atteone13, il poeta pre-senta una successione di sue trasformazioni, tra cui, nella seconda strofa, quel-la che lo fa d’uom vivo un lauro verde (v. 39). È un farsi lauro per poter cantareil lauro, secondo la concezione dell’ identificazione tra amante ed amato, in basead una sentenza diffusa negli autori cristiani e medievali, da Agostino14 a Bona-ventura15, e che il Petrarca riprende anche nei Trionfi (Tr. Cupidinis III, 148-150),quando dice che l’amante nell’amato si trasforma.

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13 Ov., Metam. III, 200-203, 229-231, 237-252.

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Centrale nella caratterizzazione del lauro petrarchesco è la sestina Gio-vene donna sotto un verde lauro (XXX), in cui lauro è una delle parole forti, inquanto è al primo posto del ristretto gruppo delle sei parole in rima (lauro, neve,anni, chioma, occhi, riva) che, sulla linea del trobar clus di Arnaut Daniel, ca-ratterizzano questo componimento, secondo la tipologia della retrogradatio cru-ciata. Per questo testo petrarchesco si possono individuare e supporre una me-moria e un’ascendenza che riportano ad uno scambio poetico tra Dante Alighie-ri e Cino da Pistoia. Nelle terzine di un sonetto di Dante a Cino (40 a - XCV) leg-giamo infatti:

Giovane donna a cotal guisa verdetalor per gli occhi sì a dentro è gitache tardi poi è stata la partita.Perilio è grande in donna sì vestita:però l’affronto de la gente verdeparmi che la tua caccia non seguer de’.(vv. 9-14)Le affinità sono date dal sintagma giovane donna, dall’azione del verbo

“vedere” (ho veduto / vidi), dalla determinazione del colore “verde” e più in ge-nerale dal raffronto donna-albero. L’idea del “verde” in Dante nasce, però, dalsonetto che precedentemente a lui aveva mandato Cino da Pistoia (40 – XCIV),che nell’ultima terzina dice:

Che farò, Dante? Ch’Amor pur m’invitae d’altra parte il tremor mi disperdeche peggio che lo scur non mi sia ‘l verde.Il sonetto di Cino pone la questione se deve abbandonarsi, ammaestrato dal-

l’esperienza, ad un nuovo amore. Vi è dunque il riferimento ad una trascorsa espe-rienza amorosa (si ricordino i tanti componimenti ciniani per la donna in scuro,si tratti o meno della Selvaggia vestita a lutto) ed il prospettarsi di una nuova pos-sibilità amorosa. Nella risposta Dante gioca nominalisticamente sul “verde” concui si chiudeva il sonetto di Cino. Così le quartine dantesche s’incentrano sull’im-magine (una sorta di comparazione per ora implicita) di un tronco che, pur sen-za radici, può far germogliare foglie, ma non frutti, in quanto ciò sarebbe un con-traddire la natura. La similitudine, ampiamente impostata nelle quartine, si chiu-de in modo quasi epigrafico nella terzina finale con il verso Perilio è grande in don-na sì vestita (v. 12) dunque bisogna respingere l’assalto di questa donna.

È proprio l’ incipit dantesco Giovane donna a cotal guisa verde che dàl’avvio alla sestina petrarchesca Giovene donna sotto un verde lauro. È questoun “componimento d’anniversario”, in cui il poeta celebra la settima ricorren-za del suo innamoramento (6 aprile 1334). Fin dal verso iniziale ci troviamoin presenza di una rielaborazione del mito dafneo: la donna, di cui è sottoli-neata la vitalità e la bellezza, è situata, quasi messa in posa, sotto un lauro (e

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14 Tractatus II in Epistula Ioannis secondo sermone De Assumptione B. Virginis Mariae in cui si cita Ugo

di San Vittore: vis amoris amantem in amati similitudinem trasformat.15 Secondo sermone De assumptione B. Virginis Mariae in cui si cita Ugo di San Vittore: vis amoris aman-

tem in amati similitudinem trasformat.

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l’albero di alloro è qui ad un tempo indicazione spaziale del paesaggio, ogget-to della metamorfosi mitica della donna, señhal del suo nome). Del lauro è mes-so in rilievo il colore “verde”, con un elemento che inaugura la serie delle va-riazioni coloristiche presenti nella sestina, ma che ha anche un significato sim-bolico, riferibile sia alla natura che alla donna. L’emblema laurano viene infat-ti presentato nei suoi caratteri di freddo biancore (v. 2) e di costante preclu-sione all’amore (v. 3). A dominare in questi versi sono i colori del verde e delbianco, che derivano da quelli che caratterizzano l’apparizione di Beatrice nelPurgatorio (sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve sotto verde man-to, XXX, 31-32). La sestina ha quindi come tema il processo metamorfico checoinvolge la donna. Ma la forza trasformatrice investe anche altri elementi; in-fatti, trascinato dalla ricorrenza ripetitiva e dalla potenzialità semantica del-le parole-rima, anche il lauro si trasforma di volta in volta nella donna, in unraffinato prodotto di oreficeria, in una scultura lignea, in un albero semprever-de, in minerale prezioso, l’auro, espressione con cui si inaugura nel Canzonie-re l’omofonia ricca di significati ed implicazioni. Il poeta stesso è coinvolto inquesto processo metamorfico, in cui si trasformano il suo corpo, i suoi capel-li, i suoi pensieri.

È interessante infine notare che nel sonetto Il mio adversario, in cui ve-der solete (XLV) il Petrarca, prendendo spunto dal mito ovidiano di Narciso16,ipotizza che anche Laura potrebbe essere trasformata in un fiore, anche se con-clude benché di sì bel fior sia indegna l’erba (v. 14). La sua fantasia e il suo amo-re lo portano quindi ad immaginare un processo metamorfico secondo le vi-cende della mitologia classica, in cui potrebbe essere protagonista Laura, resacapace, dalla forza suggestiva del suo fascino, di produrre un nuovo fiore, madi così elevato valore che la terra ne sarebbe indegna.

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16 Ov., Metam. III, 344-526.

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UNA POESIA

di Fernando Bizzarri

QUEL MOMENTO

Ci sono nelle case certe stanze,abbandonate quasi,sedi di vecchi mobili tarlaticon cassetti inzeppati, chiusi da tempo,che contengono amori, antichità,brandelli di ore liete, di bagliori,dimenticate pene…e vive.In questa foto erosa, scribacchiata,annegato nel sole sulla porta,questo è tuo padre, vedi,la sua famiglia accanto,l’orgoglio nel suo volto;questa è ingiallita, spenta sembra,come dire…lontana,pure una luce emana, guarda,voci, un calore, musica contiene.Era inverno…una notte…l’orchestra suonava,quando ancora si amava con il cuorela donna amata e poi ci si sposava…per sempre;come si stringevano nel ballo:in raso nera, ella,le braccia seminude:diceva una parola, dolce,ricordo, in quel momento –nell’attimo del flash, tu,la giacca a doppio petto sulla camicia bianca,la guardavi negli occhi, nelle labbra:lo senti il buon odoredel suo caldo respiro?Ammiravano gli altrila vostra sorridente giovinezza,la fusione dei corpi nella danza,la forza della vita in quel momento.Esiste ancora,persiste quel momento in qualche luogo?la breve gioia, la musica, gli sguardi,la vostra sorridente giovinezza?

Poesia premiata il 5 ottobre 2010 al Concorso “Milano Duomo”

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LA RONDE È UN GIOCO

di Giuliana Rovetta

Il girotondo, gioco che ammalia i bambini, instaura anche uno scambiodelle parti al cui potere gli adulti si assoggettano. Movimento ritmico e al tem-po stesso danza dai significati simbolici, è uno dei luoghi più allusivi del con-fronto e dell’incontro.

Basato sul concatenarsi delle azioni e sul sistematico avvicendarsi del-le figure, il girotondo come espediente letterario trova una rappresentazioneperfetta in Reigen, opera teatrale di Arthur Schnitzler del primissimo Novecen-to, che vede l’avvicendarsi in scena di una serie di coppie: uno dei due aman-ti rappresentato in ognuna di esse trasmigra nella scena successiva per stabi-lire un nuovo rapporto amoroso che si consuma al riparo dagli occhi dello spet-tatore. La pièce si apre con l’incontro fra una prostituta e un soldato, il solda-to s’imbatte poi in una soubrette, per finire, attraverso successive tappe, conl’occasionale amplesso di un conte con la donna di strada della prima scena.A collegare gli episodi è un personaggio multiforme e misterioso che di voltain volta può essere autore, comparsa, o semplice passante.

Da questo intreccio paradossale e cinico, il regista tedesco Max Ophülsha tratto nel 1950 un film interpretato dai più blasonati attori francesi dell’epo-ca. Nei frequenti e ben congegnati cambi di scena si vedono all’opera nella pel-licola dieci coppie, ma come s’è detto, solo dieci sono i personaggi. Il mecca-nismo, azionato da casualità apparenti e volutamente non precisate, è ben rap-presentato dall’oggetto che appare alla vista dello spettatore nelle primissimeinquadrature. Lo stesso oggetto emblematico -una giostra o carrousel- attraelo sguardo del passante, ammiccando dalle locandine che annunciano la pel-licola in programmazione.

Un movimento di tipo circolare in letteratura istituisce di fatto anche iltrait d’union tra autori che si ispirano l’uno all’altro per comporre versi, dedi-candoli alla figura di un amico stimato, di un personaggio pubblico di rilievo,di un amante segreto: in questo caso le parole prima si fanno avanti e poi rie-cheggiano così come le mani s’intrecciano e si sciolgono, mentre resta immu-tata, nella sua qualità di dono immateriale, la sostanza della dedica, emblemaa volte solenne, a volte malizioso di una presunta immortalità letteraria.

Dalla sua casa di rue de Courcelles, dove abitò per alcuni anni fino al 1906,Proust indirizza una corrispondenza saltuaria a Daniel Halévy, compagno discuola ai tempi del liceo Condorcet e successivamente amico e sodale nella fre-quentazione dei salotti parigini. Un’amicizia, quella tra i due giovani, alquan-to chiacchierata (ma l’obbiettivo vero delle attenzioni di Proust era il cugino

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di Halévy, Jacques Bizet), che mette in imbarazzo Daniel. Non è così per il fu-turo autore della Recherche, al quale non dispiace intrattenersi, in una lette-ra datata autunno 1888, sulla natura dei suoi sentimenti: “Moralmente cerco,non fosse che per eleganza, di conservarmi puro” 1.

L’ambiguità di questo giovanile rapporto a tre, che Proust si sforza di ge-stire con sovrana nonchalance, è un motivo ricorrente nella sua opera, dove letriadi non mancano, come osserva Tadié, citandone due particolarmente evi-denti in Á la recherche du temps perdu: da una parte Odette, Swann e Char-lus, dall’altra Albertine, Andrée e il Narratore (cioè il giovane Proust)2.

Pubblicato negli Écrits de jeunesse, che coprono l’arco 1888-1889, il so-netto Á Daniel Halévy dell’ottobre 1888 è, come il resto dell’opera poetica prou-stiana, soprattutto poesia di circostanza, legata all’evento effimero o all’epi-sodica accensione di un interesse. La scarsa attenzione alla rima e il rispettopiuttosto approssimativo per la prosodia denunciano lo spirito ludico di que-ste composizioni, ma il dato storico è indubitabilmente quello di un’esperien-za in formazione, di un “farsi le ossa”3. I toni ammirativi del sonetto, dedica-to a ritrarre l’amico, dal punto di vista estetico nelle prime due strofe e più in-timo nelle altre due, non impedirono al fascinoso Daniel, in seguito divenutofigura non secondaria nel panorama intellettuale della prima metà del Nove-cento4, di affidare al suo diario frasi come “questo povero Proust è completa-mente pazzo” o ancora “in lui c’era qualcosa che ce lo rendeva antipatico…”riferendosi ai toni eccessivamente adulatori con cui Marcel si accostava agli ami-ci e conoscenti. In verità, come osserva Beckett nel suo famoso saggio, Proustè un romantico, per il suo modo di “sostituire l’affettività all’intelligenza”5

A Daniel Halévy

Ses yeux sont comme les noires nuits brillantes; I suoi occhi luccicano come le nere notti; C’est la tête fine des forts egyptiens la testa fine è quella dei forti egizianiQui dressent leurs poses lentes che erigono le loro pose lenteSur les sarcophages anciens sopra gli antichi sarcofaghi.

Son nez est fort et délicat Il naso è robusto e delicatoComme les clairs chapiteaux grêles; come i chiari nervosi capitelli;Ses lèvres ont le sombre éclat le sue labbra hanno il cupo lucidoDes rougissantes airelles. delle rosse bacche di mortella.

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1Marcel Proust, Le lettere e i giorni, Milano, Mondadori, 1996.2 Jean-Yves Tadié, Vita di Marcel Proust, Milano, Mondadori, 2002.3 Alberto Arbasino, Alla ricerca del verso perduto, in L’Espresso, 11 marzo 1984.4 Direttore della collana Cahiers Verts presso l’editore Grasset, pubblicherà tutti i grandi scrittori dell’en-

tre-deux-guerres, da Malraux a Mauriac; non però Proust, già legato a Gallimard.5 Samuel Beckett, Proust, Milano, SE, 2004.

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Sur sa riche âme, rieuse en sa sauvagerie, Nella sua ricca anima che irrideL’univers se reflète ainsi allegra nelle sua ferinitàQu’une glorieuse imagerie l’universo si specchia gloriosa fantasmagoria

Cependant qu’un feu subtil et choisi mentre un fuoco sottile e raffinatoAnime cette âme et ce corps nubique fa guizzanti quell’anima e quel corpo nubicoD’une exquise vivacité féerique. di un’incantevole vivacità fatata.6

Più criptica, e legata ad un marginale episodio avvenuto durante una se-rata mondana, l’ode dedicata a Jean Cocteau, in cui i versi proustiani indulgo-no ad una sorta di lessico familiare tipico di un milieu di iniziati: l’ambientein questo caso è quello dell’élite intellettuale che si ritrovava nelle cene dopoteatro al ristorante “Larue”, frequentato dalla compagnia dei Ballets russes, inscena con strepitoso successo nella Parigi del primo Novecento e di cui Nijin-sky era l’indiscussa vedette. Cocteau, artista eccentrico e di gusto raffinato, siera subito appassionato agli spettacoli di danza ideati da Serge Diaghilev e alsuo linguaggio artistico completamente nuovo (non apprezzato dalla genera-lità degli spettatori). All’insegna di questa novità aveva fondato la rivista Shé-hérazade a cui collaborarono Apollinaire, Anatole France e anche Picasso. Lasua conoscenza con Proust risale al 1910: il ventunenne Cocteau con la sua for-te personalità sorprende il futuro autore della Recherche, non ancora arriva-to al successo e già malfermo in salute (proprio in quell’anno, durante le va-canze a Cabourg, Proust fa rivestire di sughero le pareti della sua dimora pa-rigina). Proust parlerà di lui come di un “giovane poeta intelligente e dotato”somigliante, chissà perché, a un ippocampo. La scena rappresentata nell’odeÀ Jean Cocteau, prende spunto da un gesto di attenzione del giovane poeta ver-so il freddoloso, asmatico Marcel, gesto subito trasformato in un’insolita esi-bizione di vitalità: una trasvolata del tavolo forse influenzata dal contesto didanzatori e coreografo (l’illustre Fokine) che animava la serata7. In segno di con-siderazione e di apprezzamento per il suo singolare exploit Proust pone que-sta poesia come dedica a un libro che regala a Cocteau: si ispirerà proprio alui, che considera “un essere ammirevole”, anche se troppo dispersivo e mon-dano, per il personaggio di Octave nella Recherche.

A Jean Cocteau

Afin de me couvrir de fourrure et de moire Per coprirmi di pelliccia e damascoSans de ses larges yeux renverser l’encre noire senza dai larghi occhi versare nero inchiostroTel un sylphe au plafond, tel sur la neige un ski come un silfo al soffitto, uno sci sulla neve

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6 Traduzione di Luciana Frezza, in Marcel Proust. Poesie, Feltrinelli, Milano, 1993, p. 108.7 Edmund White, in Ritratto di Marcel Proust, Torino, Lindau editore, 2010, traduzione dall’inglese di D.

Mengo, attribuisce il gesto a Bertrand de Fénelon, giovane aristocratico: ”Fénelon aiutò con galanteria un

Proust tremante e passò agilmente sopra i tavoli di un ristorante affollato per andare a prendergli il cap-

potto” (pag. 86).

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Jean sauta sur la table auprès de Nijinsky. balzò Jean sul tavolo accanto a Nijinky.C’était dans un salon purpurin de Larue Accadde in una sala purpurea di LarueDont l’or, d’un goût douteux, jamais ne se voila. dall’ oro, di gusto incerto, mai spento.La barbe d’un docteur blanditieuse et drue La barba melliflua e folta di un dottoreDéclarait: “Ma présence est peut-être incongrue dichiarava: “La mia presenza forse è incongruaMais s’il n’en reste qu’un je serai celui-là”. ma se uno solo restasse, sarei io quello”.Et mon coeur succombait aux coups d’Indiana. E il mio cuore cedeva al ritmo di Indiana.

L’amore per le arti viene instillato in Cocteau dal nonno materno pres-so il quale trascorreva periodi di vacanza. Grazie alla sua multiforme curiosi-tà artistica, l’eccentrico Jean incrocerà i suoi passi, in una Parigi ricca di fer-menti, con Erik Satie. A partire dal 1905 nascerà fra i due un sodalizio artisti-co culminato nella nascita del Groupe des Six, circolo musicale orientato con-tro l’accademismo e in sintonia con le avanguardie pittoriche e stilistiche del-l’epoca, di cui faranno parte fra gli altri Poulenc e Honneger. Con il suo stilenervoso e visionario, lo stesso della sua straordinaria produzione grafica, Coc-teau dedica all’amico musicista alcune strofe in cui i riferimenti strettamentelegati alla realtà urbana, teatro privilegiato delle élites di punta dell’avanguar-dia, si mescolano -per lampi- a suggestive ed estrose immagini.

A Erik Satie

Madame Henri Rousseau La signora RousseauMonte en ballon captif sale sull’areostatoElle tient un arbrisseau in mano ha un ramoscelloEt le douanier Rousseau mentre il Doganiere RousseauPrend son apéritif prende l’aperitivo

L’aloès gonflé de lune L’aloe intriso di lunaEt l’arbre à fauteuils e le sedie sull’alberoEt ce beau costume e questo bell’abitoEt la belle lune e la bella lunaSur les belles feuilles sulle belle foglie

Le lion d’Afrique Il leone africanoSon ventre gros comme un sac col ventre come un saccoAu pied de la République ai piedi della RepubblicaLe lion d’Afrique il leone africanoDévore le cheval de fiacre divora il cavallo da carrozza

La lune entre dans la flûte La luna entra nel flautoDu charmeur noir dell’incantatore neroYadwigha endormie écoute Yadwigha dormiente ascolta

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Et il sort de la douce flûte e dal dolce flauto esceUn morceau en forme de poire. un brano a forma di pera8.

Il frutto del sodalizio fra Cocteau e Satie è un’opera danzata surreal-fu-turista, Parade, a cui collabora anche Apollinaire, oltre a Picasso con le sue bril-lanti scenografie. Lo spettacolo, preparato a Roma con l’amichevole partecipa-zione dei futuristi italiani, consiste in un susseguirsi di quadri e pantomimesenza filo logico. Rappresentato al Teatro Châtelet nel maggio 1917, suscitala vivace reazione del pubblico. L’apparizione sul palco di Apollinaire, appe-na reduce dal fronte, con la testa fasciata e la Croix de guerre appuntata sulpetto, serve a placare il tumulto degli sconcertati spettatori.

Nel volgere di quegli anni prende corpo l’amicizia fra Cocteau e Paul Mo-rand, in procinto di partire per Roma dove è chiamato all’incarico di attaché pres-so l’ambasciata francese. Morand, che si sta appassionando alla letteratura ma nonha ancora pubblicato nessuna opera, è affascinato dal personaggio Proust (che inseguito scriverà generosamente la prefazione ai suoi racconti d’esordio, Tendresstocks). Di Cocteau ammira la capacità di accendere l’attenzione attorno a sé, ilbrio e le trovate esplosive. Una foto dell’archivio Hachette li ritrae nel gruppo del-la giuria del premio Nouveau Monde, insieme a Giraudoux e Valéry Larbaud, in-cravattati e stretti nei loro cappotti eleganti. Da quell’anno, 1923, frequentano glistessi ambienti e salotti e troveranno parte della loro ispirazione dalla stessa musa:Misia Sert, artista di origine polacca e brillante animatrice della vita mondana del-la capitale. Non sempre affidabile ma dotata di grande fascino, Misia, nata Godeb-ski, fu ritratta dai grandi artisti dell’epoca come Bonnard, Renoir, Toulouse-Lau-trec e dipinta anche a parole: da Cocteau in Thomas l’imposteur, dove a lei si ispi-ra il personaggio della principessa de Bornes, e da Proust nella Recherche per al-cuni tratti di Madame Verdurin. Paul Morand ne fu forse brevemente innamora-to e in uno dei suoi ultimi scritti, dedicato alle molteplici Venises9 la ricorda comeninfa egeria “du Paris symboliste, du Paris fauve, du Paris de la Grande Guerre”.Sull’amicizia controversa che la unì a Proust, Morand non si sbilancia: per lui ilmalinconico e complicato petit Marcel10 che ha da poco pubblicato Du côté de chezSwann, rappresenta comunque un punto di riferimento che supera di gran lun-ga il pur ammiratissimo Flaubert. E poi il personaggio è intrigante, con quella cor-te di amici misteriosi e l’atteggiamento ambiguo fra garbo e ironia. A lui Moranddedica questa Ode, in apertura del suo libro di esordio in poesia11. Proust vieneritratto nel suo interno di chambre de malade, afflitto dall’asma ed eternamentein ambasce per la propria salute.

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8 Il leone africano fa riferimento al monumento centrale di Place de la République. Inoltre Satie compose

nel settembre 1903 un brano musicale per pianoforte a quattro mani intitolato Trois morceaux en forme

de poire.9 Paul Morand, Venezie, Vicenza, Neri Pozza, 1995.10 Ginette Guitard-Auviste, Paul Morand, Parigi, Hachette, 1981, pag. 67 e ss.11 Paul Morand, Poèmes.Lampes à Arc, Feuilles de température, Parigi, Au sans pareil, 1924.

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Ode a Marcel Proust

Ombre Ombranée de la fumée de vos fumigations nata dal fumo dei suffumigi le visage et la voix con il volto e la voce mangés par l’usage de la nuit divorati dall’uso della notte Céleste, Céleste,Avec sa vigueur douce, me trempe dans le jus noir ferma e dolce, mi introduce nel succo nero de votre chambre della vostra stanzaqui sent le bouchon tiède et la cheminée morte. che sa di sughero tiepido e di camino spento.………………………………………………… …………………………………………….. Je dis: “Vous avez l’air d’aller fort bien”. Dico: “Sembrate proprio in forma”.Vous répondez: Rispondete:“Cher ami, j’ai failli mourir “Caro amico, per tre volte oggi trois fois dans la journée”. sono stato sul punto di morire”:………………………… ……………………………….. Et que vous voici, ce soir E come dunque stasera siete quipétri de la pâleur docile des cires afflitto dal docile pallore dei ceri mais heureux que l’on croie à votre agonie douce lieto di farci credere alla vostra dolce agonia de dandy gris perle et noir? di dandy grigio perla e nero?

Con una delle sue tipiche reazioni in cui si mescolano gentilezza e plai-santerie, Proust risponderà all’omaggio di Morand con questi versi:

Ode a Paul Morand

Cher ami, quelle est cette Lampe à Arc Caro amico, qual è quella lampada ad ArcoQui vous a empéché d’aller aux Fêtes che vi ha impedito di andare alle Feste De Jeanne d’Arc di Giovanna d’ArcoN’est-ce pas inconcevable L’ho trovato a maneggiare il fuoco Je l’ai trouvé avec du feu non è inauditoDu reste il (Proust) devient del resto lui (Proust) diventaDe jour en jour plus gâteux. Ogni giorno più rammollito.12

Al breve componimento aggiunge la precisazione (disattesa da Morandstesso nel 1948): ”Estratto della mia Ode a Paul Morand che non sarà mai pub-blicata”.

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12 Traduzione di Luciana Frezza, op. cit., p. 130

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DUE POESIE

di Maria Luisa Gravina

LA MONTAGNA

Apre il suo segretod’impenetrabile rigoreperché il solepossa entrareper riscaldarne i sassie tingere i fiori di rosso.

La montagna parlaoffre la sua linguadi sterpi e foglieper dialogare con il cielo.

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FELICE NATALE

Felice Natalesorriso nel cuoreil mio alberoha riacceso le luci

l’amore non si nasconde così come il tempo.

Abbiamo toccatoi bicchierie di nuovo brindato.

Indossola graziadei miei vent’anni

tu la guardie la riconoscied insieme piangiamo abbracciati.

L’amorenon si offendedel tempo che passa

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THÈ A CEYLON

di Milena Buzzoni

Quando, nel 1956, decide di vivere nello Sri Lanka, lo scienziato e scrit-tore Sir Arthur C. Clarke afferma che è il posto migliore al mondo da cui os-servare l’universo! D’altra parte se si osserva lo Sri Lanka dall’interno si sco-pre un universo in miniatura. In effetti l’isola che aveva incantato Marco Poloe dove addirittura gli antichi immaginavano l’Eden, offre una varietà sorpren-dente di paesaggi. È un paradigma dei diversi aspetti della natura che ha de-positato qui il meglio di sé: dalle ammalianti spiagge di palme e sabbia fine,attraverso la zona delle piantagioni di tè che rivestono come una moquette lecolline interne, fino ai quasi duemila metri della stazione montana di NuwaraEliya, passando nel fitto di una vegetazione fatta di palme e banani e interrot-ta da laghi e cascate. Ma, oltre la natura, anche il segno di una civiltà, l’impron-ta accattivante dell’uomo.

Alla Malpensa scopriamo che l’aereo ha un motore in avaria: attesa sen-za notizie ciondolando tra un free shop e l’altro, comunicazione che si parti-rà il giorno dopo, trasferimento a un Novotel blindato da un grigiore spessoe compatto come amianto. Notte tranquilla e scontenta, anche se i contrattem-pi aeroportuali sono come i dolori del parto: nell’ottica del viaggio che si di-pana di giorno in giorno con le sue sorprese, come in quella della crescita diun figlio, le difficoltà iniziali si scordano!

Finalmente l’imbarco. Scalo serale a Dubai in una confusione di luci chenon ci permette, come speravamo, di individuare nessun grattacielo. In com-penso ci accoglie uno scintillante free shop pieno di ottoni, gioielli e vetrine.Incrociamo sceicchi bianchi e donne nere senza volto tra oro a 22 carati, bor-se Armani e profumi Chanel.

Atterriamo a Colombo in un aeroporto che somiglia più a un centro com-merciale: prima del ritiro bagagli, stand di lavatrici, liquori, TV, congelatori. Ciaccoglie un edificio semplice con alte vetrate dalle quali si vede un giardino dipalme e banani. Il cielo è azzurro e fuori un buon caldo ci risarcisce delle dif-ficoltà della partenza e ci immerge subito in un clima di vacanza.

Mansour, la nostra guida, è un piccolo cingalese premuroso e simpati-co. Saliamo sul pulmino che ci dovrebbe portare direttamente all’antica capi-tale, avendo perso, per il ritardo dell’aereo, l’escursione alle spiagge di Negom-bo. Guida a sinistra, strade strette e in pessime condizioni, assenza di segna-letica, ci immergono subito in un traffico non caotico perchè si tratta di per-corsi di campagna, ma pericoloso. Tutti, compresi pulman pieni di gente ap-pesa anche fuori, camion carichi di legname, tuc tuc, vanno velocissimi azzar-dando sorpassi punibili qui con il ritiro a vita della patente! D’un tratto un ru-

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more secco blocca il nostro mezzo. L’autista, Mansour e un ragazzo che rimar-rà con noi per l’intero viaggio rivelandosi un aiuto prezioso, scendono. C’è unproblema a una gomma che va sostituita. Scendiamo tutti e ci allontaniamo dal-la carreggiata dove i mezzi in transito ci sfiorano senza tanti complimenti.

-No problem, no problem! - ci rassicura Mansour. Intanto ci sediamo all’om-bra del pergolato di una specie di bar, una capanna di legno e paglia dipinta diceleste dove un uomo gentile ci offre sedie e qualche bibita fresca. Le nostre gui-de trafficano attorno al pulmino, tirano fuori quella che dovrebbe essere una ruo-ta di scorta ma, sorpresa! è incompatibile con tutte le altre. Fermano un tuc tucdi passaggio e anche il conducente di questo mezzo comincia ad armeggiare conla testa infilata tra le gomme. Mansour con aria soddisfatta, ci fa segno di sali-re. Bene! La sosta in fondo è stata breve! L’autista mette in moto ma un rumoreforte e intermittente impedisce al pulmino di muoversi.

-Il semiasse! - sentenzia Federico con il suo inguaribile ottimismo- il se-miasse è andato!

Tutti fuori un’altra volta. Ci lasciamo di nuovo cadere sulle sedie del bar,spostiamo gli occhi dal pulmino all’autista all’orologio. Abbiamo alle spalle oredi viaggio senza dormire! Ci mancava anche questa! Finalmente ci chiamanoe spiegano che l’unica soluzione è proseguire senza la ruota, nel senso che sitratta di una ruota centrale gemellare di cui si può fare a meno. L’autista giu-ra che andrà pianissimo ma la vista di quel mezzo senza la gomma e soprat-tutto un’occhiata alle altre, lisce e qua e là lacerate, è poco rassicurante!

Si è fatto tardi per arrivare sino ad Anuradhapura. Mansour suggeriscequalche modifica al programma e per non perdere tutta la giornata, decidia-mo di vedere il tempio rupestre di Dambulla. Il nostro pulmino effettivamen-te procede piano e con prudenza e ci porta senza ulteriori problemi ai piedidel Royal Rock Temple . L’idea di salire duecento scalini non ci riempie di gio-ia ma raccogliamo le ultime forze pensando che sono già le cinque, il sole siè intiepidito e si avvicina il miraggio di un agognato letto! Sul percorso che ta-glia una vegetazione fitta ci vengono incontro, sole o a gruppi, le scimmie. Mol-te se ne stanno in coppia a spulciarsi meticolosamente, altre ci saltellano at-torno agguantando le borse e ficcandoci dentro la testa per vedere se c’è qual-che cosa da mangiare. Con quel faccino vizzo sembrano vecchiette impertinen-ti o più macabramente le teste ridotte degli Jibaro del Sud America. I loro nu-clei familiari, quel muoversi insieme, mamma, papà e cuccioli, l’atteggiamen-to solidale ne fanno misteriosi replicanti umani.

Man mano che saliamo ci accoglie un’aria tiepida che soffia su questa enor-me roccia e le dà vita.

Il tramonto in fondo alla nostra visuale scivola sui boschi sottostanti e co-lora il cielo di rosa e arancione. Poi tutto diventa azzurro pallido, anche i bacinid’acqua che spuntano tra i rami spogli degli alberi di Frangipani. Cani macilentie capre si arrampicano sulla montagna brulla, tagliata ai piedi per accogliere untempio lungo e basso fatto costruire dal re Valagamba. Cacciato dalla capitale ver-so il I sec. a.C., è l’artefice delle cinque grotte scavate nella montagna e comple-tamente affrescate, che contengono ben centocinquanta effigi del Buddha.

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La prima grotta alla quale, come per le successive, si accede da un bian-co porticato a colonne, contiene un Buddha sdraiato di quindici metri che at-traverso l’oro e i colori che lo rivestono, ci guarda come un paziente padronedi casa. La seconda grotta, lunga 50 metri e alta 7, è la più spettacolare, com-pletamente affrescata da brillanti pitture che rappresentano l’arrivo del bud-dhismo nell’isola e le gesta dei sovrani. Mi domando come si siano mantenu-te figure così vivide in un ambiente tanto umido; non a caso un grande reci-piente di bronzo raccoglie l’acqua che gocciola dal soffitto e che viene usataper riti sacri.

Qui dentro c’è una strana atmosfera, come se il tempo fosse rimasto fuo-ri da queste grotte, come se i fiori votivi freschi e colorati fossero qui da sem-pre, come se un rispetto soprannaturale concedesse alle pitture, alle statue, aifiori una vita eterna.

Usciamo e scendiamo per le scale attraverso la vegetazione che ormai l’om-bra della sera nasconde.

Arriviamo all’Amay Lake Hotel per una strada accidentata che costeggial’omonimo lago. Dal finestrino vediamo dei ragazzi tuffarsi nell’acqua: vola-no in cielo per un attimo, lo scarabocchiano di nero con le loro figure in con-troluce poi scompaiono.

Tra gli alberi spuntano le luci dell’albergo adagiato su un parco e rischia-rato dai fanali di un centinaio di casette-bungalow nelle quali dormiremo. An-che la piscina è illuminata e la sua vista ci rigenera come quella del ristoran-te affacciato su un prato che, in fondo, lontano, lascia indovinare la quiete dellago. Un bagno, la cena e finalmente il letto!

Aristocratici uccelli bianchi e scoiattoli ci intrattengono la mattina suc-cessiva mentre facciamo colazione. Attraversiamo in fretta il prato umido perraggiungere il lago e scattare qualche foto: dall’acqua emerge un albero e ac-qua e erba, nell’incerta nebbia mattutina, vibrano placide come un miraggio.

Dopo un percorso in pulmino che prolunga il torpore notturno, ci tro-viamo sul lungo viale di Anuradhapura che fu capitale nel 380 a.C. , il cui cen-tro è costituito dalla Bodhi tree, esattamente uno Sri Maha Bodhi volgarmen-te detto pipal, il più vecchio albero certificato al mondo. Questa pianta colos-sale è cresciuta da una talea prelevata in India dalla principessa Sangamitta,sorella di Mahinda che introdusse le dottrine buddhiste nell’isola. Proprio sot-to un albero della Bodhi Buddha ebbe l’illuminazione (bodhi = illuminazione),ecco perché è considerato l’albero sacro per eccellenza. Circondato da una altapiattaforma, ha accanto a sé altri alberi più modesti che sono altrettante taleedella pianta principale. Nei giorni di poya, ossia plenilunio, migliaia di fedeliaccorrono qui a depositare le loro offerte.

Ripercorriamo il viale, facendo più caso, adesso, agli enormi alberi che nonsolo lo delimitano ma abitano anche il bosco che lo circonda, alberi da fiaba contronchi multipli tra i quali saltellano le scimmie mangiando polpette di riso ros-so. Dietro il museo etnografico notiamo un bianco dagoba o stupa, dalla classi-ca struttura a “mucchio di riso”, con l’alta guglia che perfora il cielo, protetto daun muro dove sono scolpiti centinaia di elefanti uno accanto all’altro. All’interno

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di questi edifici religiosi sono racchiuse le reliquie di personaggi sacri. Attornoun bel parco è interrotto da mucchi di rovine, resti di stagni, vasche, colonne epilastri tutti scenograficamente inclinati in differenti direzioni.

Con il pulmino ci spostiamo verso nord in una zona boschiva dove sor-ge il Thuparama Dagoba, il più antico dello Sri Lanka, anzi probabilmente il piùantico degli stupa ancora esistenti al mondo (ne è piena l’Indocina dove sonoarricchiti con fregi di ceramica, stucchi o lamine d’oro).

Siamo affamati e anche se ci lamentiamo delle eccessive calorie dovutealla formula “pensione completa” che ci fa rinunciare al più frugale “paninodel pezzente” (quello, per chi non lo sapesse, derivato dal buffet della primacolazione!), ci buttiamo sui papadam, deliziose sfogliatine tipo patatine fritteprima di riempirci i piatti di kola kanda un insieme di riso, cocco e verdure con-dito con sambol (condimento di vari ingredienti pestati con peperoncino) al ri-storante affacciato sul bacino lacustre della cisterna precristiana di Nuwara Wewa.

Passiamo il pomeriggio tra le rovine conservate meglio e di maggiore sug-gestione dell’altra storica capitale dello Sri Lanka, Polonnaruwa. Vecchia “sola-mente” di mille anni e dal 1982 Patrimonio dell’umanità, offre un piacevole per-corso nel suo parco storico. Dagli spessi muri di mattoni del Palazzo Reale deicui sette piani resta solo il perimetro, ci spostiamo alla Sala delle Udienze deco-rata con un fregio di elefanti ciascuno in una posizione differente, al Quadrila-tero, un gruppo compatto di rovine poste su una piattaforma sollevata, cinta daun muro. Per entrare nel Vatadage , un edificio circolare con quattro entrate fian-cheggiate da guardiani di pietra, oltrepassiamo una “pietra di luna”, il primo gra-dino a forma semicircolare di una scalinata che porta a un luogo sacro. Elabo-rate sculture seguono la linea curva del suo profilo e ogni arco simboleggia unpasso avanti nel cammino dalla vita umana (gli archi esterni) all’illuminazione(il semicerchio interno). I fiori dell’arco esterno rappresentano la vita umana, men-tre quello con le figure di animali (elefante, leone, cavallo e toro) simboleggia lesfide dell’esistenza: nascita, malattia, vecchiaia e morte. La vite che serpeggia inmezzo a questi elementi raffigura il groviglio in cui l’uomo può restare impiglia-to se si allontana dalla giusta via, mentre i cigni rappresentano i santi e gli an-tenati che possono aiutarci durante il cammino. La vite vicino al centro è sim-bolo delle sfere cosmiche, mentre il centro con i petali di loto rappresenta il nir-vana cioè l’illuminazione. Ci perdiamo nel micro-universo disegnato ai nostri pie-di come un tappeto e nella luce del tardo pomeriggio giriamo tra queste voci an-cora in grado di evocare bellezza e far vivere una civiltà. Arriviamo al Gal Pota,il libro di pietra, un parallelepipedo lungo 9 metri per 1 metro e mezzo e spes-so più di 60 centimetri. Si tratta di una colossale raffigurazione ( 25 tonnellate!)di un libro di ola, le foglie di palma sulle quali tradizionalmente si scriveva. Il fit-to testo inciso sulla superficie esalta le virtù del re. Mentre passo il dito sui ric-cioli di quella grafia penso che pochi elementi suscitino emozioni e trascininoindietro come la scrittura, il gesto che conserva l’energia della mano e l’andamen-to del pensiero, il segno ancora caldo di una vita.

Sul pulmino sfoglio la guida per cercare qualche anticipazione sull’escur-sione di domani. Pare che ci aspettino 1200 scalini per risalire i 200 metri del-

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la rocca di Sigiriya. In effetti quando la vediamo spuntare come un gigantescometeorite tra il verde punteggiato di laghi, ho la sensazione che si tratti di unelemento soprannaturale rotolato dal cielo. L’intero paesaggio è una specie diPiazza dei Miracoli della natura, qualcosa che non ha relazione con l’ambien-te, che non ti aspetti, stupefacente come un prodigio. La rocca del Leone (que-sto è il significato della parola Sigiriya) è un accumulo di magma indurito pro-veniente da un vulcano estinto. Secondo la leggenda ebbe funzioni regali e mi-litari fino al I sec. d.C. e fu residenza inespugnabile del re Kassapa dopo cheebbe deposto e assassinato il padre. Nuove prove archeologiche propendonoinvece per la presenza di un tempio buddista.

Alla base la rocca è circondata da una foresta fiabesca che ci accompa-gna nella prima parte della salita. Giardini lacustri, isolotti con padiglioni, roc-ce di varie forme come quella cosiddetta del “cappuccio del cobra” per la curva-tura che si allarga in alto e poi si stringe, alberi giganteschi che creano un sot-tobosco ombroso e ordinato dove ci aspettiamo di incontrare i sette nani! Le sca-le, prima brevi e interrotte dal bosco, si fanno sempre più lunghe e ripide e ri-salgono la rocca come quelle dei Pigmei addossate al corpo di Gulliver. Gruppidi scimmie ci vengono incontro in equilibrio sulla roccia scoscesa e sulla ringhie-ra. Una scala a chiocciola di ferro ci porta a una lunga galleria coperta, scavatanella ripida parete. In questa grande nicchia spiccano una ventina di ritratti fem-minili (in origine pare fossero ben 500!) a mezzo busto, ornate di collane e brac-ciali con una straordinaria vivacità di colori: ocra, verde acqua, ruggine. Mentrela leggenda ne fa dame della corte del malvagio Kassapa, la storia le attribuiscepiuttosto a raffigurazioni di Tara Devi, dea del buddhismo mahayana.

Al di là della galleria degli affreschi, il sentiero che percorriamo costeg-gia la ripida parete rocciosa, protetto sul lato esterno da un muro alto 3 me-tri. Questo, trattato con bianco d’uovo, cera, intonaco e polvere di pietra di lunae lucidato a specchio con tamponi di foglie, creava una superficie destinata ariflettere gli affreschi di fronte e a raddoppiare il piacere della loro vista. Oraè una lastra lattiginosa coperta di graffiti.

Ci troviamo finalmente su una piattaforma dalla quale partiranno gli ul-timi prodi per la scalata finale alla sommità della rocca. A incoraggiare chi sicimenta, le gigantesche zampe del leone di mattoni, ormai scomparso, che pre-sidiava il luogo. La scala prosegue proprio in mezzo agli artigli e con un ulti-mo sforzo solo in tre del nostro gruppo di otto guadagniamo la cima. Il pae-saggio è lo stesso di quello visibile dalla piattaforma: un’immensa pianura ver-de. Il tempo però sta peggiorando, nuvole scure si addensano sui perimetri rot-ti degli edifici, si alza il vento e comincia a cadere qualche goccia. Sulla via delritorno, la discesa è rapida ma un acquazzone ci costringe a una sosta. L’aiu-tante della nostra guida ci viene incontro con gli ombrelli salendo un buon trat-to di scale. Raggiungiamo il nostro pulmino neanche troppo stanchi. Allunga-ti sui sedili puntiamo gli occhi fuori dai finestrini.

La strada per Kandy taglia una serie di villaggi violentati dal cemento. Lecase non sono che parallelepipedi nudi e bassi o coperti da cartelli pubblicitarianni ’50 con ingenue facce sorridenti. Ai piani superiori qualche balcone è soste-

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nuto da colonnine o pannelli di cemento traforati o da ringhiere cromate, pove-ri tentativi di bellezza. Fitte sulle facciate le scatole dell’aria condizionata.

Scendiamo al giardino delle spezie dove un cingalese che parla perfet-tamente italiano ci conduce tra piante di caffè, noce moscata, ginger, cannel-la, cokain. Rubo una piantina di anturium che mi ficco nella borsa. Giriamo perl’annessa erboristeria tra bottiglie di oli essenziali e barattoli di unguenti.

Proseguiamo per la strada verso Kandy dove ricomincia a piovere a di-rotto. Anche qui come in Marocco, in Tunisia o in Vietnam vediamo case in co-struzione abbandonate, pilastri da cui spuntano i ferri, muri di mattoni nonfiniti, piani sospesi nel vuoto. Niente come la sequenza di queste interruzio-ni evoca miseria e qualcosa di più: la mortificazione di un progetto, il fallimen-to di un sogno.

Arriviamo a Kandy e la troviamo appoggiata in una conca verde circon-data da colline cosparse di piccole case come dentro un paesaggio prealpino.Capoluogo della Hill Country è a 500 metri di altitudine e fu la capitale dell’ul-timo regno cingalese caduto in mano agli inglesi nel 1815. Il centro gravita at-torno al lago, sulla cui sponda settentrionale sorge il Tempio del Sacro Dente,in cui è custodito un dente di Buddha. Secondo la leggenda fu strappato allefiamme della pira funeraria nel 543a.C. e introdotto nell’isola mille anni doponascosto tra i capelli di una principessa. Il tempio che lo ospita risale al 1700ed è una costruzione imponente bianca e rosa circondata da un fossato. All’in-gresso sonnecchiano diversi cani malati e macilenti come tutti quelli che ab-biamo incontrato finora e ai quali distribuiamo i panini del buffet.

Il sacrario in cui è custodita la reliquia è meta di continui pellegrinaggiper migliorare il proprio karma ma anche per onorare un simbolo di sovrani-tà. Ci perdiamo la festa più importante di Kandy, durante la quale ogni quat-tro anni, tra luglio e agosto, il dente di Buddha viene portato in processionecon una grande cerimonia. Vediamo le foto in uno sfavillio di luci, con l’urnad’oro a forma di dagoba che possiamo realmente osservare dall’ingresso.

Raggiungiamo l’hotel risalendo una collina. La costruzione, lunga e ros-siccia, si affaccia sulla vallata con l’imponenza e la soggezione dell’albergo di“Shining” , ma confidiamo in un migliore esito della serata! Da lassù si godeun magnifico panorama sulle montagne circostanti, l’aria è fresca e piove leg-germente. Nessuno nuota nella piscina sottostante.

Il mattino seguente il sole festeggia i velluti, i galloni d’oro, l’abito scin-tillante di una coppia di sposi d’alta casta ( così ci dice Mansour) che si fa fo-tografare sotto i porticati dell’albergo circondati da uno stuolo di damigelle inabiti altrettanto ricchi.

Ci aspetta l’orto botanico, una lunga passeggiata in un parco enorme,perfettamente curato, che ci regala due ore di pace e bellezza. Ogni scorcio sem-bra un prodigio di ikebana : erba rasata in prima fila, aiuole fiorite e galleriedi rampicanti in secondo piano, palme, durian, banani, bambù, rose del Vene-zuela, alberi dalle fronde piangenti o dall’altissimo fusto contro un cielo az-zurro scarabocchiato dal volo dei pipistrelli sullo sfondo. La parte centrale diun vasto, concavo prato, posato lì come un vassoio,è occupata da un fico be-

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niamino che somiglia a una cattedrale. I rami sono sostenuti da pilastri di fer-ro e l’ombrello crea un’architettura di fronde e di ombre.

Entriamo nella serra delle orchidee dove sembra che mondo animale evegetale si siano fusi per creare sintesi spettacolari: orchidee viola con petalireticolati come vasi sanguigni; arancione e nere con lingue tigrate; bianche egialle con becchi ritorti.

Prima di raggiungere Kandy, una sosta d’obbligo assolutamente turisti-ca, al museo delle pietre preziose. Zaffiri, ametiste e topazi non ci entusiasma-no, siamo più ansiosi di infilarci da un antiquario di cui Lorenzo ha un indi-rizzo a rovistare tra la polvere.

Il negozio occupa una vecchia casa in un susseguirsi di stanze, corridoie scale. Adocchiamo roba piccola, facilmente trasportabile. Non so rinunciarea un anello lavorato a mano con un grosso quarzo bianco ma non riesco a farscendere al di sotto dei 120 dollari il prezzo di un libro di ola, una specie dialbum lungo e stretto con la copertina superiore e quella inferiore di legno, con-tenenti al loro interno un centinaio di foglie di bambù scritte fittamente. Sem-bra che la scrittura indiana, fatta di volute e riccioli sia dovuta alla fragilità del-le foglie di palma su cui veniva effettuata, soggette a tagliarsi facilmente sot-to la sollecitazione di linee rette. Mi accontento delle due imitazioni più pic-cole ma ben fatte, comprate a due dollari tra le rovine di Polonnaruwa da unragazzo che giurava fossero opera del nonno.

Il pullman ci lascia a un vecchio ponte sul lago, dal quale raggiungiamoil corso della piccola città che non rinuncia al traffico e a un fitto via vai di gen-te. Sul marciapiede lustrascarpe, mendicanti, venditori di bandiere e di coltel-li, ma anche le vetrine di un moderno supermarket. Al mercato che troviamoa metà strada compro due borse di tessuto a quadretti che si chiudono a sac-chetto. Gli edifici che si affacciano sul corso hanno una certa eleganza di gu-sto inglese, qualche porticato, un obelisco sulla piazza. Non abbiamo molto tem-po e riprendiamo il pulmino attraversando il ponte sul quale ci aveva lascia-to e scattando qualche foto alla vecchia balaustra traforata e al lago.

Risaliamo verso la zona collinare delle piantagioni di tè che ricoprono coni loro cespugli bassi e lucidi estensioni a perdita d’occhio. Spiccano tra il verdecompatto gli abiti delle raccoglitrici, il sacco grigio buttato sulle spalle, le schie-ne piegate sui germogli. Corsi d’acqua e cascate spezzano l’uniformità del pae-saggio. Rallentiamo in prossimità di una di queste e una donna anziana e un bam-bino si avvicinano al pullman. Chiedono qualcosa da mangiare. Dal finestrino vedospuntare le loro mani scure, si allungano, si aprono e si chiudono come quelle dichi sta per annegare. Sporgono oltre il cinturino di acciaio del submariner di Fe-derico, oltre la sua mano bianca e solida che porge brioches e pan carré sottrat-ti al buffet dell’albergo e destinati ai cani randagi. La donna li nasconde nel sa-hari e ringrazia con gli occhi lucidi. Noi, saziati dalla formula “pensione comple-ta” pranziamo senza appetito al Blufield annesso alla fabbrica di tè, un edificioceleste primi novecento dove seguiamo distratti le fasi di selezione della pianta.

Arriviamo in serata a Nuwara Eliya, quota 2000. Il paese è povero e squal-lido. Tra il cemento spicca una chiesa cattolica rosa e bianca. Facciamo un giro

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in un supermercato con una bella porta Liberty, finita lì chissà come, dove com-priamo tè, riso rosso e lenticchie gialle. Il nostro albergo appena discosto dalcentro è una vecchia residenza inglese, con i caminetti accesi, una sala da bi-liardo, tanti salottini arredati con mobili antichi. Fa piuttosto freddo e la cenadavanti alla vecchia cucina con una grande cappa di rame non ci riscalda ab-bastanza. Con sorpresa troviamo nel letto le borse dell’acqua calda!

La mattina seguente il sole illumina questa bella residenza bianca e gri-gia e ci accompagna di nuovo attraverso immense piantagioni di tè e ancoracascate e fiumi. Ci fermiamo a pranzo sul Kalany , set de “Il ponte sul fiumeQwai”, come testimoniano foto e manifesti sparsi qua e là nelle varie sale. Ilristorante è in mezzo alla vegetazione, a ridosso dell’acqua, dove si apre qual-che piccola spiaggia. Mettiamo le gambe a bagno mentre passa un gommonecarico di gente che va a fare rafting.

Arriviamo a Colombo nel tardo pomeriggio. Non ci sono autostrade e ipercorsi sono stretti e in precarie condizioni: ci mettiamo cinque ore per fare150 chilometri! È un corso d’acqua ad accompagnarci nell’ingresso alla capi-tale. Passiamo davanti all’ambasciata cinese fronteggiata da un gigantesco Bud-dha e all’Indipendence Hall che porta la data del 4 febbraio 1948, un lungo pa-diglione con il tetto a spioventi e un leone di bronzo ad ogni angolo. Attraver-so i viali della zona residenziale dove brutte architetture spezzano l’immedia-ta sensazione di accoglienza, arriviamo sulla Galle road e da lì al nostro alber-go , una vera sciccheria affacciata sull’oceano dove hanno alloggiato da Lawren-ce Olivier a Richard Nixon. Nella hall del Galle Face Hotel antiche vetrine cu-stodiscono servizi di piatti e bicchieri di epoca coloniale, ceramiche e bronzi.

Accanto all’albergo si stende il Galle Face Green, un enorme prato anch’es-so affacciato sul mare dove gli abitanti di Colombo trascorrono la serata e i gior-ni festivi. Nel tardo pomeriggio venditori di giocattoli luminosi, spade, yo yo, gi-randole, rischiarano l’ombra che s’infittisce, un gruppo di donne stende una to-vaglia e prepara un pic nic, i bambini mandano in aria gli aquiloni e corrono congli occhi puntati al cielo. Mi stupisce sempre come la gente di buona parte del mon-do faccia in fondo le stesse cose: dalla grande città al villaggio, c’è un tempo peril lavoro, uno per il riposo, uno per lo svago. Dappertutto la vigilia di festa si escedall’appartamento, dalla villa, dalla capanna o dalla tenda per incontrarsi. Que-sto replicarsi di gesti e intenzioni, questa comunione, fomenta un’indetermina-ta solidarietà: è bello stare tutti sulla stessa arca per sfuggire al diluvio.

Il nostro mezzo preferito è, come al solito, il tuc tuc, sempre disponi-bile e più a contatto con la strada, ma lo prendiamo a una certa distanza dal-l’albergo dove s’incrociano e parcheggiano solo limousines e mercedes… Conun paio di dollari attraversiamo in quattro tutta la città che è ancora presidia-ta da guardie armate. La guerra tra singalesi, il 74% della popolazione di reli-gione buddhista, e la minoranza tamil di religione induista, che dal 1970 al 2000ha fatto più di 60000 morti, si è ufficialmente conclusa con l’intervento delleforze di pace norvegesi, ma ogni tanto qualche attentato riaccende la miccia.

Arriviamo a Pettah, il quartiere dei mercati, dove si trova un po’ di tut-to. Nonostante siamo abituati a quelli di Bangkok, di Phnom Penh e di Saigon,

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il cui disordine risulta in fondo accogliente qui caos, sudiciume e miseria si me-scolano insinuando il disagio della non-appartenenza: marciapiedi sconnessi,fango, famiglie di mendicanti accucciati un po’ ovunque, l’abbandono dei vec-chi edifici coloniali, vinti dai crolli e dalla polvere, una rassegnazione latenteche estirpa la speranza, non la converte in progetto e non ne accelera i ritmi.E i ritmi qui sono sempre lentissimi, assecondati, fra l’altro, da un fitto calen-dario di festività, ben 9 al mese, oltre le domeniche e i giorni di poya!

Entriamo in una farmacia cercando creme all’aloe vera e rimedi ayurve-dici: in realtà è una piccola bottega con scaffali di legno dove si vendono me-dicine sfuse o a blister e dove si elargisce un bicchier d’acqua a chi ha urgen-za di prendersi una pastiglia.

Qui ogni strada ha la sua specialità: sarong e sahari nella zona dei tes-suti, poi forbici, coltelli, temperini, materiale da cartoleria, abbigliamento perle spose, bijotteria, pentole d’alluminio.

Offriamo banane e frittelle ripiene di verdura a una famiglia accovaccia-ta nel cortile antistante un vecchio edificio inglese. In un padiglione laterale conil tetto a spioventi sono esposti antichi macchinari, una schiacciasassi, una car-rozza, un vagone ferroviario, un’asta con insegne stradali a freccia, una seriedi lampioni. Una donna si aggira per questa sorta di museo chiedendo l’elemo-sina mentre un topo morto giace sul pavimento senza che nessuno si preoc-cupi di rimuoverlo. Domandiamo se nell’edificio che al piano terreno ospita unasezione dei pompieri, ci sia un bagno. Un uomo si offre di accompagnarci. Infondo a un corridoio troviamo un bagno-sgabuzzino senz’acqua. Uscendo e pas-sando davanti a una vetrata intravediamo delle persone attorno a un tavolo.Il nostro accompagnatore ci fa segno di accomodarci, ma siamo perplessi, nonvorremmo disturbare! Lui ride e insiste: entriamo nella stanza in penombra eci accorgiamo che non si tratta di un vertice di notabili locali ma di un conci-liabolo di manichini con polverosi abiti anni trenta e capelli tarlati. Soddisfat-to della nostra sorpresa, ci mostra altre sale con vecchi arredi, uffici con pa-raventi in legno traforato e poltrone di pelle, finestre a sesto acuto che si apro-no a ghigliottina con persiane a scomparsa sotto davanzali ribaltabili. I mec-canismi inglesi funzionano ancora ma si inceppano, la vernice è scrostata, mol-ti vetri sono rotti. Nel frattempo alla nostra guida se ne sono aggiunte altre dueche chiedono qualche dollaro. Usciamo al sole della piazza dove convergonole varie strade del mercato. Imbocchiamo la via dei gioiellieri dove scintillanole vetrine e dove lasciamo gli altri quattro compagni di viaggio alla ricerca diun ciondolo di quell’oro luminoso che vendono qui. Per tornare all’albergo riat-traversiamo Pettah, ancora qualche affollata stradina, ancora negozi.

All’ora di pranzo ci stendiamo ai bordi della piscina posta all’estremi-tà del terrazzo prospiciente l’hotel. La spiaggia sabbiosa sotto di noi non è granche, le onde sono lunghe e irregolari, nessuno fa il bagno. È caldo e non ci di-spiace questa sosta tra sole e acqua.

Non proprio entusiasti del mercato mattutino, programmiamo il pome-riggio in cerca di due negozi raccomandati dalla nostra Lonely Planet. Al Ba-refoot allestito da un’italiana e ubicato in una vecchia villa, troviamo tessuti

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fatti a mano con splendide combinazioni di righe e quadri. Le tinte che ci ac-colgono all’interno sono vivaci: i gialli e gli arancione della luce, gli azzurri, iblu e i verdi dell’ombra. È impossibile resistere non tanto agli oggetti quantoalla malia dei colori; non ci sono sfumature nelle tonalità dei tessuti delle ru-briche, dei quaderni, degli album, dei parei, dei vestiti, degli astucci, delle bor-se; è piuttosto l’accostamento diretto e sorprendente di tinte differenti, la loroviolenta sequenza a imporsi e sopraffare gli occhi.

Al Paradise Road troviamo oggetti simili di buon gusto e buona fattu-ra che però troveremmo anche in Europa. A differenza del Barefoot qui pre-valgono il bianco, il nero, l’écru e il marrone. Il negozio è ammirevole soprat-tutto perché è sistemato in un antico edificio con soffitti e scale di legno e stru-menti originali all’interno come un’enorme bilancia che pende dal soffitto coni due piatti carichi di tessuti.

Usciamo costeggiando il Victoria Park, il più grande di Colombo con unafitta vegetazione di alberi purtroppo non ancora in fiore e passiamo davantialla cupola del vecchio municipio della città, chiamato anche Casa Bianca perla somiglianza , in dimensioni ridotte, al gemello americano.

Ci avviamo a piedi verso l’albergo con l’andatura lenta, un po’ dimessa,di una domenica e di una vacanza che stanno per finire. Ci pesa il distacco dal-le cose che abbiamo visto, quelle cose che ci rapiscono alle nostre quotidianecatene e che ci lasciano sempre con la stessa domanda nella testa: tornerò piùqui? Ancora una volta? Ancora due? Mai più?

In ogni caso è con le parole migliori, quelle di un suo scrittore e poeta,Michael Ondaatge che voglio congedarmi da Ceylon, ricordando appunto, le coselasciate:

Il come entrarein un tempio o in una foresta….L’arte dei tamburi. L’arte di dipingere gli occhi.Come costruire una freccia. I gesti fra amanti.L’impronta dei denti di lei sulla pelle di lui disegnata a memoria da un monaco.I limiti del tradimento…Le nove mosse delle dita e degli occhiper comunicare emozioni…Le piccole barche della solitudine…

Una delle più forti curiosità in azione durante i viaggi, è rivolta alla let-teratura del paese che sto visitando. Cerco libri dappertutto, non solo nelle li-brerie ma anche nei supermercati, nelle cartolerie, dai giornalai quando ci sono.È un modo per comprendere, per appropriarsi del paese dal di dentro, per car-pirne l’anima. Così da Odel, uno dei più moderni centri commerciali di Colom-bo, chiedendo e infilando la testa tra gli scaffali recupero un libretto di poe-sia contemporanea “The color of my dream”, una piccola antologia di cento poe-

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ti locali emergenti selezionati tra i cinquecento pubblicati tra il gennaio e il lu-glio 2007. La apre una suggestiva definizione di Robert Frost:

“Poesia è quando un’emozione ha trovato il suo pensiero e il pensieroha trovato le parole”.

Tra le parole ho trovato queste che mi hanno riportato in Italia:

PERFEZIONE

La torre di Pisa,si erge con una bellezza mozzafiato,raggiungendo il cielo.Ipnotica scultura,e pregiato marmo,adornano il capolavoro.Ma la spettacolare irregolarità,deruba la perfezione,perciò si piange.Affondando nel soffice suolo,inclinandosi per non stare mai erettati ricorda che ogni uomo,ha una debolezzache deruba la sua perfezione. Diteli Jayasekera

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Per la morte di Jean Ferrat, avvenuta il 13 marzo 2010, pubblichiamo,partecipando al dolore degli amici francesi, questo ricordo scritto per “Satu-ra” da Philippe Popiéla.

JEAN FERRAT

LÀ IN ALTO SULLA MONTAGNA(a Jean Ferrat)

di Philippe Popiéla

Eppure la montagna è bellacome si può immaginarevedendo un volo di rondiniche l’autunno è appena arrivato

È il refrain d’una delle più famose poesie di Jean Ferrat: La montagne.La grande canzone d’autore, poetica ed impegnata, ha da poco conosciu-

to un lutto, in Francia. Il nostro cantautore dalla voce profonda, vellutata e dol-ce è morto. Centinaia di persone sono venute a rendergli un estremo omaggioal momento dei suoi funerali civili. Essi furono ripresi, per la prima volta, dauna stazione televisiva pubblica.

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In questa dolorosa circostanza tutti hanno canticchiato La montagne –con l’accompagnamento della voce del poeta della canzone francese – mani-festando con lacrime e pianti un lutto profondo.

Jean Ferrat era nato il 26 dicembre 1931 a Vaucresson (Hauts-de-Seine).Il suo vero nome era Jean Tenenbaum. Proveniva da una famiglia modesta; ilpadre, un ebreo emigrato dalla Russia, era stato artigiano gioielliere a Versail-les. Jean era l’ultimo di quattro figli. Nel 1941 frequentava il collegio Jules-Fer-ry a Versailles ed aveva 10 anni quando suo padre fu arrestato per la sua ori-gine ebraica durante una retata e deportato in un campo di concentramentod’Auschwitz da dove non sarebbe più ritornato. Jean fu salvato da militanti co-munisti che lo nascosero durante l’occupazione e ai quali voterà infinita rico-noscenza.

Nell’anno 1963, Jean Ferrat scrisse Notte e nebbia, una canzone strazian-te che testimoniava il dramma della Shoah, dello sterminio degli ebrei, facen-do riferimento al terribile film d’Alain Resnais Nuit et brouillard.

Erano venti e cento e migliaiaNudi e magri e tremanti in vagoni piombatiChe laceravano la notte con le loro unghie battentiErano migliaia o venti o centoSi credevano uomini ed erano numeri soltantoDa molto tempo i loro dadiErano stati trattiCome la mano cade non resta che un’ombraNon dovevano mai più rivedere un’estate

La fuga monotona e senza fretta del tempoSopravvivere un giorno ancora, un’oraOstinatamenteQuanti giri di ruote, di soste e di partenzeChe non finiscono di distillare la speranzaSi chiamavano Jean-Pierre, Natacha o SamuelAlcuni pregavano Gesù o Jéhova o VisnuAltri non pregavano ma che importa il cieloVolevano semplicementeNon vivere più in ginocchio

Non arrivavano tutti alla fine del viaggioQuelli che sono tornatiPossono essere felici?Provano a dimenticare stupitiChe alla loro età le vene delle bracciaSiano diventate così bluI tedeschi spiavano dall’alto delle torrette di guardiaLa luna taceva come tacevate voi

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Guardando lontano guardando altroveLa vostra carne era teneraPer i loro cani poliziotti.

Al presente mi si dice che queste paroleNon hanno più corsoChe è meglio cantare soltanto canzoni d’amoreChe il sangue secca presto entrando nella storiaChe non serve a niente prendere una chitarraMa chi ha la taglia da potermi fermare

L’ombra si è fatta umana oggi è l’estateBallerei il twist con le parole se fosse necessarioPerché un giorno i ragazzi sappiano chi eravate(…)

Questa canzone era stata sconsigliata ai media, vale a dire censurata nel1963 perché avrebbe potuto “ostacolare il riavvicinamento economico tra la Fran-cia e la Germania”. Leggere il testo di Jean Ferrat era come leggere Se questoè un uomo di Primo Levi, era meditare, ripensare alla bassezza e alla crudel-tà degli uomini attraverso la dittatura e un’ideologia funesta. Certi animatoridella televisione o della radio superarono la censura e fecero conoscere que-sto testo, vero e terribile, che era anche un omaggio al padre morto ad Auschwitz.

Nel 1966, egli conobbe “ma montagne” installandosi nella sua casa dicampagna di Bergnone, a tre chilometri dal paese d’Antraigues. Era il posto dovesi riposava tra l’una e l’altra tournée e vi fece venire i suoi amici, Georges Bras-sens, Jacques Brel, Lino Ventura e Lèo Ferrè. Jean stava per lasciare la scenadopo un ultimo concerto nel 1973 perché egli rifiutava l’aspetto commercia-le del mestiere e soffriva già di problemi polmonari. In questo senso egli se-guì l’esempio del compositore di Plat-pays, Jacque Brel, di cui era amico.

Nel 1964 aveva dedicato una bella canzone a un altro amico che gli eracaro, imitandone lo stile e il ritmo

A Brassens

È un riflesso dei tuoi baffiO il tuo gridare “morte alle vacche”Che le seduceLe tue grosse mani maldestreQuando tu le metti sopra l’allacciaturaÈ fattaLe donne di strada le donne di penaLe margotone e le germaneRicche di teCome nelle antiche storie

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Diventano tra le tue ditaVergini e sovrane

Tra i denti appena un filo d’erbaLa magia della parolaE del verbo per decoroAnche quando tu parli di fessesChe loro rimano con confesse1

O peggio ancoraBardot può mostrare le natiche sueQuesta maniera di mostrare le tueNon dispiace affattoE poiché le donne ne vanno matteNon si può dire che siano pazzeDeo gratias(…)

Nel 1965 Jean Ferrat lancia un grido: “Potemkine: è mio fratello che siassassina”. Questa canzone, era stato vietato di metterla in onda ed aveva fat-to “digrignare i denti in Francia”2 come in Russia, Potemkine era un inno ai ma-rinai il cui ammutinamento nel 1905 diede l’avvio alla rivoluzione russa. La can-zone fu censurata alla televisione francese, l’ORTF, ed essa non piacque al Par-tito comunista di Mosca e fu proibita in Russia.

Pensando alla sua vita, noi pensiamo a un comunismo fraterno, aperto allagente, lontano da ogni retorica. Egli non prese la tessera del Partito comunista e,alla fine della sua vita, s’era accostato al fronte della “gauche” di José Bové.

Nel 1980 un album, Ferrat 80, mostrava una foto di Jean Ferrat in pri-mo piano attorniato da detriti, ammassi di ferraglie e di terriccio, in mezzo aibagliori della guerra. La prima canzone era intitolata Le bilan (Il consuntivo)

Ah ci hanno fatto ingoiare rospiDa Praga a Budapest da Sofia a MoscaGli stalinisti zelanti che facevano di tuttoPer farvi sottoscrivere le confessioni più folliVoi avevate combattuto dappertuttoLa bestia immondaDalle brigate di Spagna a quelle dei maquisLa vostra giovinezza era la storia di questo mondoVi chiamavate Kostov Londra o Slanski

1 Fesses = natiche; confesse = confessione. Si è voluto conservare la rima, qui necessaria.2 Così su Aujourd’hui en France, quotidiano parigino, 14 marzo 1960. L’indomani della morte di Jean Ferrat,

questo giornale ha saputo rendere una testimonianza e un omaggio commovente al nostro poeta della can-

zone. La prima pagina diceva: Mort de Jean Ferrat. Que ses chansons étaient belles. Una fotografia recente di

Jean ci diceva addio. Noi, gli occhi negli occhi, il cuore in pena a leggere questo sottotitolo: “Uno degli ultimi

giganti della canzone francese è morto ieri a 79 anni. Artista impegnato, lascia 200 titoli e il ricordo d’un poe-

ta innamorato della libertà”.

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In nome dell’idealeChe ci faceva combattereE che ci sprona a combattere ancora(…)

Qualche giorno dopo la scomparsa, il settimanale Paris-Match gli ha reso unomaggio solenne, mettendo in risalto la sua vita, le sue passioni, il suo impegno:

“Nel corso delle generazioni, artisti e uomini politici – di sponde diver-se – condivideranno la medesima passione per l’interprete di È poco dire chet’amo. Perché le canzoni di Ferrat, al di là delle mode e del tempo, hanno qual-cosa che vi trasporta e vi eleva. Qualcosa, anche, di profondamente francesenel senso migliore del termine (…)”.

Quando Ferrat non calca più la scena, egli continua a cantare, polveriz-zando records di vendita ad ogni album. Ferrat chante Aragon3 supererà i duemilioni di esemplari; La femme est l’avenir de l’homme cinquecentomila in unmese. E poi nel 1980 Le bilan giunge a un milione di esemplari.

Ma Jean Ferrat non è soltanto poeta dell’impegno e del sociale.Nel 1961 aveva sposato Cristine Sèvres, una cantante con la quale vive-

va in un appartamento a Ivry-sur-Seine. Egli compose una canzone che era unduetto e la cantarono insieme: La matinée. Fu per loro “un mattino che si levò,un sole che inondò l’azzurro”:

Guarda l’usignolo è suonato mezzogiornoIl mondo che s’abbandonaIo lo dono ai poetiCambiare la vita e abolire poi la miseria(…)

Il mondo sarà belloLo affermo e sottoscrivo

Il mondo sarà più bello se riusciremo a ricuperare il tempo delle cilie-ge, dell’amore:

L’amour est cerise (L’amore è ciliegia)Ribelle e sottomessaLe palpebre abbassateTogliti la camicettaO bella fidanzataL’amore è ciliegiaE il tempo passa in fretta

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3 Molte le poesie d’Aragon musicate da Jean Ferrat. Tra le più celebri: Aimer à perdre la raison (Amare fino a

perdere la ragione / amare da non sapere che dire / da non avere che te per orizzonte / e non distinguere le

stagioni / che per il dolore di partire / amare da perdere la ragione (…); e Les jeux d’Elsa: (I tuoi occhi sono

così profondi / che se mi chino per bere io vedo / tutti i soli venirsi a specchiare / e gettarvisi a morire / tut-

ti i disperati. / Sono così profondi i tuoi occhi / che in essi si smarrisce la memoria (…)

Andare a ballareSarà per un’altra volta

Per quanto ci sembriRagionevole e folleNoi andremo insiemeAl di là di tutto

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Prestami la tua boccaPer amarti un pocoAprimi la tua cucciaPer l’amor di Dio

Lasciami senza timoreVenire in ginocchioA gustare il tuo assenzioBere il tuo dolce vinoE risa e piantiO parole insensateLa folle cantilenaSi è presto scatenata

Sfidiamo il mondoEd i suoi divietiIl tuo piacere inondaLa mia bocca estasiataVirtù o licenzaPer Dio me ne sbatto

Abbandono il mio semeNel tuo sesso roventeO Pierrot lunareO monti o meraviglieEcco che il mio penninoCade dal sonnoE come una lupaAi piccoli freddolosiLa notte ci ricopreCon il suo manto blu

Ribelle e sottomessaLe palpebre assonnateRimetti la camicettaO bella fidanzataL’amore è ciliegiaE il tempo passatoAndare a ballareL’abbiamo rimandato.

Più pensosamente sullo stesso tema dell’amore canterà Les cerisiers (I ciliegi)

Sovente ho pensato, la vecchiaia è lontanaMa dolorosamente la vecchiaia viene A poco a poco, con delicatezzaPer non turbare il vecchio musicista

Se vengo ingannato dalla sua gentilezzaE talora credo che sia ancora lontanaIo vorrei soprattutto che prima m’appaiaCiò di cui sognavo quand’ero monello

Ah che venga almeno il tempo delle ciliegiePrima che suoni la mia oraChe abbia chiuso le mie valige

E che m’abbiano spintoSull’ultimo treno

E noi siamo certi che l’augurio di Ferrat a se stesso si è avverato.Ha detto Juliette Greco, una delle sue amiche, all’annuncio della morte:“Jean Ferrat ha servito quelli che amava: il popolo, la gente comune che non

ha altro che la speranza e il lavoro e che talvolta aveva perduto entrambi. Egli siè molto battuto per la felicità degli altri. Sentire la sua voce magnifica era senti-re la voce della gente vera”.

E ancora oggi noi sentiamo la sua voce fraterna descrivere i fremiti dellenostre notti, il desiderio di racchiudere i giorni belli della vita al riparo dalle de-vastazioni del tempo e del male che ci perseguitano.

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Les beaux jours (I bei giorni)

I bei giorni della nostra vitaSono a tua immagineGli uni piangono gli altri ridonoEd è bene così(…)I bei giorni sono fatti cosìSi gira la paginaE il domani dopo l’oggiTrema nelle mie nottiI nostri bei giorni mio tenero amoreMettiamoli in gabbiaPrima che un ultimo turbineLi devasti (4)

(Traduzione dal francese di Guido Zavanone)

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4 Consigliamo l’ascolto dell’insieme delle sue canzoni reinterpretate tra gli anni 1979-1980-1981 per le edizio-

ni Disques TEMEY. Ascoltare queste canzoni, le canzoni indimenticabili di Jean Ferrat, è rituffarsi in seno alla

grande poesia del cuore e dell’anima, al suono di una voce dolce che ci fa “amare fino a perdere la ragione”.

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COSTANTINO NIGRA

Un piemontese alla Corte di Francia

di Simonetta Ronco

In questo anno 2010 che apre le celebrazioni per il centocinquantesimoanniversario dell’Unità d’Italia, i motivi per ricordare i personaggi più o menonoti che hanno contribuito alla causa unitaria del nostro Paese sono molti.

Di uno, in particolare, Costantino Nigra, pochi hanno scritto e la sua famaè legata forse più alle trasposizioni televisive e cinematografiche della sua vitae alle sue vere o presunte liaisons amorose, che non al suo contributo politi-co e diplomatico, che tuttavia ne fa uno dei maggiori protagonisti del nostroRisorgimento.

Grande politico, abilissimo diplomatico, collaboratore insostituibile di Ca-millo Benso di Cavour, Nigra fu uno dei principali animatori del mondo dora-to e scintillante della Parigi di Napoleone III, dove dominava la bellezza di Vir-ginia Verasis, contessa di Castiglione. Ma la vita di Costantino Nigra è ancorain parte da scoprire e pare interessante qui ricordarne anche se brevemente imomenti essenziali.

Nacque a Villa Castelnuovo, oggi Calstelnuovo Nigra, in Piemonte, l’11giugno 1828. Di famiglia borghese frequentò la Facoltà di Giurisprudenza diTorino e nel 1848, anno in cui scoppiò la Prima Guerra di Indipendenza, si ar-ruolò volontario nella Compagnia dei Bersaglieri Studenti. Significativa testi-monianza delle sue impressioni sulla vita al fronte è una lettera, inviata all’ami-co Gaudenzio Caire l’11 luglio 1848: “…Io non oso consigliarti, né sconsigliar-ti nella tua generosa deliberazione. Questo solo ti dico: se tu sei pronto a mu-tare una vita agiata, le consolazioni della famiglia, la vista della patria, dei col-li, delle mura che ti han veduto nascere, con una vita dura, faticosissima, pie-na di stenti e di sacrifizi; se tu sei pronto a rinnegare tutto il tuo amore pro-prio, a soffrir i duri trattamenti del semplice soldato…; se tu sei pronto a pa-tire la fame, la sete, il freddo, il caldo, la incomprensibile fatica di marce for-zate di venti o più miglia al giorno all’ardore cocentissimo del sole, col saccoe carabina; se tu sei pronto a dormire alla pioggia, al vento, al cielo scopertoper mesi continui; se nulla t’importa l’andare stracciato, senza calze e talorasenza camicia, il vederti coperto di pidocchi ed altra simile genia, se a tutto que-sto sei pronto per amore della patria, io ti dirò pure il generoso tra i giovani.Ma se per caso ti abbagliasse la poetica sorte del guerriero, che combatte perl’indipendenza della terra nativa, e ti affascinasse il pensiero degli allori coltisanguinosi sul campo di battaglia, il pensiero dei baci che otterrai dalla don-

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na che ti ama, quando giungerà l’ora del ritorno; se ti allettasse la vista del bel-lissimo Lago di Garda, dell’altissimo Monte Baldo che ci sta a cavalcioni, se lebrune torri di Mantova o le romantiche mura della Città di Giulietta ti lampeg-giassero, carissima vista, dinanzi allo sguardo; se ti dilettasse per avventuraarrampicarti su per gli erti gioghi della Corona e di là, curvo sulla tua carabi-na, stendere al suolo un capitano croato, se imboscato ti piacesse piombare ve-locissimamente sopra un Ungaro dal rapido cavallo; se non ti dà spavento ilvederti cadere disteso ai piedi di un carissimo fra gli amici; se ti inebria il gri-do dell’assalto, l’inno della vittoria; se ti è gradito suono all’orecchio il rombodel cannone, e poi dopo tutto ciò la tua fragile costituzione non reggesse allefatiche, ai pericoli, agli stenti d’ogni maniera, io allora non vorrei che tu mi in-colpassi menomamente della tua deliberazione…”.

Al suo ritorno dal fronte Nigra fu assunto come volontario al Ministerodegli Esteri e, se pur scrupoloso e diligente, sarebbe forse rimasto un qualsia-si impiegato se non fosse stato indicato dal suo capufficio come segretario perl’allora Ministro degli Esteri, Massimo d’Azeglio.

E in effetti d’Azeglio fu talmente soddisfatto del suo lavoro che lo ten-ne con sé. Fu l’inizio di una folgorante carriera. Anche Cavour, all’epoca mini-stro dell’Agricoltura e del Commercio, apprezzò subito le doti del giovane fun-zionario e ne fece il suo più stretto collaboratore in una attività, quella diplo-matica, che avrebbe portato in pochi anni a risultati straordinari, primo fra tut-ti l’unità d’Italia.

L’avventura politica di Costantino Nigra iniziò effettivamente nell’autun-no del 1855 con il viaggio che egli compì insieme a Cavour (nel frattempo di-venuto Capo del Governo), e Vittorio Emanuele II, a Londra e a Parigi.

Una delle doti più importanti di Nigra era l’intuito, la capacità di com-prendere completamente le idee di Cavour e di tradurle per iscritto. Nigra eraun uomo piacente: alto, biondo, con uno sguardo profondo e penetrante e su-scitava simpatia negli uomini e ammirazione nelle donne. Divenne addirittu-ra il confidente dell’Imperatore Napoleone III, assecondandone l’ambizione diimparentarsi con illustri casate. Anche l’Imperatrice Eugenia fu conquistata dalsuo fascino, ma la donna che dominò la vita sentimentale di Nigra, fu un’al-tra: una giovane italiana che in quegli anni brillava nei salotti parigini, Virgi-nia Oldoini Verasis, contessa di Castiglione.

Quando conobbe Nigra, Virginia aveva diciannove anni, ma già aveva con-quistato Napoleone III sin dalla sua prima apparizione nel palazzo di MatildeBonaparte, cugina dell’Imperatore.

Cavour, consapevole dell’aiuto che la Contessa avrebbe procurato all’Ita-lia, sfruttò a suo favore l’influenza che la Castiglione aveva sull’Imperatore; maanche Nigra era rimasto soggiogato dal fascino della giovane donna, alla qua-le scriveva: “Nicchia aurea, Venere dai triplici incanti, voglio vederti stasera, ve-stita come ti pare, meglio se nuda”.

Costantino ebbe fortuna: probabilmente con la bella Contessa, ma sicu-ramente nel proprio lavoro, perché Cavour volle che restasse a Parigi come agen-te segreto per i rapporti diretti tra Napoleone III, il re Vittorio Emanuele, e lo

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stesso Cavour. Nella capitale Nigra rimase fino al 1876 con qualifiche diverse,da incaricato d’affari e ministro plenipotenziario e quindi ambasciatore.

Ma poco a poco, anno per anno, i suoi entusiasmi giovanili svanirono,anche a causa delle delusioni politiche e si rifugiò sempre di più nello studioe nella poesia, di cui era un appassionato cultore. Di questa attività poetica re-stano documenti rilevanti, come I Canti popolari del Piemonte, considerati unadelle opere più valide della filologia folkloristica dell’Ottocento.

Nigra nel 1882 fu onorato del titolo di Conte e nel 1890 fu nominato se-natore, e quindi Cavaliere della S.S. Annunziata. Morì a Rapallo il 1 luglio del1907.

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UNA POESIA

di Sergio Arneodo

SOUFLE D’AMO

Ço que se perd dins lou réire ourisountes qu’un brin d’àmo, que sài dins moun cièl:dins la luenchoùr s’esténh, aquél passèl,ma soulitudo ténh foro dal mound.

Mounde mìou soulitàri, linde e blound,sìes dràio, que se méno moun troupèlde suèmi luénh, sìes scabòt d’anhèlfounjà sus arp e adréch, tout souple e riound.

Per méire e quiòt ménes pichòt e grant,sourtì de moun espèro, a rejouhìrruhà e coumbàl, fatìgo de ma gent.

De toun sourìre dous fas mai escléntmoun soufflé luénh, tu lou fas reflourìr,dins la luenchoùr moun cièl se fai mai grand.

(provenço mountahnhardo d’Italio)

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SOFFIO D’ANIMA

Ciò che si perde nell’ultimo orizzontenon è che un filo d’anima, che se n’esce nel mio cielo:nella lontananza si spegne quel virgulto, tinge la mia solitudine fuori dal mondo.

Mondo mio solitario, limpido e biondo,sei sentiero, che si trascina dietro il mio greggedi sogni lontani, sei branco di agnelliperso su dossi e pendii, tutto morbido e tondo.

Su per baite e ripiani conduci grandi e piccini,usciti dalla mia attesa, a ridar gioiaa borgate e valli, fatica della mia gente.

Col tuo sorriso dolce rendi più trasparente il mio soffio d’anima, lo fai rifiorire,nella tua lontananza il mio cielo si rifà più grande.

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PER RICORDARE MARGHERITAFAUSTINIdi Liliana Porro Andriuoli

Per iniziativa della Fondazione Mario Nova-ro, è recentemente apparsa una corposa e pre-gevole antologia della poetessa genoveseMargherita Faustini, dal titolo MargheritaFaustini - Prose e versi, che ci permette di ri-percorrere la sua lunga attività letteraria, ini-ziata nel lontano 1954, con il racconto Un lut-to in famiglia, pubblicato dapprima sul quo-tidiano «Il Lavoro nuovo» (21 gennaio 1954)e successivamente confluito nel volume Cie-lo d’ardesia (1975). Uno dei pregi di questa an-tologia è senza dubbio quello di offrire unapanoramica ampia ed esauriente dell’opera diMargherita Faustini, sia in prosa che in ver-si. L’antologia non abbraccia, infatti, soltan-to la sua poesia, ma si estende anche alla suanarrativa e, seppure parzialmente, alla sua at-tività giornalistica. Il volume, che consta di 356 pagine, si presen-ta in un’elegante veste tipografica, arricchitada un’incisione della nota pittrice genovese,Stefania Beraldo, la quale aveva impreziosi-to con le sue opere molte altre copertine diraccolte poetiche della Faustini. La casa edi-trice è Le Mani di Recco, presso la quale han-no visto la luce quasi tutti i precedenti libridella nostra poetessa. (Per incidens all’edito-re di Recco è legata tutta la più recente pro-duzione di Elena Bono, compresa l’antologia,Poesie Opera Omnia, del 2007).Ma veniamo all’antologia di Margherita Fau-stini. Ad apertura di volume troviamo un’af-fettuosa lettera a lei rivolta da Maria Novaro,presidente della Fondazione Mario Novaro,nonché da anni sua cara amica, seguita da unoscritto a firma di Rosa Elisa Giangoia, Una vitaper la poesia: una circostanziata biografia che,partendo dagli anni della sua formazione,giunge sino a quelli dell’età adulta, che l’han-no vista tra i protagonisti del mondo cultu-rale genovese. Quella della Giangoia non è unasemplice biografia, in quanto non riferiscesemplicemente le principali tappe della vitadella scrittrice, ma ne tratteggia molto effica-cemente anche la personalità umana, permet-

tendoci così di inquadrare più efficacemen-te quella artistica nel periodo storico in cui ellavisse e nell’ambiente che più assiduamente fre-quentò. Seguono due capitoli dedicati all’attività in pro-sa della Faustini. Il primo, L’opera in prosa -Alla ricerca dell’essenzialità, è un puntuale sag-gio di Davide Puccini, il quale preliminarmen-te esamina, nell’ordine con cui sono apparsinel tempo sui vari quotidiani, i diversi raccon-ti della nostra autrice che, seppure notevoliper freschezza e immediatezza espressiva,non sono mai stati pubblicati in volume. Suc-cessivamente il critico passa ad occuparsi diquelli di Cielo d’ardesia, il suo libro di raccon-ti che, nel 2003, ha avuto una seconda edizio-ne, ampliata di tre scritti ed arricchita da unlucida ed esaustiva prefazione, Il silenzio lo-quace di Margherita Faustini, firmata daPino Boero. Il capitolo successivo (Antologia di testi in pro-sa) consiste di un nutrito manipolo di raccon-ti della scrittrice genovese, che ci offre un as-saggio consistente della sua prosa incisiva efermamente legata alla realtà della vita e al suodivenire, sovente irrazionale e imprevedibile,ma non senza nel fondo una luce che lo ri-schiari. Il capitolo si suddivide in tre parti: Rac-conti dispersi (quelli non raccolti in volume),da Cielo d’ardesia (quelli tratti dall’omonimolibro) e Scritti giornalistici e interventi, in cuioltre a un testo pubblicato sul “Corrieremercantile” nel 1971, figura un intervento (ine-dito), pronunciato dalla Faustini in occasio-ne di una tavola rotonda, tenutasi a Genovanel 2005.A questo punto si passa ai cinque capitoli de-dicati alla poesia, il terzo dei quali, quello cen-trale che costituisce l’Antologia poetica verae propria, è formato da una nutrita ed ocula-ta scelta delle sue poesie, tratte da tutte le suesillogi, e rappresenta la parte più importan-te del libro, idonea a darci una visione vera-mente compiuta della sua opera in versi. Ri-troviamo qui testi più o meno noti, ma tuttidi forte resa espressiva e animati da una pro-fonda ansia di proiettarsi oltre il sensibile. Tale capitolo è preceduto e seguito da due con-tributi critici: i primi due sono rispettivamen-

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PROSPEZIONI Letture di Rosa Elisa Giangoia, Liliana Porro Andriuoli, Simo-netta Ronco e Giuliana Rovetta

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te di Francesco De Nicola (Una scrittura niti-da e essenziale - Nota sulla poesia) e di Bru-no Rombi (Per un’amica in poesia); mentre isecondi di Graziella Corsinovi (Poetica epoesia dell’umano, tra storia e trascendenza)e di Roberto Pazzi (La poesia onesta).Esaminiamoli nell’ordine con cui figurano nel-l’Antologia. Nel primo, con profondo acumee con puntuale serietà di metodo critico, DeNicola ci offre un vasto quadro della produ-zione in versi della nostra poetessa, a comin-ciare dalla sua prima raccolta di aforismi,Agenda personale (1973), sino a giungere al-l’ultima silloge da lei pubblicata, Opposte pre-ghiere (2008). Lo studioso evidenzia fra l’al-tro come la poesia della Faustini si ricolleghistrettamente alla sua iniziale opera in prosa(con la quale aveva appunto incominciato lasua attività letteraria) per un certo stampo nar-rativo che la contraddistingue.Il ricordo di Bruno Rombi (il secondo) ci aggior-na sui motivi che l’avevano spinto nel 2003 acurare e a prefare un’antologia poetica bilin-gue, italo-rumena (Sul filo della parola/Pe fi-rul cuvântului) riguardante la Faustini: l’uni-ca antologia su di lei apparsa mentre Marghe-rita era ancora in vita. La traduzione in rume-no è di Stefan Damian, professore di Italiani-stica presso l’Università di Cluj Napoca, auto-re anche della postfazione all’ultima silloge diMargherita Faustini, Opposte preghiere.I due saggi che seguono sono nell’ordine: unabreve testimonianza di Roberto Pazzi, nella qua-le l’autore esprime il suo appezzamento per l’in-tima moralità della lirica della Faustini, e un am-pio saggio di Graziella Corsinovi, dove è mes-sa in luce la profonda umanità che promana dal-la sua poesia, nonché la molteplicità dei moti-vi ispiratori che la reggono, con una particola-re attenzione verso il trascendente. Autentici-tà del sentire e amore per la vita sono per la Cor-sinovi elementi fondamentali della poesia fau-stiniana, sempre pervasa da un sentimento diviva simpatia verso il prossimo (in particolarebarboni ed emarginati) e dall’assidua, a volte piut-tosto inquieta e tormentata, ricerca di Dio.Caratteristica comune di tutti i contributi cri-tici inseriti nell’antologia è quella di essere sta-ti scritti da studiosi che ben conosconol’opera della Faustini, avendo tutti in prece-denza firmato almeno una prefazione o unapostfazione ad una sua silloge ed essendosioccupati della sua produzione in svariate oc-casioni.

A conclusione di libro troviamo una diffusae organica bibliografia ad opera di Maria Te-resa Caprile, suddivisa in Scritti di e su Mar-gherita Faustini, che offre a chi voglia giovar-sene la possibilità di approfondirne l’opera edegnamente completa il volume.Un’antologia, dunque, Margherita Faustini -Prose e versi, che offre un’immagine moltocompiuta dell’autrice genovese, destinatasia a farla meglio conoscere che a ricordarlaanche negli anni a venire.

Margherita Faustini - Prose e versi, Le Mani,Recco, Genova, pagg. 356, 18,00 €, 2010.

UNA SECONDA POSSIBILITÀdi Rosa Elisa Giangoia

Undici decimi di Alessio Torino (Italic, Anco-na 2010) può essere considerato un Bildun-gsroman postmoderno. Infatti ha molti dei ca-ratteri di un romanzo di formazione, ma è con-dotto in uno stile non certo tradizionale, spo-sta in avanti anagraficamente la presa di co-scienza sulla vita e attraversa l’attuale diffu-sa esperienza del giovanile disordine esisten-ziale. Protagonista è Norman Marasco, che, ap-punto ad un’età che potremmo definire dan-tescamente nel mezzo del cammin, cioè a 35anni, uscito dall’ospedale, dove era stato ri-coverato per delirium tremens, cerca di rico-struire la sua esistenza sulla base di quantopuò aver imparato dall’esperienza dell’abusodi alcool e di psicofarmaci che l’ha portato aduna condizione che poteva anche essere di nonritorno. Lui, invece, è stato fortunato, ha unanuova possibilità di vita e sa di doversela gio-care in una scelta, ormai decisiva e definiti-va, tra bene e male. Tutto questo avviene inun paese dal nome inventato, Pieve Lanterna,tra Marche ed Umbria, in una situazione diconfine tra una provincia, per molti aspetti an-cora all’antica, e realtà cittadine, come quel-le di Gubbio e di Urbino, dove il protagonistaha portato avanti i suoi studi liceali ed uni-versitari, fino alla laurea in Geologia. Lo stu-dio delle rocce e dei fossili l’ha sempre appas-sionato, fin dall’adolescenza, quando era en-trato in contatto con ricercatori americani cheoperavano in quella zona dell’Appennino, poila sua vita era stata travolta dal disordine, finoal rischio estremo e al suo superamento. Orache Norman capisce di avere una seconda oc-casione per giocarsi la sua esistenza, vuole vi-

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vere le sue esperienze senza farsi condizio-nare dai comportamenti e dalla mentalità delpiccolo mondo di provincia in cui si ritrovainserito. Inizia una vita nuova, senza più lamacchina, abbandonato dalla fidanzata, per-so anche il lavoro: ricomincia girando a pie-di, in bicicletta o in corriera, come ai tempi delliceo, ma con uno spirito nuovo, un atteggia-mento diverso nei confronti di se stesso e de-gli altri. La sua attenzione è tutta sulle sueesperienze di vita, quelle del passato e quel-le del presente, le une che illuminano e dan-no senso alle altre. Il suo impegno è teso al-l’analisi di se stesso, in un desiderio di appro-fondimento e di conoscenza, sostenuto da unamorale personale, più autentica e rigorosa ri-spetto a quella della banalità quotidiana del-la vita di provincia. È questa una strada in sa-lita che Norman percorre con fatica, ma conil miraggio sempre più chiaro di una ricostru-zione positiva di se stesso. La fatica di que-sta nuova esistenza trova correlazione ogget-tiva nel nuovo lavoro che egli intraprende: ac-cantonata l’esperienza di custode del Museodi Geologia che il Comune gli aveva affidato,fa il muratore, con operai stranieri con cui con-divide esperienze e modi di vivere. È un lavo-ro manuale, faticoso, ma vero, come vera deveessere ora la sua vita. Queste vicende avven-gono nell’anno del terremoto di Assisi, che sifa simbolo della precarietà dell’esistenza, maanche della forza e della speranza insita nel-la vita stessa di una sempre possibile ricostru-zione, attraverso la fatica, ma grazie all’im-pegno, alla decisione, alla scelta di fare o nonfare certe cose. Ed ecco così chiarita la scel-ta del titolo emblematico Undici decimi, cioèla possibilità di vedere di più, di vedere oltrele cose, di penetrare in esse e di dare sensoalla vita, con volontà, fiducia e speranza.Il carattere postmoderno di questo romanzoè dato dallo stile, ben adatto ad esprimere l’iti-nerario di personale ricostruzione del perso-naggio, che si racconta attraverso una scrit-tura fortemente analogica, privilegiando le im-magini, rapide, sovente appena accennate, at-traverso un intrecciarsi di piani temporali di-versi, in quanto l’aspetto diacronico, purnella pluralità di vicende che si verificano edi personaggi che popolano il romanzo, nonè importante, perché tutto ha il suo centrod’interesse nella coscienza del protagonista,in cui quanto emerge e quanto viene vissutoè sempre ugualmente presente, perché al mo-

mento determinante per andare avanti versoun futuro.

Alessio Torino, Undici decimi, Italic, Ancona2010

UNA DONNA NELL’OMBRAdi Rosa Elisa Giangoia

In questa biografia romanzata, Maria RosaAcri, che già aveva dato ottima prova di sa-per ricostruire vicende di personaggi storica-mente non di primo piano con puntualità sto-rica e penetrazione psicologica, cimentando-si con Annie Vivanti (Annie. Il romanzo di An-nie Vivanti ultima musa di Giosuè Carducci,MEF, Firenze 2008), delinea la personalità ela vita di Nicoletta Connio, moglie di Carlo Gol-doni. Quella di Nicoletta, di famiglia borghe-se genovese, andata sposa giovanissima alcommediografo veneziano, è una vita nell’om-bra, tanto che si può dire che la narrazionenon racconti tanto la vita di questa donna, diper sé priva di fatti significativi, ma piuttostoquella del suo illustre marito, osservata attra-verso i suoi occhi e partecipata con il suo cuo-re. Goldoni conosce Nicoletta nel 1736, a Ge-nova, dove si è recato per la rappresentazio-ne di una sua commedia: è una giovinetta se-ria e riservata, che ha modo di osservare dal-la finestra occhieggiando sul balcone della casadi fronte a quella in cui lui alloggia. Si sposa-no nello stesso anno e si trasferiscono a Ve-nezia, dove la giovane trova caratteri delle per-sone ed abitudini di vita molto diverse, rispet-to alla sua Genova, così chiusa ed austera. MaNicoletta ha un’indole duttile e soprattutto di-spone di intelligenza e finezza d’intuizione,per cui ben si adatta al nuovo ambiente, di-mostrando grande capacità di stare al fiancodel marito, che, pur amandola con affetto epassione, non ha certo un carattere facile edabitudini di vita sempre lodevoli. È impulsi-vo, ma soprattutto è dedito al gioco d’azzar-do, con cui sovente mette a rischio la situa-zione finanziaria della famiglia e si abbando-na spesso e volentieri a scappatelle amorose,favorite anche dall’ambiente del teatro in cuisi trova ad operare. Nicoletta accetta, soppor-ta, tollera, sempre sicura che gli alti e bassidella fortuna sono una costante della vita, masoprattutto fiduciosa che le sbandate senti-mentali passano rapidamente e che l’amoredel marito tornerà a prevalere nel suo cuore,

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pur sempre ansioso di novità. E così passanogli anni, con il dispiacere per la lontananza daisuoi famigliari, a Genova, ed il rincrescimen-to per la mancanza di figli, i successi e gl’in-successi teatrali, le invidie e le animosità deicolleghi, fino alla decisione imprevista del tra-sferimento a Parigi, dove le speranze di affer-mazione nell’ambiente sfarzoso della corte diVersailles vengono ben presto offuscate dal-le drammatiche vicende dovute allo scoppiodella Rivoluzione. Ma Nicoletta rimane sem-pre fedele e felice accanto al marito, anche nel-le difficoltà degli anni parigini, fino allamorte di lui e al suo breve sopravvivere.

Tutte queste vicende sono narrate dall’au-trice con garbo e in un continuum che stabi-lisce un attraente rapporto con il lettore, sem-pre invogliato e motivato a proseguire.

M.R. Acri, Nicoletta Goldoni Connio. Unamoglie genovese, MEF, Firenze 2010

UNA SCRITTRICE SI PRESENTAdi Rosa Elisa Giangoia

Elena Buia Rutt indaga nell’universo lettera-rio di Flannery O’ Connor in un modo origi-nale ed efficace, quello cioè di far parlare lascrittrice stessa della sua scrittura e della suaconcezione dell’opera narrativa, per presen-tare poi di conseguenza deduzioni persona-li ed approfondimenti critici.Flannery O’ Connor, vissuta nel Sud degli Sta-ti Uniti dal ’25 al ’64, è senz’altro una delle vocipiù originali ed autorevoli della letteratura ame-ricana del Novecento. Anche se la sua produ-zione letteraria è piuttosto limitata (due roman-zi, alcune raccolte di racconti e saggi, lettere etesti di conferenze), anche in ragione della bre-vità della sua vita, ad imporla all’attenzione delpubblico è stato fin dagli inizi il carattere par-ticolare della sua narrativa che richiede al let-tore un coinvolgimento radicale e una presa diposizione netta e precisa. La narrativa della O’Connor non lascia spazio ai dubbi o alle incer-tezze, in quanto la sua scrittura, oltre che ca-ratterizzata da uno stile chiaro, veloce, realisti-co ed espressivo, è una sfida che rilancia sem-pre il “prendere o lasciare”. La caratteristica specifica della narrativa dellaO’ Connor è quella di dar vita a vicende per lopiù grottesche e violente, animate da una fittarete di simboli e rimandi. I personaggi, per lo piùinsoliti, inquietanti e perfino, si potrebbe dire,

strampalati, si rivelano poi essere instancabilied inflessibili cercatori di assoluto. Sono di so-lito anime fortemente chiuse in se stesse, chesolo un fatto improvviso ed imprevisto, riescea far dischiudere, scardinando blocchi e convin-zioni granitiche. Questa apertura, di solitoestremamente dolorosa, diventa l’unica viapossibile per attingere in qualche modo al mi-stero che domina la vita individuale e l’univer-so nel suo insieme. Raggiungere il senso di que-sto mistero vuol dire per i personaggi della O’Connor, e per gli uomini in quanto tali, ricono-scere intuitivamente l’esistenza di un Dio capa-ce di salvare l’uomo, ponendo in qualche modorimedio alla sua incompetenza e fragilità.Elena Buia Rutt, attraverso parole di FlanneryO’ Connor, successivamente analizzate e com-mentate ci presenta questa Narratrice solitaria,convinta di essere «chiamata ad avere una vi-sione “anagogica” della realtà capace di accor-gersi che in un’immagine o in una situazionec’è una densità di mistero che richiede una “pro-spettiva ampliata della scena umana”», comedice Antonio Spadaro s.j. nella Prefazione. L’au-trice del saggio si sofferma sulla religiosità del-la scrittrice, che rifugge la religiosità di manie-ra, per riferirsi ad una visione incentrata sul mi-stero cristiano per eccellenza e cioè l’Incarna-zione, il paradosso assoluto.Il messaggio che emerge da queste pagine è chela O’ Connor ci insegna a lasciarci guidare dalmistero insito nella realtà: «non ci si può stu-pire di nulla», dice ancora Spadaro nella Prefa-zione, in quanto «I personaggi salvifici… spes-so sono malfattori e gli storpi possono espri-mere una bellezza incommensurabile». Questoè quanto fa sì che la lettura dei testi narratividella scrittrice statunitense sia “obbligatoria”,perché il suo sguardo sulla realtà ha la capaci-tà di cambiare la vita del lettore, dandogli la pos-sibilità di «ricostruire le gerarchie dei valori, ri-combinare i pezzi, rivedere i giudizi e i puntidi vista» (A. Spadaro).

E. Buia Rutt, Flannery O’ Connor. Il mistero e lascrittura, Ancora, Milano 2010, pp. 111, € 12.50

IL DRAMMA DI CAINOdi Giuliana Rovetta

In un libro pubblicato poche settimane primadella scomparsa, Saramago propone una let-tura disturbante e provocatoria del VecchioTestamento. La storia, presente e passata, è

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sempre al centro dei suoi interessi: deve loscrittore dar conto della realtà o non piutto-sto della verità, spesso nascosta da fumi ideo-logici e obbediente a rigidi schemi mentali?Se per Saramago la letteratura “buona” è quel-la che “scava nella storia”, è perché valoriz-za la tensione fra ciò che è accaduto e ciò cheavrebbe potuto essere e non è stato: in quel-lo scollamento s’insinua il dubbio, la criticaalle nostre certezze da cui può germogliarela ricerca del vero.In questo pseudo romanzo intitolato Caino lastoria a cui fa riferimento l’autore -e lo fa conla passione e con la verve che già abbiamo co-nosciuto nel discusso Vangelo secondo GesùCristo-, ci riporta indietro nel tempo, alle ori-gini del genere umano. Seguiamo, alquanto di-sorientati, il peregrinare del figlio primogeni-to di Adamo ed Eva dopo l’uccisione del fra-tello buono, l’insipido Abele. E già nel presen-tare le cause scatenanti dell’efferato delitto,cioè i cosiddetti moventi, avviene di coglierenella narrazione la volontà di attenuare le re-sponsabilità del fratello degenere: secondo unaregola di equità, le sue sincere offerte al Diocreatore avrebbero dovuto essere accoltebenevolmente quanto quelle di Abele, anchese i prodotti offerti erano di poco pregio, solospighe e sementi, e non carni prelibate comenel caso del fratello. Alla base del rifiuto c’èdunque una ingiustizia.La tesi di Saramago è quella che l’indebita pre-ferenza, col suo manifestarsi attraverso ilfumo che non si disperde, ma sale diritto ver-so il cielo, configura una forma di correspon-sabilità nell’atto malvagio proprio di quel Diosolitamente buono: in questo caso la sua col-pa, un primo fraintendimento nei confrontidell’essere umano, è quella di aver privilegia-to senza ragione apparente uno dei due fra-telli provocando così la reazione sconsidera-ta dell’altro. A metà fra rilettura biblica e fiction, l’avven-turosa corsa di Caino attraverso lo spazio eil tempo a cavallo di un mulo in uno scena-rio di solitudine e desolazione assume uno spi-rito donchisciottesco, fra improntitudine e lu-cida ironia.Trovandosi là dove gli avvenimenti accadono,testimone preveggente e inconsapevole, Caino

assiste alla cacciata dei genitori dal Paradisoterrestre, al gesto che coinvolge Isacco, alla co-struzione della torre di Babele, fino a diventa-re il protagonista assoluto e l’unico supersti-te nell’episodio dell’arca di Noè. Nel desacra-lizzare la figura della divinità per attribuirle iconnotati umani dell’invidia e della crudeltà,Saramago mette in campo una difesa estremadell’uomo che trasgredisce e sbaglia, senz’al-tra colpa che quella di mettere in atto il pro-prio destino secondo un disegno già scritto.

José Saramago, Caino, Milano, Feltrinelli,2010, trad. di R. Desti.

GIOIELLI MASCHILI IN MOSTRAdi Simonetta Ronco

Nel nuovo museo di Arti Applicate e Decora-tive di palazzo Zuckermann a Padova è espo-sta in permanenza una piccola collezione ve-ramente degna di una gita “fuori porta”. Si trat-ta del cosiddetto “Tesoro Trieste”, dal nomedi Leone Trieste, stravagante nobiluomo di an-tica famiglia ebraica veneta che visse a Pado-va nella seconda metà del 1800.Sembra che Trieste fosse un appassionato del-l’eleganza più esclusiva: lo testimonia il fat-to che per evitare di portare abiti confeziona-ti con tessuti uguali a quelli di altri, compras-se ogni volta l’intera pezza. E lo testimonia-no i quattrocento gioielli maschili che egli la-sciò alla sua morte (avvenuta nel 1883) al Mu-seo Civico.Anelli di varia forma, spille da cravatta, bot-toni da polso, catene di orologio e sigilli. Te-nuto per anni nei forzieri del Museo, il teso-ro Trieste è stato portato alla luce una deci-na di anni fa e esposto in modo permanentepresso il nuovo museo.Uno dei caratteri fondamentali della collezio-ne di gioielli è il significato simbolico che lacontraddistingue per la frequente comparsadi immagini scaramantiche e religiose. Tra itanti pezzi particolari, un pezzo di eccezio-nale valore è un carillon d’argento dorato,ascrivibile alla prima metà dell’Ottocento, im-preziosito da gemme e cammei, con una sce-na circense di carattere popolaresco.

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LUIGI GRANDEIl divenire umano-animale nei quadri di Luigi Grandedi Franco Lecca

L’immagine del cane randagio è l’apparizione di un essere “mutan-te” catturato nel suo divenire “umano”. In pittura, costruire il ritrat-to di un essere animale che ha rifiutato ogni legame di famigliaritàdomestica e si avventura in solitario fra le spaziature di ciò che oggiresta del mondo “naturale”, significa sovvertire il senso (antico) diuna proiezione mentale: il cane, qualsiasi cane, non sarà più “l’ami-co fedele dell’uomo”, ma l’immagine di un cane “altro da sé”: un es-sere mutante.Costellata da un principio formale di espansione-dispersione moleco-lare, l’immagine di quest’ultimo continuerà ad apparirci come un in-sieme di tratti, volumi e posture chiaramente riconducibili alla silho-

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Uomo che fa abbaiare il cane, olio su tela, 70x70, 1973

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uette dell’animale, ma anche (e più inten-samente) come corpo “fissato” secondoun lento divenire umano.Grande ha dipinto il divenire dell’imma-gine animale nello stesso modo in cuiVan Gogh ha rappresentato il divenire“cosa umana” l’immagine delle sue scar-pe, ossia con la stessa propensione, in-nata, nel trasformare il dato reale in al-tro da sé, ovviamente, seguendo il suomodo e stile e con l’intento di tradurrein forma visibile la misteriosa composi-zione del mondo reale, per così dire “abi-tato” da infinite latenze di senso.Il cane è un corpo d’affezione privilegia-ta: un essere vivente sfinito, sul qualetransita mentalmente, la figura dell’uo-mo- umano, recluso nell’egocentrica so-litudine di un “io” esistenziale riplasma-to in un “io” auto – referenziale (non acaso, fin dai tempi più antichi, il compi-to di un pittore artista è quello di fare

emergere i contenuti psichici sedimen-tati nei “personaggi” che ritrae).Nella ricomposizione e nell’attualizzazio-ne dell’immagine del cane, lo stile pitto-rico di Grande si è amplificato: ormai li-bero dal tormento di una “descrittivitàpanica”, si è per così dire placato nellamateria stessa delle sue opere.Nelle opere dell’artista traspare un reali-smo figurativo che ormai è un tutt’uno conla visionarietà materica propria del suo sti-le. Non a caso, sia il cane che il paesaggio,vero sfondo nelle tele di Grande, paionoessere fatti della stessa sostanza, percor-sa da veloci striature magmatiche nellaquale si alternano ampie campiture di co-lore pacificato: rimemorazioni in lontanan-ze sature di concreta naturalità? Ciò cheè realmente visibile e percepibile è “l’au-ra” che avvolge il corpo del cane e si esten-de senza soluzione di continuità nelpaesaggio.Nell’improvvisa composizione astrattadelle forme e della loro materica profon-dità “risale” in purezza un impeto vita-le austero e ribelle, esultante, oramai ca-pace di manifestarsi in ogni molecola dicolore, meravigliosamente contestualiz-zato nello spazio “aperto” di un luogo na-turale, che accoglie e trasfigura il “cane-animale” nell’immagine di un essere“umano-animale”. Come si poteva evin-cere, tutti i quadri di Grande hanno comesoggetto il cane e il tema della sua fuga,orientano la percezione dello spettatoreverso un punto ove si compie la trasmu-tazione animale nell’umano e viceversa.Iscritti sulle facce della stessa medagliapur nella consapevolezza delle loro ri-spettive differenze figurali, messa in sce-na di un dramma: la condizione randa-gia dell’uomo di oggi, la sua solitudinepatita dall’incombenza di un futuro chesi annuncia sempre più ambiguo. Gran-de, infatti, sottolinea questa precarietàpropria dell’uomo contemporaneo equesto “randagismo dell’essere uma-no”, ormai dilemma esistenziale, in sen-so prettamente metaforico e si serve,

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Cane, olio su faesite, 70x50, 1993

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però, di una linea che paradossalmentenon vuole essere descrittiva, ma schiet-tamente allegorica, che modella le figu-re dell’animale facendole divenire alcontempo uomo, cane e randagio. Unalinea che diventa materia pittorica sottil-mente stratificata e punto di fuga attra-verso il quale il cane randagio diverrà te-stimone di se stesso, “visione” del pro-prio corpo sublimato in altro da sé.“Mimì e Peyote”, quadro del 1996-’97, èfocalizzato sul rapporto speciale che in-tercorre fra l’essere umano e quellodell’animale, sottolineato e reso abilmen-te dal semplice gesto risoluto dellamano di una donna che trattiene a sé ilsuo cane (gesto, questo, di protezione,ma al contempo anche di esortazione co-strittiva). Il cane, bloccato nella rigida po-stura di chi viene fermato contro volon-tà, si volta, forse sollecitato dal compor-

tamento del suo padrone, dalla parte diun osservatore fuori-campo (il pittore-spettatore) allargando il campo visivo del-l’opera stessa e “rendendo l’idea” di unlungo istante di “posa” forzata come unritratto fotografico di un bambino irre-quieto trattenuto “fermo” controvoglia.Il quadro è quindi, palesemente, la cele-brazione di un legame affettivo, rappre-sentato secondo il modulo schematico diun cliché solo in apparenza banale: “ilcane come amico fedele dell’uomo”. Senon fosse per l’aria sottilmente ambiguae spaesante che impregna l’insieme, po-tremmo definire il quadro non solo unascena realistica, ma quasi iperrealista nelrendere i legami e i sentimenti, pervasada una lirica trasparente e cristallina purnell’uso di colori decisi e scuri nella raf-figurazione del corpo umano-animale.Contestualizzando quest’opera nella“galleria” di Luigi Grande e accostando-la alle tele che sono state realizzate in se-guito, è palese che quell’immagine“uomo-cane” sia una sorta d’immagine“premonitrice” che segna l’avvio di unalunga seguenza di quadri raffiguranticani, che attraverseranno desolate lan-ghe post- naturali. Immagine questa di“Mimì e il Peyote”, fulcro e punto di par-tenza, quindi, dell’indagine artistica diGrande essendo l’ultima raffigurazione“naturale” di un cane che sta per conge-darsi definitivamente dall’uomo, al qua-le rivolge uno sguardo carico di una so-lenne promessa: quella di un non ritor-no. L’artista da quest’atto finale trae “l’ini-zio” del suo percorso artistico, immagi-nandosi il momento post-addio, ove ilcane con le sue gambe dinamiche, flut-tuanti, oniricamente sospese ma al con-tempo concretamente puntate sul verde,del suo nuovo Eden e del suo altrove silibra nell’esperienza del nomadismorandagio. L’“Uomo che fa abbaiare un cane” data-to 1973, comunica una sconcertantesensazione di compassione, ma al con-tempo si rivela ai nostri occhi di spetta-

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Cane cieco, olio su tela, 50x40, 1993

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tori, come un’opera carica di pathos violento perché mette in scenauna dolorosa impossibilità sia nel rapporto “duale” uomo-cane che inquello individuale di due essere distinti e diversi. Grande, con quest’ope-ra, vuole analizzare quell’incapacità nel comunicare, umana, ma an-che animale, con un altro da sé, sia che quest’ultimo sia un cane o unproprio simile o il proprio riflesso-coscienza. Inabilità, questa, che por-ta l’uomo a urlare “dentro di sé”, in maniera silenziosa, questa sua im-potenza e limite (come già detto sia umano che animale) così come in-duce il cane ad abbaiare sempre più forte per ”comunicare” un qual-cosa. In questo quadro le due facce della stessa medaglia, di cui si par-

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Cane di giorno e di notte (particolare), olio su tela, 40x30, 2003

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lava qualche rigo più sopra, sono dive-nute una sovrapposizione, in cui il con-fine tra le due figure è raffigurato appo-sitamente così sottile e labile per render-ne difficile la differenzazione. Di ritor-no da luoghi remoti, uomo e cane s’in-nestano uno nell’altro e la strutturadella composizione ne esalta la recipro-ca dipendenza e l’essere, in realtà, un uni-cum; non a caso il volto del cane è qua-si interamente sovrapposto al volto, vo-lutamente dilatato, dell’uomo e il cui lab-bro inferiore spunta tra le mandibole del-l’animale, in un effetto di intenzionale estraniante traslazione morfologica: l’uo-mo diverrà parlante attraverso la boccadel cane, o viceversa? Con quali parole?

Nessuna, dato che fra i due non esiste unlinguaggio verbale consapevolmentecondiviso. L’abbaiare del cane è sincro-no al silenzio dell’uomo? O vi è, in real-tà, l’assenza di entrambi? È forse unastruggente volontà di parola il vero de-siderio che gemella i due personaggi, che,qui, sono quasi “incollati”, sovrapposti,ma disgiunti, sullo stesso piano? Lamano dell’uomo che sostiene la mandi-bola del cane, pronta a rinchiudersi sul-l’altra, riuscirà a guidare e disciplinarel’abbaiare del cane e a librarsi in un suo-no umano? Il cane non più randagio “ritorna” dall’uo-mo (nei quadri “Ragazzo e cane” e“L’uomo e il cane” entrambi datati 2010).Due immagini, queste, in cui lo stile pit-torico si è notevolmente semplificato nelsegno, nel tratto e quindi nel modus ope-randi complessivo dell’artista. Vastecampiture di colore luminoso fanno dasfondo a due “coppie” esposte per cosìdire, “in una vetrina”. Le fisionomiesono rapidamente tratteggiate, incisive,quasi taglienti nell’aria gessosa che re-spirano. Potrebbero essere personaggiestrapolati dalla cronaca visiva di qual-che sfilata mondana. Una quieta indiffe-renza (o reciproca accettazione?) li rela-ziona anonimamente. Uomo e cane ap-paiono come svuotati di ogni energia;sono assorti, eleganti, opachi e finalmen-te neutri e disgiunti, come se si fosseroriappropriati dei loro ruoli e diventatinuovamente “figure domestiche”, e inquanto tali si auto-rappresentano nell’im-magine scarna di una “normalità” delu-sa. Sono il nuovo segno della condizio-ne umana e animale, incollata su pare-ti-affresco di luoghi desolatamente vuo-ti. È in questa diffusa sensazione di pie-no-vuoto, desolatamente “signorile”, chepassa in noi il senso di una riconciliazio-ne, tra uomo e cane: due “figure menta-li”. Ora, da un corpo all’altro, c’è solo labreve distanza che li separa (una catenel-la). Le figure in “Randagio” (2010) si fan-no spettralmente reali nella loro riduzio-

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Cane (la morte intorno), olio su tela, 100x70, 2005

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Ragazzo e cane, olio su tela, 80x60, 2010

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ne formale che comunica distacco tra i due esseri: umano e animalee fornisce la percezione degli ampi spazi, vuoti e desolati: specchi deldisagio di questo rapporto e delle nuove identità individuali delle duefigure. È forse questo un annunciare l’inizio di un nuovo corso di im-magini?

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Randagio, olio su tela, 80x60, 2010

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NOTE DI FRANCO LECCA

Molte volte in gioventù, sulle colline di Chiavari o Lavagna, ho provato a dipingereinsieme a Luigi Grande. I miei quadri, appena terminati, volavano, “gettati via fra gliulivi”: erano troppo brutti! Avrei voluto essere anch’io un pittore come il mio amico,ma la mia naturale incapacità al disegno, unita a una sbrigativa insofferenza, mi harapidamente allontanato da quel proposito. Ho dunque scelto l’immagine fotografi-ca e successivamente, quella cinematografica con cui tutt’oggi lavoro in qualità di di-rettore della fotografia (in questo periodo nella serie tv “Montalbano”).Successivamente ho realizzato, per la Galerie Maeght di Parigi, films-documentari suartisti- pittori (Mirò, Tapies, Ubac, Adami, Reyberolle, etc.). Nonostante il mio non es-sere portato per il disegno, ancora nel tempo libero e attraverso il mio lavoro, ho con-tinuato ad amare la pittura in quanto trovo che le immagini rese in pittura siano mol-to più intense di quelle altret-tanto vere, se non di più es-sendo riprese, cinematografi-che. Digressioni a parte, sul-la resa della realtà da partedelle varie e diverse “arti” (fo-tografia, scultura, pittura, ci-nema), volevo solo precisaree ricordare con queste noteche non sono un critico d’ar-te, ma tutt’altro. Ho voluto di-squisire sul tema ricorrentedei cani di Grande perchésono soggetto prediletto al-l’interno della sua indagine ar-tistica. Quanto ho scritto, so-pra, non è altro che il risulta-to, una sintesi e un rielabora-to delle conversazioni e rifles-sioni che ho avuto il piaceree l’onore di intrattenere nelcorso degli anni con Grande.È un abbozzo del processomentale che si trova dietroogni opera, solo una tracciaappena visibile di un percor-so artistico che andrebbe illu-strato e analizzato in manie-ra più rigorosa pur avendocreato un testo in cui sia l’in-tervistato che l’intervistatoresono scomparsi, per favorireun discorso il più possibileesaustivo, impersonale, ogget-tivo, ma non per questo menopreciso e puntuale.

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Cane cavia, olio su tela, 80x60, 2010

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BIOGRAFIA di Luigi Grande

Luigi Grande, è pittore, scultore, grafico.La sua prima personale risale al 1960, alla galleria “Il portico” di SantaMargherita Ligure; seguono poi le gallerie milanesi de “Il Giorno” nel1964 e de “L’agrifoglio” nel 1970, con testo critico di Mario De Mi-cheli. Si aggiunge negli anni alle numerose personali la partecipazionea rassegne d’arte nazionali e internazionali (Francia, Germania, Gre-cia, Stati Uniti, Finlandia, Spagna).Sulla sua attività artistica figurano numerose pubblicazioni fra cui:“Pittura tra storia ed evento” di G. Berlingheli 1985 - “Quest’arte libri”1987, ed. Riccitelli e “Sui ritratti di Luigi Grande” 1992 di Vico Faggia cui seguono: “L’arte e il paesaggio” e “L’arte della figura” sempre diVico Faggi - ”Moralità dell’ immagine” di Giorgo Seveso, al XXIII pre-mio Vasto di Arte e critica d’arte 1989-1990 e “Arte Italiana contem-poranea” ed. Fenice 2000, 1994 e più recentemente “Luigi Grande” diGianfranco Bruno, ed. Erga, 1996 – “Repertorio degli incisori italiani”ed. Faenza, 1997 – “Arte contemporanea italiana 1946-1997” ed. Ago-stani, 1997-1998-1999 – “Luigi Grande” di G. Seveso- “Quaderni arti-stici” Galleria Armanti, Varese, 1999 – “Autoritratto d’artista” GalleriaCiovasso, Milano. Sue, inoltre, sono le copertine de “Le parole cadute”,poesie inedite di F. Mazzi(Bastogi Editore), di “Re-sine”, Quaderni liguri di cul-tura n.85 Sabatelli Editore,di “Satura” n. 4, 2008 conintervista di F. Ragazzi e“Luigi Grande” di G. F. Erga,2006.Ha eseguito varie operepubbliche tra cui: la scul-tura del partigiano inpiazza Innocenzo IV a Lava-gna (1975), i Cippi a cavi diLavagna (1998), il monu-mento all’emigrante a Fa-vale di Malvaro (1989), ilbusto di G. Casini al ParcoVilla Rocca di Chiavari(1996), pittura murale a Ca-soli- Atri (1997). Altre sueopere figurano alla GalleriaCivica d’Arte Moderna diGallarate, al Museo Pinaco-teca di Vado Ligure, allaCollezione Grafica Comunedi Bagnocavallo (Ra), al Ca-stello di S. Pietro in Cerro(Museum in motion).

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THE MELODY AT NIGHT, WITH YOU:Sualzo, “L’improvvisatore”di Manuela Capelli

Quanti anni ci vogliono per scrivere un fumetto? O per studiare il sax?E per diventare famosi, avere la propria occasione di lasciare un se-gno nel mondo? Ma soprattutto: è importante davvero? La storia di EliaSabaz, “l’improvvisatore” del titolo, corre su binari paralleli con quel-la del suo autore, Sualzo, Antonio Vincenti all’anagrafe. Naturalmen-te perché si tratta di una sorta di autobiografia. Elia fa il maestro discuola, è un trentenne scapolo e insoddisfatto, alla disperata ricercadi 10 minuti di gloria in compagnia del suo amato sax. Capitolo dopocapitolo, perché qui il romanzo viene fuori anche nella forma, Elia sifa seguire con passione nel suo viaggio alla scoperta di qualcosa di piùrilevante. Complici un tratto pulito e una scrittura poetica, perché infondo è questo che Sualzo fa: non solo disegna, ma scrive bene. Cometutti i veri lettori. E che lui lo sia è chiaro: per le citazioni che antepo-ne a ogni capitolo, per la resa strutturale dei personaggi, per l’accu-rata scelta delle parole.

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È molto francese questa graphic novel,che oltretutto come spesso succede inquesto campo è stata pubblicata primain Francia e poi in Italia: nel tratto, in unacerta caratterizzazione dei volti, nelle at-mosfere. È anche estremamente cinema-tografica questa graphic novel: nellaresa dei colori innanzitutto, ma anchenella storia, che potrebbe inserirsi nel fi-lone calcato da Sliding doors e The fami-ly man. Solo che il gioco qui non è piùcosa-sarebbe-successo-se… con cui sud-detta filmografia ha già iniziato da anniad auto-citarsi. Qui alla domanda si ri-sponde con i fatti invece che con vacuesupposizioni che lasciano sempre, in fon-do e comunque, un po’ di amaro in boc-ca. E la risposta è un sospiro di sollievo.La gloria non è tutto e la vita, se sai im-provvisare, può riservare magnifichesorprese. Come un’e-mail di Gipi – il mae-stro cui hai lasciato il tuo primo roman-zo da leggere - da utilizzare come pre-

fazione, o come il Prix Meilleur scenarionel 2009, il premio per la miglior sceneg-giatura del Festi’BD di Moulins e la can-didatura per il premio Micheluzzi comemiglior fumetto al Comicon di Napoli2010.È, infine, favolosamente romantica, que-sta graphic novel. Non solo perché Sual-zo fa del sogno il vero protagonista (bi-lanciandolo sapientemente con una pia-cevole ironia), ma perché utilizza lepoesie della moglie, Silvia Vecchini, percorredare il suo testo. Del resto per luisolo la famiglia è importante quanto iljazz: come Keith Jarrett, rinato a nuovavita dedica alla moglie “My melody atnight, with you”, si può dire che ancheper la nascita del Sualzo fumettista sideve ringraziare una donna. Almeno sul-la carta: ed è proprio sulle note di Jarrettche, nell’Improvvisatore, Elia e Giuditta– Silvia Vecchini in panni di inchiostro -si fondono artisticamente.

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Partiamo dagli esordi. Com’è nato ilSualzo fumettista?Il fumetto è una passione che mi accom-pagna da una vita, ma mi sono deciso ab-bastanza tardi a provarci seriamente. Aparte una breve parentesi nei primianni 90 con un gruppo legato alla sati-ra (sono stato uno dei componenti delmanipolo di giovani scapestrati allevatidal grande e rimpianto Angese), direi cheil Sualzo fumettista nasce nel 2000,proprio in coincidenza al mio trasferi-mento al lago Trasimeno, che del Sual-zo inteso come animale è l’habitat natu-rale (“Sualzo” nel nostro dialetto lacustreindica l’uccello acquatico “Svasso”).Quali sono le principali influenze nel tuolavoro? In campo letterario e cinemato-grafico, per esempio. Le citazioni nel li-bro ti direbbero lettore onnivoro: da Goe-the a Pessoa a Bloch (Arthur, l’autore sta-tunitense famoso per la Legge di Mur-phy). Mentre al cinema, ne “L’improvvi-satore” danno Annie, di Woody Allen… Sì, credo di essere un lettore onnivorocon una speciale predilezione per la me-scolanza tra alto e basso, cosa che cer-co sempre di riprodurre anche nelle coseche scrivo. Dal punto di vista fumettisti-co sono stato folgorato da tutta la “nou-velle vague” francese affacciatasi nel de-cennio scorso, Dupuy e Berberian in te-sta; sia dal punto di vista grafico sia perl’approccio alla storia. Profondo e lieveallo stesso tempo, intenso ma capace,quando serve, di non prendersi tropposul serio. Alto e basso insomma, comepiace a me. Le influenze sono comunquemoltissime e continue, dalla letteratura,dal cinema, dalla musica, dalla poesia,tutto entra nel mio modo di raccontarele storie.Per il dizionario Zanichelli “improvvisa-re” significa “tenere un discorso, compor-re versi, musica per immediata ispirazio-ne, senza studio o preparazione”. Que-sta definizione unisce oratoria, poesia emusica. Dando per assunto che siano artiin cui ci si deve saper destreggiare. Biso-

gna aggiungervi il fumetto? O la vita ingenerale? Ecco, tanto per non prendersi troppo sulserio, mi sentirei di contestare la defini-zione dello Zanichelli... non è affatto veroche in musica (ma credo anche nelle altrearti) si possa improvvisare senza studio opreparazione. Anzi, l’improvvisazione tiobbliga a studiare moltissimo perchè tupossa essere in grado di scegliere le noteda usare e quando, senza invece essere ob-bligato dai tuoi limiti a ripetere sempre lestesse cose. Pensandola così, credo proprioche si possa estendere questa visione al fu-metto e alla vita in generale.Una delle cose che mi sono piaciute di piùdel tuo romanzo è che si tratta – nono-stante i tentativi iniziali di Elia - di un“elogio della normalità”: una vita sempli-ce, che proprio per questo sottolineacome tutte possano essere ricche. Iltuo protagonista è un eroe del quotidia-no. È sufficiente saper improvvisare?Come dicevo prima, ci vuole una gran-de preparazione per improvvisare, poi èlogico che nel libro c’è il gioco di paro-le tra questa accezione e quella, più con-divisa, di “improvvisare” come quasibrancolare tra cose sconosciute nella spe-ranza di venirne a capo. Il mio “eroe delquotidiano” come lo chiami tu si rendeconto che sta oscillando tra questi dueaspetti, e si rende conto che crescere unpo’, impegnarsi di più, non vuol dire ri-nunciare all’improvvisazione come mododi essere ma, al contrario, significa por-tarla ad un livello superiore e sicuramen-te più soddisfacente.Passiamo alla tecnica. Scrivi nel tuoblog: “non so fare le scene notturne. Omeglio, non riesco mi sembrano sempreo troppo buie o troppo luminose” ma ne“L’improvvisatore” ce ne sono moltissi-me, che per altro sono state commenta-te da un lettore francese come un’ottimatraduzione dell’ambiente. Erano unasorta di tua esercitazione? Quella frase era riferita alla mia attivitàparallela di illustratore acquarellista.

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Quel mezzo è una costante camminata sul filo, una sfida continua chenon ammette errori o ripensamenti. Se non temessi di ripetermi finoalla nausea direi che è la cosa più simile all’improvvisazione così comel’ho descritta sopra. Invece per “L’improvvisatore” ho utilizzato unatecnica di colorazione digitale. Per una serie di motivi che vanno dal-la velocità (era il mio primo libro e la paura di “rimanerci sotto” eraalta) alla possibilità di essere aiutato da collaboratori, che si ricondu-ce immediatamente al primo motivo.Detto questo è vero che il mio assurdo carattere mi porta a misurar-mi quasi esclusivamente con le cose che io ritengo di non sapere fare

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o di non sapere farebene. Se c’è un buonopsicanalista si facciaavanti, grazie.Fra le altre cose,realizzi illustrazio-ni, per le quali –leggo sempre neltuo blog – hai or-mai acquisito unasorta di tecnica,che nel fumetto in-vece non hai ancoraottenuto: in cosa con-siste e perché ti èpiù difficile per ilfumetto? Per il motivo appe-na detto. Credo cheil fumetto non mi siacosì congeniale comel’illustrazione e quindi ci sbat-to contro continuamente, come la mosca diPazienza sulla lampadina. Sento di aver ap-pena cominciato il discorso e la tecnica èin continua mutazione. Mi lasciosuggestionare da molte cose epiango lacrime amarissime suquello fatto appena ieri. Trovo so-luzioni definitive che durano lo spa-zio di un mattino. Ricomincio da capo (leprime sei tavole dell’Improvvisatore sonostate disegnate 5 volte con tecniche sem-pre differenti), mi pento, strepito. Mi diver-to molto.I dialoghi sono perfettamente calibrati,non diluiti in periodi monotoni, non con-cisi in frasi spezzate. La scelta delle pa-role è fondamentale sempre. Immaginoche lo sia a maggior ragione per un ap-passionato di poesia. A che punto arri-vano i dialoghi nel tuo percorso di lavo-razione e come lo influenzano? La poesia è un punto di riferimento impor-tante nella mia scrittura. Forma e sostan-za al massimo livello (la poesia, non la miascrittura). Quando scrivo, i dialoghi arriva-no prima di tutto il resto. Ho già detto al-trove che la storia comincia quando comin-

cio a “sentire le voci”. I personaggi mi si pre-sentano solo attraverso la loro voce, e iocerco di lasciarli parlate tra di loro. Solodopo un po’ comincio ad appuntare i dia-loghi, ma solo quelli. Per molto tempo lemie storie sono solo personaggi che si par-lano, la drammaturgia, se c’è, scaturisce tut-ta fuori dalle loro parole e dai loro silen-zi. Nella prima fase anche quando c’è unascena in cui qualche personaggio nonparla, non scrivo nulla di quello che fa, scri-vo solo che sta zitto. Elia dice “la poesia mi attira per la mu-sica che porta con sé” e fra le citazioniche aprono i capitoli del libro c’è un’al-ta percentuale di poeti. È evidente che perte il rapporto è molto forte. Anche il fu-

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metto può essere poetico. Ma musicale? Tecnicamente, intendo, nonpotendosi far sentire. Nella mia storia la poesia è venuta proprio in soccorso di questa man-canza di audio del fumetto. Attraverso la cosa più simile alla musicache si possa leggere su carta, ho cercato di evocare il ritmo e le armo-nie che mi era impossibile riprodurre con la matita. Poi è chiaro cheil lettore mi debba dare una mano mettendoci del suo.Il tuo tratto è pulito, senza sbavature, con un’ottima resa scenografi-ca. Ti consideri un esponente della ligne claire?Ho amato molto la ligne claire, la sua evoluzione e, perché no, nega-zione che ha avuto negli autori francesi che ricordavo prima. Il fumetto e i nuovi media: quale futuro ha, secondo te, questo futu-ro? E sempre per rimanere in tema, il linguaggio del fumetto come deve– se deve - cambiare?Credo che il fumetto possa e debba affacciarsi e “abitare” altri media,compresi quelli di ultima generazione (io sono un gran frequentato-re di blog fumettistici, per esempio), in quanto parte della nostra vitaculturale, ma che rimanga profondamente legato al suo supporto na-turale. Questo almeno per me. Il linguaggio del fumetto sta cambian-do di continuo, senza cancellare ciò che c’era prima semplicementefa convivere (come il jazz del resto) nuovi e vecchi approcci senza trop-pi conflitti, a parer mio.Autobiografia: la storia di Elia è la tua storia. Quanto è facile raccon-tare se stessi?Raccontare se stessi ha la facilità di raccontare una cosa che si cono-sce molto bene e al tempo stesso la difficoltà di accettare di passaresotto la lente tutte le cose che non ti piacciono di te stesso. Io devodire che ho risolto concedendomi dei piccoli “tradimenti” alla storiadove lo ritenevo utile al libro. Come dico sempre: le parti più impro-babili sono reali, le altre me le sono dovute inventare. A cosa stai lavorando adesso? Puoi darci qualche indizio? Magari unacitazione di apertura...In questo momento è troppo presto per poter dire qualcosa. Ma sto la-vorando a una storia che parte da questa citazione di Giorgio Caproni:

“Apriva una campana la mattina,ma era già tardi, tardi.

E io ero alla guerra senza ripararmi”.

Fra un anno mi spiegherò meglio.Un’ultima domanda: nella postfazione al tuo libro dici che anche la tuatrama ha cambiato rotta. L’improvvisazione è anche il segreto di unabuona storia?Senza dubbio. Come potrei vantarmi di “contenere moltitudini” se nonle lasciassi prendere il sopravvento proprio quando scrivo?

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CULTURA E DINTORNISiamo senza finanziamenti?I soldi sono finiti!di Fiorangela Di Matteo

Siamo in crisi e soldi non ce ne sono più. Per que-sto motivo è stata pensata una politica nuova: la po-litica dei tagli. È una politica economica in voga damolto tempo in Italia: ogni anno un taglio un po’ piùprofondo. Sono stati programmati tagli a tutto: dal-la spesa pubblica, all’assistenza, alla sanità, all’istru-zione, alla difesa, all’agricoltura, alla cultura.I tagli sono indiscriminati ed indiscriminanti e pro-cedono con determinazione eccetto che per i“meccanismi premianti”, cioè i progetti. L’attivitàordinaria ha perso di interesse a favore del proget-to. Così si ottengono due risultati sicuri: l’invecchia-mento dei lavoratori e la perdita di identità cultu-rale del lavoro; in ambito culturale si assiste allosvilimento della cultura stessa.L’Italia è da sempre definita quale Paese dove esi-ste la maggior parte del patrimonio storico artisti-co rispetto agli altri Stati, dall’estero ci vedono comeun Faro del Bello. I report economici, in genere, af-fermano che investire in cultura significa ribadireil ruolo di leader che si traduce in “valorizzare ilbrand Italia”. L’Istat nel 2009 ha dichiarato che uneuro investito in cultura permette un ritorno di 7euro: il guadagno è di 1 a 6.Allora da cosa nasce la determinazione di definan-ziare anche i progetti già definiti strategici? Mini-mizzare i fondi per le Regioni per perseguire indi-rizzi particolari a danno degli investimenti tradi-zionali getterà il comparto nel totale abbandono?Il rischio esiste veramente.La storia, però, ci insegna che è la crisi che alimen-ta la creatività. È doveroso citare Oliviero Toscani:“La creatività è rischio”. Ed in periodi di crisi il ri-schio risulta l’unica via d’uscita. È l’ora che il Genio Italico risorga dal suo torpore,basta poco: è sufficiente fermarsi e pensare. La di-retta conseguenza sarà quella di veder avanzare ilnuovo.L’attesa che a qualcuno venga il pensiero “giusto”potrebbe essere snervante: bisogna muoversi,

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promuoversi ed inventaremetodi accattivanti ancheper la cultura e l’arte. Bisogna trovare soluzioninuove. L’apporto finanzia-rio dello sponsor, per esem-pio, così come è stato finoad oggi si è esaurito: losponsor unico sopporta in-vestimento e rischio troppoalti. Meglio trovare tre /quattro finanziatori più mo-desti. Ci si costringe ad unlavoro più lungo ed arduoma i risultati saranno piùduraturi e solidi.Finalmente si penserà allaqualità offerta e percepita.Non è più il tempo di “fac-ciamo una mostra con...”;in epoca di crisi si sceglie,e la qualità premia. Bastaopere trasportate qua olà: valorizziamo le collezio-ni permanenti! Sono, quin-di, indispensabili nuovi al-lestimenti, nuovi percorsiespositivi per stimolare ivisitatori indigeni e quellidelle città vicine. Per realizzare ciò il patri-monio l’abbiamo nei depo-siti, nelle chiese, nelle piaz-ze; in Italia non subiamo lamoda, la possiamo farenoi! E per realizzare questoci sono le nuove generazio-ni: le scuole di arte sforna-no giovani spesso molto ingamba soffocati dallo sta-to delle cose. Il fatto di ave-re meno soldi da spende-re diventa così la condizio-ne indispensabile per unacerta e solida ripresa eporterà i gestori a lavora-re ponendo un occhio par-ticolare alla qualità deiservizi resi.

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APPUNTAMENTO A TEATROdi Silvana Zanovello

Cinque appuntamenti per smentire un pregiudizio: che a teatro la ri-cerca non sappia riscattarsi dal suo peccato originale, che continui amuoversi tra coordinate impraticabili per un pubblico di non addettiai lavori. Li propone lo Stabile di Genova in un minifestival che, da no-vembre sul palcoscenico del Duse, trasforma in spettacoli a tutti glieffetti alcune mise en espace realizzate nelle scorse edizioni della ras-segna di drammaturgia contemporanea proposta gratuitamente all’as-saggio del pubblico in primavera, nell’anfiteatro della Piccola Corte.Si comincia con “Controtempo” di Christian Simenon, dal 9 al 16 no-vembre, ovvero una partita combattuta inconsapevolmente contro ildestino da una giovane musicista newyorkese che, nell’assolata mat-tina dell’11 settembre 2001, si alza convinta che non ci sia niente dipiù importante del suo imminente colloquio di lavoro. Non può usci-re di casa però, perché ha perso le chiavi. Ha una sola speranza: rin-tracciare il fidanzato, che lavora in una delle Twin Towers e convin-cerlo a lasciare l’ufficio per aiutarla. Il metronomo della suspence bat-te all’unisono con la sua ricerca, l’ansia di superare i mille piccoli osta-coli che sembrano osteggiare soltanto per la sua salvezza professio-nale. Seguirà, dal 18 al 25 “Il ragazzo dell’ultimo banco” di Juan Ma-yorga, nel quale un giovane liceale, Claudio, filtra attraverso compor-tamenti e componimenti la realtà della nuova Spagna, specchio dellanuova Europa e della sua piccola borghese assediata da una crisi eco-

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Controtempo, Christian Simenon, da sx G. Gallinari, F. Careddu, B. Moselli, O. Notari, G. Amato foto P. Lanna

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nomica e morale. Parte da una prospet-tiva più retrodatata, la Berlino deglianni Trenta, ma avvia una decodificazio-ne ugualmente intensa del Terzo Millen-nio “Un posto luminoso chiamato Gior-no” che va in scena da sabato 27 novem-bre al 4 dicembre con firma di Tony Ku-sher, autore consacrato star della provo-cazione internazionale dopo “Angels inAmerica”. Ancora un’aula scolastica, mainquadrata questa volta dalla parte di unprofessore, nella “Guerra di Klamm” diKaid Hensel, dal 7 al 14 dicembre. Nel-la stessa serata va in scena “Ingannati”del palestinese Ghassan Kanafani, l’odis-sea senza gloria di tre clandestini chiu-si in un’autobotte che dovrebbe portar-li nel Kuwait. In chiusura, dal 16 al 23 di-cembre, “Il Buio di giorno” di HenningMankell, un’altra storia di emigranti ir-regolari: nascosti, in questo caso, nellagiungla di una grande città europea. Si è

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Il ragazzo dell’ultimo banco A. Arcuri C. Dessi ̀ V. Saccinto R. Alinghieri foto P. Lanna

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già detto che in queste storie è sorpren-dente, per chi abbia una certa idea del-la scena contemporanea, la grande imme-diatezza di impatto comunicativo. Ma c’èdi più, in un intreccio indissolubile di rim-balzi tra forma e contenuti. Dopo una sta-gione del Novecento segnata dai autoriinteressati soltanto dall’esplorazione diun’interiorità esangue, priva di qualsia-si antagonista o referente, ostentatamen-te antidrammatica, dopo troppi scritto-ri impegnati, come si è notato ai tempiin cui questa moda furoreggiava, soltan-to nall’osservazione del proprio frigori-fero e del proprio ombelico, il teatro tor-na a guardare il mondo. Certamente lofa partendo da un prospettiva micro enon macrostorica, e in una chiave del tut-to nuova rispetto al teatro - inchiesta oal teatro - verità degli anni Sessanta. Spa-lanca occhi che completano quelli dellacronaca, non le fa concorrenza. E , sca-vando nella miniera delle parole, aiuta glispettatori a ritrovare la verginità di un im-

patto emotivo che troppe immagini te-levisive e troppi effetti speciali avevanoaffievolito.

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Ingannati Nicola Pannelli

La Guerra di Klamm Antonio Zavatteri

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L’ANGOLO DI FRINOdi Elia Frino

Possedere le cose che piacciono è un desiderio estremamente co-mune e a livello inconscio ciascuno di noi è un potenziale collezio-nista. Analizzando superficialmente questo atteggiamento psicolo-gico lo si potrebbe ricondurre al primo istinto basilare dell’uomo,che è il senso della proprietà, dell’accumulo, la spinta a tesauriz-zare ricchezze per crearsi una protezione contro le insidie del fu-turo. Esiste tuttavia, per fortuna, un’altra chiave di lettura ben piùnobile: collezionare, in fondo è anche un’arte che si fonda su qual-cosa di romantico e di irrazionale al tempo stesso e crea un’ansia,alimenta un desiderio, che non si appaga con il solo possesso. De-termina un bisogno di ritrovare la storia, il passato, il proprio pas-sato, in un percorso a ritroso nel tempo che porta spesso a sogna-re senza tenere più conto del valore intrinseco delle cose e ad ab-bandonarsi invece all’emozione che esse stesse creano, quando lesi tocca e le si guarda. Chi, di fronte a un capolavoro esposto in qual-che museo, non ha sognato di poterlo interrogare e di avere rispo-ste? Di sapere, ad esempio, quali attenzioni avrà ricevuto da Loren-zo il Magnifico il cammeo costato diecimila fiorini che per poco nonmise in crisi il banco mediceo, o su quali tavole imbandite prese po-sto il rinfrescatoio istoriato creato da Orazio Fontana per i duchidi Urbino? Ogni oggetto, a poco a poco, diventa testimone di vicen-de umane che a volte lo rendono importante al di là del suo valo-re intrinseco. Il collezionista adotta le opere d’arte quasi a volerlesottrarre all’orfanotrofio dell’indifferenza mercantile. Chi ama glioggetti antichi li cerca tra i relitti di quell’immenso naufragio cheè l’esistenza dell’uomo. Cerca l’eredità di altre vite, i segni della sto-ria, le opere di ingegni scomparsi scegliendo la rarità e la qualitàdei materiali, la raffinatezza del disegno, l’abilità dell’esecuzione.Questa passione può essere anche vissuta in un altro modo: con unospirito lucido e disincantato che raccoglie con puro interesse mer-cantile, valuta e analizza tenendo sempre presente il reale valoredelle cose, senza cedere alla tentazione di stabilire con esse un rap-porto di affezione né tantomeno di dipendenza. Per tali collezioni-sti non esiste quel valore aggiunto che permette un colloquio segre-to tra loro e l’opera d’arte come se il bello avesse il potere di farlientrare in contatto spirituale con i creatori, gli artefici dei capola-vori. In un momento di crisi economica mondiale come questo i gran-di musei e le grandi collezioni private si contendono a prezzi stra-bilianti le opere d’arte di grande qualità. Le pinacoteche hanno vi-sto aumentare il numero dei visitatori e hanno deciso di incremen-tare gli investimenti nel settore; le mostre itineranti hanno quasi sem-pre successo di pubblico e di critica. Accanto alle grandi mostre mer-

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cato come Maastricht, la Biennale di Pa-rigi, la fiera di Basilea, il Gotha di Par-ma, sono nate, per collezionisti di nic-chia, selezioni a tema: sul libro antico,la maiolica, il vetro, gli smalti e non ul-tima l’arte africana che sta imponendo-si prepotentemente sui mercati mondia-

li. È la dimostrazione che l’uomo nonè affetto da una forma di inaridimen-to irreversibile, ha bisogno di con-frontarsi con il passato per meglio in-terpretare il presente e l’arte è la chia-ve indispensabile per aiutarlo in que-sto processo conoscitivo.

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Braciere in rame sbalzato con stemma Barberini, XVI Secolo

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DUE POESIEdi Mario Pepe

L’ACQUA E LA PIETRA

Dobbiamo rassegnarci,

non possiamomettere a fuoco la scenain così poco tempo.

Ci tocca immaginare il primae non possiamo prevedere il poi.

Speriamo di sgretolarci in elementi più semplicie percepire da altre angolazioni,

come fanno l’acqua e la pietra.

Così forse,senza apprensione alcuna,sapremo com’erae come andrà a finire.

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MA DOVE?

Questo ritrovarsi sedutidavanti alla TV ogni seranon prelude a niente di buono,

questo togliersi gli occhiali sempre alla stessa ora, prima di andare a dormire,non può che finire male.

Pensa a quella seraquando non ti coricherai più nel tuo letto,ma ti troverai in un altro posto,

che posto e dove?

in uno spazio senza dimensioni,dove il fiume non può più scorreree dove per fortuna,anche l’angoscia ha smesso di abitarci.

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FULVIO BIANCATELLIIodi Miriam Cristaldi

Ferri arrugginiti, viti, bulloni, grette, lattine pressate, lamiere contorte,nastro plastico da imballo, chiodi, fili di ferro attorcigliati, catenelle,frantumi di cristallo ecc. sono tutti poveri elementi industriali di scar-to con cui l’artista, architetto e designer romano Fulvio Biancatelli (classe‘57), struttura un complesso, affabulante e fascinoso alfabeto secon-do un personalissimo codice linguistico, reificando tali oggetti-fram-mento quali scarti della società in preziose occasioni multi-espressive,ruotanti a coda di pavone in un reale riflesso nella pluralità del sen-so. Scrive l’autore: “Nella costruzione, quello che mi disarma è l’asso-luta espressività delle materie: il canto del ferro che incatenato dal col-lante, tradisce una tensione imprigionata per sempre...”.Talvolta queste “reliquie” della modernità, sull’orlo di una sparizione infavore del nuovo “immateriale” tecnologico che avanza a velocità acce -lerata - realtà che il filosofo francese Paul Virilio non cessa di definire come:“...una situazione in cui la specie è a fine corsa poiché non è più in gra-do di adattarsi abbastanza velocemente a delle condizioni che mutanopiù rapidamente che mai” - si accostano a piccoli frammenti di natura,anch’essi miseri relitti, trovati sulla spiaggia ed elaborati dalla forza delmare come pietre levigate, legni, conchiglie, quasi alla ricerca di un pos-sibile, poetico innesto dove anche la natura lancia il suo grido d’allarme,pressata com’è dall’attualità di precari e vacillanti ecosistemi. “Raccol-go un po’ tutto ovunque”, dichiara l’artista “perché mi chiamano a tes-timone di uno scempio, di uno spreco d’inciviltà...”.E allora, con l’attenzione di uno scienziato che pone il materiale sul “vetri-no” per esaminarlo, Fulvio Biancatelli depone le sue reliquie-oggetto sulastre in metacrilato trasparente (plexiglas “a freddo” che non ha subitocondizioni di liquidità) come simboli di un mondo in estinzione da con-

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Quel che resta 01, tecnica mista, 202x73, 2005

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segnare a futura memoria secondo ar-monie spazio-temporali e ritmate compo-sizioni, chinandosi amorosamente sugliscarti-frammento per reinserirli in una vi-talistica circolazione sanguigna che èspecifica dell’arte. In un secondo tempofissa gli elementi al supporto con poten-ti colle chimiche facendoli “cantare” perl’eternità.Nella prassi operativa questo è il momen-to più delicato in cui colorate polveri di ani-line - spruzzate sulla composizione - si im-pastano col vinavil (usato per il fissaggio)creando una magica fusione pittorica tragli elementi del quadro ed il supporto. “Poil’attesa che il collante incateni le materie,ma sopratutto che il colore si diluisca for-mando sfumature sconosciute e la rugginecerchi vie di uscita dalla trappola imbasti-ta...” spiega ancora l’autore. Prende cosìcorpo una delicata “pelle” che interagiscecon l’opera mediante riflessi cangianti deirossi, verdi o blu, un’unica pasta pittori-ca capace di suggerire acide, violente e alcontempo inquietanti atmosfere dove lamateria, trasformata in catartiche accele -razioni, sembra trascendere in “lique-fazioni spirituali”.La ruggine ha qui una notevole importan-za: la fioritura dei funghi del ferro creal’idea della distanza, dello scorrere del tem-po che consegna l’ovvio al passato e cherinasce nella potenza energetica di una rin-novata linfa vitale. Ciò richiama l’opera delgenovese Claudio Costa, artista inter-nazionale che sugli elementi di scarto del-la società (con particolare attenzione perla ruggine cui aveva dedicata, nel ‘90, l’in-tera mostra “Per case di ruggine”) avevafondato la sua poetica.Nel lavoro di Biancatelli, e in quasi tuttal’arte contemporanea, si nota una sorta diapologia del “frammento” poiché abbiamoperso l’idea dell’“intero” attraverso cui ciriconoscevamo abbracciandone i limiti neiquali era circoscritto.Visione, questa, che è propria del passato(fino al secolo scorso) e che oggi ci è sta-ta tolta dall’incommensurabile grandezza

del mediatico “villaggio globale” che, vo-lenti o nolenti, universalmente abitiamo.Non potendo riconoscersi in grandezze u -scenti dai nostri limiti percettivo-sensori-ali nasce allora il culto, l’amore infinito peril piccolo, il micro, per ciò che in fondo èpiù simile al nostro “esserci” nel mondo.Particolarmente efficaci sono anche leopere intitolate “Vitrei” , elementi compostida schegge di cristallo tratte da frantumidi parabrezza d’auto, impastate con col-lante e ad accesi colori d’anilina, per es-sere poi racchiuse in cornice di brunitalamiera (per affissioni).Anche qui si struttura una caleidoscopi-ca visione che riflette un micro-universodove “... come i cristalli di salgemma tra-passati dalla luce rossa di una candelaaccesa , così le schegge di vetro temper-ato accendono luci ed ombre sinistredall’umore vitreo...”, suggerisce ancoraBiancatelli riferendosi a queste operedove sovente, dietro il lavoro è posta unafonte di luce che mette in risalto proiezionicromatiche violente, capaci d’irradiarsimagicamente nello spazio circostante.Si architetta allora una possibilità dimuoversi con la materia-colore in modotopologico con una intensità di senso incui mente e corpo trovano un’intima, vi-brante unità.

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Cesure dettagli

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CIRA D’ORTAIstantaneedi Sara Odorizzi

La produzione di Cira D’Orta riflette la sua personalità di artista cu-riosa e poliedrica che sa osservare la realtà e ricavarne sempre nuo-vi stimoli, in un rinnovamento continuo sia nella scelta dei soggettiche dei mezzi espressivi.

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91V E T R I N A

La signora con il cappello di paglia, olio su tela, 50x70, 2009

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Formatasi all’Accademia di Belle Arti diCarrara, in cui ha appreso una buona tec-nica e manualità, la D’Orta si è dedica-ta inizialmente alla scultura realizzandointeressanti opere in marmo e bronzo;il suo iter artistico ha subito una lungapausa per riprendere poi, da alcunianni, sotto la guida del maestro CarloPerè che l’ha avvicinata all’arte figurati-va.“Istantanee”, la prima mostra persona-le dell’artista ospitata da Satura, è incen-trata sul tema del ritratto, uno dei cam-pi di ricerca privilegiati dalla D’Orta, incui la sua sensibilità sa trovare una pie-na corrispondenza nella resa del sogget-to rappresentato.L’artista ci presenta un’umanità assortae intensa, ne indaga la profondità, ogniparticolare che potrebbe distogliere l’at-tenzione viene eliminato in favore dellaresa espressiva dei volti, di cui gli occhi,delineati con notevole abilità, rappresen-tano la chiave di lettura primaria.L’artista sa guardare dentro i suoi sog-getti, coglierne sfumature ed emozionie presentarceli così messi a nudo, qua-si bloccati in un’istantanea che porta consé quello che la persona è stata ed è: visicolti in un istante del tempo che diven-ta eternità.Nei ritratti a carboncino, di grande impat-to visivo, la D’Orta applica un procedimen-to particolare che mette in rilievo la suafamiliarità con la scultura e attraverso ilquale attua una trasposizione pittorica delconcetto del levare michelangiolesco:alla stregua di una sottrazione della ma-teria per liberare il soggetto scultoreo im-prigionato nel marmo, così da un’inizia-le stesura del carboncino i volti prendo-no vita mediante l’affiorare delle zone lu-minose. In questo maieutico processo disvelamento che dall’ombra porta allaluce, i visi emergono dall’oscurità rivela-ti nella loro essenza, ma allo stesso tem-po portatori di qualcosa di non detto, dienigmatico. La potenza espressiva diquesti ritratti si gioca sulla resa dei con-

trasti chiaroscurali e nelle sfumature ditono che l’artista sa calibrare con grandeabilità tecnica.Ne La signora con il cappello di paglia,Cira D’Orta sperimenta un approccio di-verso al ritratto ed è qui, in questo insie-me di immediatezza e cura dei partico-lari, di armonia cromatica e contrasti diluce, che emergono con ancor maggioreevidenza i pregi e le peculiarità dell’ar-tista. Uno sfondo immateriale colloca la figu-ra in un tempo sospeso, gli occhi delladonna guardano fissi in avanti, mediatiperò dall’ombra del cappello che crea sulviso una trama simile a merletto, una ma-schera che occulta e affascina. L’artistacura la resa di ogni dettaglio: le ombreg-giature del cappello, il neo, i riflessi del-la collana sono realizzati con una minu-zia quasi fiamminga che impreziosiscel’opera e ne esalta la complessità.

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L’indagatore, carboncino su cartoncino, 44x53, 2010

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MARCO DE BARBIERIUn volo razionaledi Sara Odorizzi

Per Marco De Barbieri, quarantenne artista genovese, la pittura non èsolo un mezzo di comunicazione, ma una forma di conoscenza, un ca-nale privilegiato per sondare la propria interiorità.Nel percorso formativo di De Barbieri, tentativi di affidarsi a “maestri”e insegnamenti accademici sono stati abbandonati in favore di una ri-

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Senza titolo, olio su tela, 100x70, 2010

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cerca personale affidata all’istinto, chelo ha condotto all’elaborazione di unproprio stile originale. La sua mostra personale “Un volo razio-nale” presentata da Satura, comprendeun ciclo di opere, frutto di una recentestagione creativa, caratterizzate daun’urgenza comunicativa molto forteche lo ha portato ad attuare un trasferi-mento pressoché quotidiano del pro-prio stato d’animo su tela, la qualerisulta sempre piena espressione di unafusione simbiotica tra l’Uomo e la suaArte, di un sentire e concepire la pitturacome sostanza di un’esistenza artisticache è indivisibile dall’Esistenza stessa.Il quadro diventa così come uno spec-chio in cui l’artista si osserva, si studiae da cui attinge un sempre diverso foto-gramma di sé: il prototipo non è mai ri-produzione meccanica e codificata, maespressione di sensazioni e condizioni

mai uguali, stati d’animo differenti, so-litudini, chiusure e aperture.Figure che si stagliano su sfondi mono-cromatici omogenei, dai quali emergecon vigore materico sempre il mede-simo soggetto: la sintesi dell’anatomiadi un corpo virile, proiezione dell’arti-sta stesso, colto attraverso un tratto li-neare fluido, ma deciso, sia in posestatiche che in movimento, in posizionefrontale, di tre quarti o di spalle.Da una lettura in sequenza dei suoi la-vori si può ricavare un unico moto con-tinuo, in cui le opere appaiono ognunafermo immagine di un solo atto, di unaricerca artistica che sperimenta echi emodi espressivi diversi, pur rimanendoben individuata e riconoscibile. Nella produzione di De Barbieri, le primefigure maschili, evanescenti statici blocchidi marmo su sfondo colorato, lasciano benpresto spazio a una più manifesta seria-lità: soggetti drammaticamente trasfigu-rati dalla loro matericità, fino l’evoluzionedelle ultime opere, come svuotate e libe-rate dal peso opprimente della materia,una sintesi, in cui il corpo diventa linea.Il gesto pittorico, spontaneo e istintivo,fa sì che l’emozione venga sprigionatadal vorticoso incedere del segno sullatela, la cui semplicità esalta le sensa-zioni che vibrano nelle figure dipinte.L’artista genovese si affida ad una scalacromatica che accentua l’espressivitàattraverso un contrasto tra i colori deglisfondi, decisi ma luminosi, sui toni pa-stello e quelli usati per il tratteggio delcorpo, tonalità forti, in cui una predo-minanza del rosso e del nero acuisce illoro drammatico emergere corporeo.In alcune figure frontali De Barbieritenta una lieve personalizzazione delviso attraverso l’accenno di tratti soma-tici, il tentativo si perde in ombre e que-sta assenza di particolari riconoscibilie riconducibili, rende i soggetti modellibase di un uomo qualunque, cloni repli-canti e rigenerabili, in cui ogni indivi-duo può rispecchiarsi.

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Senza titolo, olio su tela, 100x70, 2010

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SILVIO MAIANOSulla mia pitturadi Silvio Maiano

Alcuni anni fa ho ‘scoperto’ il rettangolo in un’opera informale del-l’artista tedesco Thomas Mehl; il metodo frequentando il pittore EnzoMaiolino. Uso forme elementari (rettangoli, quadrati) che si modulano in sequen-za e le cui campiture variano dal nero ad una scala di grigi. Scelta, que-sta, che si avvale del chiaroscuro per meglio rappresentare il concetto

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Senza titolo, acrilico su tela, 40x50, 2010

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di spazio, inteso come pienoe vuoto. Cerco l’unione e l’equi-librio tra forme autonome di-verse, per dimensione e pesocoloristico, che si realizzanoe si completano in una nuovafigura all’interno di un defini-to spazio bidimensionale.La figura piana o bidimensio-nale porta in sé la logica del-la matematica, la precisionedella linea, la consistenzadella forma ed è attraverso lacostruzione di composizionigeometriche che cerco diesprimere qualcosa di concre-to. Una poetica, la mia, chenon lascia spazio a interpre-tazioni letterarie né a elucu-brazioni concettuali ma soloalla mera pittura, solo a una‘lettura visiva’ che non sistacchi dalla realtà delle for-me rappresentate. Lo scrittore Francesco Bia-monti ha scritto: “ ...il lavoroconsiste in una concentra-zione esistenziale e in una ela-borazione stilistica. Come siarriva all’elaborazione di unostile è difficile spiegarlo. Unosi avvale di tante cose, diuna osservazione della realtà,di un confronto con altrescritture”. Penso che questo concetto siavalido per ogni attività artisti-ca infatti, come ho scritto adun amico che recentemente siinformava sulla mia attivitàartistica, solo col lavoro, il la-voro e ancora il lavoro riescoa progredire.

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Senza titolo, acrilico su tela, 40x50, 2010

Senza titolo, acrilico su tela, 50x60, 2009

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EVA REGUZZONIUn mondo di cubidi Elena Putti

Eva Reguzzoni è una giovane artista lombarda che Satura ha volutopremiare per doti tecniche ed originalità stilistica. A lei è stato asseg-nato infatti il primo premio del concorso nazionale Saturarte, giuntoormai alla sua quindicesima edizione. Il riconoscimento la encomia perla sua brillante reinterpretazione dei motivi fondamentali del minima-lismo contemporaneo.Veloci, dinamici, i cubi di Eva invadono lo spazio e lo sconvolgono inuna prorompente sinfonia di colori. Si sdoppiano, si triplicano, si mol-tiplicano in una contagiosa simmetria di dimensioni che rapisce ed ip-notizza lo sguardo.Il mondo di Eva ruota tutto attorno a tre elementi portanti: la scompo-sizione del piano spaziale, il contrasto monocromatico, e la linea retta.Ogni elemento è indispensabile e complementare e contribuisce a trasfor-

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Tecnica mista, acrilico e carboncino, 100x100, 2009

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mare componenti scarni ed essenziali in unquadro completo di vivace ricchezza.Lo spazio è elemento di grande caratterenell’opera: esso sembra infrangersi e dis-solversi catturato da geometrie instabili evibranti, che lo invadono fino a smateria-lizzarlo.Inoltre l’ossessiva ripetizione quadraticasfalsa e frammenta le proporzioni del pia-no; ed è proprio questo che cattura lo spet-tatore: un’incredibile profondità che ha ori-gine soltanto tramite la linearità bidimen-sionale. Analizzando oltre, ciò che di sicuro stupi-sce è l’utilizzo virtuoso del colore: toni ca-richi e pieni in campiture decise, sono abil-

mente sovrapposti, fino a fondersi in un uni-cum di penetranti contrasti cromatici. Sfu-mature variegate, che esaltano la gamma deicolori primari.Infine è d’obbligo osservare la cura e la ri-cerca della linea: Eva celebra il trionfo del-la retta e la sua mano si muove con sicu-rezza sulla tela, declinando ogni suo trat-to con personalità e carattere. Ciascuna li-nea è diversa, unica: talune nette, talunesporche, e poi spesse, sottili, graffiate, sfu-mate, accennate...talune solo immaginate. Un unico gesto, innumerevoli grafie. Unapluralità che ci riporta alla pura dimensio-ne del segno. Nell’insieme questo suo mondo di cubi ciappare fortemente evocativo: in esso si pos-sono leggere riferimenti artistici all’anticaarte vetraria come all’avanguardia di Mon-drian. Ma queste figure ci riportano anchead una dimensione più quotidiana e fami-liare, fatta di tante finestrelle nascoste e so-vrapposte: quella di una città di oggi, tut-ta rinchiusa in alti palazzi e grattacieli, ato-mistica ed animata da un forte verticalismo.Queste forme a noi note, tuttavia, vengonodipinte come un colorato mosaico di diffe-renze, che evolve la monotonia e l’unifor-mità in una grande ricchezza di stimoli. Neemerge infine un caos creativo incapsula-to in rigide forme, le quali, solo a stento, netrattengono lo slancio vitale e dinamico.

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Tecnica mista, acrilico e carboncino, 90x90, 2010 Tecnica mista, acrilico e carboncino, 75x75, 2010

Pass - riquadri, tecnica mista, 90x90, 2010

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GUIDO ROSATOFinestredi Franco Boggero

Al tempo di Genua picta, una mostra povera ma bella sulle facciate di-pinte genovesi, Guido Rosato condivideva con chi scrive l’interesseper la varia complessità di quelle strutture illusive, a partire dalla so-luzione pressoché bidimensionale del telaio-cartone fino alla simula-zione di diversi e progressivi strati di profondità.Provando a descrivere il percorso creativo di Guido con l’imposta-zione e il lessico d’allora, verrebbe da dire che il gioco tridimensionaledei suoi spazi interferenti, come ebbe a definirli qualche anno fa EziaGavazza, si è fatto sempre più dichiarato e “costruito”.Anche nella sua raffinata produzione iconica, di tono spiccatamenteironico-surreale, Rosato utilizza volentieri sequenze di sagome e

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Scena 2, tecnica mista su carta, 50x50, 2010

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piani, mostrandosi a proprio agio nellaspazialità del teatro e nel ricorso amicro-macchine sceniche. Ed in que-st’ultima mostra, quasi a sottolineareconsonanze non casuali fra i due suoidue mondi d’immagine, ha voluto rit-mare gli spazi espositivi con grandipannelli nei quali sonanti emblemiastratti e onirici scenari urbani si so-vrappongono e dialogano senza sforzo.Se nelle Carte grandi di qualche anno fasembrava prevalere la ricerca sulla pa-rete-ambiente, che lo portava a stenderecon gli acrilici accese campiture per sot-tolinearne solo in parte i contorni me-diante forti segni bistrati, lasperimentazione più recente dell’artistasi complica. Nelle nuove Finestre il mo-tivo, ovvero l’apertura reale praticatanella “scatola”, spicca sulle dissonanzeovattate di stesure chiare, rese vibrantidalla texture dei pastelli. Nelle Scene, glistrati di profondità si moltiplicano, evengono fornite - quasi segnaletica-mente, e con divertita ironia - accelerateindicazioni prospettiche, mentre leaperture reali assommano tipologie di-verse (finestra / tenda / persiana) ed ac-colgono al loro interno nicchie e quinte,sagome e frammenti di specchio.Più dura e dichiarata la sperimentazionedei Bozzetti, dove la materia pittorica èmeno trasparente, le tinte sono più sa-ture e gli espedienti - i test - risultano av-vicinati e confrontati fin quasi al limitedel ‘corto’.Ma sarà, anche in questo caso, la “cul-tura del controllo di sé” (come notavaAntonella Berretti presentando nel2006 le prime, morbide Finestre con-dotte all’acquerello) a lasciare chiaro epulito il gioco, proprio come accade inogni avvertito open jazzistico.

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Finestra 3, tecnica mista su carta, 50x50, 2010

Finestra 4, tecnica mista su carta, 50x50, 2010

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GENOVAA cura di Valentina Isola

IV BIENNALE DICERAMICA NELL’ARTECONTEMPORANEA“Cambiare il mondo con unvaso di fiori”(Dal 25 settembre 2010 al 9gennaio 2011)Fondazione Pier Luigi eNatalino Remotti

Camogli (GE)

“Cambiare il mondo con un vasodi fiori”: cosa si cela dietro questocurioso titolo? Quali obiettivi,quali finalità e quali possibilitàcreative? Lo scopo è quello diripensare, riscrivere e ricrearel’identità di un oggetto, il suovalore artistico, la sua valenzaconcettuale e simbolica in unostudio/ricerca di proposte inediteche abbiano l’intento di rinnovaree ribaltare i canoni estetici deldesign e quelli funzionali e diutilizzo del “prodotto” vero eproprio: l’oggetto/vaso…,insomma “regalare nuovicontenuti e nuovi procedimenti aduno dei mestieri più antichi, oggiin grave crisi”, come piùesaustivamente e semplicementespiega Roberto Costantino, ildirettore artistico dell’esposizione.Gli artisti e i designer di famainternazionale, invitati, hannoadottato soluzioni creativeradicali, a volte estreme masempre personali, insolite ed“ingegnose”, nel vero senso deltermine, senza mai privilegiarel’apporto tecnico a discapito diquello meramente estetico, maanzi evidenziando, a volte,l’aspetto ludico ed umoristico. LaLiguria, terra e fulcro di grandetradizione vasaria, con Albisola,

“compiuta” dell’uomo distruttadall’uomo stesso; Carlo Levi con“Flowers” propone un vasocompletamente nascosto da unfiore; Andrea Branzi contamina leinfluenze iconografiche del ‘900con modelli morfologici greciproponendo i suoi originalissimi“Cocci”; Alberto Garutti si pone epone a chi guarda una curiosadomanda: “Che cosa succede nellestanze quando gli uomini se nevanno?”, fornendo una delle operepiù interessanti della rassegna edecorando in modo alternativo laclassica Giara, la Idra e laTulipaniera, tradizionali diAlbisola, con il silicato di zinco, uncolore visibile solo di nottequando il sito della mostra èchiuso al pubblico: al buio questivasi diventano guizzi iridescentiimpalpabili. Fernando e HumbertoCampana intepretanol’interessante tema ecologico delriciclo: vecchie tegole vengonoassemblate originalmente almidollino in “Tile Vase” e dannovita a vasi singolari; Mendinicostruisce bolle di sapone, le “Tresfere”, appunto, con materialipreziosi: oro, bronzo e nerolucente. Le bolle si staglianoevanescenti ma statuarie; sonofogli di terracotta arrotolati quelliche utilizza Paolo Uilan per “VasoRosae”, un delizioso vaso inminiatura a forma di tenerarosellina, in versione minimalista;Marti’ Guizzè riprende la sinergiacombinatoria dei materiali, giàutlizzata in precedenza conrisultati accattivanti nel suo food-design e decora “Surfvase” confiori che si intrecciano ai manicicon solide corde di canapa; LucaVitone lavora ed assembleainsieme tubi di terracotta, polveredi marmo e lastre di marmo perevocare una realtà visionaria eonirica nella sua opera “PipeDream”; Linde Burkhardt in “Treper due” divide i vasi a metà:ognuna è il doppio dell’ altra e lospettatore può disporne inmaniera libera creando via, viacomposizioni mutevoli e semprein divenire; Vedovamazzei in“Reset” rende nulla la funzione delvaso, forandolo in due puntidiagonalmente e trafiggendolo conun fiore come fosse una freccia diCupido in un cuore; altre

centro di lavorazione ceramica dichiara fama europea che haospitato e offerto lacollaborazione ai grandi artisti del‘900 quali: Marinetti, Munari,Fontana, Manzoni, Debord ecc.,vede, nella Biennale di Ceramicanell’Arte Contemporanea, giuntaalla IV edizione, la depositaria delfuturo e “del destino dell’arte e deldesign, fra le piccole cose e legrandi trasformazioni..”,facendosi, così, testimone delprocesso d’innovazione suimateriali, le tecniche e le soluzionistilistiche ed ideative di questafine arte applicata, non per questomeno importante delle arti“canoniche”. Fra le molte opere inmostre, ricordiamo: in ”35 x 35 xun fiore”, Paolo Doganellotrasforma il suo vaso a tuttotondoin un bassorilievo; Marco Ferreri in“Tre per Uno” adotta la soluzioneoriginale di inserire un vasodentro altri vasi, come scatolecinesi o Matrioske russe; quindi:tre vasi, tre significati come perKosuth nelle opere “Uno e tresedie”e “Uno e tre cappelli”;“Qualc’Uno” di Denis Santachiara èun semplice vaso di coccio resointeressante dalla completarotazione che l’autore gli imprime;Florence Doleac in “XLS e Lolo” fasua, in un certo senso, la lezionedi Spoerri: come il grande artistaromeno verticalizza econtestualizza le sue opere, inquesto caso egli porta i suoi vasidall’usuale e corrente pianoorizzontale a quello inusuale,verticale; Alexis Georgacopouloscon “Duetto” espone vasiminimalisti dai colori brillanti edivertenti che terminano concoperchi e beccucci essenziali, macuriosi e particolari; Adrién Roveroanalizza e rivoluziona conoriginalità ed ironia la relazioneesistente tra vasi e il contesto nelquale sono abitualmente inseriti: ilvaso “Borderline” è corredato diun morsetto che gli consente diessere posizionato anche negliangoli e ai lati del tavolo; UgoMeert: il suo “Terrarist” è un vasoche omini di ceramica smaltata,dotati di piccoli martelli minano aibordi scheggiandolo e riducendoloin frammenti; è la metaforadell’uomo che distrugge il propriomondo e in questo caso, l’opera

Florence Doleac , “XLS e Lolo”, 2009- 2010

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interessanti opere degne dimenzione sono quelle diAlessando Biamonti (“Moribana”),di Pekka Harni (“Planet b”), diLorenzo Damiani (“DigitalFlaowers”), di Alberto Viola(“Scarabia”) e di Donata Paruccini(“Pluvio”) che rispondono alladomanda: “come cambiare ilmondo con un vaso di fiori?”, conopere imprevedibili, artificiali efuturiste sempre originalissime.Fiore all’occhiello dell’evento, “lamostra nella mostra” diMichelangelo Pistoletto, Leoned’Oro alla carriera alla Biennale diVenezia che qui, presenta, unaserie di sessanta opere, riflettenti,come tutti i suoi lavori(superfici/quadri/sfondi-specchio). “Vasi – specchio delterzo Paradiso”, appunto, è il titolodei vasi che si riflettono gli uninegli altri, perdendo i contorni econfini, assumendo, così, nuoveidentità e divenendo “simbolodell’infinito”, non due, ma treanelli congiunti. L’esteta, l’amante dell’arte in ognisua forma e manifestazione ol’attento visitatore “seriale” dimostre ed eventi, ma anche lospettatore occasionale o il “turistadella domenica” non potranno enon dovranno perdersi questainteressantissima esposizionepresso la Fondazione Pier Luigi eNatalina Remotti, sullo sfondodella calda e ridente cittadina diCamogli, dal 25 settembre 2010 al9 gennaio 2011 che dopo esserestata presentata presso l’IstitutoItaliano di Cultura di Madrid(Ambasciata d’Italia in Spagna)approderà nel 2011 al Mudac, ilMuseo di Design e Arti ApplicateContemporanee di Losanna.

IL BACIOMuseo del Risorgimento(Dal 2 ottobre 2010 al 9gennaio 2011) Genova – Via Lomellini

Il Museo del Risorgimento diGenova, uno dei più accreditaticentri per lo studio del pensiero edel movimento repubblicano edemocratico mazziniano, ospitadal 2 ottobre 2010 al 9 gennaio2011, nell’ambito delle iniziativecommemorative e culturali per il150° anniversario dell’Unità di

solitario la propria lotta perl’Indipendenza e la riscossapatriottica. La presenza di talecapolavoro, (voluta fortementedalla Regione Liguria) nella casanatale di Mazzini, grandeestimatore di Hayez, assume unsignificato simbolico pregnanteperché è la sede e la cornice idealeper la riflessione el’approfondimento degliavvenimenti politici e socialirisorgimentali e delle tematicherepubblicane e democratiche delmovimento mazziniano. Mazziniconsiderava Hayez “un produttoredi pittura civile che emana dalpopolo” e il “cantore in pittura”del pensiero e del desiderio,comune agli italiani, d’unificazionenazionale. Il Bacio e i tre rarissimiacquarelli di analogo tema dellostesso autore, fanno da cornice atutti gli altri documenti e reperti diquel periodo storico presenti nelMuseo e s’inseriscono a pienotitolo nel progetto, elaborato dalComune di Genova dal titolo“L’Unità di Italia per ladivulgazione e la promozione delpatrimonio storico e culturalegenovese e ligure”: ciò per nondisperdere le nostre radici, lanostra memoria storica etramandarla alle generazionefuture e per edificare sul passato ilnostro domani. Questa mostraaccattivante per tutti gli spettatori,non solo per i più romantici epatriottici, è occasione perconoscere più approfonditamentequesto periodo storico ricco digrande fermento, coraggio eidealismo, che, non a caso, èvivamente consigliata a gruppi discolaresche delle scuole medieinferiori e superiori, studentiuniversitari, appassionati di storiao anche semplici cittadini per l’altavalenza civica,i numerosiapprofondimenti, curiosità,dettagli minuziosi e spunti diriflessioni che offre.

FLAVIO COSTANTINI IN MOSTRA Museo LuzzatiDa mercoledì 22 settembre adomenica 14 novembre 2010

Al Museo Luzzati, da mercoledì 22settembre a domenica 14novembre, è possibile ammirare

Italia, la mostra itinerante (partitada Trieste, toccherà anchePalermo, Torino e Firenze), ideatae prodotta dalla società Alefcultural project management diMilano dal titolo “Il Bacio”. Uncapolavoro per l’Italia”. Inesposizione vi è, per l’appunto,l’omonimo capolavoro del pittoreveneziano Fernando Hayez,emblema pittorico delpatriottismo ottocentesco e alcontempo espressione di grandesuggestione e romanticismo.L’opera, dopo la sua primaesposizione a Brera nel settembredel 1853, divenne in poco tempo ilsimbolo iconografico delle lottedel Risorgimento e del riscattodell’Italia dal giogo straniero. Latela in mostra, ribattezzata “Ilbacio del volontario” dal poetaFrancesco Dall’Ongaro nel 1872,quarta versione realizzata

dall’autore nel 1861 (quella del1867 è attualmente in America inuna collezione privata), coglie efissa sulla tela due innamorati chesi abbracciano appassionatamentein una posa plastica, moltonaturale quasi come unafotografia scattata di nascosto: lacomposizione nell’insieme risultacarica di dolcezza e priva divolgarità. Le vesti degli amantiriprendono il colore del tricoloredella bandiera italiana: il verde e ilrosso negli abiti maschili e ilbianco nella veste della donna(viene a mancare in questa copia ilcolore azzurro che nella telaprecedente, la più conosciuta,quella esposta alla Pinacoteca diBrera, rappresentava la Franciaunita all’Italia nell’alleanza controgli Asburgo. Hayez, tralasciandotale riferimento vuol sottolinearequi, che l’Italia, grazie all’impresadei Mille, può continuare in

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Francesco Hayez, “Il Bacio”(particolare), olio su tela, 1861

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l’opera di Flavio Costantiniattraverso un viaggio “a tappe” nelsuo background: da sottotenentedi vascello ad affermato artistaoriginale e poliedrico.Costantini, romano d’origine maligure di adozione, ha sempremostrato una sorta di vocazione edi predisposizione “naturale” perl’arte anche se in un suo scrittoautobiografico sostiene di nonricordare la prima volta, anzi,“una” prima volta in cui abbiadeciso coscientemente di dedicarsialle arti figurative. L’artista, infatti,che, già da fanciullo si dilettavanel disegno e nel ritaglio diillustrazioni di libri, nel tentativodi animarle, da adulto, pur avendointrapreso studi del tutto estraneial mondo e alla pratica attivadell’arte ( in primis, l’IstitutoNautico e in secundis l’AccademiaMilitare) riesce, comunque, aconsolidare quella che prima erasolo una semplice passione.Intorno ai trent’anni, durantequello che sarà poi il suo ultimoingaggio su una nave petroliera,inizia a ritrarre scene di vita dibordo. Correva l’anno 1954quando, “per un’inveteratadisubbidienza”, intraprende“ufficialmente” la carriera dipittore con un ciclo di operededicate a Kafka. Trasferitosi a Rapallo, nel 1955,dopo le letture Kaftiane el’incontro con Luzzati decide dismettere di navigare del tutto eper sempre, per dedicarsiinteramente all’arte, iniziando“quasi per scherzo”, a collaborarecon lo stilista Gianni Baldini aSanta Margherita. Nel 1957, aGenova, è uno dei fondatori dellostudio grafico Firma, nella cui sederomana collabora anche Luzzati:qui disegnerà per numerosegrandi industrie quali Shell, Esso,

una selezione dei “ritratti-rebus”(definiti così Leonardo Sciascia), discrittori e filosofi quali Kafka,Calvino e Socrate, ideati negli anni’90. All’insieme delle opereoriginali si affianca poi un vastoapparato di manifesti, libriillustrati, copertine, oggettipromozionali, da cui emergel’ampiezza e la varietà del lavorosvolto dall’autore nel corso di piùdi cinquant’anni. Un omaggioall’amicizia che ha unito Costantinia Emanuele Luzzati, lo si trovanelle sale delle Cannoniere con larealizzazione di un loro anticoprogetto, “Una notte all’opera”, nelquale i ritratti di musicisti (Rossini,Donizetti, Britten ...) del primo,sono accostati a bozzettiscenografici inediti (per il “DonGiovanni”, il “Turco” in Italia), delsecondo: un dialogo, uninterscambio sinergico tra duemodi differenti di fare arte,costruttivi ed unisoni nelmessaggio: una conversazione “inleggerezza” testimone dellaveridicità dell’affermazione chechiude il filmato-intervistadedicato, lo scorso anno, da Rickye Roberto Farina all’artista: “È lavita che è insensata ... però amovivere, mi piace vivere”. Mostra,questa, da non perdere, sia per laparticolarità del pittore e delle sueopere, lo spaccato di vita el’exscursus della sua maturazioneartistica e umana sia per scoprireun Luzzati inedito, “nuovo”,sempre vivo.

CHIUSAA cura di Silvia Barbero

I MACCHIAIOLIDisegni della collezione CarloPepi, CrespinaStadtmuseum Klausen-MuseoCivico di Chiusa (BZ)31 luglio 2010 -18 settembre2010

Un piccolo Museo di montagna, unparco e aria buona sono gliingredienti per assaporare i disegnidei Macchiaioli esposti in questamostra. Cinquanta opere, tra disegni,pastelli e acquarelli realizzati nellaseconda metà dell’Ottocento daimaggiori esponenti del movimentodei Macchiaioli, come Fattori, Lega eSignorini.

Italsider e Olivetti.I fogli dedicati a Kafka,minuziosamente istoriati con untratto filiforme, precedono lasequenza delle “Tauromachie”(1959-62, olio su tela) realizzatadopo un viaggio a Barcellona, nellaquale l’autore attua la sua piùimportante svolta stilisticatracciando figure dai contorni piùmarcati: caratteristica, questa, cheritroveremo, poi, in tutta la suaproduzione successiva. Dalle“Tauromachie”, appunto, prendeavvio il percorso della sua primagrande antologica genovese.L’allestimento di quest’ultima èimpreziosito da grandi stendardisospesi, il ciclo gli “Anarchici” chesegnerà la sua consacrazione alivello internazionale. Costantini,successivamente, convoglia il suointeresse verso temi sociali edeventi storici mettendo in scenacon un’ottima sintesi narrativa,episodi drammatici della rivoltacontro l’oppressione sociale, acavallo fra ’800 e ’900. Gli scorci, inuna prima fase, gremiti dipersonaggi dalle movenze febbrili,si fanno, agli inizi degli anni ’70,più evanescenti nelle atmosfere edelimitati, spesso, da alienateprospettive che paiono comeschiacciate sulla tela.All’affondamento del Titanic,simbolo del progresso e dellemacchine ma anche della fallibilitàdell’uomo e della superiorità dellanatura è dedicata la più nota fra leserie create negli anni ’80, nellaquale si registra la scomparsa dellafigura umana che riemerge, solocome come entità fantasmagorica,in alcune delle tempere del ciclo“Zar”, iniziato nel 1979 e conclusonegli anni ’90, evocante i luoghidella prigionia e l’esecuzione dellafamiglia Romanov: una personaleriflessione sulla caduta del potereimperiale, elitario, autoritario edancestrale e sulla furiarivoluzionaria. A tematicheanaloghe si legano anche i recentilavori sul tema dell’assassinio diMarat, in cui affiora, rovesciato,l’eco del terrore anarchico, inatmosfere che la coloritura apastello rende più evanescente emeno definita nei contorni. Laricostruzione “a tappe”dell’itinerario creativo di Costantinisi conclude con l’esposizione di

Flavio Costantini, Il Titanic, olio sutela, 100x80, 1983

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La scelta di Chiusa, non è casuale.Infatti, tra il 1874 e il 1914 più ditrecento artisti si riunivano nelpaese, che da allora si fregia conorgoglio del titolo di“Künstlerstädtchen”, “Cittadinadegli artisti”.

Nelle tre sale dedicate aiMacchiaioli, i curatori sono riuscitia condensare gli aspetti piùinteressanti di questo movimentoartistico.Pregevole il disegno di SilvestroLega del 1887, nell’ultima sala, ilritratto di “Paolina Bandini”, cherivela la capacità dell’artista direndere le “impressioni” dal vero,fermate velocemente sulla carta. Una tecnica, quella macchiaiola,che continua ad affascinare per isuoi calibrati contrasti di colore-ombra e colore-luce.

MILANOA cura di Serena Vanzaghi

CARLA BEDINIOnly love can live such a scarGalleria Ca’ di Fra’16 settembre 2010 / 23ottobre 2010

La mostra di Carla Bedini cheinaugura la stagione autunnale

indagare la molteplicità sotto cuispesso la realtà, le persone e lecose si manifestano. Attraversodiversi media (disegno, sculturae pittura) l’artista compie unlavoro sull’identità e sullastoria/memoria, il cui risultatodimostra come queste entitàsiano lontane da una solida

compattezza e come si trovinoinvece a doversi confrontare inmodo sempre più forte con laframmentazione, il clone, ladivisione. Nello sviluppo diquesta riflessione, Bitzer si rifàagli eteronimi, gli autori fittiziche lo scrittore portogheseFernando Pessoa inventò durantela sua vita. Essi sono l’esempiodi come un’identità possasdoppiarsi, triplicarsi e così via,assumendo diverse personalità eaddirittura diverse biografie.“L’ansia insaziabile di esseresempre lo stesso e altro” (F.Pessoa, “Libro dell’Inquietudine”)diventa così il motore di ricercae di sviluppo di questaesposizione.

ALIGHIERO BOETTIDa singolare a plurale eviceversaGalleria 1000eventi17 settembre 2010 – 20novembre 2010

Terza personale dell’importanteartista torinese Alighiero Boettialla galleria 1000eventi. La mostratuttavia non si presenta come un

della Galleria Ca’ di Fra’, sottolineal’evoluzione che l’artista hacompiuto nel suo percorsoartistico: i suoi soggetti, tra il realee il fiabesco, non rappresentanopiù ragazzine ancorate a unadimensione infantile ma piccoledonne, nel pieno della lorofioritura esistenziale. Il gioco disguardi, rimandi e introspezioniche Carla Bedini intesse dentro efuori i suoi lavori, in queste operesi fa sempre più presente, quasi atestimoniare una complessitàesistenziale delle donne ritratteche può assurgersi ad emblema diun certo periodo della vita. Il titolopotrebbe suggerire come questefigure femminili si siano imbattutein situazioni affettive e amorosedifficili e come ne stiano portandole conseguenze tra il modo reale divivere le emozioni e quellaesorcizzazione fiabesca dellestesse a cui spesso si assiste. Così,come una cicatrice, l’esperienzaimprime visivamente nellosguardo, nei tratti, nellafisionomia, nell’aspetto, i segniindelebili di una vita vissuta.

MATTHIAS BITZERMaison AutomatiqueGalleria Francesca Minini16 settembre 2010 / 6novembre 2010

I complessi pattern astratti diMatthias Bitzer si propongono di

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Silvestro Lega, Paolina Bandini, 1887,matita su carta

Carla Bedini, “How to become amarmaid and dissolve into sea foamin just seven surgical operations”,2010, Courtesy of Galleria Ca’ di Fra’,Milano.

Courtesy of Galleria Francesca Minini,Milano

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remake delle precedenti ma siprefigge di indagare un aspettodella poetica artistica di Boetti chenon è molto conosciuto. Le operein esposizione, risalenti agli AnniSettanta, sono tutte riconducibili aun ciclo di lavori che Boetti compìsulla base del suo interesse per leregole e gli schemi geometrici,matematici e combinatori.L’artista, affascinato dallabellezza estetica contenutanell’espressione logica omatematica, si confronta conconcetti come la progressionematematica e le unità di misura,rileggendole in chiave artistica eutilizzando oggetti e strumentiestrapolati sia dal quotidiano, siada moduli geometrici. Il tema deldoppio o della doppia versione,viene particolarmente indagatonella trasformazione di nomi inlettere, date in cifre e cifre inlettere, in un gioco che, con regolediverse, porta allo stesso risultato.

ARIELA BOHM / GABRIELELEVY / TOBIAS RAVA’Segnali e lettereErmanno Tedeschi Gallery16 settembre – 16 novembre2010

capire e scoprire i segni della luceche, proiettati in una dimensioneiconica e ambientale, danno vita aopere pittoriche, fotografiche einstallative di vario genere. Lamostra, curata da Elena Forin, sidipana tra i concetti di segno,immagine ed esperienza e ladilatazione temporale diventairrilevante in favore dell’istantedello sguardo, della percezionefugace dell’immagine che creanello spettatore una nuovaesperienza. L’istinto vienecelebrato in tutta la suamanifestazione e l’emozione puòfuoriuscire libera in unacondizione di memoria huxleyana:“Oggi il percetto ha inghiottito ilconcetto”. Una visione pluraledella realtà che, sebbene studiatae analizzata, ha ben poco delloscientifico, quanto piuttostodell’istintuale.

WILLIAM COBBINGMan in the planetFabbrica del Vapore15 settembre 2010 / 30ottobre 2010

Eraserhead, noto film surreale diDavid Lynch, ha rappresentatoun’importante fonte d’ispirazioneper la mostra di William Cobbingallestita presso gli spazi diViafarini DOCVA. Ex fabbrica perla produzione di convoglitramviari, l’edificio presenta unarchitettura industriale che hafortemente colpito l’immaginario

dell’artista, tanto da interpretarequesto luogo come un possibilesetting del film di Lynch, di cuiappunto “L’Uomo del Pianeta” èuno dei personaggi. Il concetto di“orma”, in questo contesto,diventa cruciale: l’orma raccogliein sé ciò che era in passato e ciòche ora è. Il discrimine tra ciò che

La passione per l’alfabeto ebraicorappresenta il trait d’union cheamalgama in questa collettiva illavoro dei tre artisti, chedifferiscono per formazione,scelta dei materiali e stile.Le lettere di questo alfabetodiventano spunti di riflessione edi narrazione per gli artisti, iquali, attraverso differenti media,intessono percorsi suggestivi chevanno oltre il significato delleparole e dei caratteri per aprirsi amondi fatti di stati d’animo e diemozioni.Levy si confronta con laterracotta, Ravà edifica paesaggi oarchitetture con lettere sagomabilie multicolori, Bohm si misura consuperfici di argilla, rame e acqua:una collettiva che spazia in stili,materiali e scelte differenti mache dimostra come una passionesemantica può, attraverso lacreatività, essere manifestata edespressa da diversi punti di vista.

FRANCESCO CANDELOROParallele visioniGalleria Galica19 novembre 2010 / 20gennaio 2010

Di ritorno da una mostra allestitapresso Palazzo Fortuny a Venezia,Francesco Candeloro riapprodaalla Galleria Galica, dove siconfronta con lo spazio espositivoattraverso l’utilizzo di diversilinguaggi. Diversi media ma unicoscopo: quello di indagare lemodalità e le forme del vedere, diCourtesy of Galleria Ermanno

Tedeschi, Milano

Francesco Candeloro, “QuotidianiMovimenti”, Courtesy of Galleriagalica, Milano. William Cobbing, Bamiyan Mirror,

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Alighiero Boetti,“AELLEIGIACCAIERREOBIOETTII”, 1971

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il tempo e le vicissitudiniconservano e ciò che cancellanodiventa il filo conduttore dellamostra di Cobbing, il qualeespone calchi di membra umane evideo in cui la presenza umanaviene riconosciuta e allo stessotempo rinnegata in una visioneentropica della realtà.

DAVIDE LA ROCCARitrattiCorsoveneziaotto ArteContemporanea16 settembre 2010 / 29ottobre 2010

La decostruzione dell’immagineche opera Davide La Rocca ècondotta attraverso una magliafinissima di segni che mirano ascomporre l’immagine stessa, sinoa renderla un insieme di particelle.L’artista catanese, classe 1970, èapprodato a questo linguaggiopittorico attraverso uno studiosull’immagine moderna e sullapercezione che si ha diquest’ultima. Rifacendosi asoggetti appartenenti al mondodello spettacolo, La Rocca liscompone con il suo modo dioperare e con l’utilizzo di colori sutoni acidi o grigi, restituendoun’impressione di disaccordo etalvolta di attrito. In questa mostral’artista siciliano di adozionemilanese tenta un nuovoesperimento: la “Vocazione di SanMatteo”, celeberrimo quadro delCaravaggio, viene rielaboratadall’artista attraverso unribaltamento speculare dei tonicaldi con sfumature di rosso e diverde.

LORETTA LUXGalleria Carla Sozzani09 settembre 2010 – 31ottobre 2010

Quasi a metà tra fotografia epittura, i lavori di Loretta Lux

immagine, acquisendo anche unvalore comunicativo che prima(forse) non gli apparteneva. Inquesta decostruzione mediatica,Ramishvili getta un’ombra diinsicurezza e di labile apparenzasulla convenzionalità dellarappresentazione. Tutto ciò cheviene rappresentato puòsembrare, di primo acchito,conosciuto o riconoscibile ma,improvvisamente, diventaintermittente, incomprensibile.Una presenza che sembrerebbesolida si liquefa in unadimensione sospesa in cui tutto

assume una veste di arbitrarietàche pervade ogni singolaimmagine presente in mostra:l’attendibilità e la “legittimità” diogni linguaggio impiegato (el’artista ne sonda parecchi)sembra così perdersi in deviantidiffrazioni.

ULRICH RUCKRIEMGalleria A Arte StudioInvernizzi22 settembre 2010 / 4novembre 2010-09-16

Dagli Anni Settanta l’artistatedesco Ulrich Ruckriem siconfronta con la scultura,attraverso una ricerca che ancoraoggi prosegue e che non hasmesso di riserbare nuoveevoluzioni.La mostra personale in

mostrano l’abilità tecnicaattraverso cui l’artista rielabora isuoi ritratti per fornire unavisione tanto reale quantoingannevole della realtà.I soggetti proposti sono bambinicontemporanei, messi in posacome se fossero i protagonisti difiabe d’altri tempi. Forse al giornod’oggi, con l’avvento massivo didvd, televisione e cartoni animati,sembra fuori luogo parlare delle“vecchie” care storie raccontate.Eppure Loretta Lux rievoca questenarrazioni, che spesso sigiostrano tra la purezzadell’infanzia e l’inquietudine deicontesti, sino a creare una sorta dicorto circuito tra presente epassato, tra visione e sensazione.Tutto sembra accentuare questanuova bipolarità temporale: lafotografia che, attraversoespedienti tecnici moderni, siconfonde nella pittura, bambinicontemporanei che indossanovestiti d’altri tempi, la fiaba chenon viene narrata ma che vieneespressa attraverso la descrizionevisiva di sensazioni percettibili.

KOKA RAMISHVILIDouble VArtra20 settembre 2010 – 22ottobre 2010

Come possono le immagini averela “pretesa” di rappresentare larealtà fenomenica che ci circonda?Questo è il tema focale attorno acui ruotano i lavori che KokaRamishvili espone in questapersonale. L’artista georgianopone l’accento sulle fasi delpercorso che porta un dato reale atrasformarsi in documento, in

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Courtesy of Galleria CorsoveneziaottoArte Contemporanea, Milano

Courtesy of Galleria Carla Sozzani,Milano

Koka Ramishvili, “Studi per Green Teae Red Tea”, 2010, Courtesy of Artra,Milano.

Koka Ramishvili, “Studi per Green Teae Red Tea”, 2010, Courtesy of Artra,Milano.

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questione presenta settantadisegni appartenenti al ciclocreativo che ha caratterizzato lasua opera degli ultimi tre anni.La grafica ha da sempreaccompagnato l’attivitàscultorea di Ruckriem e questaesposizione vuole celebrarequesta tecnica di supportoimportante nella ricercadell’artista. L’approccio deidisegni è casuale, viene dettatodall’impulso, ma dallaspontaneità del segno si creapian piano una forma, su cuiRuckriem interviene con ilcolore. L’arbitrarietà, punto dipartenza da cui si sviluppal’opera, si tramuta così in unaserie di passaggi checonducono a una delineazionedi una forma precisa, atta adessere utilizzata dall’artista indiversi modi, in unatrasferibilità e volubilità tipichedella produzione di questoartista.

APPUNTAMENTI MILANO

FLORIAN SLOTAWAGalleria Suzy Shammah16 settembre 2010 – 13novembre 2010Seconda personale alla GalleriaSuzy Shammah per l’artistaberlinese Florian Slotawa. Comegià nel 2007, anche in questaoccasione Slotawa avvia neglispazi della galleria un processodi decontestualizzazionespaziale e concettuale,coinvolgendo, per la prima volta,gli averi della sua famiglia.

TERRE VULNERABILI – AGROWING EXHIBITIONHangar BicoccaDa ottobre 2010 a maggio2011Prende avvio a partire dal 21ottobre 2010 la prima dellequattro mostre del progettocurato da Chiara Bertola eAndrea Lissoni. “Le soluzionivere arrivano dal basso” è iltitolo della prima esposizioneche inaugura un “work inprogress” di mostre che sisuccederanno sino a maggio,innestando e mutandosi l’unanell’altra con una rosa di artistiinternazionali di livello.

Gasparini, “che, giorno dopogiorno, ritirato in se stesso e nelproprio silenzio come un anticomonaco, ha guardato con occhiofermo e profondo le cose e lepersone intorno …” (DinoFormaggio).Gasparini amava l’arte in ogni suoaspetto, faceva dellasperimentazione e della ricercatecnica la sua filosofia, comedimostra la varietà delle operepresenti in mostra, dalla scultura,suo primo amore, alla pittura, almosaico e ad altre tecniche.Alla base dei suoi studi, ildisegno, la potenza evocativa delsegno, che riesce ad esplorarel’anima dei suoi soggetti, l’animodell’uomo, sempre al centro dellasua opera, raffigurato con grandeprofondità. Le sue formegeometriche, l’amore per lanatura, l’uso sapiente del colore ela sua smaliziata ironia, ci fannoapprezzare nuovamente unprotagonista dell’arte degli anniCinquanta, che merita di essereriscoperto.

WHISTABLEA cura di Susanna Rossini

Lisa Petterson Caxton Contemporary ArtGallery, Whistable

“L’estate sta finendo” … È propriodall’evocazione della nostalgiadelle vacanze, che nasce ‘WarmStones’, olio su tela dell’Artistasvedese Lisa Petterson, parte diun gruppo di lavori intitolato ‘Una

TOBIAS COLLIERHostPianissimo16 settembre 2010 – 6novembre 2010Definendo “geometria culturale”il sistema che svela le dinamichedell’omologazione edell’ossessione per l’omogeneitàdella società moderna, TobiasCollier ne indaga principi efondamenti attraverso l’utilizzodi linguaggi differenti emettendo a confronto il cosmicocon il quotidiano.

GRUPPO T – OPERESTORICHEAllegra Ravizza Art Project08 ottobre 2010 – 30novembre 2010A cinquant’anni dalla primaesposizione, la mostra presentauna selezione di opere delGruppo T ponendo l’accentosulle prime ricerche effettuatenell’ottica dell’arte cinetica daicinque artisti appartenenti algruppo: Giovanni Anceschi,Davide Boriani, Gianni Colomboe Gabriele Devecchi.

PAOLO CAVINATOAn Intelligent DesignThe Flat_Massimo Carasi17 settembre 2010 – 13novembre 2010Attraverso una leggerezzapercettibile e una delicatezzamolto raffinata, Paolo Cavinatopresenta, nella sua prima mostrapersonale, una selezione diopere che spaziano dallascultura-installazione allastruttura geometrica, guidandolo spettatore in reti ben tessutedi frammenti atemporali.

PAVIAA cura di Silvia Barbero

GASPARINILa dedizione di un monacoinnamorato dell’artePalazzo del Broletto, Pavia18-30 settembre 2010

Tito Gasparini, scomparso nel1987, viene ricordato, nella suacittà elettiva, da una mostra cheraccoglie una sintesi della suavariegata produzione.Una vita dedicata all’arte, quella di

Indio con cappello, 1973, terracotta, h23 cm

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valigia piena di sabbia’ (A suitcasefull of sand).L’artista si ispira alle tipichecartoline delle vacanze al mare edironizza sul tema.Il suo è un ritratto di estati calde ea colori pastello, da un lato moltoriconoscibili, grazie all’ uso di

luoghi da parte del turista eappiattendo gli oggetti,rendendoli bidimensionali, litrasforma in simboli.L’ olio su tela presenta unvicendevole alternarsi dibidimensionalità etridimensionalità, ottenutoattraverso i fiori che si avvolgonointorno ai seggiolini, la cuibidimensionalità è suggerita dallostile monocromatico. Lo sfondo ècaratterizzato dai toni sobri, cherimandano al mondo orientale, incontrapposizione coi coloripsichedelici in primo piano.Si può percepire il fascino che ilmondo orientale ha suscitatonell’artista durante i suoi viaggidove, come dice l’artista stessa, èstata particolarmente colpita dagliinchiostri ed incisioni su legno eopere di tipo grafico, caratterizzateda uno stile bidimensionale epuramente decorativo.http://lisapettersson.com/

stereotipi come le tipiche case daspiaggia inglesi (‘beach huts’) equindi resi più familiari. Questioggetti, riconoscibili etridimensionali, risaltano ancoradi più grazie allo sfondo astratto,bidimensionale delle nuvole comecarta da parati. I profili spessidelle figure, in contrasto con lelinee sottili dei ciotoli sullaspiaggia, ricordano la Pop Art,movimento che ha senza dubbioinfluenzato l’artista, che vive inInghilterra dal 1995 e lavoraanche come graphic designer.Le figure risultano quasi comedelle caricature che rendonoquesti ritratti estivi poco realisticie privati dell’ aspetto nostalgico.Il dipinto ‘Tourist : Stools’ fa partedi una serie di 15 olii su telaintitolata ‘Tourist Series’ che Lisaha creato vivendo a Saigon, inVietnam nel 2006. L’artistaironizza sulla percezione dei

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‘Tourist: Stools’, 100x100cm, olio sutela. Image Courtesy Lisa Petterson

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SATURA arte letteratura spettacolo

1^ Edizione Premio di Poesia Inedita “Satura - Città di Genova”

Premiazione sabato 11 dicembre 2010

Premio di poesia inedita “Satura – Città di Genova” un concorso a tema libero, finaliz-zato a dare visibilità all’attività poetica, la meno mercificata delle arti, e, negli ultimitempi, troppo spesso relegata in angusti spazi del panorama culturale italiano. Noi ri-teniamo invece che la poesia sia l’attività umana che più di ogni altra tende, in mezzoal trionfo dell’inautentico, a restituirci quello che ci è stato sottratto, a dare un sensonon effimero alla nostra esistenza a porsi come un itinerario verso la verità attraversola Parola. E la nostra Associazione – interdisciplinare nel campo artistico, occupandosianche di narrativa, arti figurative e musica, - vuole anche testimoniare la crescente sen-sibilità che all’arte poetica rivolge la città di Genova, dove ha luogo ogni anno, nel mesedi giugno, un Festival Internazionale della Poesia. La Liguria è terra di poeti: molti viebbero i natali e, altrettanti, giungendo da luoghi lontani, se ne innamorarono e le de-dicarono il loro canto. In questo solco vuole porsi, con umiltà il premio “Satura – Cittàdi Genova” la premiazione è stata fissata per Sabato 11 dicembre 2010 ore 17:00.

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FESTIVAL DELLALETTERATURA DEL CRIMINECrime & DramaSesta EdizionePalazzo Stella, Genova25 – 26 – 27 novembre 2010

Genova si tinge di giallo, nella sede dell’Associazione Culturale SA-TURA, Piazza Stella 5, Genova. Il presidente Mario Napoli e il suo staffhanno organizzato una tre giorni dedicata alla letteratura del crimine,25 – 26 – 27 novembre 2010. L’evento, alla sua sesta edizione, porteràa Genova ventotto autori nazionali ed internazionali di successo, sug-geriti dalle maggiori case editrici italiane e straniere. Insieme agli Au-tori interverranno personalità di spicco del mondo della cultura edesperti di settore. Il tutto sarà condito da stacchi musicali, brevi let-ture, e coreografie in tema.

Questi i numeri del festival: tre giorni dedicati alla letteratura del cri-mine, ventotto gli autori, trentadue gli interventi, ventidue gli editori,quarasei i giovani selezionati attraverso il concorso “Il Giallo inClasse”, sessanta gli artisti invitati a partecipare alla rassegna d’arte“Probabili indizi. Numerosi gli eventi correlati: la mostra fotografica

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“Crime” di Maura Ghiselli, il ciclo di conferenze “Liguria noir”, curatadal Centro Studi Criminalistica di Genova, l’esposizione “Giallo sullescale” curata da Silvia Barbero e Flavia Motolese, la musica “Musica eNoir!” curata da Fiorenza Bucciarelli, l’iniziativa editoriale “Il gialla-stro” presentazione del volume che raccoglie le storie gialle dei gio-vanissimi vincitori del concorso nazionale “Il giallo in classe 2009”con la collaborazione della De Ferrari Editore che ha permesso la pub-blicazione e distribuzione del volume.

Teatro del Festival sarà Palazzo Stella, sede dell’Associazione, a pochipassi dal Ducale e dall’Acquario di Genova. L’ingresso è Libero. Lamanifestazione è patrocinata con partecipazione finanziaria di Re-gione Liguria, Provincia di Genova, Comune di Genova e Municipio 1Centro Est. In collaborazione con Il Secolo XIX e Radio 19. Si ringra-zia il Centro Studi Criminalistica di Genova.

Quest’anno proseguiremo nel programma delineato nel 2009, di allar-gamento degli orizzonti del Festival, ad includere tutta la letteraturache vuole e sa narrare una storia. Rimangono quindi al di fuori solole correnti di avanguardia, gli autori sperimentali, ma tutto ciò che peressere narrato ha necessità di tensione e conflitto tutto ciò noi inten-diamo selezionare e presentare.

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Inoltre, a ben vedere, la cronaca quotidiana è intrisa di autentico my-stery. Dai conflitti tra vicini di casa, le uccisioni apparentementesenza senso di ragazze inconsapevoli, la disperazione di immigrati edimmigrate che trovano qui realtà molto diverse da quelle che eranoloro state prospettate: tutto contribuisce a formare un contesto so-ciale che costituisce poi il nostro vissuto quotidiano e di cui la lette-ratura è chiamata a dare conto.Anche sul piano delle opere presentate proseguiamo nel nostro in-tento di dar voce anche alle piccole case editrici, quelle che hannopoca o nulla capacità di imporre i propri autori alla stampa e ai cri-tici cioè, di conseguenza, al pubblico.

Genova vuole porsi al centro del dibattito, cogliendo in anticipo i mag-giori cambiamenti nelle linee narrative che agitano periodicamente ilmondo della cultura.

Inviteremo a rispondere a queste domande o a porne delle altre scrit-tori innanzitutto, perché il focus è sulla letteratura, ma anche gior-nalisti, psicologi, medici legali, sociologi, storici e altri. Ogni giornoverranno presentati più romanzi di recente pubblicazione, nell’arcodi tempo di mezz’ora ciascuno. Ogni libro verrà introdotto dal notosaggista e scrittore Renato Di Lorenzo, curatore della rassegna, e conl’autore saranno presenti di volta in volta giornalisti e specialisti insettori collegati nonché i giovani delle scuole. Autori e Relatori sa-ranno a disposizione di pubblico e stampa, mezz’ora prima dell’inter-vento, nello Spazio Autori loro dedicato.

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GLI AUTORI:Giuseppe Aloe, Alan D. Altieri, Claudio Bagnasco, Luca Bandini, GuidoBarbazza, Antonella Beccaria, Nicola Biondo, Dario Camilotto, GianniCanova, Leonardo Coen, Alfredo Colitto, Valter Esposito, Roberto Kel-ler, Angelo Langé, Massimo Lugli, Vincenzo Macrì, Simona Mammano,Patrizia Marzocchi, Claudio Paglieri, Giuseppe Pederiali, Simone Pe-rotti, Pierluigi Porazzi, Andrea Pugliese, Carlo Simoncini, Gianni Si-moni, Giorgio Sturlese Tosi, Renato Vallanzasca, Anna Maria Valle,

GLI EDITORIBaldini Castoldi Dalai, Chiarelettere, De Ferrari, Fratelli Frilli, FBE Gar-zanti, Giulio Perrone, Il Maestrale, Ilmiolibro.it, Il Prato, Keller, Ko-walski, Marsilio, Medicea, Mursia, Newton&Compton, Piemme, Rizzoli,Rubbettino, Stampalternativa, Tea.

GLI INTERVENTI:Gigliola Bartolini, Annalisa Berra, Angela Burlando, Sara Busoli, Ric-cardo Caramello, Alberto Caselli Lapeschi, Antonio Cavalieri, AlfredoChiti, Guido Colella, Igor Dante, Gianni Di Meo, Mario Erasmi, Fabri-zio Fano, Roberto Frank, Laura Lizzio, Raffaella Multedo, Paolo Musso,Pietro Oddone, Emanuele Olcese, Paola Pellegrino, Sara Pinton, Al-berto Poli, Pierangelo Quartero, Maurizio Raso, Fernando Rocca, Ame-deo e Miriam Ronteuroli, Sivia Sale, Sandro Sansò, Emilio Steri, FabioStrata, Lorenzo Termanini, Chiara Urci, Sergio Verdacchi,

I GIOVANI: Valentina Acerbi, Barbara Acciarito, Mariachiara Arminio, LucreziaBacchi, Giulia Barattini, Susanna Boiocchi, Alessandro Braico, NoemiBruzzone, Ludovico Calderini, Cristina Casula, Ana Gabriela CedenoHidalgo, Davide Chignola, Fabio Comazzi, Alessia De Stefani, RiccardoDornetti, Dalila Fassina, Alessandra Ferraris, Beatrice Fontana, Vale-ria Galvan, Alessandro Gangemi, Giorgia Grandi, Catia Leoncini, AlteaLeoni, Davide Maisano, Francesco Maisano, Nicholas Mauri, DeboraMazzotta, Eleonora Molti, Giovanni Nuzzo, Sara Ottonello, Flavio Pe-truzzellis, Dominique Pietropaolo, Carlotta Protopapa, Giulia Re,Chiara Ricci, Rossella Romano, Matteo Scovino, Clara Timossi, MatteoTorriglia, Nicoletta Traverso, Rebecca Trevisan, Andrea Twiss, OmarVarvicchio, Alessandro Vercesi, Pasquale Zampella, Elena Zanella.

Info: 010.246.82.84 – 010.66.29.17cell.338.291.62.43 e-mail: [email protected] http:// www.satura.it

con il patrocinio e la partecipazione finanziaria di

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Regione LiguriaProvincia di Genova

Comune di GenovaMunicipio 1 Centro Est

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