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Abbonamenti versamento sul conto corrente bancario: Banca Prossima S.p.a. IBAN IT92 G033 5901 6001 0000 0113 014 intestato a SATURA ASSOCIAZIONE CULTURALE AnnuAlE € 20,00 SoStEnitoRE A PARtiRE DA € 50,00 Anno 8 n° 30 secondo trimestre Autorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008 in copertina Carlo Merello, Reliquiario d'architettura, 2015, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, particolare SATURA è un trimestrale di Arte Letteratura e Spettacolo edito dall'Associazione Culturale Satura Proprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, anche parziale, di testi pubblicati senza l'autorizzazione scritta della Direzione e dell'Editore Corrispondenza, comunicati, cartelle stampa, cataloghi e quanto utile per la redazione per la pubblicazione vanno inviati a: SAtuRA associazione culturale, piazza Stella 5/1 16123 Genova Le opinioni degli Autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente quella della direzione della rivista Tutti materiali inviati, compresi manoscritti e fotografie, anche se non pubblicati, non verranno restituiti SaTuRa Trimestrale di arte letteratura e spettacolo Redazione Giorgio Bárberi Squarotti, Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia, Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino, Guido Zavanone Redazione milanese Simona De Giorgio via Farneti,3 20129 Milano tel.: 02 74 23 10 30 e-mail: [email protected] Direttore responsabile Gianfranco De Ferrari Segreteria di Redazione Flavia Motolese Collaboratori di Redazione Silvia Bottaro, Francesca Camponero, Wanda Castelnuovo, Elena Colombo, Marta Marin, Andrea Rossetti, Maria Valacco Editore SATURA associazione culturale Amministrazione e Redazione SATURA piazza Stella 5, 16123 Genova tel.: 010 2468284 cellulare: 338 2916243 e-mail: [email protected] sito web: www.satura.it Progetto grafico Elena Menichini Stampa AGF s.r.l. Via XXV Aprile 8/6, 16123 Genova
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Anno 8 n° 30secondo trimestreAutorizzazione del tribunale di Genova n° 8/2008

in copertina Carlo Merello,Reliquiario d'architettura, 2015,grafite e acrilico su mdf, stampadigitale su acetato, particolare

SATURA è un trimestrale di ArteLetteratura e Spettacolo editodall'Associazione Culturale SaturaProprietà letteraria riservata. È vietata la riproduzione, ancheparziale, di testi pubblicati senzal'autorizzazione scritta della Direzionee dell'Editore

Corrispondenza, comunicati, cartellestampa, cataloghi e quanto utile per laredazione per la pubblicazione vannoinviati a:

SAtuRA associazione culturale, piazza Stella 5/1 16123 Genova

Le opinioni degli Autori impegnanosoltanto la loro responsabilità e nonrispecchiano necessariamente quelladella direzione della rivista

Tutti materiali inviati, compresimanoscritti e fotografie, anche se nonpubblicati, non verranno restituiti

SaTuRaTrimestrale

di arte letteratura e spettacolo

RedazioneGiorgio Bárberi Squarotti,

Milena Buzzoni, Giuseppe Conte, Gianluigi Gentile, Rosa Elisa Giangoia,

Mario Napoli, Mario Pepe, Giuliana Rovetta, Stefano Verdino,

Guido Zavanone

Redazione milaneseSimona De Giorgio

via Farneti,320129 Milano

tel.: 02 74 23 10 30e-mail: [email protected]

Direttore responsabileGianfranco De Ferrari

Segreteria di RedazioneFlavia Motolese

Collaboratori di Redazione Silvia Bottaro, Francesca Camponero, Wanda Castelnuovo, Elena Colombo,

Marta Marin, Andrea Rossetti, Maria Valacco

EditoreSATURA associazione culturale

Amministrazione e RedazioneSATURA piazza Stella 5, 16123 Genova

tel.: 010 2468284cellulare: 338 2916243

e-mail: [email protected] web: www.satura.it

Progetto graficoElena Menichini

StampaAGF s.r.l.

Via XXV Aprile 8/6, 16123 Genova

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sommario

3 XXI FESTIVAL INTERNAZIONALEDI POESIA A GENOVA

4 VENTI DI POESIA:UN FESTIVAL, UN’ANTOLOGIA,UN SOGNOClaudio Pozzani

6 PLANÈTEIssa Makhlouf

6 JE VEUX DIRE, CE QU‘ÉCRIT LE TEMPSMichel Thion

8 NERVURESHamid Tibouchi

6 L’HÔTEMoncef Ouahibi

10 QUELLES LANGUES PARLEZ-VOUS?Pierre Tilman

10 METS UNE ROBEViviane Ciampi

12 JE PENSE À TOIGuido Zavanone

14 SULLE TRACCE DI GEORGES SIMENON: PASSAGGIO IN AFRICAGiuliana Rovetta

22 LE SALMONELLE A RADOGuido Zavanone

30 QUATTRO POESIEMary CassattLev Nikolaevic TolstojWilliam OrpenIvan Sergeevic TurghenevAngelo Manitta

32 ORO BIRMANOSeconda parteMilena Buzzoni

40 DIRITTI UMANI NEL MONDO:SUCCESSI, ERRORI, PASSI INDIETRO…Aldo Forbice

52 DUE POESIEGenova come un malumoreSono teMilena Buzzoni

53 VERISIMILE, DILETTO E GIOVAMENTOFranca Alaimo

57 PROSPEZIONIPOESIA COME UNICA FORMAPOSSIBILE DI CONOSCENZARenato DellepianeI PERCORSI FANTASTICIDI GREENEGiuliana RovettaSE IL DOPOGUERRAÈ SENZA PACEGiuliana RovettaLA VIA DELLA VERITÀRosa Elisa GiangoiaTRE CITTÀRosa Elisa GiangoiaMARTA GIERUT TORNA A PIETRASANTAMilena Buzzoni

CRITICA 65 CARLO MERELLO

ARCHETIPO/ARCHITETTURALe geometrie della menteFlavia Motolese

75 SATURARTE 2015Mario Napoli

79 STEFANO GRONDONAVISIONARIO CONTEMPORANEOFlavia Motolese

82 TIME TO TALK± 100 contemporary artists from IranMario Napoli

VETRINA86 ALESSANDRO BERRETTA

FENOMENOLOGIA SOCIALEAndrea Rossetti

88 STEFANO BORRONIMEDITAZIONI PITTORICO-FIGURATIVEAndrea Rossetti

90 ORNELLA DE ROSASGUARDO RAVVICINATOElena Colombo

92 LOREDANA GAZZOLATRAME-TRAPPOLAAndrea Rossetti

94 LUDOVICA LANCIOLTRE LE FINESTRE APERTEElena Colombo

96 ALLA CHIARA LUZZITELLIUNDER THE SKIN I DON’T LIVE INElena Colombo

98 GIUSEPPE PALUMBOFORMA COME ESSEREFlavia Motolese

100 ROBERTA SIGNANIRAZIOCINIO PITTORICOAndrea Rossetti

102 ANDANDO PER MOSTREWanda Castelnuovo

110 I LIBRI DI ELENA COLOMBOElena Colombo

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XXI FESTIVAL INTERNAZIONALE DI POESIA A GENOVA

Pubblichiamo volentieri il comunicato che c’invia il valoroso organizza-tore del XXi Festival genovese di poesia, manifestazione che si è svolta dal 10al 21 giugno 2015.

Questo Festival, giunto alla sua ventunesima edizione, rappresenta sicu-ramente uno degli eventi culturali più importanti tra quelli che si svolgono aGenova ed ha risonanza nazionale e internazionale richiamando poeti tra i piùsignificativi di ogni parte del globo.

SATURA è stata presente all’avvenimento, in modo particolare il giorno12 giugno in cui si sono alternati sul prestigioso palco di Palazzo Ducale poe-ti francesi e francofoni le cui poesie sono state lette e prevalentemente tradot-te da Viviane Ciampi, collaboratrice della nostra rivista.

Dopo il comunicato, ne riportiamo alcune particolarmente interessantianche per la varietà di contenuto e di forma espressa da poeti provenienti dadiversi luoghi della grande poesia francese.

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VENTI DI POESIA: UN FESTIVAL, UN’ANTOLOGIA, UN SOGNO

di Claudio Pozzani

La XXi edizione di “Parole Spalancate – Festival internazionale di Poesiadi Genova” si è chiusa con un ottimo riscontro di pubblico e critica.

Con 12 giorni consecutivi di programmazione, 70 poeti provenienti datutto il mondo, 100 eventi tra letture, concerti, performance, mostre, visite gui-date e conferenze, “Parole spalancate” ha presentato ancora una volta lo sta-to dell’arte della poesia mondiale contemporanea, senza barriere di stile, di lin-gua o generazionali.

A riprova di questa prerogativa del Festival, nato esattamente venti annifa nel 1995, abbiamo anche pubblicato un’antologia con l’editore Liberodiscri-vere che racchiude proprio questi quattro lustri della manifestazione e degliospiti che si sono succeduti sul palco di Palazzo Ducale e negli altri luoghi dispettacolo.

il volume, di quasi 300 pagine, lungi dall’essere esaustivo su un eventoche ha visto nel tempo la partecipazione di oltre 1000 poeti e artisti, riunisceoltre 120 autori che hanno fatto la storia della poesia contemporanea, dai pre-mi Nobel Walcott, Soyinka, Milosz e Cootzee, a personaggi come Ferlinghetti,Gelman, Mutis, Montalban, Simic, Armitage, Yang Lian, Ondaatje, Strand finoagli italiani Sanguineti, Luzi, Guerra, Mussapi, Cucchi, Buffoni, Ruffilli, Majo-rino, Anedda e molti altri ancora, diventando un vero must per ogni amantedella poesia in tutte le sue forme.

Per quanto riguarda l’edizione del Festival appena conclusa, penso cheabbia segnato un’ulteriore svolta, con un fil rouge dettato dal sottotitolo “Laricostruzione poetica dell’universo” che vuole riferirsi alla lotta necessaria con-tro lo scadimento etico, educativo e culturale nel quale stiamo affondando intutti i comparti della nostra vita quotidiana e dell’attività sociale.

Credo nel più profondo del mio animo che la poesia (e l’arte in genera-le) possa realmente dare una scossa e rappresentare una risorsa per invertirequesta discesa qualitativa della vita.

in un mondo nel quale arte, cultura, poesia, passioni, sogni sono consi-derati “inutili” perché non servono, in una società di massa che, come dicevaHannh Arendt, non vuole cultura ma semplice svago, in un mondo in cui lo stu-dio è visto soltanto come propedeutico a una professione e non come valoree piacere in sé, dobbiamo ricostruire l’universo dentro e attorno ciascuno dinoi, partendo proprio dalla parola-elemento base di ogni comunicazione e con-vivenza della quale la Poesia è l’espressione più alta.

A questo proposito il XXi Festival internazionale di Poesia ha offerto mol-ti spunti di riflessione, a cominciare dallo spettacolo di Andrea Nicolini dal ti-tolo Uscito dalla trincea – Il fronte dei poeti, nel quale la Grande Guerra è vi-sta e narrata attraverso le parole di grandi poeti e scrittori, come Ungaretti, Sco-tellaro, Sbarbaro, Gadda e altri.

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inoltre, come di consueto, “Parole Spalancate” non si è limitato ad acco-gliere poeti internazionali e italiani, tra i quali De Angelis, Buffoni, Mussapi,Testa, Bocchiola, Zavanone, ma ha prodotto alcuni spettacoli come quello mul-timediale intitolato La ricostruzione poetica dell’universo, con Carlo Massari-ni, noto volto televisivo, e Giulio Casale, poeta e musicista. Con Letture soni-che dell’inquietudine si è concretizzata poi una sinergia tra il Festival e il Tea-tro Carlo Felice, con i solisti dell’orchestra che hanno accompagnato mie let-ture di autori “inquieti” come Sbarbaro, Ungaretti, Poe, Baudelaire, Verlaine, Poz-zi. infine con il reading-concerto con il mezzosoprano Susanne Kelling e il pia-nista Julian Riem, il Festival ha reso omaggio a Luciano Berio, per i 90 anni dal-la nascita.

in sostanza, l’edizione 2015 del Festival internazionale di Poesia ha of-ferto un equilibrio fra tradizione e ultime tendenze, presentando anche la poe-sia in rapporto con altre arti, soprattutto musica e cinema, con presenze illu-stri come il regista israeliano Amos Gitai, e con nuove forme di comunicazio-ne, con incontri con gli statunitensi Richard Stallman, teorico del software einternet libero e Kenneth Goldsmith, creatore del più grande archivio web dipoesia contemporanea: Ubuweb.

Valeriu Butulescu diceva che la poesia è nata la notte in cui l’uomo ha ini-ziato a contemplare la luna, consapevole del fatto che non era commestibile.

“Parole spalancate” è nato proprio per non dimenticarsene …

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ISSA MAKHLOUF

PLANÈTE

La terre est belle.Beau le nuage qui s’en va seul dans le ciel, semblable à un oiseau perdu

et désorienté dans son vol. Beaux les astres, aux étranges, aux inquiètes lumières.Gardiens de l’espace infini, ils t’observent de loin, te connaissent mais tu neles connais pas. Auraient-ils donc de la compassion pour toi qui ignores ce quit’attend dès le seuil ? À moins que ces étoiles n’oublient que leur sort est aussile tiens.

Tendre est la clémente brise touchant les fronts dans l’été lointain desîles. Tendres les pluies, agiles sur l’herbe sèche. Tendre est le parfum de la femmeinconnue qui va son chemin près de toi.

Belle fut notre rencontre avant de trébucher sur les détails. Elle avait l’al-lure d’un croissant de lune auquel étaient suspendus nos rêves.

Belle est la terre lorsque l’âme la quitte. Tel un astronaute à travers savitre, je la vois bleue. illuminée de l’intérieur, elle lève ses voiles blancs et meprécède là où je vais.

Belle planète, notre Terre, allant vers sa fin avec un étrange délice.

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6 X X I F E S T I V A L I N T E R N A Z I O N A L E D I P O E S I A A G E N O V A

MICHEL THION

JE VEUX DIRE, CE QU‘ÉCRIT LE TEMPS

Elle disparaît,elle est l’oubli,reste une trace du passé.

Mais reste-t-il une trace de l’oubli ?

Horloge de neige,Une étoile,une seconde,

ou peut-être…

un siècle.

il y a les voleurs de neige,des mendiants aveugles,de vieux renards,

blanchispar le temps.

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PIANETA

Bella è la terra. Bella la nuvola che se ne va sola nel cielo, simile a un uccello smarrito

e disorientato nel suo volo. Belli gli astri, dalle bizzarre inquietanti luci. Guar-diani dello spazio infinito, ti osservano di lontano, ti conoscono ma tu non liconosci. Hanno forse compassione per te che ignori ciò che ti attende appenavarcata la soglia? A meno che quelle stelle non dimentichino che la loro sorteè anche la tua.

Tenera è la clemente brezza che lambisce le fronti nella lontana estatedelle isole. Tenere le piogge, snelle sull’arida erba. Tenero è il profumo delladonna sconosciuta che va per la sua strada vicino a te.

Bello fu il nostro incontro prima d’imbatterci nei dettagli. Pareva uno spic-chio di luna al quale fossero sospesi i nostri sogni.

Bella è la terra quando l’anima l’abbandona. Tale un astronauta attraver-so il vetro, la vedo azzurra. illuminata dall’interno, solleva i suoi bianchi velie mi precede laddove vado.

Bel pianeta, la nostra Terra, che s’avvia verso la fine con curioso diletto.

Traduzione dal francese di Viviane Ciampi

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7X X I F E S T I V A L I N T E R N A Z I O N A L E D I P O E S I A A G E N O V A

VOGLIO DIRE, CIÒ CHE SCRIVE IL TEMPO

Lei scompare,lei è l’oblio,resta una traccia del passato.

Ma resta una traccia dell’oblio?

Orologio di neve.Una stella,un secondo,

o forse…un secolo.

Vi sono i ladri di neve,mendicanti ciechi,vecchie volpi,

imbiancatedal tempo.

Traduzione dal francese di Viviane Ciampi

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HAMID TIBOUCHI

NERVURES

J’écris mais je n’ai rien à dire de précissi je ne cesse d’écrire c’est sans doute pour

justement tenter de saisir ce pourquoij’écrisà moins que ce ne soit pour essayer d’éviter que ne se comble le fossé qui me séparede la mortoui je crois que j’écris pour rester en vie

un peu comme la sentinelle dans la nuitfais les cent pas pour rester éveillée

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8 X X I F E S T I V A L I N T E R N A Z I O N A L E D I P O E S I A A G E N O V A

Et si les mots n’étaient plus que des tacheset si les lignes n’étaient plus que des sentiersles pages des paysages les chapitres desgéants de pierre de l’île du Silenceet les livres des grands oiseaux sauvagesannonçant la venue du printemps

Un filme relieà mon enfancele barbelé

MONCEF OUAHIBI

L’HÔTE

J’ai dressé la tableMais ni ceux que j’ai conviésNi ceux que j’ai aimésNe sont venusJ’ai rempli mes cruches de vin

Et là j’ai attenduJe me suis assisdans l’obscurité, seul,J’étais mon propre hôte

Qui buvait de ma propre mainEt disaitGloire à celui qui dans la nuit,A conduit cet enfantd’une illusionA une autre

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NERVURES

Scrivo ma non ho niente da dire di precisose non smetto di scrivere è probabilmente per appunto

tentare di agguantare ciò per cuiscrivoa meno che non sia per tentare di evitareche si colmi il fossato che mi separadalla mortesì credo ch’io scriva per rimanere in vitaun po’ come la sentinella nella notte

fa i cento passi per rimanere sveglia.

Ham

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i L’osp

ite 9X X I F E S T I V A L I N T E R N A Z I O N A L E D I P O E S I A A G E N O V A

E se le parole non fossero più che macchie e se le lineediventassero sentieri le pagine paesaggi i capitoligiganti di pietra dell’isola del Silenzioe i libri grandi uccelli selvaticiche annunziano l’arrivo della primavera

un filo mi riallacciaall’infanziaquello spinato

Traduzione dal francese di Viviane Ciampi

L’OSPITE

Ho apparecchiatoMa né quelli che ho invitatoNé quelli che ho amatoSono venutiHo riempito le mie giare di vinoE ho atteso

Mi sono sedutoNel buio, soloEro il mio proprio ospiteChe beveva per mano propriaE dicevaGloria a colui che, nella notte,Ha condotto questo bambino da una illusioneAll’altra!

Traduzione dall’arabo al francese da Abdul Kader El Janabi e Mona HuertaTraduzione dal francese all’italiano di Viviane Ciampi

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PIERRE TILMAN

QUELLES LANGUES PARLEZ-VOUS ?

À la questionquelles langues parlez-vous ?je réponds :je parle de temps en temps le rire,je parle assez souvent le soupir,je parle parfois le cri.Le silence, je le parle couramment, c’est ma seconde langue.

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VIVIANE CIAMPI

Mets une robe. Et par-dessus cette robe une autre robe.Ne dis rien de ta nuditédes nuées du voyage.Vois ce que tu étais et ce que tu es.Maintenant tire sur toi le drap

tire-le tant que tu peux.Le soleil a vules gens ont murmuréles arbres ont allongé leurs doigts.Tu auras une chambre à toi,n’oublie pas de chanter.Ne crains plus rien maintenant.Tout va bien.

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QUALI LINGUE PARLI?

Alla domandaQuali lingue parli?rispondo:parlo ogni tanto la risata,parlo assai spesso il sospiro,parlo talvolta il grido.il silenzio, lo parlo con scioltezza,è la mia seconda lingua.

Traduzione dal francese di Viviane Ciampi

Pierre Tilm

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Metti un vestito.E sopra il vestito un altro vestito.Non dire della tua nuditàdelle nubi del viaggio.Vedi ciò che eri e ciò che sei.

Ora tira su di te il lenzuolotiralo finché puoi.il sole ha vistola gente ha mormoratogli alberi hanno allungato le dita,avrai una stanza tua,non dimenticarti di cantare.Non temere più niente ora.Va tutto bene.

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GUIDO ZAVANONE

TI PENSO

Ti penso in quest’orache le saracinesche dei negozisi schiantano nel petto, ghigliottinanole nostre speranze.Quali misteriosi paesi di confineabita oggi il nostro spirito turbatose scorgo figure ben saldetrascorrermi innanzi abbracciate a fantasmi?Care sembianze, amicitroppo miti per trovare un postonelle pagine frettolose della storia,fanno ressa poi si dissolvonosullo schermo della memoria.Tu resti. Come quella serasul terrazzo noi due soli a guardareil cielo venirci incontrouccello immenso che spalancava l’aliazzurre fino all’orizzonte.Mi restano i tuoi versi, che trascorreuna delicata brezzaQuell’aria di famiglia che s’avvertetra poesia e tristezza.

Gu

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pen

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toi

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Issa Makhlouf è nato in Libano, risiede a Parigi. Laureato in Antropologia Socia-le e Culturale (Università della Sorbona), ha pubblicato in arabo e francese e ha tradot-to autori francesi e latino-americani. La sua opera è al crocevia di culture diverse. È di-rettore dell’informazione a Radio Orient a Parigi. È stato consigliere speciale agli affa-ri culturali all’ ONU, a New York, nel quadro della LXi sessione dell’Assemblea Genera-le (2006-2007). Autore di molte opere, citeremo solo le ultime: Lettre aux deux sœurs,tradotto da Abdellatif Laâbi, Ed. José Corti, Paris, 2008 (Prix Max Jacob, 2009); Une villedans le ciel, Ed. Attanwir, Beyrouth 2012, Ed. José Corti, Paris, 2014.

Moncef Ouhaibi, nato nel dicembre 1949 a Hajeb El Ayoun è una delle più gran-di voci della poesia tunisina e araba contemporanea. Docente di lingue e letterature ara-be all’Università di Kairouan e alla facoltà di lettere e scienze umane dell’Università diSousse, pubblica diverse raccolte in arabo: Tables (1982), Table 2 (1991), Manuscrit deTombouctou (1998), dove interroga la storia dei miti delle città tunisine, Les Affairesde la femme qui a oublié de grandir (2010) e Diwan al-Ouhaibi (2010). Pubblica in fran-cese Que toute chose se taise (2011), Ed. Bruno Doucey. Autore di sceneggiature e cor-tometraggi documentari, direttore ad interim di Radio Monastir. Le sue opere sono sta-te tradotte in diverse lingue.

Michel Thion, nato nel 1947 à issy-les-Moulineaux, si occupa prevalentemente di artenel campo della musica contemporanea. Crea nel 1986 il festival «Futurs/Musiques», ha un’at-tività di cronista e critico musicale al settimanale «Révolution» poi a «Monde de la Musi-

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JE PENSE À TOI

Je pense à toi en cette heureoù les rideaux de fer des magasinss’écrasent dans notre poitrine, guillotinentnos espérances.Quels mystérieux villages de frontièrehabiteaujourd’hui mon esprit troubléquand je vois des forms bien réellespasser devant moi embrassant des fantômes?De chères apparences, des amistrop doux pour trouver une placedans les pages hâtives de l’histoire,se bousculent puis se dissolventsur l’écran de ma mémoire.Toi tu restes. Comme le soir où sur la terrassenous étions seuls à regarder le cielvenir à notre rencontreimmense oiseau ouvrant tout grand ses ailesbleues jusqu’à l’horizon.Me restent tes vers, que parcourtune délicate brisecet air de famille que l’on perçoitentre poésie et tristesse.

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que», e a «Lettres Françaises». Scrive poesie da 45 anni. Dal 2008 lavora all’associazione«Arts Résonances» creata dalla poetessa Brigitte Baumié. È uno dei poeti-animatori del Fe-stival « Voix Vives » di Sète. Partecipa a un gruppo di ricerche sui problemi inerenti il La-boratoire SFL (Sciences Formelles du Langage) del CNRS – Università Paris Viii.

Hamid Tibouchi, pittore e poeta, nato nel 1951 in Algeria, vive e lavora in Fran-cia dal 1981. La sua produzione è proteiforme: poesia, pittura, disegni, incisioni, foto-grafie, scenografie teatrali. Ha collaborato a numerose riviste e antologie. Alcune suepoesie sono state tradotte in varie lingue (arabo, inglese, spagnolo, ungherese, tedesco,islandese…). È autore di una ventina di raccolte. Tahar Djaout dice di lui che è il poetapiù esigente e avventuroso della sua generazione.

Pierre Tilman ha cofondato la rivista «Chorus» con Franck Venaille, Daniel Bigae Jean-Pierre Le boul’ch. Ha pubblicato più di una trentina di libri (editi da Guy Cham-belland, Seghers, Galilée, Limage, Sixtus, Unes, Voix Richard Meier, Bernard Dumerchez).Tra questi, vi sono libri d’arte e Tilman è anche un pittore che scrive su altri artisti trai quali Peter Klasen, Errò, Jacques Monory e Robert Filliou.

Numerose le sue personali in gallerie, musei e centri d’arte a Parigi, Tolone, la Sey-ne sur Mer, Saint-Fons, Montbéliard, Cavaillon, Avignone, Saint-Paul-de-Vence. Di lui, Clau-de Guilbert ha detto «scrittore, poeta, è innamorato delle parole. Artista di arti plasti-che, ha preso le parole alla lettera e ha creato un universo in cui le parole sono diven-tate cose di cui è il grande orchestratore».

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SULLE TRACCE DI GEORGES SIMENON: PASSAGGIO IN AFRICA

Di Giuliana Rovetta

«Era il Balzac del Novecento. Solo chi crede nella realtà può riuscire a disegnarla così»

Carlo Fruttero

Diverse città, in diversi Paesi, hanno fat-to da cornice all’irrequieto e prolifico scritto-re che ha genialmente creato, o meglio trasfe-rito sulla pagina come proiezione della suaconoscenza di vita, il personaggio di Maigret.Non solo la Liegi natia, con le atmosfere plum-bee dei suoi canali e le chiuse avvolte dallanebbia, ma soprattutto l’agognata Parigi deibistrot e dei viali periferici, diventata scena-rio d’elezione per il suo estro narrativo neglianni 1922-1932. E poi La Rochelle, aperta ver-so il largo ma con vocazione a chiudersi nelmistero, città di una luce così straordinariae affascinante da trattenere lo scrittore in Cha-rente per circa dieci anni. Più avanti, dopo al-tre peregrinazioni alle isole Porquerolles e inVandea, Simenon tornerà in patria per affron-tare il periodo bellico con l’incarico di assi-

stere i connazionali rifugiati e, malgrado avesse subìto lui stesso sospettosi con-trolli per via del cognome dalla radice vagamente ebraica, alla Liberazione orga-nizzerà una precipitosa partenza per gli Stati Uniti, ossessionato dall’incubo difinire vittima di un’ingiusta epurazione. Le sue colpe erano evidentemente pocodimostrabili: il precoce esordio giornalistico in un quotidiano reazionario, «LaGazette de Liège», la collaborazione fortuita con una casa di produzione tede-sca per l’adattamento cinematografico dei suoi romanzi, un fratello militante diestrema destra1. il soggiorno americano, durato cinque anni, avrà come base stra-tegica New York, città propizia ai grandi incontri, dove lo scrittore potrà costrui-re al meglio la sua fortuna editoriale grazie alle relazioni con esponenti della vitaartistica e intellettuale dell’epoca. incapace di reggere a lungo la routine in una

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1 Su questo tema è interessante il capitolo La fuite de Monsieur Georges, in Pierre Assouline, Sime-non, Gallimard, Parigi 1996, documentata biografia che si apre con questo interrogativo: “Chi po-trà mai trovare una spiegazione al paradosso di Simenon, un uomo conosciuto soprattutto per lasua fama?”. il titolo riecheggia il romanzo di Simenon La fuite de Monsieur Monde, Gallimard, Pa-rigi 1944.

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stessa dimora (in questo caso un centralissimo hotel di Manhattan) Simenon pren-derà spesso la via del Canada, intraprenderà il periplo della costa est degli Sta-ti Uniti, si fermerà qualche tempo in Florida, raggiungerà il Messico e il Connec-ticut, sempre mantenendo la collaborazione con «France-Soir», il quotidiano di-retto da Pierre Lazareff a cui invia regolarmente dei resoconti di viaggio. Torna-to in Europa negli anni Cinquanta, si stabilisce prima in Costa Azzurra e poi, de-finitivamente, in Svizzera.

Ognuno di questi insediamenti, lunghi o brevi, ispirerà direttamente lasua opera connotandola in modo specifico. Tanto per cominciare il francesis-simo Jules Maigret, nato secondo i sommari dati biografici forniti dall’autore2,a Saint-Fiacre in Alvernia, e venuto alla luce letterariamente nel settembre 1929durante una navigazione lungo i canali dei Paesi Bassi3, viene subito spedito aLiegi da un’inchiesta iniziata altrove (a Brema, poi a Reims) e questo già dal ter-zo libro della saga di Maigret, mentre ancora il personaggio in formazione staprecisando le sue caratteristiche di base. Quella che Jean-Baptiste Baronianchia-ma Simenonville4 è per Simenon una Liegi del cuore, introiettata nell’infanziae ripercorsa a più riprese, a partire da Le Pendu de Saint-Pholien, romanzo incui i personaggi portano nomi e cognomi riconducibili alla città: vengono ci-tati luoghi evocativi come la stazione da cui Simenon era partito per Parigi inuna sera di dicembre o il quartiere della Caque, ritrovo di artisti e bohémiensfrequentato a suo tempo anche dal giovane Georges5. All’altro estremo dellasua produzione Pedigree -libro di autofiction fondamentale nel suo percorsodi scrittore non maigrettiano- si presenta come l’opera di tutti i superlativi: mag-gior tempo per la stesura, maggior numero di pagine, scrittura emancipata dal-l’intreccio, registro autobiografico legato a infanzia e adolescenza e, per con-cludere, più intimo richiamo liégeois che in ogni altro scritto6. Nell’ampliare,su consiglio perentorio di Gide7, l’accreditata eminenza grigia degli intellettua-li dell’epoca, una serie di lettere scritte al figlio Marc a partire dal 1940, Sime-non compone in Pedigree un grande romanzo familiare, ripercorrendo con rit-

2 Le notizie biografiche sul personaggio del commissario Maigret sono contenute in Georges Sime-non, Les Mémoires de Maigret, Presses de la Cité, Parigi 1951; in italiano Le Memorie di Maigret, Adel-phi, Milano 1957, traduzione di Marco Bevilacqua.3 A segnare l’atto di nascita ufficiale del personaggio di Maigret è il romanzo poliziesco Pietr le Let-ton, Fayard, Parigi 1931, pubblicato in italiano col titolo Pietr il Lettone, Mondadori, Milano1933 tra-duzione di Marise Ferro. Così Simenon descrive l’estro di quel momento: “Mi rivedo, un mattino disole in un caffè…Un’ora più tardi, quasi vinto dal torpore, cominciai a scorgere davanti la massaimponente e impassibile di un signore che -mi parve- sarebbe stato un commissario accettabile”.4 Jean-Baptiste Baronian, Passion Simenon. L’homme à romans, Textuel, Parigi 2002 e Cahiers Si-menon n. 2, Les Amis de Georges Simenon, Bruxelles 1988.5 Le Pendu de Saint-Pholien, Fayard, Parigi 1931; in italiano (anche col titolo Maigret e il viaggiatore diterza classe) L’impiccato di Saint-Pholien, Mondadori, Milano 1932, traduzione di Guido Cantini.6 Pedigree, Presses de la Cité, Parigi 1948. Simenon prende lo slancio per scrivere questo testo alseguito di una diagnosi, poi rivelatasi errata, di un medico di Fontenay-le-Comte che riteneva il suostato di salute minacciato da una grave cardiopatia. 7 il duraturo rapporto fra Gide e Simenon fu improntato, più che a una vera e propria amicizia, alconfronto fra l’influente maestro, riconosciuto come “le contemporain capital”, e il giovane aspi-rante letterato. in proposito citiamo la corrispondenza 1938-1950 tra i due pubblicata col titolo Sansbeaucoup de pudeur…, Carnets Omnibus, Parigi 1999 e in italiano Caro Maestro, caro Simenon, Ar-chinto, Milano 1999, traduzione di Chiara Agostini, da cui si deduce l’ammirazione (un po’ invidio-sa?) di Gide per la facilità e fluidità di scrittura di Simenon.

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mo alterno le tappe della sua infanzia nella Liegi d’inizio secolo, senza dimen-ticare mai che le sue parole non sono soltanto memorie del suo vissuto ma an-che un progetto di vita consegnato al figlio.

Altra città, altra cornice. i mille volti di Parigi, scrutati da Simenon nelledifferenze fisiche e antropologiche proprie dei diversi quartieri, torneranno nel-la sua opera in una sfilata campionaria di mestieri, di caratteri, di destini spar-si tra le scalinate della Butte Montmartre, il labirinto delle Halles, le piazze di pe-riferia, i lungosenna. La sua è la Parigi degli ultimi fiacres, dei lampioni a gas “chesegnano i bordi della strada di una luce perlacea”, delle caves dove si suona iljazz e dei locali che vedono Joséphine Baker (una delle sue moltissime conqui-ste) esibirsi vestita solo di uno scandaloso gonnellino di banane. “Ero affamatodi strada” viene detto dal protagonista di un romanzo a cui l’autore sembra pre-stare la propria curiosità e voracità 8. Dalle pagine del «New Yorker», di cui è sta-ta storica collaboratrice per molti anni, Lis Harris sottolinea con queste parolela dimensione di “paradiso perduto” della Parigi simenoniana: “Molti luoghi, senon la maggioranza, di quelli che Simenon ha descritto, soprattutto nei libri de-gli anni Quaranta, sono già scomparsi o scompariranno in un futuro relativamen-te prossimo. Nessun antropologo culturale avrebbe potuto preservarli per i po-steri meglio di lui”. Senza dunque entrare nel merito dei libri ambientati nellacapitale francese (che rappresentano, fra romanzi con Maigret e senza, circa unterzo del totale dei 450 che sono attribuiti all’autore) ci limitiamo a riferirela sin-golare impressione riportata dal commissario nel visitare un palazzo nel corsodi una delle sue inchieste: “…era una specie di Parigi in formato ridotto, con glistessi contrasti, da un piano all’altro, che si trovano fra le strade e i quartieri…Ar-rivato al quarto piano a Maigret sembrava di aver visitato tutto un universo”9. Eancora in Le Chat, ripercorrendo la passeggiata mattutina del protagonista, Mon-sieur Bouin, attraverso il suo quartiere della Santé: “Durante un giro di un quar-to d’ora era passato davanti a un ospedale, una prigione, un ricovero, una scuo-la infermieristica, una chiesa e una caserma di pompieri. Non sembrava forse unaspecie di riassunto dell’esistenza? Mancava solo il cimitero, che peraltro non eramolto distante”10.

Largamente presente nell’opera di Simenon (una quindicina di roman-zi) è anche La Rochelle, città dall’austera impronta protestante, dove le anti-che facciate aristocratiche sembrano voler custodire riti e tradizioni di un pas-sato irrinunciabile. il libro in cui La Rochelle appare con maggiore nettezza èLe Testament Donadieu, saga di una famiglia in piena crisi, scatenata dalla mor-te del patriarca. Così come in Le voyageur de la Toussaint 11 Simenon sceglie

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8 il personaggio è Steve Adams in Passage de la ligne, Presses de la Cité, Parigi 1958; in italiano Lalinea della fortuna, Mondadori, Milano 1961, traduzione di Roberto Cantini. 9 Vedi di Michel Carly, Simenon, la vie d’abord, Édition du Céphale, Liège 2002 e Maigret dans saville, in «Magazine Littéraire», n. 417, febbraio 2003. il brano è tratto da La Patience de Maigret, Pres-ses de la Cité, Parigi 1965, cap. iii. in italiano La pazienza di Maigret, Mondadori, Milano1968, tra-duzione di Elena Cantini.10 Le Chat, Presses de la Cité, Parigi 1967, cap. ii; in italiano Il gatto, Mondadori, Milano 1969, tra-duzione di Gabriella Cioffi.11 Le Testament Donadieu, Gallimard, Parigi 1937; in italiano Il testamento Donadieu, Mondadori,Milano 1940, traduzione di Antonio Segre. Le voyageur de la Toussaint, Gallimard, Parigi 1941; initaliano col titolo La cassaforte dei Mauvoisin, Adelphi, Milano 1963, traduzione di Elena Cantini.

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questa città, emblematica di una comunità che tende a dissimulare i suoi se-greti, per comporre un affresco di tipo balzacchiano caratterizzato dalla lot-ta fra i deboli e i potenti. L’intreccio poliziesco sembra piuttosto un pretestoper penetrare il noeud de vipères di una famiglia che vede il prevalere degli in-teressi e degli affari sui sentimenti, mentre i singoli lasciano libero corso alleloro ambizioni. Quanto a Balzac12, a cui dedicò un saggio in occasione di unatrasmissione radiofonica negli anni Sessanta, Simenon lo immaginava come unuomo ossessionato dal bisogno (forse lo stesso suo) di vivere tante vite quan-te erano quelle degli innumerevoli personaggi che dipingeva, nel tentativo dieludere i limiti impostigli dall’esistenza reale13.

La posizione di Simenon a New York è abbastanza ambigua: arrivato nel-l’ottobre del 1945, penalizzato dalla scarsa padronanza della lingua, collocala famiglia nel Canada francofono, ma non può, né vuole, perdere l’occasionedi stringere nella città legami e frequentazioni che possono aiutarlo sul mer-cato editoriale americano. Tiene tuttavia un profilo basso, sempre preoccupa-to che i suoi libri possano essere esclusi dalla pubblicazione in patria com’èaccaduto a quelli di Céline. Molte foto di questo periodo (in cui stringerà il du-raturo legame con la sua interprete Denyse, diventata la sua seconda moglienel 1950, dopo diversi anni di un tranquillo ménage à trois con la consorte incarica) lo ritraggono sorridente ed elegante in mezzo alla folla o all’uscita dilocali alla moda. Nei reportage che continua a inviare a «France-Soir» esprimeil suo entusiasmo per il dinamismo e la libertà di costumi del paese che lo ospi-ta, valorizzando agli occhi dei suoi compatrioti la generosità e l’aiuto econo-mico che gli Stati Uniti avevano saputo dimostrare nei confronti dell’Europa.in realtà la città per certi versi appare ostica a un provinciale con ambizionidi affermazione com’è il quarantaduenne scrittore belga, arrivato a metà del-la vita col sogno ancora irrealizzato di ottenere, oltre al successo nelle vendi-

12 Didier Gallot, Simenon ou la Comédie humaine, France Empire, Parigi 2003.13 Patrick Marnham, The Man Who Wasn’t Maigret, Bloombsury Publishing, London 1992; L’uomoche non era Maigret, La Nuova italia, Firenze 1994, traduzione di Carla Della Casa.

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te, anche il riconoscimento dei critici qualificati. E’ tuttavia in uno stato di gra-zia che si accinge a scrivere il suo primo libro americano. Trois chambres à Man-hattan dove, per la prima volta, viene trattato il tema dell’amour fou, in unatrasposizione romanzata dell’incontro reale con Denyse. E’ anche la prima oc-casione che ha Simenon di utilizzare come scenario questa megalopoli caricadi energia vitale, ma anche socialmente problematica. L’azione, se tale si puòchiamare la lenta deriva di due esseri solitari che deambulano per le strade,unico luogo in cui si sentono veramente “a casa”, ha per cornice Fifty Avenue,Greenwich Village, Broadway. Passando da un anonimo albergo all’abitazionedi lui, e poi ancora alla stanza di lei, i due protagonisti consumano furiosamen-te il loro amore, ma ancor più mettono a confronto solitudine, disillusione, po-vertà morale14. Questo romanzo suscita delle reazioni interessanti: il regista JeanRenoir si offre di metterlo in scena, Charles Boyer di recitare nella parte delprotagonista, Gide contesta a Simenon di aver sostituito la sua straordinariacapacità di vivere nei panni di un’altra persona alla pura e semplice confessio-ne di un’esperienza personale. L’autore stesso mantiene con questo libro unrapporto ambiguo: nella fase della stesura, per la prima volta abdica al suo me-todo che consiste nello scrivere di getto senza apportare correzioni. il risul-tato è un testo tormentato, che sembra scritto in preda a un incontrollabile ner-vosismo. Dapprima compiaciuto del risultato, trascorsi gli anni così Simenonridimensionerà il suo giudizio: “Non sono soddisfatto dello stile ma vi ho ri-scoperto la nascita del mio amore per Denise” (così lui aveva adattato ai suoigusti il nome di Denyse).

Dopo il primo “romanzo americano”, Simenon ritorna alle inchieste delcommissario con Maigret à New York. Mantiene come cornice gli stessi luoghi,ma cambia registro e aggiunge qualche tocco di umorismo: farà viaggiare il po-vero Maigret, strappato ai piaceri della pesca praticata a Meung sur Loire, perimmergerlo nelle atmosfere gangsteristiche della Grande Mela dove, tra mol-ti colpi di scena, avrà modo di mostrare un coté tipico del francese medio, mol-to critico verso le abitudini di vita americane.

Ancora una volta l’irrequietezza agita Simenon, in un momento in cui siaffacciano al suo orizzonte gli esiti di una prolungata assuefazione all’alcol,una leggera depressione, disturbi dell’equilibrio e dell’udito: per mettersi al ri-paro cerca un posto che sia “tranquillo, organizzato, discreto”. Si orienta ver-so la Svizzera e sceglie il Cantone di Vaud. Qui, dal 1957 fino alla morte, tra-scorrerà una trentina d’anni, molti di più che in Belgio, suo paese natale, chein Francia, patria d’adozione, che in Nord America, luogo di decisive esperien-ze di vita. Stabile in questa postazione ha scritto più di cinquanta romanzi e,ad esclusione di Je me souviens15, anche tutte le opere autobiografiche, da Quandj’étais vieux del 1970 a Mémoires intimes del 198116 . Tuttavia il contesto el-vetico risulta praticamente assente dall’opera: fa appena capolino la città di Lo-sanna, ma solo come tappa di passaggio, in tre scritti di fiction17. Si può dareuna spiegazione a questo fenomeno ricordando che la scrittura di Simenon evol-

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14 È questo il primo grande romanzo che non avrà per editore Gallimard, dalla cui tutela Simenongradualmente tende a svincolarsi mettendo al centro di una vera e propria “querelle de famille” isuoi interessi economici. D’ora in poi avrà come editori Presses de la Cité in Francia e Brentano aNew York.

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ve spesso (non sempre: due casi di espressione riversata “a caldo” sulla pagi-na sono Trois chambres à Manhattan e Maigret à Vichy) a partire da memorie,impressioni, reminiscenze che la sua sensibilità incamera, da acuto osserva-tore, mentre si trova in un luogo, per poi elaborare il tutto quando già si tro-va sotto un altro cielo. Molti dei romanzi di Maigret più tipicamente pariginisono stati infatti redatti o negli Stati Uniti o proprio in Svizzera. in particola-re Les Mémoires de Maigret, che riferisce l’emozionante scoperta da parte delcommissario di una Parigi fino ad allora soltanto immaginata, è stato scrittodurante il soggiorno nel Connecticut. Appare invece la Svizzera, con molti deisuoi villaggi e piccole città, con molti dei suoi usi e costumi e alcune delle sueproblematiche (la secolare opposizione fra protestanti e cattolici) nell’opera Dic-tées scritta in ventuno parti e pubblicata fra il 1975 e il 1981. Si tratta di unaparticolare autobiografia sentimentale, lontana dalla soluzione diaristicascelta dai fratelli Goncourt, ma anche da una confessione in stile Rousseau, eneppure somigliante al genere bloc-notes proprio di Mauriac. in queste “det-tature” l’autore settantacinquenne, che ormai da qualche tempo ha chiuso conla narrativa, premette la sua totale sincerità: “con i miei Dictées voglio solo ana-lizzarmi e esprimere dei pensieri, delle sensazioni passeggere, i sogni, le gio-ie, le pene di un uomo come un altro…”. il risultato è una narrazione a tratticonfusa e un po’ ripetitiva, articolata in chiacchiere, aneddoti, pensieri spar-si, rimpianti frivoli o riflessioni gravi, a commento (ma non sempre a spiega-zione) del suo modo di essere e di scrivere. Questo slancio di autenticità, cuinon è estraneo un larvato compiacimento, sembra esentarlo da qualsiasi cri-tica al proprio comportamento18.

Nella serie di traslochi, spostamenti e nuovi insediamenti familiari indot-ti certo dal suo animo inquieto ma anche dalla ricerca di nuove fonti d’ispira-zione, s’inserisce, nell’estate del 1932, un viaggio particolare. Ancora sposatocon la prima moglie, Régine Renchon da lui rinominata Tigy, Simenon decidedi intraprendere con lei un periplo dell’Africa con partenza da Marsiglia del-la durata di due mesi. Visiterà brevemente l’Egitto, più lungamente il Congobelga e farà ritorno navigando lungo la costa occidentale toccando diversi por-ti dell’Africa equatoriale francese. A questa decisione non è estranea la lettu-ra approfondita di Voyage au Congo, un testo importante per l’epoca, in cuil’autorevole amico Gide aveva riferito, in forma romanzata ma sulla base di un’og-gettiva documentazione, il viaggio di sei mesi compiuto fra il 1925 e il ’26 incompagnia del regista Marc Allégret19. Antecedente diretto di questa immer-sione esotica, Heart of Darkness di Conrad era stato uno dei libri più amati da

15 Je me souviens, Presses de la Cité, Parigi 1945. Da questo testo si svilupperà poi Pedigree.16 Mémoires intimes, Presses de la Citè, Parigi 1981. Queste memorie si riferiscono al suicidio del-la figlia Marie-Jo e svelano per la prima volta una dimensione intima e sofferente dell’ormai anzia-no scrittore. Alcuni passaggi giudicati scabrosi saranno eliminati dalle successive pubblicazioni surichiesta della moglie Denyse.17 Si tratta di Maigret voyage, Le train de Venise, La disparition d’Odile, scritti nel periodo 1965-1971.18 Secondo Pierre Assouline, Simenon, Julliard, Parigi 1992, l’editore americano decise di soprasse-dere alla pubblicazione di questo testo perché negli Stati Uniti alcune delle sue ammissioni sareb-bero state valutate dannose alla sua reputazione.19 André Gide, Voyage au Congo, Gallimard, Parigi 1927.

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Simenon, lettore in giovane età anche di Stevenson: su questi modelli, aiutan-dosi con cartine, fotografie e voci dell’enciclopedia il futuro padre di Maigretaveva costruito i suoi primi romanzi brevi e racconti d’avventura, un po’ allamaniera di Salgari e cioè lavorando molto di fantasia e puntando su certi bendefiniti caratteri. Si trattava però di romanzi popolari che poco avevano da spar-tire con lo stile rigoroso e il linguaggio denso di termini puntigliosamente ap-propriati, se non proprio tecnici, a cui Conrad aveva abituato i suoi lettori20.

Molto è stato detto sulle motivazioni che hanno spinto Simenon a compie-re questo viaggio-lampo in cerca del presunto “uomo nudo”, cioè dell’uomo au-tentico, al netto delle sovrastrutture sociali e intellettuali dietro cui l’individuosi dissimula e che, una volta rimosse, farebbero risaltare quanto la condizioneumana non si differenzi poi molto da un luogo all’altro, da un tempo all’altro.Come sappiamo questo è uno degli assunti che reggono la sua esplorazione alcentro di un’umanità ordinaria (composta da soggetti che lui chiama les petitesgens, persone senza rilievo e senza aggettivi21) a cui in pratica è dedicata l’ope-ra simenoniana nella sua interezza. Esiste anche una motivazione contingente(il lancio molto reclamizzato della missione Dakar-Djibuti, preceduta dall’espo-sizione coloniale al parco di Vincennes dell’anno prima) e un’intenzione aperta-mente polemica: denunciare le menzogne della propaganda coloniale e rifiuta-re le lusinghe del facile esotismo22. Ne seguirà L’Heure du nègre, virulento scrit-to indirizzato contro lo stereotipo di un’Africa invitante e godibile nel suo trion-fo di suoni e colori. Per Simenon, messo agli atti il fallimento economico e mo-rale del processo di colonizzazione, il continente africano resta ancora un mi-stero non chiarito: la sua triste immensità e il suo insostenibile clima, non con-sentono all’uomo bianco di adattarsi e anzi producono su di lui un effetto de-moralizzante. Sbarcato con un carico di mal riposte illusioni, finirà per esserneespulso. il tenore di questo scritto, più simile a un pamphlet che a un reporta-ge, uscito sulla rivista «Voilà» dall’8 al 12 novembre 1932, susciterà una certa per-plessità, ma anche molta irritazione, nella comunità coloniale.

Dal copioso materiale riportato in patria, Simenon trarrà materia per di-versi romanzi e racconti in cui il continente africano rappresenta lo spazio am-bientale e il quadro d’azione. il lavoro più rappresentativo della svolta impres-sa allo scrittore dall’esperienza di questo viaggio è Le coup de lune, storia delfallimento lavorativo ma soprattutto esistenziale del giovane Timar, giunto dal-la Francia con molte aspettative e poi spinto ai limiti della follia da una seriedi impedimenti, ma anche di scontri con una realtà africana violenta, degra-data e pervasa da ogni sorta di crudeltà. A parte il contesto esotico, il roman-zo riproduce il processo di esplorazione dei meandri oscuri della mente in pre-da al disorientamento che sempre caratterizza le opere di Simenon: appare dun-

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20 Joseph Conrad, Heart of Darkness, pubblicato come racconto in «Blackwood’s Magazine» nel 1899e poi (1902) in volume; in italiano Cuore di tenebra, Sonzogno, Milano 1928, traduzione di Alber-to Rossi.21 in una lunga intervista di Jacques Lanzmann in «Lui», n. 42, giugno 1967, pp. 7-34, così si spie-ga Simenon su questo tema: “Quelli che io chiamo les petites gens stanno fra il proletariato e la pic-cola borghesia: operai, piccoli impiegati, artigiani, commessi viaggiatori, donne delle pulizie, por-tinaie, persone che in pratica sono poco considerate e hanno difese molto deboli”.22 Vedi a questo proposito Benoît Denis, Á la découverte de l’homme nu, «Magazine Littéraire» 417,febbraio 2003.

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que meno un racconto di viaggio che una storia di formazione in chiave nega-tiva23. Più in generale, anche negli altri romanzi africani, il ruolo centrale è sem-pre lasciato alle persone comuni (in questo caso “les petits blancs”) vale a direa chi è rimasto indietro nella corsa alla colonizzazione. Si tratta di funziona-ri presso modesti uffici, impiegati subalterni senza avvenire, piccoli avventu-rieri, persone dal retroterra equivoco: tutto un microcosmo di gente mediocre,sparsa in lontane piantagioni della brousse, com’è il caso di Le Blanc à lunet-te, o in viaggio per mare, come in 45° à l’ombre. Osserva Benoît Denis a pro-posito di Simenon in Africa, che “questa visione del fallimento coloniale -al net-to delle contumelie- è stranamente simile a quella di Céline nell’episodio afri-cano di Voyage au bout de la nuit” (uscito proprio mentre Simenon conclude-va la stesura del Coup de lune). La vicinanza fra i due romanzi, più che nellatrama o nella scrittura, è proprio nello specifico punto di vista dell’autore, ri-volto verso personaggi insignificanti che, credendo di sfuggire alla ristrettez-za di una vita metropolitana da cui si sentono respinti, finiscono per accede-re a un contesto dove le speranze di riuscita esistono solo per pochi fortuna-ti. Ma così come Conrad prima e Gide poi, anche Simenon e Céline sembranoattribuire la responsabilità del demoralizzante esito del tentativo di ricostruir-si una vita in Africa non alle singole persone o alla scarsa efficienza delle isti-tuzioni coloniali, ma all’Africa stessa. L’inganno è quello di credere che un ter-ritorio possa essere civilizzato per forza, mentre le persone che dovrebberoassumersi questo compito sono vinte dal malefico sortilegio che permea l’am-biente: e così “sudano, si lamentano, si trascinano da una parte all’altra e fi-niscono per odiare tutti, anche se stesse”. invece dell’uomo nudo, dell’uomoautentico, in Africa Simenon ha incontrato il solito uomo bianco, un piccolo,piccolissimo borghese alle prese con un’impotenza rabbiosa e un grande sen-so d’abbandono, così da confermarlo nell’idea che la vita non cambia mai: è sem-pre e dovunque uguale.

Sulla base delle impressioni e degli appunti riportati dal viaggio in Africa,Simenon aveva congegnato un romanzo destinato ad essere inviso ai coloni e con-siderato diffamatorio. Era ben conscio di suscitare, con l’uscita di Le coup de lune,reazioni contraddittorie. Non immaginava però che proprio da quella comunitàcoloniale descritta come senza nerbo e quasi alla deriva, gli sarebbe stato presen-tato il conto, sotto forma di una causa intentatagli dalla proprietaria di un hoteldi Libreville offesa nel vedere il proprio nome, a suo dire onorato, applicato dal-l’autore alla tenutaria di una casa d’appuntamenti, e quindi in un contesto disdi-cevole e infamante. Alla vedova, dalla reputazione comunque incerta, che si erariconosciuta nella figura di Adèle, non basterà il sostegno dell’irritata lobby loca-le: l’esito del processo è già scritto nella disparità fra la pretesa diffamazione ela libertà artistica e creativa riconosciuta a uno scrittore di fama. A lui, Carlo Rim,giornalista del periodico «Marianne», notando l’assopimento di un magistrato du-rante la prolissa esposizione dei fatti, rivolgerà questo divertito e lusinghiero com-mento: “È la prima volta che vedo qualcuno addormentato da un Simenon”.

23 Le coup de lune, uscì per la prima volta su «Candide» dal 19 gennaio al 9 marzo 1933, poi da Fa-yard lo stesso anno; in italiano Colpo di luna, Mondadori, Milano 1934, traduzione di H. Majnonid’intignano.

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LE SALMONELLE A RADO

di Guido Zavanone

Riassunto delle puntate precedenti

A Rado, centro agricolo-industriale della Repubblica di San Sulpi-cio, arriva il nuovo parroco, Don Sereno. È festa grande. Arriva pur-troppo anche una grave epidemia di tifo, che ha cause facilmen-te individuabili in quanto, inizialmente, colpisce gli utenti di unodegli acquedotti del paese, il “Cresci”, che prende il nome dal suoproprietario.Ha luogo un grottesco rimpallarsi di responsabilità tra lo stessoCresci, il Sindaco, il Commissario alla Sanità.Anche la spedalizzazione degli ammalati si presenta ardua per gliostacoli, sovente pretestuosi, frapposti dagli ospedali viciniori benpiù attrezzati del “San Lorenzo” di Rado.È in questa situazione che si verificano alcuni decessi. Le vittime:Aldo Campo, appena tornato da una “missione di pace”, Anselmuc-cio, un ragazzo di soli otto anni, il maestro Zigoni, sacrificato sul-l’altare di un’assurda sperimentazione scientifica.Presi alla gola da questi eventi e dal rapido diffondersi della ma-lattia, le autorità comprendono che per loro non v’è salvezza nelnon fare. Adottano quindi ovvi quanto inadeguati provvedimentiche si scontrano con la sconfortante mancanza d’ogni valido pre-sidio terapeutico, quale la vaccinazione.Solo Don Sereno appare all’altezza della situazione: una proces-sione solenne, una predica memorabile per ricordare che, per l’in-tercessione della Madonna, il paese aveva superato negli anni, ognigenere di afflizioni e di calamità, infine la proposta di una nuovachiesa dedicata al patrono di Rado, San Barbanziano, doverosamen-te propiziata da generose offerte.

PARTE SECONDA

Capitolo IX

il vecchio castello medioevale, ove, da oltre un secolo, alloggia la Giusti-zia di prima istanza di Rado, apparteneva, ai suoi bei dì, ad una delle più co-spicue e gloriose casate di “San Sulpizio”: i marchesi Limondi di Sassolungo,noti dai tempi delle Crociate in Terra Santa: cui avevano, ovviamente, preso par-te combattendo gloriosamente, cioè infilzando il maggior numero d’infedeli chegli capitasse; ricavandone ricchezze oltre che benedizioni, avendo a tenere per

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sperimentato che le benedizioni, da sole, non permangono in questo poveropianeta, ma fatalmente risalgono alla loro patria celeste, mentre le ricchezzesenza benedizione sono farina del diavolo, soggette, alla prima occasione, adandare in crusca o, peggio ancora, in mani d’altri.

Tornando al glorioso castello, era avvenuto che i marchesi Limondi lo aves-sero ceduto al Comune, barattandolo, per così dire, con una promettente in-dustria di paste alimentari. Le sale ostentavano ancora gli aurei stucchi e i gen-tilizi contrassegni, ma non potevano nascondere le profonde, corrucciate ru-ghe del soffitto e lo stonacarsi progressivo delle pareti. i marchesi, o meglio iloro illustri avi, adornavano, purtroppo soltanto in effigie, la grande scalina-ta marmorea dell’edificio: lungo la quale s’arrampicavano ogni giorno i bravimagistrati radesi, amaramente confrontando i loro aspetti dimessi con la splen-dida solennità degli effigiati. Ora facevano ritorno, rinfrancati dalle loro feriebimestrali, al pauroso arretrato e trovavano il lavoro accumulatosi nel frattem-po che reclamava la loro allarmata attenzione.

E fu proprio alla ripresa del lavoro, che sull’alta scrivania del magistra-to dirigente, apparve un foglio munito del timbro dell’i.R.T.A. (industria rade-se tubi e affini) che conteneva una denuncia del titolare dell’impresa, il com-mendatore Paolo Cresci. il quale “rispettosamente” esponeva: che la sera delventi settembre, mentre faceva ritorno alla propria abitazione, dopo una gior-nata faticosa di lavoro, era stato avvicinato da uno sconosciuto, poi identifi-cato per Canzio Michele residente a Rado, fruttivendolo. Costui, afferratolo perun braccio, aveva proferito le parole “farabutto, assassino”, cui era seguita - atogliere ogni dubbio sul destinatario degli epiteti – una gragnuola di pugni infaccia che aveva costretto il denunciante, previo intervento liberatorio – ab ener-gumeno – da parte di alcuni passanti, al pronto soccorso: ove gli era stata ri-scontrata la frattura di uno zigomo, oltre a contusioni ed ecchimosi varie: iltutto guaribile in giorni venti, salvo complicazioni, come da certificato medi-co allegato. “Eppertanto – così concludeva la denuncia – io sottoscritto Comm.Cresci chiedo che si proceda penalmente nei confronti del Canzio per i reatid’ingiurie, percosse, lesioni e ogni altro reato che la S.V. ill.ma ravviserà nel com-portamento descritto: con espressa riserva per i danni materiali e morali “pa-titi e patiendi” dalla proditoria aggressione”.

Capitolo X

il dirigente, dott. Keres, lesse per la terza volta la denuncia e non potétrattenere un’esclamazione indignata: che poi s’impigliò nell’intrico di un’ope-razione aritmetica: “un uomo che dà il pane a più di trecento operai, trecentofamiglie… due figli in media più i genitori… più di un decimo degli abitanti diRado… a non considerare l’indotto. Chiamò il giudice Sartori, che aveva l’uf-ficio nella stanza accanto: “Legga qui: un uomo che sfama buona parte del pae-se. Rifece ad alta voce il calcolo. “Sotto gli occhi dei famigliari”, soggiunse.

Sartori scorreva rapidamente l’esposto. “Erano alla finestra?” s’informò.La domanda era forse senza malizia, ma stonava. “E’ scapolo, rifletté Keres, noncapisce l’importanza della famiglia”. “Quali aggravanti pensa che si possanocontestare?” chiese il dirigente. La caccia alle aggravanti era tra le passioni piùvive di quel vecchio magistrato.

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Sartori scosse il capo. Non scorgeva aggravanti all’orizzonte. intuiva ildisappunto del dirigente. “Ma quando la faranno questa riforma dei codici?”invocò Keres. Per lui il maggior malanno che affliggeva la giustizia sansulpi-ciana era la penuria di aggravanti. Lui ne aveva proposte un centinaio in unalunga e motivata relazione. Ma probabilmente nessuno l’aveva letta.

Dunque un galantuomo, un datore di lavoro che si sacrificava per i suoi con-cittadini, poteva essere assalito, a pochi metri dalla propria abitazione, da un fa-cinoroso, e il legislatore non batteva ciglio, un’aggressione come tante altre.

Ma non era soltanto sdegno morale. Questo moto dell’anima che più cidistingue dalle altre specie animali, non si trova in noi allo stato puro; comeinvece avviene alle intelligenze celesti, per lo più angeli e arcangeli, che balza-no di continuo dalle pagine della Scrittura, nonché dai dipinti sacri, il volto ela spada fiammeggianti; e appaiono traboccanti d’ira, ma per nulla che perso-nalmente li riguardi.

Purtroppo nelle regioni dell’animo umano l’indignazione, per sollevar-si e prender quota, abbisogna sempre della regolare pista di un interesse pra-tico e personale. in mancanza del quale sono soltanto sobbalzi e strattoni chela Storia irride con il nome di utopie. Utopistica infatti è un’idea che in un datomomento storico non è sorretta da interessi sufficienti.

Nel caso del dott. Keres, l’interesse pratico che lievitava il suo sdegno do-veva, secondo i maligni, ravvisarsi nella cosiddetta “pendenza”; che tenteremodi tradurre, per i profani, come “la quantità di lavoro gravante su un determi-nato ufficio”. Ora la competenza della magistratura di primo grado, rispettoa quello di secondo grado, si determina, a “San Sulpizio”, in base al massimodegli anni di reclusione che può infliggere il giudice. E una o più aggravanti,inasprendo sensibilmente la pena, hanno l’effetto di lievitare il reato e di fartraboccare la competenza dal giudice inferiore a quello superiore; con sollie-vo del primo.

“A chi si potrebbe affidare questo processo?” chiese ancora il Dirigentea Sartori.

Era un po’ come affacciarsi in una trattoria e chiedere dove si mangia benein paese. Keres se ne rese conto e si affrettò ad aggiungere: “Lei, Sartori, è trop-po oberato di lavoro. Bisogna pure che facciano qualcosa i giovani”. in realtà,sapeva che Sartori era un giudice esperto e capace, ma con un limite: non ascol-tava i suggerimenti degli altri e non si lasciava influenzare da nessuno. in al-tre parole: non era affidabile.

“È un processo semplice – continuò il Dirigente – ma potrebbe anche com-plicarsi.

“Eh sì – approvò Sartori – Canzio accusa Cresci di avergli ucciso il figlio.Per via dell’acquedotto…”.

“Ma sono sciocchezze belle e buone – esclamò Keres – Ha letto il “Cor-riere del Giorno”? Non c’è alcuna prova che le morti siano causate dal tifo. Epoi cosa c’entra il commendator Cresci? Mica ce l’ha messo lui il bacillo nel-l’acqua!”.

Sartori annuì, pensando intensamente alla sospirata promozione. Del re-sto il processo non sarebbe stato affidato a lui. E tuttavia provò un senso didisagio. Per salire era necessario buttare a mare molta zavorra. Lo rattristavache, troppo spesso, la zavorra fossero i buoni principi.

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Capitolo XI

L’aula ove si celebrano a palazzo Limondi i processi è una sala piutto-sto ampia con una grande finestra rettangolare che, in origine, doveva esserepiù che sufficiente ad illuminarla. Ora purtroppo impedita, in questa sua ra-gione d’essere e aspirazione, da un sovrapposto tendaggio, plumbeo per co-lore e pesantezza, che un’improvvisa paralisi dei gangli motori, e cioè del com-plicato meccanismo che ne consentiva l’elevazione verso il soffitto, ha immo-bilizzato per sempre. L’esperto in tendaggi visitando, qualche anno prima deifatti che si raccontano, il paralitico, non aveva saputo indicare altro rimedioche la sostituzione, non senza porre in evidenza, com’è uso con i famigliari co-sternati, l’età dell’infermo: “Siamo giusti. Ha l’età di quello”, indicando un qua-dro tutto scrostato del Seicento.

Questa volta il Dirigente non aveva esitato ed aveva richiesto al Ministe-ro la sostituzione del tendone o l’autorizzazione alla spesa relativa. Ma si eraancora in attesa di una risposta. Così si era pensato di togliere semplicemen-te il drappone e riaprire il varco alla luce. Ma una più matura riflessione ave-va sconsigliato tale semplice operazione. infatti non soltanto il sole, ormai sen-za ostacoli, avrebbe assalito i giudici con la luce diretta, in estate con un in-sopportabile calore, aggiungendo altro tormento a quello del giudicare, ma iprospicienti balconi del palazzo di fronte, trasformati in altrettanti palchi diteatro, si sarebbero, specie in occasione d’importanti processi, popolati di per-sone, magari in vestaglia, intente a godersi lo spettacolo; con disdoro della giu-stizia e pericolose distrazioni dei giudici.

Così da molti anni il sole non visitava l’aula giudiziaria di Rado. Del restoavrebbe rappresentato una stonatura, una stupefacente intrusione della vita. Quel-l’agitarsi nero di toghe tra la decrepitezza dei banchi e degli scanni; lo svolger-si del rito processuale secondo tempi e modi e parole fissate per sempre da unmondo defunto, la campeggiante scritta “La legge è uguale per tutti” sormonta-ta e forse esemplificata da un sottostante crocifisso allargante sconsolatamen-te le braccia – “Vedete anche a me cos’hanno fatto”, - avevano trovato infine nel-la spettralità del neon la luce giusta, oltre che economica, del quadro.

L’aula era divisa in tre settori a mezzo di due transenne che la percor-revano in senso longitudinale. il primo settore era destinato ai giudici, al pub-blico accusatore e al cancelliere, i quali sedevano sopra una sconnessa peda-na dietro un grande tavolo a forma di ferro di cavallo.

il settore mediano era occupato da un lungo banco, con sedili retrostan-ti in cui trovavano posto gli avvocati. A un lato una rozza panca e dura riser-vata all’imputato: a richiamarlo alla sua condizione e pungolarlo all’umiltà.

infine lo spazio riservato al pubblico, spoglio d’ogni ornamento: ad ec-cezione di due grandi targhe d’ottone inchiodate nella parete di fondo recan-ti l’imperativo “non fumare, non sputare”; a luccicare piacevolmente, tutto ilgiorno, davanti agli occhi dei giudici.

Erano le ore 9,30 quando il suono prolungato di un campanello elettri-co e il trepestio degli avvocati in cerca del posto e della toga annunciarono alnumeroso pubblico presente l’ingresso in aula del giudice Regli. Subito gli siavvicinò l’avv. Forioli, patrono di Paolo Cresci, inchinandosi, ossequiando, sor-ridendo: con un’arte che escludeva l’improvvisazione. Chiedeva che il proces-so nei confronti di Michele Canzio fosse celebrato per primo. il suo cliente era

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atteso a un importante incontro con i sindacati. La comunicazione aveva an-che il pregio di porre in rilievo l’importanza del personaggio. il giudice accon-sentì e fece chiamare la causa.

L’imputato era un uomo esile, dall’aspetto dimesso. Si guardava intor-no impacciato, non sapeva dove collocarsi. L’ufficiale giudiziario gl’indicò lapanca. “Sieda lì”, intimò, con il mal garbo riservato agli umili.

Sulla scia del Canzio una piccola folla di testi, spintisi, l’uno dietro l’al-tro, fin dentro all’emiciclo. il giudice, dopo essersi assicurato che non ne man-casse nessuno, “Sarete richiamati”, disse. Come stavano impalati, l’ufficiale giu-diziario, a rendere esplicite le parole del giudice, prese a spingerli fuori dal-l’aula senza tanti complimenti.

Dal settore riservato agli avvocati si staccò, con voluta lentezza, il Cre-sci. Con aria infastidita, andò a collocarsi su una sedia presso la parete oppo-sta a quella dell’imputato. Era un uomo alto e corpulento; elegante a metà, cioèvestito da un buon sarto, che aveva però trascurato d’indicargli la cravatta eil pullover da intonare all’abito.

Mentre il cancelliere dava lettura dei capi d’imputazione, Regli osserva-va comparativamente l’imputato e la parte lesa. incredibile che nello scontrofosse stato Cresci ad avere la peggio.

Si volse all’imputato. La domanda di rito: “Ha inteso l’accusa… cos’ha dadire a sua discolpa?”.

“Quello che è detto lì è tutto vero”, ammise a voce bassa il Canzio.“È confesso”, proclamò l’avvocato Forioli. Sfoderò un sorriso, riservato,

questa volta, al difensore dell’imputato “Per non far perdere tempo al giudi-ce, potremmo rinunciare ai testimoni”, propose.

il difensore, l’avvocato Paglieri, era giovane e combattivo. Difendeva ilCanzio gratuitamente, forse per incarico del partito in cui militava: “Chiedo –replicò – che il giudice voglia interrogare l’imputato sulle circostanze e sui mo-tivi che lo hanno indotto ad agire; e sentire su questo punto i nostri testi”:

“Mi devo opporre – si rammaricò l’avv. Forioli – Risulta dagli atti che ilcommendator Cresci fu assalito mentre faceva ritorno a casa, alla sua famiglia.Niente legittima difesa, niente provocazione. i motivi sono irrilevanti”. Esper-to professionista, capiva la debolezza di questi argomenti. Li offriva tuttaviaal giudice un po’ nella speranza che questi abboccasse, magari per motivi me-tagiuridici, un po’ per dimostrare al suo cliente che non lasciava nulla d’inten-tato in suo favore.

Aveva, del resto, la coscienza a posto: a lungo aveva insistito presso Cre-sci perché ritirasse la querela e non si esponesse all’alea e alla pubblicità di unprocesso. Ma Cresci era stato irremovibile: “Certa gente ha bisogno di una le-zione – aveva enunciato – E poi mi do’ del tu con il Dirigente”; battendo unamano sulla spalla al suo legale, a infondergli coraggio.

il dr. Regli prese tempo: “Sentiamo il parere del pubblico accusatore”.“il pubblico accusatore non si oppone”, dichiarò con un filo di voce l’in-

terpellato. A San Sulpicio, per ragioni di economia, la pubblica accusa, nei giu-dizi di primo grado, è rappresentata, volta per volta, da un avvocato officiatoall’inizio dell’udienza. Colto al volo mentre transita frettoloso per i corridoi delpalazzo di giustizia, distolto brutalmente dalle redditizie occupazioni profes-sionali, questo coatto collaboratore del giudice sprofonda in un letargo che è,ad un tempo, non resistenza e protesta contro la sopraffazione legale subita.

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Letargo o, piuttosto, sonno di felino se, all’incauto affacciarsi di un altro piùgiovane avvocato, balza dal suo seggio e reclama, “a causa d’impegni profes-sionali inderogabili”, la sostituzione.

“Allora – disse il giudice con tono bonario – se l’imputato vuole spiegar-ci i motivi…”.

Canzio si alzò di colpo dalla panca e puntando un dito accusatore con-tro Cresci: “ Quel signore lì ha ucciso mio figlio”, gridò. Negli occhi un lampoimprovviso di furore.

Cresci si sollevò a sua volta dalla sedia; enorme di fronte all’avversarioe tuttavia stordito dalla violenza dell’attacco; sembrava l’orso del tirassegnocentrato in pieno da un colpo di carabina. Tentò di ricomporsi. D’un tratto, por-tò la mano destra all’altezza della fronte e prese ad agitarne, unite nella rei-terazione, le tre dita mediane. Voleva lumeggiare l’aberrante stato mentale dacui solo poteva essere scaturita una siffatta accusa.

Scoppiò un parapiglia.“Esigo rispetto per l’imputato”, urlò con quanto fiato in gola l’avv. Paglieri.“Vergognatevi, anche qui siete venuti ad insultare”, replicò, con vibrazio-

ni di altrettanta frequenza, l’avv. Forioli.“Assassino, assassino”, gridò dal pubblico una voce femminile.il giudice prese ad agitare freneticamente il piccolo campanello che te-

neva sempre a portata di mano. A differenza di quello elettrico, che si aziona-va dalla camera di consiglio e aveva un suono imperioso, questo spargeva unsuono dolce e festoso, poco adatto alla circostanza.

Due guardie accorsero verso il rumoreggiante settore del pubblico, af-ferrarono la donna che ancora urlava e si dibatteva e la portarono fuori.

“Faccio sgombrare l’aula!” minacciò Regli.Ma il silenzio stava già tornando.Ora anche gli avvocati ricuperavano la calma mai veramente perduta e fa-

cevano a gara a presentare le scuse – per loro, per i clienti, per il pubblico – al giu-dice; che le accoglieva di buon grado, visibilmente soddisfatto dell’ordine da luicon prontezza ristabilito; e con mezzi, bisogna riconoscerlo, assai modesti.

“Procediamo ad interrogare i testi”, comandò.Sfilarono per primi i testi dell’accusa. Avevano assistito all’aggressione

e, a stento, non senza personale rischio, erano riusciti a sottrarre Cresci allafuria del suo aggressore. Era evidente il rispetto e la considerazione per la vit-tima, cui non mancavano d’offrire, all’uscita dall’aula, un cordiale tributo di be-neauguranti sorrisi.

Fu poi la volta dei testi della difesa. “Presenti al fatto?”, chiese l’avv. Forioli.“Riferiranno su circostanze precedenti”, chiarì non troppo l’avv. Paglie-

ri. Cercava di far passare inosservato il suo carico d’esplosivo.“Allora mi oppongo!”. L’avv. Forioli non era uomo da lasciarsi sorpren-

dere. “Non vogliamo farci insultare un’altra volta!”.“Ma cosa dovrebbero dire?” s’informò il giudice. Sentiva addensarsi di

nuovo la tempesta.“Che Aldo Canzio è morto, nel settembre scorso, a causa – scandì Paglie-

ri – di gravissima incuria e negligenza del qui presente signor Cresci”.Dal settore del pubblico si levò un lungo mormorio.“Ma è assurdo!” gridò rosso in volto e gesticolando l’avv. Forioli. “Assur-

do”, echeggiò lugubre Cresci. “Qui – riprese il legale – si cerca d’intorbidire le

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acque di una causa molto chiara.”. Assunse un tono più composto e solenne:“Denuncio il tentativo avversario di politicizzare questa causa”.

“Ma che c’entra la politica?” domandò Regli che sapeva fin troppo quan-to c’entrasse. Ancora il giorno prima il Dirigente, allarmatissimo per il nomedel difensore nominato da Canzio, aveva intrattenuto a lungo Regli nel suo uf-ficio: “Condanni o assolva non m’interessa… sembra un processo molto sem-plice… Ma tagli corto, ha capito, tagli corto! Deve giudicare ingiurie, lesioni enull’altro. E si ricordi: siamo in periodo preelettorale, la giustizia non deve pre-starsi a speculazioni di nessun genere”.

“insisto per l’audizione dei testi – incalzò l’avv. Paglieri – non raccolgole insinuazioni avversarie. La difesa intende provare che Canzio agì nello sta-to d’ira provocato dal comportamento delittuoso di Cresci”.

Regli guardava l’imputato che si passava la mano sul volto come a trat-tenere le lacrime. “Poco o tanto”, pensò, “sono sempre loro a pagare”.

Volle fare un tentativo e chiamò a sé gli avvocati. “Avete considerato – chie-se – la possibilità di risolvere pacificamente questo processo? Canzio fa una di-chiarazione di rincrescimento e di stima; e Cresci rimette la querela. Sarebbe me-glio per tutti”, concluse con forza. Detta da chi doveva decidere la causa, la con-clusione suonava come un ammonimento per entrambi i contendenti.

Forioli se ne rese conto. “Provo a parlarne con il mio cliente” disse sol-lecito. Si avvicinò a Cresci e prese a confabulare con lui a voce bassa. Si capi-va che incontrava una resistenza tenace. Alla fine si staccò dal suo cliente e ri-tornò al banco degli avvocati.

“il mio patrocinato – annunciò - acconsente a ritirare la querela. in os-sequio all’invito del signor giudice” aggiunse.

“Così va bene – stabilì Regli – e avete fatto un piacere anche a me. Ho an-cora sette processi oggi”.

Una considerazione banale: volta peraltro a scaricare la tensione che an-cora si avvertiva nell’aria.

Senz’attendere la chiusura ufficiale, il pubblico scivolò via. Era un mododi manifestare insoddisfazione. Di natura sportiva, è pur possibile, per un risul-tato in bianco. Ma forse era rimasta la sensazione deludente per qualcosa che siera intravisto e non aveva avuto la forza di sbocciare. D’improvviso l’imputato,s’alzò dalla panca e, rivolto al giudice, “È possibile non accettare?”, chiese.

“Non accettare che?” trasecolò l’avv. Forioli. La sua voce assunse un’in-tonazione di profondo disgusto.

“Non accettare, fare il processo”, chiarì Canzio, rivolto al giudice.“Certo, ma non avete alcun interesse. Più che prosciolto non potete essere”.“Vuole anche un premio per quello che ha fatto”, schernì Cresci.“Noi non accettiamo”, dichiarò deciso l’imputato.“Ci pensi bene, Canzio”, lo ammonì il suo difensore.“Non accettiamo” ripeté l’imputato.Era, pur in un uomo così dimesso e senza rendersene conto, un plurale

di maestà.“Avanti i testi”, ordinò il giudice.Sei volte, pur in versioni varie, Regli dovette ascoltare le malefatte di Cre-

sci e dell’acquedotto. il racconto era di continuo interrotto dall’avv. Forioli condomande e contestazioni varie con lo scopo fin troppo evidente di confonde-re le idee ai testimoni; ma ricucito poi, pazientemente, da Paglieri con brevi e

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calzanti domande: se il tifo aveva, almeno all’inizio, colpito esclusivamente gliutenti dell’acquedotto Cresci; se da molti anni non si era più effettuata la pu-lizia della vasca; se questa era stata collegata con un rigagnolo apportatore diacque putride; se Aldo Canzio aveva contratto il tifo ed era morto a seguito diquesta malattia. Ogni risposta una martellata a ribadire attorno a Cresci i chio-di acuminati delle responsabilità.

Forse fu per non assistere allo scempio della legge, sibilò – ma il giudi-ce non vi fece caso – e per riprendere, spiegò, il controllo dei propri nervi, cheForioli, senza chiedere autorizzazione, abbandonò, ad un tratto, l’aula giudi-ziaria, di corsa, in toga, in un nero fremito d’ali.

Le testimonianze volgevano intanto alla fine: fatti noti e arcinoti, ma cheadesso, sotto la scorta dell’angelo Paglieri, per la pazienza del giudice Regli ein virtù dell’azzurra linfa trasfusa dalla biro veloce del cancelliere, non eranopiù soltanto sofferenze e lacrime nelle case e per i marciapiedi del paese, maentravano purificati nella patria del diritto, dipartimento di Rado. Sullo sfon-do poteva scorgersi il diavolo Forioli che fuggiva a rotta di collo, la toga tra legambe.

Ahimè queste fughe sono strategiche la maggior parte, e di breve durata!Dopo solo dieci minuti d’assenza ecco l’avv. Forioli far ritorno in aula,

disteso in volto e persino sorridente. Chiese ed ottenne la parola esprimendoil suo “accorato stupore” che il processo a carico di Canzio “un forsennato pri-vo d’ogni facoltà critica e che in fondo ci fa una gran pena” si fosse trasfor-mato, per la malizia del suo difensore, in un processo, senza garanzia alcuna,a un galantuomo da tutti stimato quale Cresci. “Chiedo – aggiunse – un con-gruo rinvio per poter indicare testi non compiacenti”. Così dicendo, fece un ge-sto d’incoraggiamento all’usciere che sporgeva, titubando, dalla porta e chia-mò a sé Cresci, dimentico ormai, nell’accorrere, del peso materiale oltre chesociale della propria persona – gli sussurrò qualcosa nei penduli padiglioni au-ricolari e riportò lo sguardo sul giudice nel frattempo raggiunto dal claudican-te messaggero.

Regli fece un gesto di fastidio. “Dica: appena terminato questo proces-so. Subito dopo questo processo”, scandì.

L’usciere schizzò via, trascinando per gl’insidiosi dislivelli, la gamba dalui immolata, almeno in parte, alla Patria (in umiltà, nel corso di una razzia digalline).

S’alzò il Pubblico accusatore. Riattivava la circolazione del sangue. “M’asso-cio alla domanda di rinvio”. Senza malizia alcuna. Sperava soltanto d’essere libe-rato dal supplizio: le campane annunciavano a gran voce il mezzogiorno.

La decisione del giudice giunse inaspettata. Spiegava che i nuovi fatti emer-si nel dibattimento erano collegati e influenti rispetto al processo a carico diCanzio e però superavano la competenza del giudice di primo grado. Di qui lanecessità di rinviare tutto quanto “al superiore Tribunale di Mortola”.

Giuridicamente la soluzione era ineccepibile. Molti la giudicarono corag-giosa; anche se, nell’opinabilità delle cose umane, qualcuno, in quella decisio-ne che apparentemente non decideva nulla, volle scorgere analogie con quel-la adottata in Palestina dal governatore romano; complice il bacile.

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QUATTRO POESIE

di Angelo Manitta

Mary Cassatt

La strada antica svaporadi colori lilla come cornice che cerchia giochi segreti di pittori. La tela è un plenilunio

di soli svaniti e rappresiche evocano sortilegi, lievitatida desideri: il battello si fermasulla battigia in remota afasia.

Lev Nikolaevic Tolstoj

«Non ho dimenticato la triste partenza,immaginata come esilio perpetuo,o Signore. Ora, quasi senza Dio,non sento religione; ma non T’ho dimenticato

né ho dimenticato il volto rugosodi mia madre, le cui guance si rigavanodi lacrime e il cuore mi si spezzavacol tremore delle membra, l’irrigidimento

delle ossa, il raggelamento del sangue.il treno le portò via la speranza,quel treno che mi dava speranza.O Signore, è caro il prezzo

Della alsa ricchezza conquistata,quando scopro i miei cibiinsapori e inodori. Ma tu come hai fatto a sopravvivere così a lungo?»

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William Orpen

il giornalista fissa sulla carta l’eventoquotidiano, lo storico approfondisce la connessionedelle azioni, dei gesti, delle parole. il pittorerende perpetuo l’attimo in un unico

eterno fluire. i capi di statosono tutti lì. A guerra finita William Orpenguarda in faccia Woodrow Wilson,Lloyd George, Vittorio Orlando, e li immortala

Ivan Sergeevic Turghenev

Penetra cespugli con il fucile a tracolla.Le anitre starnazzano sul lago e lunghescie d’ombra segnano lo specchio.Voli d’uccello si alternano a corse

di cinghiali o a lepri sfuggite dai giacigliper l’annusare dei cani. Bottiassordanti riempiono l’aria, mentre passisilenziosi scrutano prede acquattate

che lanciano occhiate guardinghe. Silenzioè intorno. Paura d’assoluto e di vuotoastrae la mente del cacciatore, le cui pupilleferiscono l’aria di smalto: passi

nel bosco, rumore di foglie calpestatea battiti lenti. Sussulta il cacciatoree, avvolto dal verde degli alberi, si fa foglia,si fa fiore, si fa frutto. il tempo non sonnecchia.

La preda scappa nell’oscurità delle frondee gli occhi corrono dietro inattesi fruscii:rami mossi dal vento, scoiattolidanzanti, raggi di luce multicolore.

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ORO BIRMANO

di Milena Buzzoni

SECONDA PARTE

Causa maltempo il volo per Mandalay ha due ore di ritardo. Ne appro-fitto per un caffè (2 dollari!), per comprare qualche braccialetto di lacca in unaspecie di free shop e per documentarmi un po’. A 700 Km da Yangon e con cir-ca 700.000 abitanti, Mandalay fu l’ultima capitale prima dell’avvento dell’im-pero coloniale inglese e conserva un ruolo religioso e culturale. il penultimosovrano Mindon Min trasferì la capitale da Amarapura a Mandalay nel 1861 econ l’occasione fece seppellire vive nelle fondamenta della nuova reggia 52 per-sone perché diventassero spiriti protettori. Allo stesso modo il successore reThibaw pensò di rafforzarli seppellendone altri 600 attorno al palazzo: tuttoquesto in tempi non lontanissimi a conferma di quell’attitudine alla ferocia dicui si diceva all’inizio. intanto l’ATR 72 della Yangon Airways è finalmente ar-rivato e un funzionario chiama i passeggeri ad alta voce facendo segno di af-frettarsi.

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Arrivati a destinazione ci fermiamo subito in un laboratorio di intagliodel legno dove ragazzi accucciati per terra lavorano con scalpelli e bulini: na-scono bellissimi pannelli, statue, mobili a intagli e volute che costano davve-ro poco rispetto alla perizia che richiedono, anche se i prezzi migliori non sitrovano in questi laboratori ma in giro per mercatini.

Un salutino (per le donne solo da lontano!) al Budda alto 4 metri e co-perto da uno strato di 15 centimetri d’oro del Mahamuni temple e siamo al Se-dona Hotel con un elegante ingresso a colonnato affiancato da due vasche dipesci rossi grossi come carpe che ci seguono fino nella hall. Camere belle e am-pie, ma il bollitore, come spesso accade, non funziona, mentre in bagno nonmanca nulla. Proprio davanti all’albergo si espandono le mura merlate del For-te suggestivamente illuminate, alle quali domattina vorremmo dare un’occhia-ta. L’acqua riempie il fossato che le cinge per una larghezza di 70 metri e ri-flette gli 8 km di mura che, con uno spessore di 3 metri, ne costituiscono il pe-rimetro. Nel 1945 il palazzo reale che sorgeva all’interno, fu distrutto da unincendio durante la battaglia tra gli inglesi e gli indiani da una parte e i giap-ponesi, che dal 1942 occupavano la Birmania, dall’altra. Vera e propria città for-tificata, il palazzo è stato ricostruito ad opera dei carcerati, ma il calcestruz-zo si è sostituito al legno e l’alluminio ai tetti! Delle tre porte per ciascuno deiquattro lati ne è rimasta una per lato sormontata da un pyatthat, cioè un pa-diglione in legno originale di raffinata fattura.

È piacevole andarsene a letto con le immagini della giornata negli occhie stasera, quando li chiudo, rivedo il Monastero del Palazzo d’Oro, uno spet-tacolare tempio di legno dal fittissimo intaglio: pareti, porte, coperture sonotutte un ricamo, mentre l’interno è interamente rivestito d’oro.

La struttura ha la fragilità degli edifici di questo materiale ma proprioper questo è tanto più accogliente e caldo. in origine era l’appartamento rea-le che fu poi smontato e rimontato nel luogo dove si trova adesso per farneun monastero. Un tempo sfavillava di mosaici di vetro ed era dorato ancheall’esterno: vento e pioggia lo hanno reso meno sontuoso ma più intimo e fa-miliare.

Ci spostiamo per andare a vedere il Kuthodawpaya, l’altra delle imma-gini che riempiono il mio dormiveglia. È il “libro” più grande del mondo for-mato da 729 lastre di pietra fittamente incise dove sono riportati gli insegna-menti di Budda. Ognuna è conservata dentro uno stupa bianco, quindi le 729costruzioni disposte simmetricamente attorno a un ottocentesco stupa centra-le creano una specie di cimitero di cappelle contenenti non un corpo ma unprecetto. Quando il re Mindon convocò il V Sinodo Buddista ci vollero 6 mesiai 2400 monaci là convenuti per leggere tutte le tavole!

La cena di stasera, sempre davanti al forte illuminato, ha qualche varian-te: spiedini di maiale, pollo allo zenzero, gamberi al tamarindo e un dolcettodi palline di gelatina con mais che non è male. Ogni tanto, come all’Ocean, ilcentro commerciale dove siamo passati prima di cena, manca la luce che perfortuna torna dopo pochi minuti.

È una scarpata sabbiosa e sporca quella lungo la quale scendiamo per rag-giungere un barcone di legno che ci porterà a Mingun. La traversata sull’irawa-di è un lento percorso di circa un’ora su un fiume senza corrente smosso solodai balzi dei delfini. All’arrivo ci aspetta un gruppo di carovane tirate da un paiodi maestosi buoi dal mantello grigio-verde come se fossero emersi dal muschio

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della terra. La capotte porta la scritta “taxi”! Usciamo da un breve sentiero e ve-diamo emergere dalla pianura quello che, se il suo committente re Bodawpayanon fosse morto nel 1819, sarebbe diventato lo zedi più grande del mondo! Sia-mo sopraffatti da un’ imponenza che non ci saremmo aspettati: davanti a noi soloil basamento di questo stupa incompiuto che avrebbe dovuto innalzarsi per 150metri! È un enorme rossiccio parallelepipedo con un portale lavorato a bassori-lievo su ognuno dei quattro lati, un gigante di mattoni ferito dal terremoto del1838 con i fianchi sgretolati e spesse spaccature. Resiste con la sua forza soli-taria come se dovesse restare testimone di una memoria: c’è in questa immanepresenza l’intenzione del suo ideatore di creare qualcosa di spettacolare ed eter-no e c’è la fatica di migliaia di schiavi e prigionieri di guerra che vi lavoraronoper vent’anni! Poco lontano, vicino al fiume, al loro posto di guardia ci sono duechinthe, in parte crollate, di cui resta la porzione posteriore con una traccia dicoda. Anche qui non sembra ci sia in corso alcun progetto di recupero: eppureognuno di noi vorrebbe che tutto questo avesse non solo un futuro ma una vitaeterna perché lo vedessero i nostri figli e i nostri nipoti, perché, appunto, fosseun patrimonio dell’umanità, per sempre.

il Pahtodawgyi era anche munito di una campana di 90 tonnellate, la piùgrande del mondo dopo quella di Mosca che pare sia venata e poggi a terra.Conservata lì accanto e sorretta da una robusta struttura in ferro, fa da sfon-do alle foto dei visitatori che la colpiscono con un tronco facendola risuona-re. Si può entrare e uscire da sotto la campana e farsi avvolgere dal suo bron-zeo mantello.

Comincia a piovere e, prima che diluvi, raggiungiamo un posto dove man-giare con una veranda coperta da una lamiera che amplifica il suono della piog-gia. Nella strada le pozzanghere si allargano, l’acqua cola dal tendone che co-pre la veranda verso la strada e scava rivoli nel fango. La tenda stessa è buca-ta e dobbiamo spostarci a seconda delle gocce che cadono. Fede tenta di ordi-nare una pizza ma quando ormai tutti abbiamo finito il nostro spuntino, glidicono no tomato, il pomodoro non basta per la sua pizza; così ripiega su unpiatto di tempura croccante che non gli fa rimpiangere la Margherita manca-ta. Una donna, insolitamente alta rispetto alla media delle donne e degli uo-mini birmani dagli esili corpi di adolescenti, mi ha seguito fin qui con i suoilongyi . Provo a darle i 5 dollari senza prendere il longyi che mi porge ma ri-fiuta e mi mette in mano una fantasia di fiori verdi marroni e neri e se ne va.Per fortuna la pioggia cessa e cessa il frastuono che l’accompagna. Torniamoverso il battello. Ritroviamo gli stessi “taxi” in attesa sull’argine del fiume e scen-diamo per la scarpata di sabbia dove piante di zucchine corrono in mezzo acartacce e residui di plastica e risaliamo a bordo.

Anche se ne abbiamo visti tanti, i laboratori artigianali sono sempre in-teressanti come testimonianze di abilità, creatività, attenzione, pazienza. i ma-nufatti arrivano a commuovere, come se custodissero una scintilla trascenden-te. i telai in legno intagliato della seteria nella quale ci fermiamo, sembrano piut-tosto strumenti musicali, baldacchini sotto i quali una pianista intesse note,creando disegni colorati come onde sonore. Ogni lavorante riceve 1000 kyatper ogni spoletta lavorata il cui filo viene intrecciato sul rovescio del tessutoper ottenere il motivo riportato su un canovaccio che ognuna ha davanti agliocchi. Restiamo nei dintorni di Mandalay, la città del forte in mezzo all’acqua,e raggiungiamo Amarapura.

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-Andatelo a vedere! Non ve lo perdete il ponte u Bein!- ci avevano det-to due turisti italiani che all’aeroporto di Heho dividevano con noi l’attesa delvolo per Mandalay. in effetti il ponte in teck più lungo del mondo è una cu-riosa struttura fatta di pali piantati nell’irawadi che reggono una malferma pas-serella. La suggestione è data dal suo scheletro essenziale che si prolunga a per-dita d’occhio sull’acqua, esile e sinuoso. È domenica e lo percorre una folla digiovani che passeggiano su e giù, coppie per mano, famiglie.

La serata è al Green Elephant , un ristorante cinese con un bel giardinoa pochi passi dal Sedona al quale torniamo a piedi per godere ancora un po’di queste mura merlate che si raddoppiano nell’acqua. Mura che la mattina suc-cessiva intravvederemo appena nella nebbia di questa ulteriore giornata nuvo-losa. il programma è raggiungere Bagan con il pullman per evitare un altro voloe guardare il paesaggio. Usciti dalla città, c’è solo un tratto di quella che sareb-be presuntuoso definire “autostrada”; la carreggiata è più larga e asfaltata epassiamo un casello con un tavolo al quale sono sedute tre persone (dalla con-segna dei bagagli allo smistamento delle valigie nelle hall ai lavori lungo le stra-de tutto viene fatto “in gruppo”!) che staccano una ricevuta e la consegnanoall’autista. Altre volte i caselli somigliano ai nostri; quello alle porte della cit-tà, poi, è costruito in mattoni rossi, come se fosse l’ingresso di un palazzo im-portante. La strada in realtà prosegue come una normale provinciale con ani-mali che trotterellano ai bordi, rivendite lungo la corsia, persone che cammi-nano. Una breve deviazione ci porta al Monte Popa, alto più di 700 metri su unaforesta pietrificata. Questa solitaria vetta posata in mezzo a una fertile pianu-ra (popa in sanscrito significa “fiore”) e sormontata da una corona di pagode,somiglia a un cappello a cilindro infiocchettato. Definito l’Olimpo del Myan-mar, è considerato la dimora dei Nat ed è il principale centro di culto di que-sti numi tutelari simili ai Penati e ai Lari dei Romani. Qui sono rappresentatida una serie di coloratissimi manichini ai quali si portano offerte. Secondo lasuperstizione birmana non bisognerebbe indossare vestiti rossi o neri sulla mon-tagna, né sparlare di altri né portare carne con sé per non offendere questi spi-riti ricevendone cattiva sorte! il tempio di Mahagiri, in realtà, ha ben poco dimistico o raccolto. Arrivati, dopo 777 scalini, alla cima che da lontano promet-teva spazi dello spirito con le sue svettanti pagode, si scopre un posto moltokich, da padiglione di Luna Park: Luci psichedeliche (quelle stesse, come osser-va Terzani, che i militari regalavano ai monasteri per ingraziarsi gli abati e cheadesso «lampeggiano a mo’ di aureola dietro le teste di tantissimi Budda in tut-ta la Birmania»), manichini, fiori finti, bancarelle, stupa senza storia coperti dibronzina. Dopo la fatica della salita, scalzi su sporchi gradini tra scimmie di-spettose che frugano nella spazzatura, siamo veramente delusi!

Lungo la strada ci imbattiamo in una specie di laboratorio per l’estrazio-ne del succo di palma con il quale vengono fatte caramelle, bevande, grappe, un-guenti per massaggi. Per 3$ compro una bottiglietta di grappa rivestita da un in-volucro intrecciato con foglie di palma da regalare al mio futuro genero. Assag-giamo anche un aperitivo birmano preparato per accompagnare il tè o vicever-sa: noccioline, aglio abbrustolito, zenzero tagliato a fiammifero, fagioli secchi.

Arriviamo a Bagan per una strada che passa attraverso la pianura dei tem-pli, un notturno pieno di suggestione con le luci che rischiarano dal basso que-sti stupa di mattoni, grandi, piccoli, a gruppi o isolati. Qualcuno vanta una cu-spide dorata che scintilla nel buio. Arriviamo al nostro resort, il Tyripyitsaya

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Hotel che, dopo il basso edificio in legno della reception, si apre verso un pra-to con lampioni e aiuole fiorite. il tutto, a sua volta, scende verso una distesadi sabbia aperta sul fiume. Un sogno! Purtroppo ci danno delle camere in dueedifici-dormitorio defilati, forse ex alloggi per il personale con camere squal-lide e bagni da palestra! Sollevazione generale visto che la nostra prenotazio-ne prevedeva superior rooms! in breve scopriamo che quelle che ci hanno datosono superior rooms, ma niente da fare, la disputa si anima sempre di più edopo un’estenuante trattativa, per 20 $ in più a camera, spuntiamo 7 bunga-lows sul prato affacciato al fiume che delizieranno i nostri tre giorni di sog-giorno! Siamo nel cuore della piana, circondati dagli stupa illuminati che spun-tano tra gli alberi! La solita cena sotto il tetto in legno di un ristorante-giardi-no, è movimentata da uno spettacolo di marionette che muovono persino oc-chi e sopracciglia.

Visitiamo ancora templi magnifici, pagode d’oro che sfavillano finalmen-te in una giornata di sole pieno e tutta una serie di stupa in mattoni, a basequadrata, rettangolare, rotonda, con copertura a cupola, a cuspide, a scudo. iportali sono quasi sempre lavorati e coronati da formelle occupate da Buddao da piastrelle; gli interni affrescati da minuziosi disegni a riquadri rappresen-tanti le fasi della creazione con i primitivi colori del nero, del bianco e del gial-lo. Lavori del 1100 a coprire una struttura in mattoni che si regge senza mal-ta o alcun materiale tra un elemento e l’altro; qua e là i buchi provocati dagliinsetti attirati dal latte usato come collante nell’impasto dell’intonaco.

Gli stupa della pianura di Bagan nascono e crescono di diverse altezzee forme come se una mano divina li avesse disordinatamente seminati. Germo-gliati in maniera spontanea, sono diventati una folla di guglie che al tramon-to si trasformano in rosse fiamme tra le quali, dal Noro Guni temple, vediamoscomparire il sole. Solitari come il Taj Mahal, sorprendenti come i mostri di Bo-marzo, incredibili come i monumenti di Angkor, vivono tra le palafitte dellagente che coltiva orti ai loro piedi.

«Ci sono viste al mondo dinanzi alle quali uno si sente fiero di apparte-nere alla razza umana. Pagan all’alba è una di queste. Nell’immensa pianurasegnata solo dal baluginare argenteo del grande fiume irrawadi, le sagome chia-re di centinaia di pagode affiorano lentamente dal buio e dalla nebbia: elegan-ti, leggere; ognuna come un delicato inno a Budda. Dall’alto del tempio di Anan-da si sentono i galli cantare, i cavalli scalpicciare sulle strade ancora sterrate.E’ come se una qualche magia avesse fermato questa valle nell’attimo passa-to della sua grandezza….. solo qua e là dal verde giada delle risaie spuntanole vette bianche delle pagode, i tetti bassi di paglia delle case di legno….Nien-te è moderno, niente è del ventesimo secolo». Così, In Asia, Terzani descrivequesta pianura.

Anche mercoledì è una giornata splendida che si annuncia con colori d’ac-querello. Giriamo con calessi che passano tra uno stupa e l’altro, sfiorano spi-goli, sostano davanti ai templi incisi. Stiamo un po’ in bilico su questi sobbal-zanti carretti a cui, come dice Orwel nel suo primo romanzo Giorni in Birma-nia, «raramente i carrettieri birmani ungono i mozzi delle ruote, forse pensan-do che quel rumore tenga lontano gli spiriti maligni». il pullman ci porta poinei siti principali : l’Ananda Temple è l’unico a croce greca con affreschi an-cora visibili e quattro enormi Budda in piedi, uno per ciascun lato dell’edifi-cio, il Tayokepyay Temple con portali ricamatissimi, il Payathozu Temple che

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si presenta lungo e basso e conserva minuziosi ininterrotti affreschi, con pic-coli riquadri dove si moltiplicano le effigi di Budda formato tessera, motivi dialberi, soffitti a volta finemente dipinti. il Nanphaya Temple è l’unico tempioindù della zona, rinforzato all’interno con putrelle e sorretto da poderosi pi-lastri incisi sui quali compare l’immagine di Shiva. Non altrettanto suggestivoe raccolto l’ultimo paya della mattinata intonacato di bianco e ingabbiato dal-le impalcature di bambù, che conserva i Budda più grandi del paese, uno in pie-di, gigantesco, sfavillante d’oro e l’altro all’interno di un ambiente angusto, in-teramente occupato da questo Budda disteso. È il tempio di Manuha indicatodai Birmani «come il simbolo della loro condizione. il tetto del tempio gli pre-me sulla testa. Le pareti gli stringono le spalle. il suo petto è come se non aves-se spazio per respirare. il suo corpo è come pressato in una cella. il Budda diManuha è lì da più di mille anni, prigioniero, col suo sorriso triste rivolto con-tro la parete. Lo fece costruire un re che aveva perso la libertà e che volle ri-cordare al suo popolo le pene di quella condizione» , così ancora dice Terza-ni nel suo libro.

Ad ogni sosta siamo assaliti da nugoli di venditori, soprattutto venditri-ci, di solito ragazze giovani, carine, a volte con bambini in braccio, disposte abarattare una scatola di lacca con un rimmel o un rossetto.

il villaggio di Minanthu, conciliabolo di poche capanne, ha prezzi alti, don-ne che fumano grossi sigari e vecchiette che filano: un fasullo allestimento peri turisti di passaggio. Anche oggi pausa-pranzo in piscina, sul prato tra i tem-pli e il fiume.

«Alberi di Mohur, simili a grandi ombrelli di boccioli rosso sangue, fran-gipani con fiori color crema senza gambo, buganvillea rossa, hibiscus scarlat-ti e rosai cinesi, e tigli e tamarindi dalle foglie simili a piume. i colori vivi ab-bagliavano nella luce. Un mali quasi nudo, con un annaffiatoio in mano, si ag-girava in mezzo alla giungla fiorita come un grande uccello che si nutrisse dinettare»: le parole di Orwel si adattano a questo Eden asiatico dove vorrei fer-marmi almeno una settimana!

Anche l’aeroporto di Bagan dal quale partirà il volo per Yangon, è pocopiù di un capannone. Niente nastri, bagagli scaricati a mano e monitor che an-ziché riportare l’orario dei voli trasmettono pubblicità. A fungere da tabello-ne è un cartello scritto a mano davanti all’uscita sulla pista dove un uomo indivisa chiama ad alta voce i passeggeri. Gli aerei della Yangon airwais sono pic-coli ma non così male come qualcuno ci aveva detto e la rotta ci permette diguardare dal finestrino le risaie sottostanti, i campi arati, il fiume lucido e si-nuoso come la scia di una lumaca. Atterriamo in perfetto orario a Yangon perprendere subito il pullman verso la Golden Rock. Dopo un’ora e mezza circa,lasciamo il pullman per salire su uno dei camion che arrivano alla sommità del-la montagna. Sono mezzi da una ventina di persone e, dato che nel nostro c’èancora posto, salgono alcuni bambini usciti da scuola per approfittare del pas-saggio. Seduti su stretti sedili, con tubi di acciaio come schienali, iniziamo unaripidissima salita a tornanti: l’autista prende le curve come Valentino Rossi sul-la sua Honda incurante della strada sconnessa mentre noi, ne siamo certi, nonsopravviveremo alla prossima rampa! Per fortuna qualche volta ci fermiamoper consentire la discesa ad altri camion superaffollati di pellegrini. Finalmen-te la corsa è finita ma domani dovremo tornare a valle! il nostro albergo, chesapevamo sarebbe stata una sistemazione molto frugale, è inferiore alle aspet-

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tative con letti scrostati, lenzuola di dubbia freschezza e lavabo senza acquacalda. in compenso c’è una tv piatta con due canali e una dotazione minimadi confort, tipo caffettiera elettrica, spazzolini, cuffie per la doccia.

Visto che l’ora del tramonto è prossima, ci affrettiamo verso la Golden Rockdove sta avviandosi molta altra gente. Una breve scalinata porta a una terrazzain fondo alla quale ai soli uomini è consentito di entrare su un piccolo belvede-re proprio a ridosso della grande pietra che resta in bilico su un precipizio gra-zie, giurano, a un capello di Budda che fa da contrappeso!. Le donne devono ac-contentarsi di fotografarla dal percorso che le gira attorno. i pavimenti, sui qua-li, come sempre, camminiamo scalzi, anziché essere lindi e puliti sono invece spor-chissimi dato che i pellegrini di solito passano qui la giornata intera mangian-do e bevendo; ma la roccia, che sembra debba rotolare giù da un momento al-l’altro, nobilita tutto questo allestimento un po’ kich e si presenta a noi grande,rotonda, rivestita d’oro con un piccolo stupa sulla sommità.

il tramonto è perfetto, persino oleografico con questa sfera d’oro in pri-mo piano, il rosso sull’orizzonte, il verde ormai sfocato dei monti e delle col-line che riempiono la vallata sottostante. Ci sentiamo un po’ a disagio a par-lare ad alta voce e a girare con le fotocamere in mano tra questa gente che pre-ga, ma nessuno sembra farci caso.

La cena a buffet consente una varietà che mancava alle nostre solite cene.L’allestimento è da refettorio ma il mangiare buono. La mattina aspettiamo di scen-dere con uno di quei camion-ottovolante con i quali siamo saliti. Monaci in tu-nica bordeaux sfilano con le ciotole in mano per la questua quotidiana; alcuniportano due cestini appesi a un bilanciere e un copricapo di cuoio, alto e piat-to e, di tanto in tanto, suonano un gong procedendo lentamente. Ma la folla piùconsistente è quella dei pellegrini e quella degli sherpa che si caricano incredi-bili pile di bagagli nelle gerle di bambù che portano sulle spalle. Uomini o don-ne chiedono ai turisti di affidare loro le proprie valigie o di farsi trasportare suportantine fatte con grossi pali di bambù. Arriva il camion e comincia la disce-sa in caduta libera per i ripidi e ravvicinati tornanti. È tutto un inchiodare e ac-celerare tra le preghiere dei passeggeri affinché Budda protegga i freni con sguar-do “illuminato”! E infatti, incredibile a dirsi, arriviamo incolumi e dopo tre orebuone di pullman (il traffico e la durata dei semafori di Yangon mettono a duraprova qualunque pazienza!) siamo di nuovo al Shangri-là Hotel. Doccia e ricon-cepimento dei bagagli in funzione del volo di domani che ci riporterà a Milano.Mentre cerco di smistare le cose comprate, mi capitano in mano, oltre le cioto-le di lacca, la vecchia scatola, la collana di giada e gli orecchini, il fermaglio a pet-tine e un imprecisato numero di parei e longji dalle fantasie irresistibili, i rega-li per Bianca, la mia nipotina di due mesi che non vedo l’ora di vedere: un pigia-mino viola con alamari e colletto in piedi, una marionetta di legno con due co-dini in testa e una scatola fatta a pesce che contiene un micro-presepe. Poi aproun foglio che avevo messo da parte insieme a queste cose per lei, del quale miero completamente dimenticata : è una ninna nanna birmana da sussurrarle al-l’orecchio non so ancora su quale melodia …..

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Ninnananna

Sulla banchina rotonda della lunauna lepre dorata s’acquatta, occhi socchiusi………. dormi………..dormi……….

Un vecchio tutto ossa macina risoguarda alla banchina rotonda della luna……. dormi………..dormi………..

Potrebbero essere spettacoli dorati,le dolci mezze ombre dei Nat……dormi…………dormi…………

Pittura di sole calante che scorre,per placare e chiudere i tuoi occhi……dormi……dormi……

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DIRITTI UMANI NEL MONDO:SUCCESSI, ERRORI, PASSI INDIETRO…

di Aldo Forbice

Da seimila anni la guerra piace ai popolilitigiosi. E Dio perde il tempo a fare lestelle e i fiori.Victor Hugo

(La poesia Depuis six mille ans la Guerre (1865) si trova incisa nella parete della cel-

la 601del carcere di Scheveningen, L’Aia, dove erano stati rinchiusi i partigiani con-

dannati a morte dalla Gestapo tra il 1940 e il 1945).

Ormai è noto, anche perché se ne è parlato molto, i media sono scarsamen-te interessati ai temi della tutela del diritti umani. Se ne discute raramente, per-ché vengono considerati “noiosi” e ripetitivi: argomenti da addetti ai lavori, daminimizzare, nascondere, come la polvere sotto il tappeto, a meno che non si trat-ti di grandi catastrofi umanitarie (genocidi, massacri ripetuti, violazioni sui di-ritti umani per lo più perpetrati da paesi occidentali, soprattutto degli Stati Uni-ti: quelli della Cina, della Federazione Russa e della piccola Cuba non “fanno no-tizia”, così come le sistematiche violazioni sui diritti fondamentali che avvengo-no quasi quotidianamente in Africa, in Asia e in America Latina).

Anche la letteratura - mi riferisco soprattutto alla narrativa e alla poe-sia - è piuttosto avara di argomenti che abbiano come soggetto i bambini sol-dato, le vedove indiane che ancora oggi finiscono sul rogo, insieme al corpodel marito, le donne pakistane col viso devastato dall’acido, le donne cinesi vit-time della secolare schiavitù imposta dagli uomini, i bambini sottoposti a se-vizie e sfruttati anche sessualmente, il nuovo schiavismo, le infibulazioni, ecc.).Certo, non mancano i saggi e i libri di testimonianze, di nicchia, di denuncia,ma si tratta di un fenomeno editoriale molto limitato, con la saggistica che ri-sente pesantemente la crisi e che, soprattutto in questo campo, non “tira” piùcome pochi anni fa.

Del resto, che cosa ci possiamo aspettare se persino un grande storicoscomparso di recente, Eric Hobsbawn, quando gli fu chiesto, nel 1995, se l’averappreso che il massacro di 15 o 20 milioni di uomini, donne e bambini avve-nuto nell’Unione Sovietica, negli anni ’30 e ’40, gli avesse fatto cambiare opi-nione sul comunismo, rispose orgogliosamente di no. Ciò significa, insistettel’intervistatore, che valeva la pena massacrare milioni di esseri umani? «Cer-tamente», ribatté Hobsbawn.

Quello storico era di formazione marxista e, come dimostra un saggio pub-blicato da “Nuova storia contemporanea” (diretta da Francesco Perfetti), giusti-ficò i massacri stalinisti, l’attacco dell’Urss alla Finlandia e persino la repressio-ne russa della rivolta ungherese. Massacri che, lo diciamo per inciso, non erano

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ascrivibili solo all’era di Stalin, ma che risalivano, anzi iniziarono con la rivolu-zione russa per volere di Lenin. Citiamo solo un esempio: il leader carismaticodei Soviet, l’11 agosto 1918, ordinava ai comunisti di Penza: «impiccate assolu-tamente e pubblicamente non meno di cento kulak, ricchi e succhiatori del san-gue del popolo, e pubblicate i loro nomi, togliete loro tutto il grano e preparatedelle liste di ostaggi». Tutta l’operazione veniva fatta “in via amministrativa”, sen-za cioè processi o alcuna garanzia legale. in quei giorni le vittime della repres-sione ordinata da Lenin furono almeno 20 mila. Ecco da chi aveva imparato quel“galantuomo” di Stalin, che –secondo Hobsbawn – “non era totalitario”.

La saggistica, in generale, sulla violazione dei diritti umani non è in al-cun modo paragonabile alla vasta letteratura sulla Shoah, che ogni anno si ar-ricchisce, per fortuna, di nuovi testi.

Nella narrativa le cose cambiano sensibilmente. infatti, dopo il definiti-vo tramonto del “romanzo ideologico”, tipico dell’impegno politico e socialedell’immediato dopoguerra, gli scrittori italiani hanno dimostrato di essere sem-pre più “ reticenti” sui temi sociali e su quelli roventi dei diritti degli esseri uma-ni, e troppo spesso si rifugiano nelle eterne tematiche dell’amore, dei sentimen-ti, delle passioni e dell’evasione.

Eppure scrittori, come ignazio Silone, ebbero molto da dire negli anni ’70,in proposito: «il primo dovere di uno scrittore – scrisse - è la sincerità. E il pri-mo dovere di una società verso i suoi artisti e scrittori è di rispettarne la sin-cerità. Sono pertanto lontanissimo da ogni velleità di far prevalere tra gli scrit-tori una mia particolare concezione delle relazioni tra letteratura e politica. Per-sonalmente io mi sono sempre sentito ‘impegnato’, direi quasi nel senso piùrigoroso del termine: “impegnato”, direi quasi nel senso che il termine ha nelgergo del Monte di Pietà o Monte dei Pegni. Ma sono assolutamente avverso afarne una norma o una misura di valore. Non credo raccomandabile indurrealtri scrittori, che spontaneamente non se la sentono, ad attenersi al medesi-mo criterio. Ogni scrittore deve esprimersi con la sua voce: non deve parlareo cantare in falsetto».

Questa l’opinione di uno scrittore che era stato un importante dirigen-te politico comunista, ma che poi aveva rinunciato al marxismo per il cristia-nesimo e un socialismo umanitario.

Vi sono però saggisti e storici contro corrente, come Steve Pinker, auto-re de Il declino della violenza, che ha scritto un libro di quasi 900 pagine perdimostrare che oltre 100 milioni di morti, fra le due guerre mondiali, la Sho-ah, le vittime dei gulag, i genocidi, i massacri interetnici, la criminalità, il ter-rorismo, ecc. non sono una gran cosa, in un contesto di oltre 15 miliardi di per-sone. in realtà, la cifra andrebbe moltiplicata per due se consideriamo anchele vittime dello stalinismo e del maoismo. Ma lo scrittore Vincenzo Cerami citaquesta cifra ricavandola da un saggio di Charles S. Maier per dimostrare chein realtà il complesso delle vittime (100 milioni di esseri umani) rappresentaappena l’1% della popolazione mondiale vissuta nel corso del Novecento. Madobbiamo essere contenti per questo, come fa Pinker? «È probabilmente veroche l’1% dei delitti è poca cosa, ma è altrettanto vero che le immagini ancoravive dello sterminio ebraico ci raccontano il contrario: di un’epoca di abomi-nio e di crudeltà inaudite» (Cerami).

Nel suo saggio Pinker osserva: «Bisogna guardare i dati. E i dati ci dico-no che nelle guerre ai tempi delle società non statuali (società tribali, quelle do-

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minate dai signori della guerra, ecc.) periva circa il 15 % della popolazione, men-tre oggi non si arriva neppure all’1%. Quanto agli omicidi siamo passati dai 110su 100 mila abitanti nella Oxford del XiV secolo all’1 della Londra di metà delXX secolo.

Se ci riferiamo ai giornali ricordiamoci che le notizie sono le cose che ac-cadono, non quelle che ‘non accadono’.

La tendenza è cambiata. innanzitutto “la pacificazione”, ovvero il pas-saggio dalle società basate sulla caccia a quelle agricole, di circa 5000 anni fa,con cui si registrò un calo di cinque volte delle morti violente. il “processo dicivilizzazione”, tra il Medioevo e il XX secolo con cali negli omicidi tra le 10 ele 50 volte. Poi c’è stata la “rivoluzione umanitaria”, che coincide con l’illumi-nismo, in cui si formano movimenti per l’abolizione della schiavitù, della tor-tura, delle uccisioni per superstizione. La “lunga pace”, dopo la Seconda Guer-ra Mondiale. E poi la “nuova pace”, dalla fine della guerra fredda. Da allora con-flitti, genocidi e attacchi terroristici sono diminuiti rispetto al passato. infinele “rivoluzioni del diritto”, che hanno portato a meno violenze contro gli omo-sessuali, le donne, le minoranze etniche.

Ma tutti questi argomenti sono sufficienti a farci tollerare le attuali gra-vi violazioni dei diritti umani?

Cerchiamo di capire quali sono oggi le più gravi violazioni dei diritti uma-ni nel mondo. Lo facciamo con degli esempi.

Scena prima. Di recente si è diffusamente parlato sui media del vente-simo anniversario del genocidio in Rwanda, che, come è noto, a partire dell’apri-le 1994, in poco più di cento giorni, ha rappresentato il caso più clamoroso disterminio di esseri umani del dopoguerra, dopo quello della Cambogia dei kmerrossi (due milioni di vittime). in Rwanda furono fra 800 mila e un milione i tut-si (ma anche migliaia di hutu) lasciati a pezzi sul campo, oltre ai mutilati e apiù di tre milioni di profughi nei paesi vicini. Se ne è parlato soprattutto perle polemiche sulle responsabilità della Francia. il presidente Kagame ha accu-sato Parigi di “complicità e connivenza” dei francesi con le bande di assassi-ni hutu, che erano a conoscenza del genocidio in corso. Ci sarebbero prove sul-la vendita delle armi agli hutu e cablogrammi che confermerebbero che l’Eli-seo veniva sistematicamente informato sui massacri. La Francia aveva, sottol’egida dell’Onu, 2500 soldati, poi vi erano i militari del Belgio e di altri paesi.Ma il contingente francese, in nome di una dichiarata “neutralità”, non si mos-se per impedire gli assassinii di massa. il generale Romeo Dallaire, canadese,capo della forza militare Onu, venne ostacolato in tutti i modi. in un’intervi-sta (contenuta nel libro di Daniele Scaglione Rwanda, Istruzioni per un geno-cidio (infinito edizioni, 2010), il generale dichiarò: «Se in me c’è una parvenzadi serenità penso sia grazie alle nove pillole al giorno che prendo. Credo siaimpossibile fare come Ponzio Pilato e lavarsi le mani della morte di 800 milapersone, di cui 300 mila bambini. Non puoi allontanarti da tutto quel sangue,da tutte quelle ferite sanguinanti, da tutti quei lamenti… Non puoi dire ‘bene,è successo tutto e io ho fatto quello che potevo’. Davvero ho fatto tutto quel-lo che potevo? Sarei dovuto andare da Kofi Annan o da Boutros Ghali, gettaredavanti a loro il mio incarico e dire: ‘Andate all’inferno. Nessuno è venuto a so-stenermi e io me ne vado’. Avrei dovuto aprire il fuoco? Mi fu subito chiaro chese avessi dato l’ordine di sparare saremmo diventati il terzo belligerante nel

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conflitto. Ma con le forze che avevo a disposizione non c’era modo di parteci-pare agli scontri e garantire la sicurezza dei miei soldati». E così, con la com-plicità dell’Onu, della Francia, del Belgio, degli Stati Uniti e persino della Cina(da dove provenivano un milione di machete) si è compiuta l’ultima tragediaumanitaria del “secolo breve”.

Scena seconda. i talebani non amano le donne istruite. Da tempo utiliz-zano il gas nelle aule scolastiche per cacciar via le bambine. Sono molte deci-ne le scuole prese di mira con armi chimiche: centinaia di alunne sono statericoverate in ospedali. L’obiettivo è la chiusure di tutti i centri scolastici. Nau-sea, vomito, svenimenti, le membra semiparalizzate. il “gas dei talebani” stamietendo centinaia di vittime anche a Kabul, ma la maggior parte degli atten-tati si registra a Kunduz, vicino al confine con l’Uzbekistan. Un recente rappor-to di “Save the Children” afferma che, tra il 2006 e il 2008, si sono registrati2.450 attacchi alle scuole, in cui sono stati uccisi dai fondamentalisti islamici235 persone, fra studenti, insegnanti e altro personale scolastico. Almeno 300mila bambine non potranno accedere all’istruzione a causa delle violenze de-gli “studenti di Allah” nelle zone controllate dai talebani. Del resto che cosaci si può aspettare da musulmani educati a deridere e schiavizzare le donne?Da una parte, infatti, c’è la nuova Costituzione (approvata nel 2004), dall’altrail “codice di comportamento” deciso dal Consiglio degli Ulema nel 2012. E pre-vale sempre quest’ultimo: le donne afghane continuano ad essere picchiate daimariti, sono costrette ad essere sempre accompagnate, non possono parlarecon gli estranei, sono sottoposte ad angherie e violenze inaudite. Lo esigonoi fondamentalisti afghani a dispetto della conclamata parità tra donna e uomodi fronte alla legge. E così tra i grandi problemi che ancora affliggono le don-ne afghane tre risultano di particolare importanza: i diritti individuali, l’istru-zione e la salute. Ma la lunga guerra non ha risolto questi problemi di tuteladei diritti delle donne. Le intellettuali di genere femminili sono sempre odia-te, combattute e uccise. È accaduto a una donna simbolo di 49 anni, Sushmi-ta Banerjce, una scrittrice che lavorava in ospedale come ostetrica nel villag-gio di Daygan Soraia. Un gruppo di uomini l’ha cercata a casa, hanno legato ilmarito e l’hanno trascinata in strada: le hanno sparato venti colpi, le hanno strap-pato i capelli, buttando il suo corpo davanti a una scuola coranica.

Scena terza. Ancora le donne protagoniste, ma sempre vittime degli uo-mini, dei regimi totalitari e, talvolta, delle stesse donne… quelle potenti del si-stema, succube della cultura tribale e del fondamentalismo religioso.

Basta spostarsi in india per trovare orrori simili che ci ricordano che lìle donne vivono ancora in stato di schiavitù. il 17 maggio 2013 in india, nelloStato dell’Uttar Pradesh, due donne musulmane sono state arrestate perché ave-vano ucciso le loro due figlie, colpevoli di essere fuggite con due uomini hin-du contro la volontà delle famiglie. Le vittime, amiche fra di loro (si chiama-vano Zahida, di 19 anni, e Husna, di 26 anni), si erano innamorate di due ma-novali di fede hindu, conosciuti nella loro cittadina di Baghpat. Nonostante l’op-posizione dei genitori, si erano sposate ugualmente. in india i matrimoni in-terreligiosi, come quelli fra caste diverse, sono ancora vietati. Le due ragazze,dopo pochi giorni, erano tornate a casa con l’intenzione di riconciliarsi con igenitori, ma le madri le hanno strangolate nel sonno. E, sempre in india, il 2014

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si è aperto come il 2013, con una ragazza morta dopo un brutale stupro di grup-po, a cui è seguita la rabbia e l’indignazione di migliaia di persone in piazza.Le aggressioni sessuali si ripetono con maggiore frequenza del passato. Que-sta volta hanno preso di mira una ragazza di appena 16 anni e per di più in-cinta. La ragazza aveva trovato il coraggio di sporgere denuncia alla polizia equasi sicuramente è stata “punita” anche per questo. Nei primi dieci mesi del2013 sono stati denunciati 1330 casi di stupro a New Delhi (dati della CorteSuprema) e 7200 i bambini stuprati ogni anno in india (dati Unicef).

Del resto nel vicino Pakistan le donne vengono condannate a morte an-che per blasfemia. il caso più clamoroso è rappresentato da Asia Bibi, una don-na cristiana di 45 anni, di un villaggio del Punjab, condannata alla pena capi-tale per avere pronunciato, nel corso di una lite con delle compagne di lavo-ro, delle frasi ingiuriose nei confronti del profeta Maometto. Del suo caso siera interessato Shahbas Bhatti, ministro per le minoranze religiose; aveva so-stenuto la liberazione di Asia e l’abolizione della iniqua legge sulla blasfemia.Ma il cristiano Bhatti, com’è noto, è stato assassinato. Grazie alla campagna di“Zapping”di qualche tempo fa (che raccolse in sei mesi oltre 160 mila firme in-viate al presidente del Pakistan), Asia si è salvata dalla pena capitale, ma è an-cora in carcere in attesa di un nuovo processo.

Nel vicino Bangladesh si trovano le bimbe drogate delle città bordello.Ad esempio, a cento chilometri da Dacca, a Tangail, vi sono 17 case di tolle-ranza con baby prostitute di 12-13 anni (ve ne sono oltre 1000). Queste bam-bine, per guadagnare peso e curve, vengono costrette a ingoiare la cow pillo,la pillola per le mucche, uno steroide che si dà alle mucche per farle ingrassa-re. Questo “trattamento” produce effetti devastanti sull’organismo: provoca ildiabete e attacca il fegato, alza la pressione e crea forte dipendenza.

Ma la violenza sulle donne non ha confini. il caso più emblematico in Ame-rica Latina è quello di Ciudad Juarez, una città messicana ai confini con gli Sta-ti Uniti, tristemente nota per lo stillicidio continuo di uccisioni di giovani don-ne: migliaia in pochi anni. il numero esatto non è noto; quasi ogni giorno si ri-trovano corpi di donne violentate e abbandonate nel deserto. E non si riescemai a individuare i responsabili. L’impunità impera in una città dominata daiclan dei narcotrafficanti. Ma il “femminicidio” non è diffuso solo in Messico.A Città del Messico una trasmissione televisiva quotidiana intitolata “Laura”,dal nome della giornalista che lo conduce, denuncia ogni giorno sparizioni, vio-lenze e assassinii di giovani donne.

La persecuzione di genere da anni ha oltrepassato i confini di questo Sta-to e si è estesa a tutta l’America centrale, in particolare negli Stati di El Salva-dor, Honduras e Guatemala. Lo chiamano il triangolo della violenza, dove unadonna può essere uccisa solo per il fatto di essere uscita di casa per andare alavorare o a scuola (negli ultimi dieci anni più di 5 mila donne del Guatemalasono state stuprate e poi uccise).

Amareggia profondamente l’impunità di cui, nella gran parte dei casi, go-dono i responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani: né i governi, né le Na-zioni Unite riescono a fronteggiare con efficacia l’escalation della violenza. Eppu-re gli strumenti sovranazionali esistono, a cominciare dall’Alto Commissariato del-le Nazioni Unite per i Diritti Umani, attualmente diretto da Navanethen Pillay, chedi recente ha celebrato i venti anni di vita. Proprio la signora Pillay, in un inter-vento al Senato (10 marzo 2010), ha ribadito che l’italia ha svolto un ruolo fon-

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damentale nell’inserire il tema della lotta alla violenza alle donne nell’agenda delG8, «esplicitamente definita una violazione dei diritti umani e, per certi versi, an-che un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità».

Scena quarta. La Repubblica popolare cinese sta per superare gli Stati Uni-ti nella crescita economica. Se anche nel 2014 la Cina registrerà un incremen-to del pil vicino al 10%, il sorpasso con l’economia americana diventerà una re-altà. Ma la Cina (un miliardo e 300 milioni di abitanti) continua a rimanere aigradini più bassi nel mondo per la tutela dei diritti umani (pena di morte, tor-tura, persecuzione delle minoranze etniche e religiose: tibetani, musulmani, cri-stiani, uiguri, ecc.). La Cina continua ad occupare il 174° posto nella graduato-ria della libertà d’espressione su180 paesi.

Scena quinta. O l’inferno, come si potrebbe definire. Ci riferiamo alla Co-rea del Nord, col presidente-tiranno sanguinario Kim Jong-Un, che non ha avu-to alcun riguardo neppure per i suoi parenti (di recente ha fatto uccidere suozio con tutta la famiglia, compresi i bambini piccoli). Ogni anno nei lager si re-gistrano non meno di 10 mila prigionieri politici assassinati o fatti morire difame. Ve ne sono rinchiusi oltre 200 mila; vengono sottoposti a torture e a de-nutrizioni: la razione di base è di 14 fagioli al giorno. Si calcola che dal 1948in Corea del Nord siano stati uccisi o fatti sparire circa due milioni di perso-ne nel vasto arcipelago gulag del regime comunista di Pyongyang.

Scena sesta. il Darfur è un paese dominato da molti anni da una ditta-tura sanguinaria (Omar Hassan Al Bashir, presidente del Sudan) e sostenutodalla Cina (scambio di armi con materie prime, come il petrolio). Le Nazioni Uni-te hanno dimostrato un’impotenza ed incapacità di grandi dimensioni. Ban Ki-Moon non ha mai trovato il coraggio di definire quello nel Darfur un “genoci-dio” (anche se il Tribunale Penale internazionale ha chiesto da tempo l’arrestodi Al Bashir per crimini contro l’umanità) e di agire per fermare le stragi, pro-mosse dal regime sudanese di Khartoum. Ma Ban Ki –Moon il 16 giugno del 2007ha dato una stupefacente spiegazione per le 400 mila persone, assassinate dabande di guerriglieri arabi (che hanno bruciato villaggi, distrutto pozzi, pian-tagioni, allevamenti, stuprato donne, abusato di bambini e bambine, venden-doli poi come schiavi). il segretario delle Nazioni Unite ha commentato, pur-troppo, seriamente: «il conflitto in Darfur è parte del surriscaldamento globa-le». in altre parole, le fosse comuni, gli orrori avvenuti – e ancora in corso- sa-rebbero da attribuire al deserto che avanza, ai cambiamenti climatici!

Ma cerchiamo di “avvicinarci” il più possibile alla definizione di tuteladei diritti umani. Lo scrittore Alessandro Baricco ha provato a spiegare a suofiglio, di 11 anni, che cosa siano questi diritti fondamentali degli esseri uma-ni, ma non senza difficoltà, nonostante si fosse avvalso di un opuscolo di Am-nesty international. Ha scritto: «Gli [al figlio] ho spiegato che a noi non piaceil fascismo perché c’erano le autostrade ma non la libertà. -Libertà di fare cosa?-,mi ha chiesto mio figlio. Molte libertà, ho cercato di spiegargli, ma se voglia-mo andare al cuore del problema non c’era una reale, effettiva libertà di pen-sare quello che volevi e di esprimerlo ad alta voce. A parte il fatto che se tro-vavi da ridire sul regime ti ritrovavi senza lavoro o in galera, o peggio, ma aparte questo, il problema era che proprio ti si impediva di avere un cervello

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tuo, con dei pensieri, delle tue idee, magari anche sbagliate, o un po’ grulle, matue. Tutti in fila a imparare le parole d’ordine del capo, e fine della libertà dipensare, gli ho detto.»

Peccato che Baricco si sia limitato a parlare del regime fascista, senza esten-dere il discorso a Hitler, a Stalin, a Mao, a Pol Pot, a Fidel Castro e a tutti gliinnumerevoli dittatori e dittatorelli che ancora oggi dominano tanti paesi del-l’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Non solo, ma non ha saputo spiegarea suo figlio che i diritti fondamentali degli esseri umani non sono costituiti dal-la generica (anche se importante) libertà. Per far capire questo concetto ha fat-to l’esempio di Cuba dove si può navigare col computer, ma si può entrare “solo”in 15 siti. E suo figlio è rimasto esterrefatto dai limiti imposti dal regime. MaBaricco non ha detto nulla sul fatto che i giovani non possono uscire dall’iso-la, né per vacanza, né per motivi di studio e di lavoro e neppure se devono far-si curare o operare in un ospedale.

Quel vento di libertà nel Nord Africa e nel Medio Oriente fa sperare peril meglio in direzione di una vera democrazia e dei diritti umani. Ma non si puòessere troppo ottimisti; talvolta le rivoluzioni portano ad altri regimi autori-tari e ancora più illiberali dei precedenti, che avevano negato la libertà, la de-mocrazia vera e i diritti dei cittadini. i regimi a partito unico sono tuttora nu-merosi nel mondo: vi sono quelli che ancora si definiscono comunisti o del “so-cialismo reale”, come Cuba, Cina, Vietnam, Corea del Nord, e quelli influenza-ti o dominati dall’islam fondamentalista, come l’iran .

A oltre 65 anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ap-provata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, i paesi di tutto il mondo re-gistrano un bilancio tutt’altro che positivo. Lo vedremo dopo.

intanto prendiamo atto del fatto che la lotta per la tutela dei diritti uma-ni avviene in un mondo caratterizzato da conflitti e tensioni interne molto ro-venti in diverse aree del mondo. Non solo, ma i governi dei paesi in via di svi-luppo devono affrontare sfide molteplici: dalla crisi economica globale, al cam-biamento climatico, al crescente degrado ambientale, alla instabilità politica,alla fame, alle pandemie e, come si è detto, in molti casi, anche ai conflitti ar-mati. Lo si è visto tragicamente nei Balcani, con la disgregazione della ex-Ju-goslavia e le tragedie che ne sono seguite, anche con gravi crimini di guerra econtro l’umanità (in Bosnia, nel Kossovo, in Serbia). Per non parlare dei mas-sacri e dei genocidi asiatici e africani: dalla Cambogia di Pol Pot (due milionidi vittime per decisione dei kmer rossi), al Rwanda nel 1994 .

Fra i diritti fondamentali degli esseri umani le Nazioni Unite riconosconoda tempo il diritto all’alimentazione. Lo ribadiscono spesso anche tutte le orga-nizzazioni internazionali (Oms, Fao, Commissariato per i rifugiati, Oil, Unicef, ecc.),visto che almeno due miliardi di esseri umani vivono nella povertà: non sono ingrado, cioè, di soddisfare necessità primarie, come disporre di un alloggio digni-toso, di cibo, assistenza sanitaria, istruzione per i figli, acqua, e quasi 900 milapatiscono letteralmente la fame. D’altra parte ormai sappiamo che esiste l’altrafaccia della medaglia: un miliardo e 400 milioni di persone che abusano di cibo,lo sprecano, lo buttano via. Mezzo miliardo di persone sono obese.

il costo della malnutrizione - ha denunciato di recente la Fao - pesa per500 dollari a persona, per ciascun cittadino del mondo, compresi i neonati. Giu-stamente ha osservato qualche tempo fa Kofi Annan (segretario delle Nazio-ni Unite dal 1997 al 2006): «La povertà è la nostra più grande vergogna. Fin-

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ché tra ricchi e poveri continueranno ad esistere grosse disuguaglianze, nonpotremo dire di aver fatto sufficienti progressi verso la realizzazione degli am-biziosi ideali espressi 60 anni fa. il problema della povertà esige la nostra at-tenzione non solo per il numero degli individui coinvolti (oltre due miliardi chesoffrono la fame ) ma anche perché, se non riusciremo a contrastare le altreminacce globali, saranno i poveri a subire le peggiori conseguenze.»

Ora anche la povertà – e giustamente - è entrata a pieno titolo nella tu-tela dei diritti degli esseri umani. Lo sostiene anche irene Khan, una donna ben-galese che è stata, nel 2001-2009, segretaria generale di Amnesty internatio-nal, nel libro Prigionieri della povertà (Bruno Mondadori). Ha osservato la Khanche quasi metà della popolazione mondiale vive in condizioni di povertà -dal-l’Egitto al Messico, all’Angola, al Pakistan, al Bangladesh, al Darfur- e nel suolibro dimostra con argomenti solidissimi che la povertà è la causa prevalentedelle violazioni dei diritti umani. Per queste ragioni non è concepibile oggi unastrategia di difesa dei diritti degli esseri umani senza mettere al centro la “guer-ra” alla povertà. Nell’ultima relazione come segretaria di Amnesty (2009), ire-ne Khan ha insistito molto sul rapporto povertà-violazioni dei diritti umani. Hadetto: «Come nel caso dei cambiamenti climatici, così accade per quanto riguar-da la recessione economica globale: i ricchi sono responsabili della maggior par-te delle azioni dannose, ma soni i poveri a subirne le peggiori conseguenze. Dailavoratori migranti in Cina ai minatori della regione del Katanga, nella Repub-blica Democratica del Congo, la gente che cerca di tenersi fuori dalla povertàsubisce conseguenze terribili. La Banca Mondiale ha stimato che nel 2014 al-tri 53 milioni di persone saranno diventate povere andando ad aggiungersi ai150 milioni già colpite dalla crisi alimentare del 2008, annullando di conseguen-za i progressi conseguiti nel passato decennio. Secondo l’Oil (Organizzazioneinternazionale del Lavoro), tra i 18 e i 51 milioni di persone potrebbero per-dere il lavoro. L’aumento vertiginoso dei prezzi dei prodotti alimentari è cau-sa di fame, malattie, sgomberi forzati, ipoteche su beni personali, mancanzadi abitazione e disperazione.» È inevitabile l’impatto di tutto questo sui dirit-ti umani.

La situazione non è migliorata negli ultimi anni. Anzi, il Rapporto 2012di Amnesty international (con l’analisi dei diritti umani in 198 paesi) documen-ta casi di restrizioni della libertà in 89 paesi, casi di dissidenti (“prigionieri dicoscienza”) in 48 paesi, denuncia torture e altri maltrattamenti in almeno 98paesi e riferisce di processi iniqui in almeno 54 paesi.

in Cina le autorità fanno capire che le esecuzioni ogni anno si aggiranosui 1000 casi, ma le ONG sui diritti umani sostengono che bisogna almeno de-cuplicare quella cifra. il regime, infatti, non rivela ufficialmente il numero deigiustiziati, anzi lo definisce ancora un “segreto di Stato”. Allo stesso modo sicomportano la Corea del Nord, il Vietnam e la Malaysia. Al secondo posto tro-viamo l’iran (314 esecuzioni), seguito da iraq (129, raddoppiando il numero ri-spetto al 2011), Arabia Saudita (79), Stati Uniti (43, anche se il Connecticut èdiventato il 17° Stato abolizionista), Yemen (28), Sudan (19), Afghanistan (14),Gambia (9) e, al decimo posto, il Giappone (7). La pena di morte viene ancoracomminata, anche per reati non di sangue, in Cina, india, iran, indonesia, Pa-kistan, Arabia Saudita, Singapore, Thailandia, Yemen, Malaysia, Emirati arabi(traffico di droga); in Pakistan e iran (blasfemia, apostasia, ostilità verso Dio,adulterio, sodomia); in Cina (reati economici); in Kenya, Zambia, Arabia Sau-

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dita (furto aggravato, stupro e stregoneria).Come si vede, nel terzo millennio si può essere ancora condannati al pa-

tibolo per stregoneria, adulterio e furto.

Sulla nascita del concetto di diritti umani vi è sempre stato storicamen-te un grande dibattito (ma anche polemiche infuocate ) tra gli studiosi libera-li, quelli di matrice socialista e quelli di ispirazione cristiana. È vero che la pri-ma grande teoria espressa nel mondo moderno dei diritti inviolabili e impre-scrittibili degli esseri umani è stata elaborata da un pensatore cristiano, JohnLocke, la cui dottrina ha avuto un grande rilievo nella civiltà occidentale. NelSecondo trattato sul governo (1690) Locke afferma che il potere politico, cheviene istituito dagli uomini al fine di proteggere la loro vita, la loro libertà e iloro beni, non può avere più diritti di quelli che gli vengono trasmessi. Vita,libertà e beni sono infatti diritti umani insopprimibili e le «obbligazioni dellalegge di natura - dice Locke - non cessano nella società, ma in molti casi diven-tano più coattive». Gli stessi concetti li ritroviamo nei filosofi marxisti e negliintellettuali e politici del filone socialista libertario e anarchico (da Turati, a Pram-polini, alla Kuliscioff, alla Balabanoff, a Bakunin, a Errico Malatesta, sino a Buoz-zi, Silone, Nenni, Pertini e Saragat).

Ma quando si parla di diritti umani il nostro pensiero va subito alla Di-chiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dell’89 a Parigi. C’è però da ri-cordare che quello storico documento ha alle spalle i Bill of Rights sugli statiamericani (Massachusetts, Virginia, North Carolina, Maryland, ecc.) che i rivo-luzionari francesi conoscevano molto bene. infatti, senza la Dichiarazione deidiritti degli Stati americani, sicuramente non ci sarebbe stata la Dichiarazio-ne francese dell’89. Lo hanno confermato gli studi di George Jellinek, nel suosaggio La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Jellinek ha osser-vato che «l’idea di fissare in forma di legge i diritti innati, inalienabili e sacridell’individuo non è di origine politica, bensì religiosa». Ovviamente, come siè detto, gli intellettuali di cultura liberale e socialista la pensano diversamen-te. Ma non credo che questo confronto di idee sulle radici storiche dei dirittiumani sia oggi molto importante. Forse è più significativo ricordare che, dopola Shoah, con i processi di Norimberga ai gerarchi nazisti, condannati per cri-mini contro l’umanità, è nata la Dichiarazione Universale del Diritti dell’Uomodel 1948 e, successivamente, la Carta europea dei diritti dell’uomo del 1950,una Convenzione ratificata dai 47 Stati membri che salvaguarda i diritti del-l’uomo e protegge le sue libertà fondamentali. Grazie a questo trattato, l’Unio-ne Europea ha il potere di intervenire per combattere le discriminazioni, ba-sate su sesso, razza, origine etnica, età e orientamento sessuale. Una “Carta”che è stata ampliata e arricchita di nuovi diritti il 18 dicembre 2000. Nei suoi54 articoli si parla di dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, conalcune “disposizioni finali”. Principi che prefigurano quelli della CostituzioneEuropea, ispirata ai più alti obiettivi della convivenza. Ma, anche nella conqui-sta dei diritti umani, purtroppo non c’è nulla di irreversibile. Sono diversi i pae-si europei, fra cui la Gran Bretagna, che considerano sempre più la Convenzio-ne come un “fastidio” e, di tanto in tanto, minacciano di uscirne. Secondo il pre-mier David Cameron la “Carta” impedisce il rapido espatrio di “soggetti inde-siderati”, come sospetti terroristi, che per evitare l’espulsione si appellano pro-prio ai principi sanciti dalla Convenzione. È lo stesso “fastidio” che hanno por-

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tato gli Stati Uniti a non aderire al Tribunale Penale internazionale, per il timo-re di possibili incriminazioni di propri militari nelle operazioni di guerra nel-le diverse aree del mondo.

Con questi importanti documenti di principi ha cominciato tuttavia adavviarsi quella “cultura” dei diritti individuali e collettivi delle persone che inpassato non erano mai stati tenuti in alta considerazione. C’è però da osser-vare che le “Carte dei principi”, sottoscritte dalla maggior parte degli Stati delmondo, non sempre hanno trovato applicazione. Anzi, in molte aree della Ter-ra, sono sempre state considerate assolutamente teoriche e comunque “non ap-plicabili”. Le guerre locali, di indipendenza, di liberazione dal colonialismo, dioccupazione, di conquista, di “difesa”, asimmetriche, ecc. non hanno mai ce-duto il passo alla diplomazia, al confronto, alla pace, al rispetto dei diritti de-gli esseri umani. Non solo, ma in questi ultimi decenni il coinvolgimento deli-berato e pianificato delle popolazioni civili nei conflitti è stato costante, conla conseguenza che sono state oggetto di violenze e di attacchi da parte dei com-battenti armati (come confermano anche le nefaste “pulizie etniche”). Donne,anziani, bambini sono diventati spesso l’obiettivo primario degli eserciti e de-gli altri gruppi armati. Gli studiosi stimano che ormai le vittime civili nei con-flitti superino l’80%, rispetto al 20% di quelle militari. Fra le vittime bisogna an-che considerare lo “stupro di guerra” nei confronti delle donne e dei bambini(violentati, torturati, uccisi, ma in diverse regioni - come l’Africa, l’Asia e l’Ame-rica Latina - vengono utilizzati anche come schiavi e soldati). Le donne e i bam-bini sono sicuramente “l’anello debole” di una catena di odio, di scontri arma-ti, che si traducono in orrori indescrivibili, soprattutto in Africa, dove le guer-re sono ancora numerose e influenzate dai vecchi e nuovi colonialismi (fra que-sti ultimi ormai spicca particolarmente la Cina).

Oggi esistono numerose Convenzioni internazionali e, dal 2002, la Cor-te internazionale dell’Aja. Ma i paesi su cui ha giurisdizione questo Tribuna-le sui crimini contro l’umanità non è stato riconosciuto da molti paesi (fra cui,come si è detto, gli Stati Uniti, ma anche iran, Sudan, israele, Russia, india, Cina).Di conseguenza i suoi poteri sono, purtroppo, ancora limitati.

Pensiamo che le dichiarazioni di principi, le Convenzioni delle NazioniUnite e delle sue agenzie per essere rispettate (come la moratoria sulle esecu-zioni capitali) devono essere tradotte in leggi dai paesi firmatari. Se questo nonavviene, le convenzioni e le delibere assembleari dell’Onu si traducono in sem-plici esortazioni, totalmente inefficaci o semplici denunce all’opinione pubbli-ca, che lasciano il tempo che trovano, con un valore persino meno significati-vo di quelle di Amnesty international, dell’Unicef, di Save the children e dellealtre ONG umanitarie. Tuttavia l’impegno sistematico nella denuncia, le insi-stenti iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica possono portare col tem-po a risultati molto positivi. Ad esempio, grazie alla continua mobilitazione del-l’opinione pubblica internazionale, è diminuito il numero dei paesi che fannoricorso alla pena di morte. in un decennio, infatti, grazie anche alle moratoriesulle esecuzioni decise a partire dal 1999, i boia sono stati mandati in pensio-ne in 31 paesi, mentre - come si è detto - Cina, iran, Arabia Saudita, Stati Uni-ti e Yemen restano tra i paesi che più frequentemente ricorrono alle esecuzio-ni. Ma, mentre le esecuzioni degli Stati sembrano essere in declino, un nume-ro crescente di paesi continua a emettere condanne a morte per reati legati alladroga, di natura economica, per relazioni sessuali tra adulti consenzienti e per

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blasfemia (il caso di Asia Bibi), violando il diritto internazionale dei diritti uma-ni che indica l’uso della pena capitale solo per i reati più gravi.

Nel complesso il bilancio delle Nazioni Unite non è stato molto entusia-smante nell’ultimo decennio. Nel 2004, ad esempio,13 Stati su un totale di 53,della vecchia Commissione dei Diritti Umani dell’Onu, non erano governati dasistemi democratici. Oggi sono addirittura 21 i paesi membri del rinnovato Con-siglio dei Diritti Umani giudicati dittatoriali o comunque illiberali. Se la situa-zione al tempo del segretario generale Kofi Annan era contrassegnata da cor-ruzione, nepotismo e irresponsabilità politica, oggi col segretario Ban Ki-Moonè anche peggio. Ma non è della gestione del Palazzo di Vetro e delle agenzieOnu che vogliamo occuparci, ma piuttosto dello smarrimento, delle difficoltànel mettere in atto in ogni parte del mondo direttive e principi universali chefacciano compiere progressi reali ai diritti delle donne, dei minori, degli anzia-ni e, con loro, a quelli delle minoranze etniche e religiose. infatti non passa gior-no senza che da qualche parte del mondo non giungano notizie di pulizie et-niche, stupri, assassinii politici o detenzioni illegali (dall’Africa, alla Birmania,alla Cina, all’iran, alla Corea del Nord, all’America Latina).

in quest’ultimo subcontinente ricordiamo le gravi e sistematiche viola-zioni che avvengono in Venezuela, da parte del presidente Nicolas Maduro. ilsuccessore del dittatore Chavez, che guida una nazione considerata il quartoproduttore di petrolio nel mondo, sta portando il paese sull’orlo della banca-rotta. Non solo, ma Maduro ha ristretto gli spazi di libertà, bandendo persinole telenovelas perché – ha commentato - «fomentano l’odio e lo spirito nega-tivo di emulazione».

Ricordiamo poi anche il regime castro-comunista di Cuba. Si sperava cheil cambio della guardia, da Fidel al fratello Raul Castro, potesse rappresenta-re un cambiamento reale nell’allargamento degli spazi di libertà e di tutela deidiritti umani. Una pia illusione, subita svanita. il rinnovamento è stato timidoe scarsamente efficace: le carceri continuano a riempirsi di dissidenti e le pro-teste vengono messe a tacere, con la sempre più rigida repressione di ogni for-ma di libertà di stampa e di opinione.

Non si registra dunque una vera tregua nelle violazioni dei diritti umani.E, come si è detto, non bastano le leggi, le convenzioni, i trattati e le raccoman-dazioni dell’Onu e dei parlamenti sovrannazionali, come quello europeo. Non sonosufficienti neppure i “controlli”, le indagini, le ispezioni di organizzazioni inter-nazionali, come Amnesty e Human Right Watch, che tuttavia svolgono un fonda-mentale lavoro di “sentinelle” dei diritti, con denunce e campagne internaziona-li. Talvolta però singoli testardi “cacciatori di dittatori” compiono temerarie ope-razioni di gran lunga superiori a quelle fatte da grandi e attrezzate ONG; opera-zioni individuali che rimarranno nella storia delle “imprese” umanitarie. Come quel-le realizzate dall’avvocato Reed Brody, che ha trascorso trent’anni per inchioda-re alla sbarra dittatori terribili, come il cileno Augusto Pinochet, l’haitiano “BabyDoc” Duvalier, il chadiano Hissène Habrè, col seguito di stuoli di aguzzini respon-sabili di atrocità inaudite in America Latina, Africa e Asia. Ha dichiarato di recen-te questo “cavaliere dei diritti umani”: «Per farcela, servono una volontà tetrago-na, corvées snervanti di ricerche e di viaggi e soprattutto la profonda convinzio-ne che anche un semplice cittadino possa cambiare il mondo».

La sensibilizzazione umanitaria dell’opinione pubblica è cresciuta mol-to in questi ultimi anni. Una constatazione che contrasta nettamente con l’al-

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to prezzo di sangue e di sofferenze (citiamo, ad esempio, la persecuzione co-stante dei cristiani in diversi paesi dell’Asia e dell’Africa) che continuiamo aregistrare. E questo perché le istituzioni, internazionali e nazionali, i partiti po-litici, i sindacati e le stesse strutture religiose, non sempre si impegnano condecisione e continuità, promuovendo leggi e iniziative efficaci, al fine di supe-rare la fase delle semplici e inconcludenti esortazioni.

C’è, infine, una riflessione che vorremmo tentare, prendendo in presti-to anche il contributo di un lucido intellettuale, che ha ormai superato i cen-to anni. Nel suo libro Irritazioni (Castelvecchi), Gillo Dorfles scrive: «Stupiscee indigna il fatto che di fronte a delle situazioni penose, sgradevoli addirittu-ra estreme, come stupri, omicidi, fondamentalismi religiosi, la gente sia, nondico del tutto indifferente, ma poco partecipe. Come è anche incredibile la sma-nia di avvicinare cose strepitose, occasioni eccezionali. in fondo, rispetto a que-sto aspetto sociale molto negativo, una ‘catastrofe’, nel senso di qualcosa chesmuove sin dalle basi la nostra stessa esistenza, potrebbe essere in un certosenso anche positiva. O forse l’unica soluzione. Perché sia il fanatismo che l’in-differenza, complementari come sono, si rivelano entrambi molto perniciosi.Da una parte attentati ed eccidi terribili, dall’altra si vedono persone passarecome se niente fosse, nella completa assenza di partecipazione, di fronte allamiseria, alla povertà, alla sporcizia, di cui abbiamo esempi continui… Cinquan-ta o sessant’anni fa c’era meno indifferenza? Quando erano meno sviluppatii mass media, l’uomo era più sensibile alle sventure altrui? io credo di sì… Hola sensazione che oggi ci sia una certa anestesia indotta sicuramente dall’as-suefazione. il nostro video quotidiano è il grande corruttore etico, e la video-crazia è l’oggetto di tante mie irritazioni. Attraverso la televisione siamo or-mai abituati ad assistere ogni giorno a spettacoli molto spesso clamorosamen-te negativi. Pensiamo soltanto al dramma degli incidenti sul lavoro. Oggi av-vengono ogni giorno e l’indomani si è dimenticato tutto ( ma questo vale perogni sorta di tragedia umanitaria n.d.a). La tv ha anestetizzato la sensibilità».

Concordo pienamente con quanto afferma un grande saggio come GilloDorfles, ma sono convinto che gli esseri umani possono fare molto di più oggi,a condizione che riescano a muoversi al di fuori di ogni fanatismo politico e re-ligioso; se riescono a far prevalere la ragione, anteponendo l’azione per combat-tere ogni forma di violenza al fine di “costruire” un nuovo umanesimo, che vedaal centro di ogni iniziativa la libertà, la crescita civile e culturale dell’uomo e del-la donna, come individui, con i loro diritti e i loro doveri verso la comunità.

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DUE POESIE

di Milena Buzzoni

GENOVA COME UN MALUMORE

Camminando per vicoli buiseguo la mappa del mio umore:affiora l’umidità sulle paretisconnesse le pietre del selciatola luce sembra lontanacome un’infanzia dimenticata.San Matteo, vico del Filo, Canneto:prendo fiatonello slargo di una piazzache somiglia a un cortile.Senza cielomi perdotra colonne lasciate come relitti su una facciata,archi ciechi, portoni spenti, madonne mutilate.Svolto, faccio un passo, torno indietro.Uscirò maia contare i raggi dell’alba?Poi di colpoBanchi e Caricamento.i bagliori dell’acqua in piedi sul porto,l’odore del sale che ha vinto la muffa,il colore del vento che adesca la luce.Rinasco nella città rinata.

SONO TE

Sono tenello specchio che il tempo deforma,nella voce un po’ roca,nella pronuncia della stessa parola,nella spalla ricurva,nel braccio abbronzato e smagrito,nell’anelloche germoglia tra le ditacome un fioresu una radice appassita,nel sopracciglio all’ingiù.Sono tee forse qualcosa di più:sono una figlia pentita

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VERISIMILE, DILETTO E GIOVAMENTO

di Franca Alaimo

La modernità di un’antica ricetta poetica nel romanzo Il libro e l’animadi Davide Puccini

A pag. 92 del romanzo Il libro e l’anima (LietoColle, Faloppio (Co) 2015,pp. 209, € 13), l’autore Davide Puccini cita un’ottava dal canto iV dell’Orlandofurioso di Ludovico Ariosto, nella quale si legge di un singolare duello tra Bra-damante e Atlante, entrambi muniti di armi magiche: rispettivamente un anel-lo e un libro. Quest’ultimo ha il potere di trasformare, una volta letti, nomi everbi relativi all’arte della guerra in gesti ed eventi concreti. Si tratta, come scri-ve lo stesso autore, di una metafora che “svela i grandi poteri del libro”; e difatto, al di fuori di ogni dimensione fantasiosa, molti lettori conoscono l’espe-rienza di una fascinazione profonda subita da un qualche libro, al quale de-vono, se non addirittura un mutamento di rotta esistenziale, una risposta im-portante a certe personali ed irrisolte domande.

Dante cade “come corpo morto cade”, dopo avere ascoltato Francesca rac-contare la sua drammatica esperienza d’amore e morte (nel canto V dell’Infer-no), non solo perché mosso da compassione, ma anche perché si sente comesopraffatto dal peso di un dilemma relativo alla sua precedente produzione let-teraria e, in generale, al ruolo dell’intellettuale nella società. infatti, la famosaautodifesa di Francesca, che esclama accoratamente: “Galeotto fu ’l libro e chilo scrisse” - in quanto spinse lei e l’amante Paolo ad abbandonarsi alla passio-ne, imitando il modello comportamentale degli adulteri Lancillotto e Ginevra- investendo globalmente una concezione della donna e una letteratura amo-rosa, di fatto moralmente devianti, solleva il problema della corresponsabili-tà etica dello scrittore. Alla luce di questa antica e vexata quaestio può esse-re letto il titolo Il libro e l’anima che Puccini ha scelto per il suo romanzo, an-ticipando ai suoi lettori i termini di una relazione che si svilupperà con una se-rie di colpi di scena fino alla tormentata decisione del protagonista di gettaretra le fiamme un libro che potrebbe arricchirlo e renderlo celebre, ma che glicosterebbe quella che Francesco d’Assisi chiama nel suo celebre Cantico “la mor-te secunda”, cioè quella dell’anima.

La presenza dell’elemento magico e di quello meraviglioso all’interno del-la trama del romanzo, nonostante il palese realismo e le caratteristiche di con-temporaneità della vita quotidiana del protagonista, nonostante la vivida de-scrizione (solo di poco alterata per ovvie esigenze narrative) dei luoghi in cuiessa si svolge, facilmente identificabili con quelli della cittadina di Piombinoin cui ha dimora l’autore, fa di esso un testo non catalogabile, che probabilmen-te è stato concepito da un insieme di intenzioni prima che da una pura neces-sità narrativa. È chiaro, infatti, che tra i due termini della relazione libro-ani-ma a Puccini interessa il secondo, come si evince dal lungo dialogo (nel capi-tolo finale) fra il protagonista del romanzo e la moglie intorno al problema, for-

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se il più delicato e dibattuto, del rapporto fra Dio e l’uomo: quello della pre-scienza divina e del libero arbitrio umano, a cui sempre Dante dà una rispo-sta: “La contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra matera non si sten-de, / tutta è dipinta nel cospetto etterno; / necessità però quindi non prende/ se non come dal viso in che si specchia / nave che per torrente in giù discen-de” (Paradiso, XVii, vv. 37-42); problema quasi parallelo all’altro già ricordatodel rapporto fra autore e lettore.

Che all’elogio della fede umana e della grazia divina, e perciò alla fun-zione etica della scrittura, sia finalizzata l’intera vicenda, è cosa che il lettorecomprende presto (al di là della suspence che lo tiene per tutti i capitoli av-vinto alle vicende narrate da Puccini con un’innegabile bravura paragonabilea quella dei maestri del thriller - e, fra l’altro, anche in questa storia ci scappal’immancabile morto), per la larga parte affidata all’introspezione morale edalla graduale rinascita della dimensione spirituale del protagonista, il cui stes-so cognome Visdomini, cioè forza del Signore, è di per sé una lode alla mise-ricordia divina, alla quale pure si deve lo scioglimento del dramma. Per que-sto motivo l’elemento magico rimanderebbe più che a Ariosto, arioso e ironi-co narratore di favole e storia insieme commiste senza pressanti finalità edu-cative, al più dolente e travagliato Tasso, che, obbedendo alle regole del Tri-bunale dell’inquisizione, sceglie per “ornamento” della sua fabula il meraviglio-so di natura religiosa. Certamente nessuna pressione di qualsivoglia natura haindotto il romanziere Puccini a questa scelta, se non un’autentica sensibilitàspirituale, che ben conosciamo, perché viva e presente in tutta la sua produ-zione letteraria.

Ma se l’oggetto magico che dà vita alle vicende narrate è proprio un li-bro, non lo si deve né ad Ariosto, né alla conoscenza di certe antichissime leg-gende sull’esistenza di un segreto ed incredibile Liber librorum, ma alla stra-ordinaria passione del filologo Puccini, la quale anima tutte le pagine del ro-manzo, a cominciare dalla dedica : “Ai tanti libri amati nella vita, muti com-pagni pieni di parole”. il primo capitolo si apre con la descrizione del libro ma-gico motore dell’intera vicenda (la qual cosa sottolinea la volontà del narrato-re di immettere immediatamente i suoi lettori in medias res), ed essa è così det-tagliata che se ne ricava l’impressione che l’autore stia descrivendo un libro chetiene tra le mani: “Il libro sembrava molto antico: di piccolo formato, appenain sedicesimo, ma piuttosto alto di spessore, era rilegato in piena pelle di uncolore chiaro e caldo che poteva ricordare il miele, liscia al tatto eppure poro-sa come viva”. Ma è il capitolo X quello in cui la passione per la letteratura di-venta traboccante, appassionata, quasi ossessiva, quando Vladimiro Visdomi-ni sogna di diventare, grazie all’enorme quantità di denaro che potrebbe rica-vare dalla vendita del libro magico, un grande editore in possesso della più ric-ca e sontuosa e mirabile biblioteca esistente al mondo, descritta con tale, af-follatissima messe di particolari, di cui nessun lettore comune, ma soltanto unostudioso potrebbe disporre.

il lettore informato sull’attività di filologo che ormai da anni svolge Puc-cini troverà, infatti, nelle pagine del romanzo i nomi degli autori intorno ai qua-li con paziente amore egli ha lavorato per le più prestigiose case editrici ita-liane; e potrà quasi mettere insieme una mini-antologia di passi celebri trattidai loro capolavori, nonché una serie di sobri e acutissimi giudizi critici. L’ele-mento autobiografico è a tal punto presente nel personaggio di Vladimiro che

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sogna di possedere una biblioteca universale, che si fa fatica a separarlo dalsuo autore. Vladimiro Visdomini è Davide Puccini quando gioisce per il ritro-vamento di un codice antico, di un’edizione rara, quando legge faticosamen-te e febbrilmente un documento in cattivo stato di conservazione ma che tut-tavia promette di svelare un enigma, quando prende in mano un bel libro e neguarda e tasta la fisicità e l’eleganza, quando emette un giudizio, quando sve-la le sue personali antipatie o perplessità nei confronti di certi autori e testi.

L’avidissimo e scrupoloso studioso di testi che è Puccini sembra, inol-tre, avere trovato un secondo modo di rendere onore ai suoi autori amati, in-serendo all’interno della trama del suo romanzo qualche elemento e qualchetrovata narrativa che rimandano a ciascuno di loro: il recupero di un manoscrit-to antico ricorda l’ identico stratagemma narrativo usato da Manzoni e da Cer-vantes; il sogno della biblioteca universale sembra un omaggio a Borges; il li-bro magico, come s’è detto, fa pensare a quello usato dal mago Atlante nell’Or-lando Furioso di Ariosto; lo stesso gesto di bruciare il libro che rischia per

i suoi poteri di corrompere l’anima ci richiama alla mente il propositodi Boccaccio - assalito negli ultimi anni della sua vita da forti dubbi etico-reli-giosi - di distruggere il suo Decameron.

Ma certamente il modello dominante è il celeberrimo Faust di Goethe. An-che Faust scorge in un libro il segno del macrocosmo, la totalità della creazio-ne. Faust, pur cedendo alla magia, salverà egualmente la sua anima solo per-ché l’angelo della morte terrà conto della sua sete d’infinito. infatti “erra l’uo-mo finché cerca” e soltanto errando egli s’avvicina alla Verità. La storia di Val-dimiro Visdomini è meno drammatica di quella di Faust, perché egli non si per-suade come quello, sebbene assai tentato, a sottoscrivere patto alcuno con ildiavolo (che gli si manifesta assumendo le sembianze di un vecchio signore ele-gante, ironico, ed apparentemente gentile), e si salva in tempo dal precipitarenell’abisso, aiutato anche da un misterioso libraio che fa le veci del saggio epacato Wagner, amico di Faust nel romanzo di Goethe. C’è pure, giusto per sot-tolineare l’influenza del modello goethiano, un episodio che dal Faust, passa,sebbene modificato, a Il libro e l’anima di Puccini, e che riguarda l’incontro diVladimiro con la bellissima Elena di Troia, che rappresenta la tentazione dia-bolica della lussuria fra le altre a cui egli è sottoposto dal Diavolo.

in altri termini Puccini ha voluto raccontare in chiave moderna la più an-tica ed irrisolta storia della lotta fra il Bene ed il Male e richiamare i suoi let-tori al senso della piena responsabilità delle proprie azioni, che va sempre di-stinta dalle occasioni o dalle ragioni estetiche. il ricorso alla magia, probabil-mente, vuole solo essere uno strumento suasivo, capace di catturare l’atten-zione dei lettori, secondo la poetica del Tasso che mette insieme gli ingredien-ti del “verisimile, del diletto e del giovamento”. Certo la presenza fisica del dia-volo in una storia per molti versi contemporanea solleva una questione teolo-gica assai delicata circa l’esistenza fisica del Male, che ormai viene da molti li-quidata come inconcepibile ed antiquata. Ma a questo punto scivoleremmo inun campo che non compete alla scrittura critica. Siamo in presenza di un’in-venzione letteraria che va giudicata solo in quanto tale e dunque, in quanto tale,meritoria di un giudizio più che positivo per l’armonia della sua struttura chesi tiene in perfetto equilibrio fra l’indagine psicologica e la descrizione delladimensione quotidiana dei personaggi, fra la materia magico-esoterica e quel-la religiosa; fra l’accumulo dei colpi di scena e il graduale mutamento interio-

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re del protagonista. Ma soprattutto va lodata la bellezza della lingua, pulita,elegante, toscaneggiante specialmente nei dialoghi, ma sempre con misura, chesi adatta perfettamente alla personalità dei personaggi e alle situazioni descrit-te; e non ultimo va apprezzato il dono di tanta cultura disseminata nei capi-toli come un ornamento in più che mette addosso la voglia di leggere o appro-fondire quei capolavori a cui accenna l’autore.

Se infatti lo scopo consapevole del romanzo vuole essere quello etico-religioso dettato dalla fede profonda dell’autore nei valori del cattolicesimo,lo scopo secondo, che è quello di una laica fede nel libro, anche se non diret-tamente argomentato, è talmente straripante che il lettore del romanzo ne vie-ne investito con la stessa forza persuasiva dell’altro. Ora, a ben considerare,tra le due “fedi” non c’è quella distanza che si potrebbe, a prima vista, suppor-re: se Dio è il Verbum per eccellenza, chi se non lo scrittore, che traffica conle parole e crea opere per mezzo di esse, è a Lui più simile? E se lo scrittore,finita la sua opera, potrà dire di essa che è buona, come lo dice Dio nel librodella Genesi di fronte ad ogni cosa creata, concorrerà a quel progetto di san-tità e di bene e di armonia che è la promessa più grande fatta all’umanità. Dun-que, Davide Puccini mettendo la sua elegante scrittura al servizio della fede cat-tolica, ricompone il binomio del bello e del bene nell’ambito della letteratura,e ricalca le orme di molti grandi scrittori italiani e no, tra i quali il più popo-lare, quantomeno perché lo si studia a scuola da generazioni, è certamente l’Ales-sandro Manzoni dei Promessi sposi. Per ultimo c’è da dire che Puccini, nell’an-dare controcorrente, poiché ormai sono ben altri i temi della narrativa contem-poranea più in voga, fa una scelta coraggiosa, coerente, ed assolutamente li-bera da motivazioni economiche, che non può che suscitare la nostra ammi-razione.

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POESIA COME UNICA FORMAPOSSIBILE DI CONOSCENZAdi Renato Dellepiane

Lunghi anni di frequentazione con la let-teratura, ed in particolare con la poesia,in quanto docente di italiano, mi hannosempre più convinto che la poesia del‘900 e di questi primi decenni del 2000sia caratterizzata da un particolare atteg-giamento del poeta di fronte al mondo(la natura, la società, la storia) che gli staintorno. Questa caratteristica è forse pro-pria del poeta di ogni tempo, ma si è cer-tamente accentuata in quest’epoca in cuiil decadentismo, liberato ormai di ogniaccezione negativa, ha lasciato l’ereditàpiù profonda di una poesia intesa comeunica forma possibile di conoscenza nelmistero che ci circonda, nei dubbi che ciassillano, in una natura “foresta di sim-boli”. Mi pare infatti di poter dire che, daun lato, il poeta si sente vivere, dall’al-tro si vede vivere, nel senso così chiara-mente e drammaticamente espresso daPirandello nel suo saggio sull’Umorismo.Si pensi, nel primo caso, ai due estremidel senso panico del poeta quale siesprime in D’Annunzio (La pioggia nel pi-neto) e, meglio ancora, in Ungaretti (I fiu-mi in cui il poeta si sente “una docile fi-bra dell’universo”). Nel secondo al già ci-tato Pirandello o a Gozzano (che, neL’ipotesi si vede nonno nel 1940, lui vis-suto solo fino al 1916) oltre, ovviamen-te, al correlativo oggettivo di Montale. Questa lunga premessa per dire che hotrovato questi elementi nell’ultima rac-colta di Luigi De Rosa Fuga del tempo asuggello di un discorso poetico che sisvolge da lungo tempo e che mi era ca-pitato di seguire per una semplice curio-sità iniziale e poi per vero interesse. Egliera stato infatti uno dei miei primi su-periori quando ho iniziato ad insegnare

e, in seguito, lo ritrovavo nell’ambito diquei poeti liguri contemporanei verso iquali ho provato sempre un grande in-teresse. Già nella raccolta Il volto di leidurante ed in particolare nella poesia chele dà il titolo avevo colto una delicata sen-sualità in un estatico abbandono che la-sciava però il posto alla consapevolezzadi “ore della solitudine”. C’era, insomma,quella capacità di creare immagini e con-temporaneamente di inserire elementimeditativi che caratterizza la poesia diDe Rosa. Nella raccolta di cui stiamo parlando que-sti elementi si fondono molto bene tradi loro, creando un linguaggio tuttoparticolare. il sentirsi vivere permette alpoeta di creare immagini che indicanouna sorta di assaporamento della natu-ra e del paesaggio, in cui la nostalgia la-scia talvolta il posto ad un attimo di fe-licità. Nel contempo, il suo vedersi vive-re non è solo il vedersi protagonista dimomenti della sua esistenza come indi-viduo in mezzo ai suoi simili, ma anchedi sentirsi protagonista, come tutti gli uo-mini, della grande Storia collettiva, purnella loro piccola storia individuale . Eccoche allora si passa dalla contemplazio-ne alla meditazione ed anche ad un at-teggiamento di giudice disincantato e se-vero in cui facit indignatio versus.Dati questi elementi dell’ispirazione, illinguaggio varia di conseguenza, muo-vendosi su diversi registri espressivi.Questi traducono talora in immagini unatteggiamento contemplativo, quasi esta-tico, come si è accennato: si pensi al trit-tico dedicato alle rose (rosa, bianca, ros-sa) che esprime proprio quella simpatia(in senso etimologico) con la natura di cuisi diceva. il cromatismo delle immaginiesprime una sorta di identificazionecol fiore, quasi il poeta ne vivesse la vitabreve ed intensa. La rosa rosa “che pen-

PROSPEZIONIdi Milena Buzzoni, Renato Dellepiane, Rosa Elisa Giangoia, Giuliana Rovetta

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zola nel vento/nevoso di gennaio”, è così“fuggevole promessa di bellezza/ nellafredda illusione/ che tutti ci circonda”.La rosa bianca si identifica col presentedell’uomo in quanto “solitudine splendi-da/ sospesa/ sul futuro e sul passato”.Nel caso specifico, ci sia concesso di no-tare, sul piano del significante, il rilievodell’allitterazione sulla /s/ che sembraportare l’attenzione del lettore sul temadel passato, della nostalgia e di un futu-ro a cui ci si avvia “come un funambo-lo/ che ésita/ sopra una corda tesa”.Quella sensualità controllata e casta cuiabbiamo accennato si esprime con chia-rezza nella poesia un po’ più lunga de-dicata alla rosa rossa in cui il poeta vaben oltre il topos letterario. La rosa in-fatti, con i suoi “baci dolci, di velluto/of-fre la sua bellezza/(pur irta di spine)/spe-rando di sopravvivere/ in altre roserosse” e richiama così alla vita che è an-cora lunga, mentre “Domani si potrà an-che iniziare/ ad appassire”. Come si vede,il sentirsi vivere del poeta è sempre col-legato ad una meditazione su se stessoe la vita. Talora questa meditazione na-sce dal ricordo di un momento, assapo-rato creando una sorta di brevissimo idil-lio: si vedano Treno fermo in campagnae Sera in montagna che sono forse leespressioni più compiute della capacità“pittorica” del poeta che riesce ad immer-gersi nel paesaggio ed a ritrovare una co-munione profonda e rasserenante con lanatura. Quella natura che talvolta diven-ta vera metafora della vita, come in quelSottobosco, in cui bisogna “inoltrarsi conpassi cauti ma decisi” per arrivare a sco-prire, alla fine del cammino, “un sognoche insperatamente/ si avvera”. Quandoi versi di De Rosa si muovono sul filo del-la contemplazione e del ricordo, occhieg-gia qua e là la rima, come se la poesia vo-lesse trovare un suo breve ritmo, una sor-ta di acuto delicato (mi si passi questasorta di ossimoro….) come prosa-rosacosa nella bella poesia dedicata a Gior-gio Caproni (omaggio e meditazionesulla funzione del poeta) oppure nella

contrapposizione cielo-tremulo altissimostelo della rosa rossa. Così, non a caso,contemplare rima più sotto con lungo-mare nella poesia Genova è ancora la su-perba? che intrisa di nostalgia e speran-ze mosse nell’animo del poeta da unacontemplazione, appunto, della città“in certe mattinate di cristallo”.Come si diceva, il poeta si vede vivere an-che nel ricordo di un momento, comequello dell’abbandono “in una Milano deldopoguerra” che lascia un segno indele-bile per tutta la sua esistenza. Ma se ilpoeta si rivede “bambino spaurito” cheguarda attraverso “occhiali da sole sof-focanti” la “madre che si allontana/persempre”, non manca di dedicare al pa-dre una poesia di grande dolcezza, ca-pace di esprimere tutto il “non detto”, nelraccogliere “in questo cuore angosciatodai dissidi” tutto quanto di immateria-le e materiale il padre ha lasciato. Nellapoesia Caro papà si stabilisce una comu-nicazione che va al di là del tempo, del-le incomprensioni, dei drammi stessi del-la vita. Allora il concetto, un po’ carduc-ciano, La poesia non è cosa per allocchiassume un significato che va ben oltreil senso che ha nella poesia con questotitolo, ma diventa un misterioso veico-lo di comunicazione, un modo per attin-gere l’eterno insieme con i propri cari.“Non omnis moriar” era l’aspirazione deiclassici e lo è di ogni poeta, non solo per-ché gli altri lo ricordino (si veda Humandestiny in cui De Rosa esprime talesperanza) ma perché egli stesso possatramandare i suoi ricordi e gli oggetti deisuoi sentimenti.Proprio nella poesia sopra citata emer-ge con forza l’aspetto di un poeta che sivede vivere all’interno di un preciso con-testo storico, di cui coglie inaccettabiliaspetti negativi collegati al dominio del“dio denaro”, e pertanto dichiara con for-za “Poeti ed artisti non restino semprea guardare”. Confesso che, partendo dauna posizione crociana quale la mia, in-serirei questa composizione nell’ambitodell’oratoria. Ma si tratta di una oratoria

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sincera che nasce dall’indignazione di unpoeta che non vuole estraniarsi dalla sto-ria, chiudersi nel solipsismo dell’introspe-zione o nel puro sperimentalismo lingui-stico di chi, giocando con la parola, fa diessa l’unico vero contenuto di una com-posizione. Nella poesia che dà il nomealla raccolta, il poeta confessa, inizian-do la poesia con un “E” che dà il sensodella conclusione di un ragionamento, diuna meditazione interiore: “E può arri-vare il giorno del rimpianto / per fram-menti di vita autentica perduti a miliar-di / in illusioni inconsistenti”, nella con-sapevolezza che cultura, sensibilità e for-se anche il riconoscimento dei propri er-rori non rendono felici. Tuttavia resta unacertezza: quella di continuare “ad ama-re la vita / per continuare a viverla”. Eamare la vita vuole dire per De Rosa ama-re intensamente la poesia. Questo ancheperché egli ha continuato a praticarla findagli anni giovanili, pur avendo avuto in-carichi di responsabilità, ponendosi sem-mai qualche interrogativo sul senso cheoggi ha la poesia, di fronte a grandi ca-tastrofi (E dopo Fukushima; Alluvione aMonterosso) con un tono che sembra rie-cheggiare il “come potevamo noi canta-re” che tutti abbiamo nella memoria. in una delle poesie in cui la confessionesi fa più personale, De Rosa si rivolge allasignora Senectus per dirle con chiarez-za che “il suo cuore, i suoi sogni, la suapoesia” non saranno mai preda di lei.Questa raccolta ne è certamente la pro-va più evidente.

Luigi De Rosa, Fuga del tempo, Genesi,Torino 2014, pp. €

I PERCORSI FANTASTICI DI GREENdi Giuliana Rovetta

Julien (o Julian) Green, uno dei maggio-ri scrittori cattolici del Novecento, pas-sò la sua lunga vita in frequenti viaggi,seguendo poli di attrazione sentimenta-le e culturale diversi: americano di ori-

gini gallesi, nato a Parigi nel 1900, si ap-passionò alla letteratura francese spa-ziando da Rousseau a Renan e si integrò,utilizzando il francese come lingua discrittura, fino a ottenere un seggio al-l’Académie Française, che poi abbando-nò per sdegno verso gli Immorteles, dalui definiti “uno sciame di maleducati”.Quanto basta per tratteggiare un perso-naggio inquieto, a cui Carlo Bo riconob-be le qualità allucinate ma divinatorie diun “profeta inattuale”. La ricerca dell’iopiù profondo, del suo, ma anche diquello che quasi tutti gli uomini tengo-no ostinatamente nascosto, rappresen-ta la bussola del girovagare di Green, conla missione di scandagliare i limiti del-la condizione umana in un contestomobile, contrastato. “Per trovare la veri-tà occorre lavorare contro se stessi,contro la propria inclinazione, contro lafacilitazione consentita dalle abitudini,contro il successo, contro il pubblico: bi-sogna eliminare tutte le pagine in cui ildivertimento del lettore è diventatol’unico obiettivo”, lasciò scritto nel suoponderoso Journal, un diario diventatofamoso come quello di Gide, suo grandeammiratore, in cui tra molte riflessioniaveva espresso anche il suo credo arti-stico. Col cuore diviso fra felicità e tragedia egli occhi rivolti sempre a un altrove, Ju-lien Green ha lasciato una vasta opera al-l’insegna della dualità: non solo in nomedel praticato bilinguismo e dell’apparte-nenza tanto alla cultura francese quan-to a quella “sudista” e georgiana di de-rivazione materna, ma anche per via del-la precoce conversione dal protestante-simo al cattolicesimo. Quasi tutti gli elementi che lo scrittoresvilupperà nel corso della sua esistenzasono rintracciabili nella raccolta di cin-que racconti Le voyageur sur terre, scrit-ti a partire dal 1924 e usciti prima sul-la «Nouvelle Revue Française» e poi in vo-lume, a cominciare dalla sensazioneche il mondo non è come appare ma nedissimula un altro, invisibile e più vero.

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È questo il fulcro del racconto eponimo,in cui il protagonista, in preda a osses-sioni e a una latente follia, si sdoppia finoa perdere la sua prima identità senza pe-raltro riuscire a imporre agli altri la figu-ra artificiosamente costruita in cui ten-ta di proiettare le sue ambizioni e le suedebolezze. Anche il testo è presentato adarte come un doppio, cioè come l’elabo-razione di uno scritto nato in un’altra lin-gua e poi tradotto da un soggetto terzoche non è il vero autore. Un escamotagesimile è all’origine del secondo raccon-to (qui l’estensore finge di completare unmanoscritto interrotto trovato in uncassetto), Le chiavi della morte. La figu-ra di Odile, imperscrutabile oggetto difantasie amorose fin dall’infanzia, cosìcome la giovanissima Christine del rac-conto omonimo, niente più che una tor-mentosa, evanescente visione, sono per-sonaggi fittizi, al limite della vita vera econosciuta, di cui percorrono i marginicon una sorta di volontà allucinata chesempre allude al rifiuto della vita. Allastregua del passeggero di L’inutile traver-sata (Leviatano), tutti questi personaggisono in cammino su una terra che sfio-rano appena con la levità di corpi incon-sistenti, salvo poi scomparire, più chemorire, attraverso il passaggio nellospecchio del visibile: dall’altra parte liaspetta il mondo cosiddetto immagina-rio, per loro l’unico veramente reale. il racconto conclusivo, Maggie Moonshi-ne, non sfugge all’atmosfera stranianteche caratterizza tutta l’opera di Green edè forse quello in cui risulta più riuscitol’intreccio fra dimensione fantastica e ipo-teca di un destino finale che attiene allasacralità dell’uomo e della natura che loavvolge. in più, è questa la sede in cui loscrittore introduce l’allusione a unostigma che determina il destino di duepersonaggi, nell’ombra e nel silenzio deirispettivi contesti sociali: se su Maggie,abbandonata in fasce sui gradini di unacasa, incombe il segreto di una nascitainfamante, Percival nel passato si è do-vuto allontanare in extremis da una

giovane fidanzata per mancanza di verointeresse verso il genere femminile. ildato accertato di una solitudine interio-re è letto da Green in chiave d’inelutta-bilità e non di melodramma, attraversoil filtro di una scrittura rarefatta che rie-sce ad essere incisiva e tagliente in ognidettaglio.

Julien Green, Il viaggiatore in terra, Nu-trimenti, Roma 2015, pp. 222, € 17,00.

SE IL DOPOGUERRA È SENZA PACEdi Giuliana Rovetta

Romanzo potente e spettacolare, Au re-voir là-haut, ora tradotto per Mondado-ri da Stefania Ricciardi, è dovuto alla pen-na di un docente di letteratura converti-to alla scrittura, una scrittura classica allaDumas, avventurosa e consapevole, pre-miata con un Goncourt. Lo scenario èquello della Prima Guerra Mondiale, maqui a interessare non sono gli scontri bel-lici o le gesta eroiche (“l’eroismo non è nelnostro patrimonio genetico, afferma l’au-tore Pierre Lemaire, tutt’al più è la coin-cidenza fra un’occasione che si presen-ta e un buon riflesso”) bensì la fase chesegue all’azione e che prelude al lento ri-torno alla normalità. Di quale “normali-tà” si tratti il libro darà conto nel corsodella vicenda, ma già le prime cinquan-ta pagine trascinano il lettore in un’atmo-sfera di bruciante allucinazione. Duegiovani che non si conoscono, sopravvis-suti per quattro anni nelle trincee, pocoprima dell’armistizio nel novembre 1918,sono obbligati da un tenente ambiziosoe folle a compiere un’azione militare sen-za speranza. Albert, un modesto impie-gato con poche risorse, si troverà a sal-vare la vita a Édouard, uno spavaldo e coc-ciuto figlio di papà, rimasto intrappola-to in una buca dallo scoppio di una bom-ba che gli sfigurerà per sempre il volto. incentrato sul destino dei reduci, che sia-no come in questo caso “gueules cassé-es” o uomini resi inabili o individui os-

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sessionati mentalmente dal fantasma de-gli orrori passati, il romanzo indaga sulcolpevole rifiuto della società alla curae al reinserimento degli scampati, com-plice il generale bisogno di oblio che pla-na sul dopoguerra con un effetto di stor-dimento. A questo rigetto fa da contral-tare il giustificato risentimento degliesclusi, disingannati dal perdurare del-le iniquità che la guerra avrebbe dovutorimuovere. Saranno proprio la delusionee il senso di rivalsa ad attrarre i prota-gonisti in una spirale esistenziale che licondurrà a trasformarsi in astuti truffa-tori, escogitando una sequela di colpi nelsettore dei monumenti funebri. La sto-ria passa in crescendo attraverso liti fa-miliari e tentativi di riconciliazione, af-fari condotti in modo amorale da corrot-ti e delatori e comportamenti segnati daavidità e ingratitudine, ma anche col con-trappunto di scoppi d’intensa voglia divivere, in una galoppata che sfiora loscandalo delle esumazioni militari, que-sto sì, realmente avvenuto nel 1922. Le-maitre mostra qui la sua spericolata ca-pacità di orchestrare con mano fermauno scenario vasto e movimentato, uti-lizzando con finezza lo scandaglio del-l’approfondimento sociale non menoche “la cassetta degli attrezzi” (questa lasua definizione) che già aveva sperimen-tato nella stesura dei suoi primi roman-zi, tutti ascrivibili, e fra questi il notevo-le Irène, al genere noir, basandosi sullacapacità di trascinare il lettore in un tur-bine di avvenimenti a cui la Storia, o piùsemplicemente la realtà, fornisconospessore e sostanza. Facendo sua l’affermazione di AnatoleFrance secondo cui i soldati s’illudono diandare in guerra per salvare la patria,mentre fanno invece sempre gli interes-si di qualcuno, Lemaitre lascia che a do-minare il suo lungo racconto bellico e po-stbellico sia un sentimento di collera perla stonatura fra commemorazioni e ono-ri militari da una parte e emarginazionee irriconoscenza dall’altra. Con un sen-so di suprema stanchezza ma anche con

ironico fatalismo così viene narrato il mo-mento tanto atteso della smobilitazione:“Fin dalla mattina, si urlavano tutti ad-dosso in un baccano permanente. ilCentro di smobilitazione era un continuorisuonare di grida e imprecazioni e, al-l’improvviso, a fine giornata, lo sconfor-to sembrò invadere quel gran corpoagonizzante. Gli sportelli si chiusero, gliufficiali andarono a cena, i sottufficiali,esausti, soffiavano per abitudine sulloro caffè peraltro tiepido, seduti su al-cuni sacchi. i tavoli dell’amministrazio-ne erano sgombri. Fino all’indomani. i tre-ni che non c’erano non sarebbero più ar-rivati. Per oggi, niente da fare. Forse do-mani.”

Pierre Lemaitre, Ci rivediamo lassù,Mondadori, Milano 2014, pp. 456, €17,50.

LA VIA DELLA VERITÀdi Rosa Elisa Giangoia

Tutti noi nella nostra vita ci incamminia-mo lungo il corso dell’esistenza, se-guendo, dapprima inconsapevolmente, leorme di altri, innanzitutto dei nostri ge-nitori, dei nostri fratelli maggiori, poi, amano a mano che acquistiamo consape-volezza, scegliamo le persone di cui se-guire le orme, maestri ed amici, a cuiguardiamo per ragioni affettive e intel-lettuali, persone capaci di dare delle ri-sposte ai nostri interrogativi, uomini edonne che suscitano la nostra ammira-zione e che riescono a coinvolgerci emo-tivamente. Ma ad un certo punto del no-stro esistere, prima o poi, ci rendiamoconto che, per dare pieno compimentoalla nostra vita in una prospettiva esca-tologica, dovremmo individuare e segui-re altre orme, orme che per noi diventa-no difficili da individuare e soprattuttoda calcare per cui le possiamo definire“intangibili”. Sono naturalmente le ormedi Dio, i segni del percorso che dalla no-stra dimensione terrena ci possono por-tare nell’Oltre dell’infinito, dell’immen-

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so, dell’eterno.il fatto che il poeta abbia scelto proprioil termine “orme” è significativo e impor-tante; infatti le orme si determinano at-traverso un contatto fisico, di conseguen-za danno l’impressione di trattenere insé qualcosa di chi le ha impresse, di cuinon si limitano a suggerire un’immagi-ne o un ricordo, ma ne suscitano diret-tamente la “presenza”.Queste “orme intangibili” che possonoindicarci la strada da percorrere con fa-tica e impegno per trovare Dio sono quel-le che Alessandro Ramberti persegue inquesta sua nuova raccolta di liriche, incui con grande tensione creativa, soste-nuta da una ricca esperienza e consape-volezza intellettuale e fortificata dallapersonale adesione alla Fede, cerca didare concretezza di parole alla fenome-nologia del divino nel nostro mondo.Per questo le sue liriche assumono unavalenza di θῆλος con la sapienza biblica,con le pagine conclusive e più alte del-la Commedia dantesca e con altri pochitesti che hanno osato affrontare il temaarduo ed affascinante di “dire Dio”.Come si può “dire Dio” e, nello stesso tem-po, cosa si può dire di Dio? La prima que-stione Ramberti l’affronta e risolve a livel-lo creativo e culturale, in quanto si impe-gna in un tessuto poetico complesso e coe-so, prima di tutto dal punto di vista me-trico per l’organizzazione dei versi in quar-tine intercalate da un verso tra parentesi,occasione di sospensione, ma anche di ap-profondimento e di apertura di nuovi ul-teriori orizzonti. D’altra parte Ramberti,per costruire questa sua opera come un in-sieme compatto ed unitario, tutto incen-trato puntualmente sul tema dell’unicitàdi Dio, fa ricorso alla sua cultura, caratte-rizzata dalla conoscenza di diverse lingue,tra cui il cinese, e da molte letture. Cosìogni poesia è chiusa da una parola in ideo-grammi cinesi, traslitterata e tradotta, e itesti in poesia vengono in un certo qualmodo approfonditi e quasi dilatati dal col-legamento con citazioni da altri testi di au-tori appartenenti ad esperienze culturali

molto diverse (Matteo Ricci, Albert Camus,immanuel Kant, Enzo Bianchi, Dietrich Bon-hoeffer e altri ancora), che possono esse-re interpretati come compagni di viaggionella ricerca delle “orme intangibili”. Sonotutti autori con cui evidentemente Ram-berti ha consuetudine di frequentazioneper essere sempre riuscito ad individua-re punti di piena consonanza con il suodire poetico. Si viene così a creare una map-pa con dei segnali, degli indicatori, ma an-che potremmo dire una polifonia di rifles-sioni, una coralità di espressioni che tut-te convergono per individuare e illumina-re quelle “orme tangibili” che il poeta ri-cerca ed evidenzia con le sue parole persé e per gli altri in una dimensione di af-fratellamento pedagogico.Questo impegno letterario di Ramberti vuo-le anche dimostrare che le “orme intangi-bili” sono fatte, per noi uomini, di paro-le. infatti di Dio non abbiamo alcuna con-cretezza: è un templum in senso etimolo-gico, un’area ritagliata nella nostra men-te da riempire con il non-umano, con l’Al-tro, o meglio l’Oltre, per il quale abbiamosoprattutto le immagini e le parole specia-li, forti, connotate ed espressive, capaci diaprire orizzonti illimitati e di comunica-re con il massimo di efficacia. Ma tra le pa-role e le immagini privilegiamo le secon-de, perché sono le parole il mezzo che Dioha usato per comunicare a noi la Sua Ri-velazione, per cui possiamo dire che la pa-rola, il λλλλλ, è stata sacralizzata perchéDio se ne è servito per il nostro bene.Un libro di poesia costruito con origina-lità, abilità e finezza intellettuale, che puòessere di molto aiuto a chi cammina sul-la strada della ricerca della Verità.

Alessandro Ramberti, Orme intangibili,FaraEditore, Rimini 2015, pp.78, € 10,00.

TRE CITTÀdi Rosa Elisa Giangoia

Quando si ha tra le mani un nuovo librodi poesia, scritto da chi per la prima vol-ta nella vita si cimenta con questa forma

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espressiva, ci si sorprende sempre per lafiducia che la poesia continua a riscuote-re ed anche per la fiducia che chi scrivepoesia ha nei confronti degli altri, del-l’ascolto e della comprensione da parte loro. La silloge Liturgia del dolore – diario di unosservatorio sentimentale di Giuseppe Pu-lei Russo appare subito, come rivela fin daltitolo, un itinerario esistenziale protrattonel tempo all’insegna dell’analisi di se stes-so, della percezione della realtà, dell’osser-vazione degli altri, portate avanti con unparticolare ésprit de finesse che inducel’autore a svelare innanzitutto la sua inter-pretazione dell’esistenza sub specie dolo-ris, come indica il titolo. il poeta, infatti,ripercorre la sua vita evidenziando innan-zitutto l’averla trascorsa in tre città, Mes-sina, dove è nato e ha vissuto l’infanzia,Napoli, città dell’adolescenza e degli stu-di, e Genova, città del lavoro e della ma-turità, rappresentate in copertina con i loromonumenti e scorci panoramici simbolo:«… vivo a Genova / parlo con l’accento diNapoli / e sono nato a Messina» dice il poe-ta in Predestinazione. Tre città, accomu-nate dalla configurazione geografica simi-le, che ha determinato la loro storia, po-ste di fronte al mare, motivo di unione tradi loro, ma anche simbolo di quello spa-ziare con libertà e spirito d’avventura ver-so l’infinito che la poesia richiede.Genova è la città privilegiata come sogget-to poetico, osservata dal mare e dai forti,di cui si cantano la Lanterna, i Caruggi eil Righi (Vento del Righi, Autunno del Ri-ghi), mentre Napoli è lo sfondo di sfuma-ti ricordi dell’adolescenza in tempi mar-cati dalle vicende del secondo conflittomondiale (dal Vesuvio, Una ferita di guer-ra, Il campo Yankee, Il pallone di carta) eMessina riemerge come ricerca delle radi-ci (da Scilla a Cariddi, Gente peloritana).il poeta Pulei Russo per rapportarsi alla re-altà si avvale anche degli strumenti dellasua ampia cultura giuridica e letteraria checreano occasioni di maggiore sensibilità edi ampliamento degli orizzonti. Ne vienefuori una poesia ispirata dai piccoli fatti

della vita, tra emozioni del momento e rie-mergere di ricordi, sulla linea in certo qualmodo delle Occasioni montaliane: sono im-magini della memoria riflesse nello spec-chio del testo. Per questo potremmo direche si tratta di una poesia che nasce dalrealismo, ma che, per una sorta di magia,va oltre la realtà. Ad animare i testi è soprattutto un’ener-gia intellettuale, pervasa da una sottile eincisiva inquietudine che determina la di-namica interna al discorso poetico. Un di-scorso che emerge dal profondo sulla spin-ta di un’urgenza esistenziale, che inducel’autore anche alla considerazione compas-sionevole degli altri (In morte di MingoSmeraldo, La casa sul ponte, La visita,Down, L’amore malato).Quella di Pulei Russo è una poesia dall’an-damento piano, dal tono colloquiale, dal-la modulazione narrativa, con venature ele-giache, senza velleitarie torsioni espressi-ve sperimentali, ma che sa trovare una suavoce originale ed autentica per la capaci-tà di intessere nei versi espressioni e figu-re originali. Basta un esempio: «Dellatriade di amici / che sorride nella fotod’istantanea / sotto i portici d’accademia/ rimane l’immagine del superstite // cheparla ai fantasmi. » (Album). Una voce per-sonale che si viene progressivamentesempre meglio configurando nella sinte-si espressiva fatta di concisione analogi-ca ed allusiva.

Giuseppe Pulei Russo, Liturgia del dolore– diario di un osservatorio sentimentale,De Ferrari, Genova 2015, pp. 191, € 12.

MARTA GIERUT TORNA A PIETRASANTA di Milena Buzzoni

il ritorno di Marta Gierut a Pietrasanta,a dieci anni dalla scomparsa, avviene at-traverso una retrospettiva essenziale, senon esaustiva come quella del 2013 a Pa-lazzo Panichi, certamente esemplare emirata a concentrare nella varieta’ deipezzi presentati, l’eclettismo di un’ ar-

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tista matura, nonostante i suoi ventottoanni, elaborata, sfaccettata. A ospitarlae’ la fondazione “La Versiliana”, nella qua-le disegni e parole si mescolano in un gio-co espressivo che ingloba olii, sculture,fotografie; una serie di ritratti in biancoe nero la presentano nella sua dimensio-ne reale, fisicamente autentica come seil percorso attraverso le opere espostefosse destinato a comporre la sua per-sona in carne e ossa. Di solito siamo cu-riosi di vedere chi si nasconda dietro unapoesia, un testo, un quadro e di solito re-stiamo delusi perche’ l’arte ci proponeun contatto extrasensoriale, un incontrodi anime. Con lei non sarebbe successoperche’ la sua sensibilita’ artistica era to-talizzante e connaturava l’intera perso-na. La sua opera cosi’ ricca e varia offremigliaia di aspetti per comporre la suapersonalita’: non abbiamo avuto bisognodi conoscerla perche’ lei si e’ lasciata sco-prire attraverso cio’ che ha scritto, dipin-to, disegnato, scolpito. Ricordo, solo a ti-tolo esemplificativo, il monumento inmarmo “ il volto e la maschera” a Mari-na di Pietrasanta all’interno di quel Par-co della Scultura che vede opere di Bo-tero, Cascella, Finotti, Folon, Mitoraj. Ma,come osserva Giovanni Faccenda “ Mar-ta oggi sopravvive nelle sue opere e, inmodo particolare, nelle liriche”. Le poe-sie infatti sono imprescindibili e indimen-ticabili sentieri di accesso al suo essere:quei “sonagli della luna” non smettonodi tintinnare nella mente e “ l’eco che misomiglia” risuona a replicare mille Mar-te. Trovarla qui in questa sequenza digrandi foto, e’ un’ emozione che non sidimentica: non si dimenticano quegli oc-chi densi come quelli di tutti gli indivi-dui tormentati ne’ la grazia dei suoi ge-

sti. il suo volto e il suo corpo sono quel-li di un’adolescente impensierita daun’ombra che le passa sullo sguardo manello stesso tempo divertita dal gioco del-la seduzione, dalla malizia di quella pen-nellata tirata sul petto. Anch’io, comemolti, ho guardato a fondo quella figu-ra per capire il mistero di quella mortevolontaria, per scoprire un segno del tra-gico epilogo della sua vita. Ma era una ve-rifica inutile: frugare tra i riccioli neri deisuoi capelli, osservare la bocca, sperarein un sorriso che potesse cambiare glieventi, una luce negli occhi che scongiu-rasse la morte. Quelle foto non ci dico-no di lei nulla piu’ di quanto svelino lepoesie ( e di vera poesia si tratta, comenota anche Manlio Cancogni, non diprove adolescenziali, di tentativi ). Esseinsinuano il disagio di un’attesa. Martae’ immortalata proprio cosi’, con quellosguardo, con quei gesti che sarebbero ri-masti insignificanti se avesse continua-to a vivere ma che sono diventati emble-matici per la scelta che poco dopoavrebbe fatto: leggiamo in essi la sospen-sione di ogni altra funzione in vista diquell’epilogo, la preparazione, l’attesa ap-punto di quel destino. E il grande qua-dro posto sul fondo della sala intitola-to “ Un abbraccio è per tutti ,” con le duefigure che si stagliano a concludere il per-corso, diventa il suo commiato, il suomodo di lasciarci ancora una volta conun atto d’ amore, estinto nel rosso e nelblu dei colori come in mezzo a braci cheardono.

Marta Gierut Poesie e opere dal 2 al 12luglio 2015 Fondazione “La Versiliana”Spazio “Geen House”

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CARLO MERELLOARCHETIPO / ARCHITETTURALe geometrie della mente

di Flavia Motolese

C’è una memoria antica che attraversa l’operato di Carlo Merello e poic’è una mente moderna e razionale. La consapevolezza di una tempo-ralità tutta umana contrapposta al perdurare di schemi e leggi che so-vrastano la vita degli uomini e dei suoi manufatti e che in questo li ac-comunano.Carlo Merello, artista acuto e sperimentale, è solito affermare che i suoilavori procedono per progetti con linguaggi espressivi e tecniche au-tonome con cui cerca di indagare e risolvere, attraverso soluzioni este-tiche, problematiche teoriche, ma, guardando dall’esterno il suo lavo-ro, si può affermare che la costante delle sue opere sia rivelare una trac-cia dell’anima spirituale e dell’essenza materiale.L’essere architetto ha influenzato, sia nel procedimento sia nelle moda-lità espressive, il suo approccio con l’arte visuale in cui è sempre presen-te lo studio delle relazioni tra i valori estetici dell’architettura, quelli con-

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Reliquiario d'architettura, 2000, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60x100

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tenutistici dell’arte e le loro reciproche mo-dalità rappresentative.L’arte è il risultato di un’attività specula-tiva e interpretativa: il punto di parten-za è l’analisi di un’idea e della sua rap-presentazione iconica, è il desiderio di co-struire un’immagine in grado di renderee dare forma simbolica e sintetica aquesto concetto. La premessa più diretta di questo atteg-giamento concettuale va individuata nel-l’assioma per cui, essendo impossibile in-ventare qualcosa di nuovo in pittura, l’uni-ca strada per apportare un contributo per-sonale significativo sia quello di supera-re i risultati già raggiunti, realizzando unapittura “ideale”: una rappresentazione diessa attraverso la sua apparenza, utiliz-zandone lo stesso involucro concettua-le, compositivo e mnemonico. Da questo deriva la tendenza di innesta-re nelle sue opere riproduzioni pittoricheda citazioni storiche che, estrapolatedal loro contesto e sospese in uno spa-

zio di memoria, creano un effetto stra-niante e dissertativo sulla complessità diistanze che vertono intorno al ruolodell’arte e dell’immagine contemporanea.La sua ricerca segue percorsi complessidi ibridazione di pensiero e modus ope-randi, ma riconducibile ad un’unica ma-trice “Il tema fondamentale è il rappor-to tra l’essere in noi e l’essere nel mon-do; ovvero il senso dell’esistere rispettoall’ambiente creato”. Ogni tematica affron-tata riconduce alla dialettica tra il conte-nuto e l’involucro concettuale, che ne èesternazione visibile; come la riflessionecostante e mai risolta insita nel paralle-lismo tra il corpo umano inteso come con-tenitore di vita e di anima e la costruzio-ne architettonica di per sé inanimata, iner-te, ma resa viva dall’agire umano che in-teragisce con essa e all’interno di essa(“Vuoti a perdere”, “Il Respiro di Genova”,“Fessure di Genova”).La vita è decodificata sotto forma di geo-metrie razionalizzanti per sublimarla

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Reliquiario d'architettura, 1999, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 30x45

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ad un livello superiore puramente men-tale, moduli ripetibili in grado di fornir-ci un più razionale approccio sistemicoalle leggi del mondo e allo stesso tempoevocativi del potere della simbologia. Èpresente anche una certa aspirazione adun processo catartico di purificazione del-la realtà attraverso una raffigurazioneestetica essenziale che trova alcuni pun-ti di contatto con il fondamento utopicodell’Astrattismo. Merello reinterpreta ilpassato e traccia le coordinate di un ipo-tetico futuro in un susseguirsi di linee,frammenti, segni, sfere, portali come in“Frammenti di città ideale” o “Casa limi-

te”. Un rigido schema formale che repli-ca poche figure geometriche - matrici evo-cative di cultura, significato, sapere - in-fondendo un senso di mistero alla com-posizione. Viene così creato dall’artistail “tipoide” che è un elemento grafico rei-terato, mutuato dall’architettura, antro-pomorfo, totemico, grammaticale. Que-sti moduli, variamente costituiti da sim-boli schematizzati, si ricollegano in qual-che modo alle modalità della scrittura: al-tra tematica che si ripresenta in diversiprogetti; in parte intesa come traccia cheattraversa il tempo ed in parte per la suacaratteristica di evocare, attraverso il suo

Reliquiario d'architettura, 1999, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60x80

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aspetto, contenuti non espliciti assimilan-dosi all’architettura - struttura portantedel pensiero umano e contenitore di si-gnificato.L’elemento razionale meditato trova uncontrappunto gestuale, più irrazionale elibero nelle pennellate e colature di co-lore, molto spesso utilizzando il rosso perquesto tipo di intervento pittorico, qua-si a voler richiamare una matrice sangui-gna ed alchemica.Bisogna, inoltre, sottolineare una continuaricerca di sintesi formale, di essenzialitàa cui contribuisce la quasi totale esclusio-ne del colore, fatta qualche rara eccezio-

ne, e della riduzione degli sfondi nel rigo-re disegnativo di una sublimazione meta-fisica degli spazi, fino talvolta all’annulla-mento. Nel suo approccio disegnativominimalista, anche una semplice linea di-viene parte costitutiva deputata ad unafunzione espressiva ben precisa: se le suelinee nell’aspetto richiamano i giochi ot-tici delle “Costellazioni strutturali” di Jo-seph Albers, nella sostanza si caricano diun elemento simbolico più profondo at-traversando lo spazio e congiungendo vir-tualmente idee e tempi distanti tra loro.È il contenuto a dare la forma al conte-nitore e non viceversa, è molto importan-

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Reliquiario d'architettura, 2000, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60

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Reliquiario d'architettura, 2013, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 50x40

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te per capire il lavoro di Merello il ruolofondamentale che gioca la forma, intesanon come aspetto, ma come rappresen-tazione concettuale e simbolica. La for-ma è la realtà immediata con cui si puòesprimere l’esperienza, l’anima, il pensie-ro scatenando nello spettatore processicognitivi complessi e di interpretazionenon univoca. L’opera agisce sempre su piùlivelli, investendo ambiti diversi e com-plementari, un continuo gioco di accosta-menti e contrapposizioni: struttura archi-

tettonica o urbana e corpo umano, foto-grafia e sperimentazione pittorica, pas-sato e presente, pittura e architettura, ri-produzione documentaristica e inter-pretazione allegorica, spazio fisico espazio mentale.Bene riassume la sua poetica il ciclo dei“Reliquiari d’architettura” che coniuganoscultura, pittura e design: opere tridimen-sionali basate sulle forme primarie di ret-tangolo, ovale, tondo e triangolo co-struite in MDF. Sulle superfici interamen-

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Reliquiario d'architettura, 2015, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 40x40

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Reliquiario d'architettura, 2001, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 90x60

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Reliquiario d'architettura, 2000, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 40x80

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Omaggio a San Vitale di Ravenna, 1999, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60x100

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te giocate sul binomio nero-argento, conmotivi a meandro e ad ellissi, le teche la-sciano apparire su un fondo oro, ripro-dotti in grafite su acetato, occhi e manitratti anche dall’Encyclopédie di Diderote d’Alembert. I Reliquiari ripropongono la dialettica trasignificato e significante. Il termine in séindica i contenitori adibiti alla custodia perla conservazione e l’esposizione di resti sa-cri. L’attenzione dell’autore, come di con-sueto, si focalizza sul contenitore, traspo-sizione architettonica della casa anch’es-sa contenitore di elementi sacri come la vita.Il reliquiario diventa così elemento diun’architettura concettuale: al suo internoMerello vi custodisce, non qualcosa di ma-teriale, bensì l’idea della pittura, rappresen-tata attraverso tre simboli: la luce, le manie l’occhio. La luce è raffigurata dall’oro, lamani sono l’operosità che costruisce, creae l’occhio è la percezione, ricorda il sensoche ci permette di ammirare la pittura, di

introitarla. L’occhio riporta anche ad un sen-so di memoria, aggiungendo un’ulterioresuggestione emotiva a questa serie diopere e riallacciandosi alla funzione rea-le insita nel fenomeno della venerazionedelle reliquie e cioè la credenza in una vitaulteriore e in una continuità di azione deldefunto. Ritorna l’elemento della memo-ria, ciò che perdura di noi e si tramanda,riportandoci anche ad un'altra questionecentrale nel lavoro dell’artista e cioè la ri-produzione mnemonica di immagini.Così come culturalmente, le reliquiepossono essere considerate il più anticooggetto di rilevanza antropologica, anco-ra prima dell'immagine, della parola e del-la scrittura, così l’opera di Merello si puòconsiderare in sé perfetta espressione diun’arte complessa e autonoma che ride-finisce il rapporto tra l’arte e la comuni-cazione contemporanea, in cui il signifi-cato e la parvenza trovano un perfettoequilibrio armonico.

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Reliquiario d'architettura, 2000, grafite e acrilico su mdf, stampa digitale su acetato, 60x80

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Bio

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BIOGRAFIA

Carlo Merello è nato a Genova nel 1950. Architetto, lavora nel complesso delle arti vi-sive. Dalla metà degli anni Settanta ad oggi la sua ricerca ha attraversato i valori dellapittura neo-espressionista, con particolare attenzione al tema dell’autoritratto, fino agiungere, a metà degli anni Ottanta, ad una sintesi figurativa espressa da un simboli-smo geometrico di forte valenza etico-spirituale.Nei lavori dei primi anni Novanta lo studio del simbolismo criptico degli archetipi del-la visione viene elaborato mediante il disegno di improbabili case di apparente e fred-da memoria neo-classica. Nascono così i “Plastici”, che mettono in luce le contaminazioni tra scultura e architet-tura e poi le “Cattedrali”; alla fine del decennio iniziano le sperimentazioni per il cosìdetto “Libro dei tipoidi” e i “Reliquiari d’architettura”, dove il riferimento è alla casa,come contenitore di elementi viventi e dunque sacri.A seguito dei tragici eventi del G8 del 2001 nasce la serie omonima, mentre tra 2004e 2005 l’artista produce i “Vuoti a perdere”, che pongono l’attenzione sugli edifici pub-blici ormai in disuso. Le sperimentazioni continuano negli anni successivi con le “Ta-vole sinottiche” (2008), “Il respiro di Genova” (2010-2011), “I capricci italiani” (2012-2013),fino ad arrivare agli ultimi lavori sulla “Città combusta”, in cui gioca con il parallelo trala forza evocativa del fuoco e quella dell’arte.Nel corso della sua carriera Carlo Merello ha dato vita e numerose mostre personali intutto il territorio ligure e ha partecipato anche a esposizioni di rilievo nazionale e in-ternazionale, come "Crossing Borders" al Fine Arts Center di Irvine in California nel 1992;"Arte postal: a Festa" presso la Biblioteca municipal do Barreiro, in occasione del 5° ExpoInternacional di Spagna nel 1993; "L'objet reconnu” presso la Galleria Etage di Munsternel 1995, "BUIO, sottovetro" a Madrid nel 2015, la Biennale di Chiasso nel 2010 e la Bien-nale di Genova nel 2015.

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SATURARTE 201520° Concorso Nazionale d’Arte Contemporanea

a cura di Mario Napoli

204 artisti finalisti in mostraSATURA art gallery - Genova, Palazzo Stella - 12 - 23 settembre 2015

Con il Patrocinio di:

La celebrazione delle 20 edizioni del Concorso Nazionale d’Arte Con-

temporanea – SaturARTE, più che un riconoscimento per SATURA art

gallery, che l’anno scorso ha festeggiato il ventennale di attività, è lariprova del ruolo svolto in questi anni nella ricerca e nella promozio-ne di artisti di talento. La manifestazione vede la partecipazione di 200artisti nazionali ed internazionali selezionati tra le oltre 1000 iscrizio-ni da tutta Italia. E se i numeri non sono certo l’unico aspetto da con-siderare per valutare la qualità di un’iniziativa, almeno in questo casovanno reputati come un segnale esclusivamente positivo. In primis perl’affetto e la stima dimostrata dai tanti artisti che hanno voluto esse-re presenti e poi per il costante trend positivo che registrano le pro-poste del ricco programma espositivo di SATURA in termini di colla-borazioni e di crescita per importanza e ambizione. Basti pensare allaBiennale di Genova da poco conclusasi con grande successo, che hacoinvolto, oltre a Palazzo Stella, cinque diverse location museali ed isti-tuzionali o la presenza a Photissima Art Fair presso il prestigioso Chio-stro dei Frari di Venezia in concomitanza alla 56^ Biennale d’Arte. Unpercorso in continua ascesa dalla prima edizione, quando i concorsi in

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Regione Liguria Città Metropolitana di Genova

Comune di GenovaMunicipio 1 Centro Est

1° Premio Fotografia Alessio Belloni 1° Premio Pittura Pauline Zenk

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Italia dedicati all’arte contemporanea era-no ancora pochi. Nel 1995 è stata una verascommessa quella di istituire SaturARTE

che voleva essere un’occasione reale di vi-sibilità per gli artisti, di confronto tra diloro e con il pubblico. Il concorso rappre-senta al meglio la missione di SATURAneldare impulso all’arte contemporanea e va-lorizzare i giovani artisti, incentivandoli arealizzare i loro progetti. È cresciutoanno dopo anno, consolidando la sua famagra zie alla trasparenza e alla professiona-lità dimostrate. Si è trasformato in un mar-chio sinonimo di apertura, creatività e dia-logo, in cui sono solo le opere a parlare.Un vero e proprio circuito ad ampio rag-gio che nella comunicazione e multidisci-plinarietà fonda il suo punto di forza pergenerare un ambiente intellettualmentedinamico che mantenga alta l’attenzionedel pubblico e degli addetti ai lavori. Sa-

turARTE è il nostro appuntamento an-nuale con l’arte capace di mostrare unaraccolta di idee in tutte le sue forme, ilbaricentro per saggiare lo stato dell’ar-te contemporanea in Italia: quest’anno c’èstata una grandissima adesione di gio-vani emergenti di talento che utilizzanoe sperimentano i mezzi più innovativi,ma dimostrano anche grande studio e pa-dronanza delle tecniche pittoriche e fo-tografiche. Affiancati come di consuetoda artisti professionisti, con una carrie-ra consolidata: è una grande ricompen-sa andare a ritroso e vedere quanti di lorosi sono affermati nel panorama italianocrescendo insieme e parallelamente alconcorso. Voglio ringraziare gli artisti perla loro adesione e la fiducia accordata intutti questi anni e per aver condiviso connoi l’ambiziosa volontà di non subire lascena contemporanea, ma di avere un ruo-lo culturale attivo e scriverne una paginain prima persona.

LA GIURIA DI SATURARTE 2015Marino Anello collezionista, Silvia Cane-

pa grafico, Wanda Castelnuovo criticod’arte, Elena Colombo critico d’arte, Mi-

lena Mallamaci architetto, Marta Marin artcurator, Yolanda Mora art advisor, Fla-via Motolese art curator, Giuditta Napo-

li designer, Mario Napoli presidente as-sociazione Satura, Mario Pepe critico d’ar-te, Andrea Rossetti critico d’arte e MariaValacco critico letterario.

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2° Premio Fotografia Lorenzo Mini

3° Premio Fotografia Roberto Bordieri

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ARTISTI VINCITORI1° Premio Pittura Pauline Zenk, 1° PremioFotografia Alessio Belloni, 2° PremioPittura Paola Pastura, 2° Premio Fotogra-fia Lorenzo Mini, 3° Premio Pittura Ma-ria Guida, 3° Premio Fotografia RobertoBordieri, Premio della Critica Roberto An-

telo, Premio della Giuria Tullio De Pietro.

ARTISTI PREMIATIRosario Abate, Andrea Agrati, Guido Ali-

mento, Alessio Bandini, Lello Bavenni,Maria Bertolino, Tiziano Bonanni, SilviaBrambilla, Stefano Cacciatore, LorenzoCastello, Franco Dallegri, AlessandroDe Michele, Ornella De Rosa, Giustino De

Santis, Enzo Forgione, Anna Gamberini,Massimo Gilardi, Pia Labate, Jessica Ma-

rangon, Mirella Marini, Pasquale Martino,Attilio Maxena, Antonio Milana, Rober-to Miraglia, Anna Momini, SarvenazMonzavi, Massimo Motta, Pablo MuñozMontaner, Luca Paramidani, FrancescaPompei, Aldo Righetti, Luca Salvetti,Gio Sciello, Andrea Simoncini, Santi Sin-

doni, Gennaro Totaro, Giovanni Vecchi,Stefano Zangara.

ARTISTI SEGNALATILaura Baiu, Mattia Baraldi, Antonio Bia-

giotti, Stefano Boschetti, Francesco Bruz-

zo, Paolo Cau, Renato Dametti, AnnaDennis, Francesco Falace, Sibilla Fanciul-

li, Amedeo Fernandes, Carlotta Fortuna,Sergio Franzosi, Silvia Fucilli, GianniGianasso, Giorgio Gioia, Andrea Granchi,Giovanni Ignazzi, Maria Kasakova, LuciaMaio, Umberto Marangoni, Luca MariaMarin, Marlen Und Marlen, Mauro Mar-

tin, Andreas McMuller, Martha Meza, MIG,Flavio Montagner, Nikolinka Nikolova,Ada Nori, Simone Paccini, Paola Pappa-

lardo, Marjo Riitta Paunonen, Roberto Pe-

starino, Andrea Pollastro, AlessandroRossi, Cristiano Salinardi, Rossella Sar-

torelli, Lara Sarzola detta Pandora, Ren-zo Sbolci, Maria Tcholakova, Federico Tin-

ti, Gabriella Vinciguerra, Xavier Yarto.

ARTISTI FINALISTI IN MOSTRAGuido Adaglio, Salvatore Affinito, GiulioAgostino, Aurelia Albertocchi, LucioAlessio, Paolo Ambrosio, Annamaria An-

gelini Chiarvetto, Enzo Angiuoni, Dome-nico Arces e Lucia Macrì, Vittoria Arena,

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Premio Giuria Tullio De Pietro

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Grazia Badari, Cinzia Bassani, Carla Bat-

taglia, Manuela Bausone, Fabrizio Bellè,Tiziana Benvenuto, Alessandro Berretta,Lisa Bertè, Amedeo Besana, MarinidaBiagini, Raffaella Bisio, Francesco Blaga-

nò, Ivo Bonsi, Moreno Bottauscio, Rosa-maria Brioschi, Cristina Calderara Jaime,Barbara Callio, Sara Cancellieri, MatteoCannata, Mario Caraffini, Luigi Carpine-

ti, Antonio Casali, Caterina Cataldi, Mau-rizio Ceneviva, Venere Chillemi, ValeriaCrisafulli, Francesca Cristini, Graziella De

Poli, Massimo Di Bacco, Natalia Esanu, Ser-gio Fassan, Ida Fattori, Stefano Favaret-

to, Patrizia Fazzari, Daniele Fedi, Caroli-na Ferrara, Nicla Ferrari, Milena Ferruz-

zi, Leonardo Fiaschi, Ishmael Florez,Carla Freddi, Monica Frisone, AngelaFurciniti, Francesca Galleri, Antonello Gan-

gemi, Moreno Gasparetto, Lena Giannie-

ri, Ada Giaquinto, Isabella Giovanardi, Al-berto Giudici, Iolanda Giuffrida, Giulia

Gorlova, Mara Grimaldi, Valeria Gubba-

ti, Gisela Hammer, Anna Icardi, FlorkatiaLibois, Elisa Lovati, Francesca Lupo, Pier-paolo Mancinelli, Cristina Mantisi, Mari-

ki, Antonella Marini, Silvana Mascioli, Sil-vana Mellacina, Me-Né, Edjola Merxhushi,Bruna Milani, Elvio Miressi, Giulia Mon-

teverde, Valeria Morasso, Giacomo Moz-

zi, Not so popular, Adriana Olivari, GiBiPeluffo, Claudio Pesce, Giorgio Luigi Pia-

na, Patrizia Poli, Raimund Prinoth, ElviRatti, Luana Resinelli, Agostina Ribaldo-

ne, Rossana Rigoldi, Patricia Rodriguez

Pastor, Mariangela Rosso, Beatrice Salva-

dori, Antonio Scaramella, Giorgia Scoma,Monica Spicciani, Maurizio Stragapede,Lada Stukan, Giuseppina Taddei, Maria-luisa Tedeschi, Carlo Terenzi, AntonellaTomei, Mario Tonino, Giuseppina Tonto,Alfredo Torsello, Luisella Traversi Guer-

ra, Daniela Traverso, Rita Vitaloni, Clau-dia Vivian, Alice Voglino, Laura Zilocchi.

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Premio Critica Roberto Antelo

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STEFANO GRONDONAVISIONARIO CONTEMPORANEO

di Flavia Motolese

Le idee migliori non vengono dalla ragione,

ma da una lucida, visionaria follia.

Erasmo da Rotterdam

Stefano Grondona osserva il mondo con estrema lucidità e ne rappre-senta con divertito disincanto tutta la follia e le contraddizioni. Uni-co nel panorama italiano, realizza opere tridimensionali grazie ad unprocedimento di stratificazioni di cartoncini intagliati e distanziati daun materiale semi plastico che gli permette di infondere profonditàalla composizione e accentuarne l’effetto drammatico. La scelta del-la sequenza cromatica dei cartoncini non è prestabilita nella fase pro-gettuale/disegnativa, ma improvvisata in fase di montaggio seguen-do l’ispirazione e ricercando gli accostamenti che rendano al megliocontrasti e armonie o accentuino le volumetrie.L’atto creativo è totalmente libero, risponde solo alle sue esigenze nar-rative ed espressive, ma nelle sue opere nulla è casuale: come un esper-to regista Grondona immagina la trama, predispone la scena e la foto-grafa, incidendola nella carta – il procedimento elaborato è frutto di annidi sperimentazione in campo fotografico.Artista visionario e geniale, è capace di tratteggiare scene di perfettaorchestrazione, stilizzando le figure e riducendo al minimo gli elemen-

Gesù Cristo inchiodato al muro di casa, 2015, cartoncini intagliati, 70x100

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Section one, 2015, cartoncini intagliati, 100x70

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ti compositivi. Interessato all’attualità,tratta solo tematiche contemporanee, il-luminando come un faro la verità, ritra-endo le incoerenze umane, e rendendo-le manifeste. Questa aspirazione realistalascia affiorare la sua personale interpre-tazione della società, sarcastica e spie-tata, da cui sembra essere esclusa ognipossibilità di sottrarsi ad un destino bef-fardo e crudele. La lama che incide con chirurgica periziai cartoncini colorati corrisponde allalama intellettuale che disseziona la men-te e l’anima senza lasciare margini di fugaa soluzioni consolatorie. Ma più il sogget-to è grave, più i colori devono attrarre lospettatore, affascinarlo in un gioco di an-titesi: la gamma cromatica volutamentevivace determina un effetto di straniamen-to rispetto alla tematica trattata e gene-ra un forte impatto psicologico. Le ope-re di Grondona si possono ricondurre afiloni tematici la cui ispirazione spazia dalcampo letterario, a quello cinematografi-co: l’immagine sacra, la città nuda, gli stru-menti musicali, i Cristi, i vizi, le scene del-l’Apocalisse. Influenzato dal Surreali-smo, dalla Pop Art, dall’Espressionismoe, in particolare, dall’opera di Bacon eMunch, se ne discosta attraverso l’elabo-razione di un linguaggio del tutto origi-nale che non è possibile relegare nella de-finizione di una sola corrente artistica.La sua analisi della condizione umana la-scia emergere la visione di uomo consa-pevole del dramma esistenziale, in cuigioca un ruolo fondamentale la percezio-ne dell’identità. Grondona ha saputo rap-presentare i tormenti della società con-temporanea in cui verità oggettiva e ca-pacità immaginative si mescolano inuna concezione filosofica simile a quel-la che Herzog definiva “verità estatica”:più profonda di quella apparente, bana-le e superficiale, che si ottiene riprodu-cendo i fatti reali, una verità che scuotel’anima e che si può raggiungere “solo at-traverso invenzione e immaginazione estilizzazione”.

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Direttiva primaria, 2015, cartoncini intagliati,100x70

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Non sara forse l'esuberanza di cibo a creare il dissidiotra i popoli, 2015, cartoncini intagliati, 100x70

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TIME TO TALK± 100 Contemporary Artists From Iran

a cura di Sarvenaz Monzavi e Mario Napoli

Sabato 17 ottobre 2015 ore 17:00Palazzo Stella - inaugurazioneaperta fino al 28 ottobre 2015

da martedì a sabato ore 15:00 – 19:00Genova, SATURA art gallery

SATURA art gallery ha il piacere di ospitare nei propri spazi espositi-vi una grande mostra dedicata all’arte iraniana contemporanea. 100 ar-tisti, membri dell’Associazione dei Pittori Iraniani, presenteranno in an-teprima assoluta per l’Italia le loro opere dando corpo alla mostra “TIMETO TALK. ± 100 contemporary artists from Iran”. La rassegna offre unpunto di vista sulla storia dell’arte e della cultura visiva iraniana con-temporanea, senza proporne una lettura unitaria, ma sottolineando lavarietà e la complessità di un immaginario artistico che arricchisce lanostra visione offrendo molti spunti di riflessione. “TIME TO TALK” nasce con l'obiettivo di favorire lo scambio artistico-culturale tra l'Italia e l’Iran, un paese dalle solide tradizioni artisticheancora poco conosciute fuori dai suoi confini: la pittura è una delle artipiù coltivate nella cultura persiana, in cui confluiscono elementi deri-

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Amin Rostamizadeh

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vati dalla raffinata perizia della miniatu-ra, dal ricercato e fastoso gusto esteticomediorientale e, oggi, dalla globalizzazio-ne del linguaggio espressivo. L’esposizione assegna ai dipinti il compi-to di esprimere e comunicare lo spirito deltempo, disvelando allo spettatore un ric-chissimo universo in cui ai soggetti e alleformule compositive di stampo più tradi-zionale si intrecciano soluzioni innovati-ve e sorprendenti (giochi di prospettiva,rare essenzialità di forme e astrazioni geo-metriche). Un viaggio alla scoperta di unPaese che si sta aprendo al mondo per far

conoscere ad un pubblico più vasto la suaimmensa cultura in cui la modernità con-vive con l'eredità culturale di un incredi-bile immaginario di storie e poesia.La mostra sarà un’opportunità unicaper ammirare le opere che rappresenta-no le impressioni intellettuali e persona-li di alcuni maestri dell’arte iraniana, tracui spiccano i nomi degli artisti contem-poranei più importanti e quotati a livel-lo internazionale – Hadi Jamali, BehzadShishehgaran, Reza Bangiz - insiemecon i giovani talenti che stanno scriven-do la storia attuale.

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Mahshid Rahim Tabrizi

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ARTISTI IN ESPOSIZIONE:Afsaneh Akhoondi, Ahmad Nasrollahi,Alaleh Amini, Ali Taraghi Jah, Amin Ro-stamizadeh, Armineh Negahdari, ArtaSharif, Atash Shah Karami, Atefeh Me-hrvarz, Atefeh Rezaei, Azadeh Keyghoba-di, Azadeh Teymourian, Azim Morakabat-chi, Azin Alavi, Badri Meraji, Bahar BineshMarvasti, Bahareh Zali, Behshid Farhan-gian, Behzad Shishehgaran, Elaheh Nasi-ri, Elham Aghili, Fariba Rahnavard, FarshidShiva, Fatemeh Abdollahzadeh, Fatemeh

Pakdel, Fereshteh Yamini Sharif, GolnarHabibi, Golnaz Anbari Attar, Hadi Jama-li, Haleh Hassani Kia, Haniyeh Forootan,Hekmat Rahmani, Helia Azmi, HerminehKeshish, Hesam Poloei, Homa Tavakoli, Ja-mileh Vosoughi, Jina Shamsolvaezin, Kia-na Mirhaghani, Leila Gholoubi, Leila Ta-herian, Leyli Derakhashani, Mahin Lotf Mo-hammadi, Mahnaz Ahmadi, Mahshid Ra-him Tabrizi, Mahvash Joorabchi, ManijehSehi, Manouchehr Motabar, Maryam Agha-ee, Maryam Mohammadi, Maryam Mojta-

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Niloofar Ghaderi Nejad

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hedi Moghadam, Maryam Seraj, MaryamSharifi, Masoumeh Mozafari, Mehrdad Fal-lah, Milad Mahmoudi, Mina Naderi, MitraKharestani, Mohammad Hadi Fadavi, Mo-hammad Ishaghi, Mohammadreza Ah-madzadeh, Mohammadreza Pour Farza-neh, Mohsen Nazari Khanmiri, Mojdeh Me-hrafarin, Mojgan Hosseini, Mojgan Roha-ni, Mona Khodadad Pour, Mona Zand Kia-ni, Nazanin Allah Verdi, Negin Javaheri Far,Niloofar Ghaderi Nejad, Niloufar Torabi,Nima Petgar, Parvaneh Razaghi, Pegah Ja-

mali, Pouneh Oshidari, Pooya Jamali,Pouran Harati Pour, Rahman AhmadiMaleki, Reza Bangiz, Ronak Farhangian,Rozita Sharaf Jahan, Sabrineh Toopchi, Sa-maneh Ahmadi, Sanaz Eskandari, SanazHaeri, Sarah Ameri, Sarvenaz Monzavi, Se-tareh Dehdari, Shabnam Tolou, ShahinGhaffari, Shirin Boriyaei Doost, SimaAmani, Sima Novin, Sirous Aghakhani, So-mayeh Hedayat, Sousan Ettehad, Yagho-ob Amamepich, Zahra Khalil Zadeh, Zei-nab Sadeghi Kaji.

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Behzad Shishehgaran

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ALESSANDRO BERRETTAFENOMENOLOGIA SOCIALE

di Andrea Rossetti

Diretta su un immaginario collettivo è la posizione di chi i piedi a ter-ra sa come tenerli. Alessandro Berretta va contestualizzato nell'ascen-denza che un certo concettualismo tutt'ora ha su una larga fetta del-la produzione artistico-contemporanea, quasi come lascito propedeu-tico - quando non fondamentale - all'introduzione dell'artista versoun'azione espressiva centripetamente basata su sistemi di relazione so-ciale. E pur se l'arte in quanto pratica per Berretta non arriva ad esse-re quel sinonimo sintomatico di “ricatto sociale” ipotizzato da Massi-mo Grimaldi (artista in molti casi protagonista di soluzioni decisamen-te più “borderline”, ma che per inciso col torinese condivide una for-ma di arte-denuncia giostrata nei confini di un teorizzazione compar-tecipata dal valore razionale dell'oggetto-immagine), si trova comun-que a significare una forma di “contatto sociale”.

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Contrapposizioni (complemetari), 2014, tecnica mista, 18,5x11,5

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Quindi si pone una domanda che rischiad'essere banale, per alcuni forse lo saràsicuramente, tuttavia apparentemente ne-cessaria: quale è il ruolo (vero e non pre-sunto) dell'artista? Questione che si tiradietro una riflessione molto meno bana-le, perlomeno se si tiene conto del ruo-lo sociologico maturato dall'arte diretta-mente (e indirettamente) nel tempo, e chefa da volano affinché l'artista non pre-cluda dalle proprie azioni il contatto conla realtà di un quotidiano vissuto, o vi-vibile anche a distanza. In Berretta ciò siriduce ad una sintesi minimal di fatti e

misfatti (di cui l'uomo è “self maker” as-soluto) condizionanti a livello planetario,ricorrendo all'uso meta-evocativo di og-getti istantaneamente riconoscibili, nonmanipolati fisicamente quanto sviluppa-ti concettualmente. Decontestualizzatinella loro iconicità per far si che essa siamessa in rima con la loro totemica mo-dernità. Berretta così attesta il ricorso ri-petuto alla linea nei codici a barre, sbar-re di un'omologazione imperante, comeall'insolenza di quella “mascherina”eletta ad oggetto globale, multiplo pas-sato per una catartica pop-art, (forse) fi-nito nel più perfetto autoritratto di unartista auto-elettosi membro egalitario diuna popolazione mondiale. Tra univer-salità condita di veemenza ieratica e lastoccata nazional-popolare del “siamotutti sulla stessa barca”.

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Ognuno a suo modo ha lasciato qualcosa, 2015,tecnica mista su tela, 35x50

Ne risponderemo, 2005, tecnica mista su legno,28x23

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STEFANO BORRONIMEDITAZIONI PITTORICO-FIGURATIVE

di Andrea Rossetti

Mossa vagamente underground - o pensata fuori dalla frenesia di un rap-porto tra la contemporaneità e le immagini basato spesso sull'immedia-tezza - coltivare la quiete fino a farne una situazione pittorica “ambien-tale”, coercitiva fino al punto di poter essere considerata conditio sine

qua non per buona parte della produzione di un artista. Ma è seguendoquesto procedimento “improprio” che Stefano Borroni s'è ritrovato pro-tagonista in una pittura di netta evidenza meditativa, nella qualel'espressività pura è già stata superata da una tracciatura riflessiva span-dente, che dai luoghi rimbalza su soggetti e complementi narrativi. Fis-sandosi in ultimo sul tempo, divenendo immagine di una melanconia nonappassita, fatta di situazioni vivibili e persone in cui riconoscersi, mo-

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Per l'ultima volta, 2013, olio su tela, 80x80

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vimenti-attimi che si guadagnano la loromeritata eternità ripetendosi giorno pergiorno.È quel sentore d'eterno, immutabile e im-perturbabile alla vista, che si riflette in ungrigiore (virato talvolta ad una fotografi-ca tonalità seppia) in cui non c'è negazio-ne cromatica, ma la facoltà dell'artista digelare l'istante preso, bloccarlo nella visio-ne collettiva, lasciarlo immobile nell'inva-riabilità delle sue marcate luci e ombre.Tono seppia che chiede nuova attenzione,poiché coerente con una pittura tesa a cat-turare fotograficamente l'istante dato,da cima a fondo, riportando con precisio-ne l'immagine; e doppiamente coerentequando, allargato il proprio spettro croma-tico, l'artista mette la stessa immagine alla

funzione di una misura tonalmente pocosatura, in verità perfettamente ghirriana. Svicoliamo subito da ogni sorta di equi-voco: definire “fotografica” la pittura diBorroni non comprende solo fattori con-nessi a situazioni stilistiche, opinabiliquanto si vuole; al contrario tale agget-tivazione è determinante per tracciarel'ipotetica “filiera concettuale” delle sueimmagini. Ghirriano (quindi legato anco-ra all'istantanea d'autore) infatti è il pia-cere di selezionare una complessità visi-va tale da mettersi in condizione di“parlare per immagini”, cercando moda-lità di visione allegorico-contempora-nee che arrivino a formare percorsi in cuila figurazione sia affare di pubblico do-minio, e non solo di chi la fa.

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Tutte le mattine, 2015, olio su tela, 70x70

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ORNELLA DE ROSASGUARDO RAVVICINATO

di Elena Colombo

Lo sguardo femminile di Ornella de Rosa nasce da un approccio iperea-listico e da una scelta cromatica che, avvicinandosi alle tavolozze mini-me del fumetto statunitense e alla grafica, ricorda la verosimiglianza fo-tografica del cinema. Arte di consumo, dunque, cioè immagine che con-tribuisce a orientare il gusto livellando i canoni estetici. Si tratta forse deltrionfo dell’apparenza; ovvero, che senso ha la pittura descrittiva nell’eradel digitale? Allo stesso modo dell’obiettivo, il pennello agisce come una

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Oltre lo sguardo, 2014, acrilico su tela, 60x60

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spatola anestetizzante ma varia l’intensi-tà pratica dell’azione. Sociologi e giorna-listi – per non parlare dei blogger – han-no notato il passaggio dalla tela al selfie,salutandolo come abbattimento dell’este-tica d’élite o viceversa come manifestazio-ne di una “Sindrome Narcisista”. Cellula-ri e macchine hanno il dono della rapidi-tà dell’occhiata di superficie, mentre il pen-nello impone ancora tempi di lavorazio-ne lunghi e una diversa abilità tecnica. C’èperò un fattore che accomuna le due di-mensioni, ossia la funzione standardizzan-te che prescinde da un racconto per crea-re icone ad hoc. L’artista lombarda uniscea queste visioni quella del fotogramma,grazie a un approccio confermato dalla se-

quenzialità che restituisce l’idea di movi-mento anche in un contesto che apparen-temente richiede meditazione. La donnaè ripresa in tutte le sue sfaccettature, se-condo inquadrature e tagli graffianti, dal-l’efficacia pubblicitaria: troviamo la vampe la ragazza comune; quella sicura di sée la sognatrice che ci porta in un mondodi introspezione. Così, mentre creiamoun’ipotetica sfilata di volti, dobbiamosempre tener presente il filtro attraversoil quale stiamo guardando, uno specchioche restituisce una percezione particola-re del soggetto. In alcuni casi il personag-gio è colto di sorpresa, in un momento diriflessione o di assoluta spontaneità - eallora si ha una sensazione di freschezza,come se l’occhio passasse attraverso un ve-tro – in altri pare che si sia volutamentemesso in posa per mostrare una certa ideadi bellezza, un distacco che ha a che farecon la concezione patinata dell’algidaperfezione fisica. Come nel ritratto di Na-tasha Gilman firmato da Diego Rivera lelinee seducenti della figura sono ripresee sottolineate dall’ondulazione biancadelle calle, qui i tratti somatici si riverbe-rano nella vaporosità degli scolli o nell’in-crespatura lattea di uno sfondo neutro.

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La scelta, 2015, acrilico su tela, 90x60

Semplicemente stupore, 2014, acrilico su tela,50x100 (particolare)

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LOREDANA GAZZOLATRAME-TRAPPOLA

di Andrea Rossetti

Destabilizzano quelle parole tese nello spazio, aperte, troppo libere d'es-sere un intreccio ampliato alla rinfusa. Toglie il fiato la loro infinita po-tenzialità estensiva, sulla carta non quantificabile o direttamente perce-pibile, così come il loro ruolo di unica immagine tronca e ridondante, so-vra-estetica in tutti i suoi strutturali punti di saldatura che ne avallanol'inscindibilità. Una cortina ostica, difficilmente penetrabile, con cui Lo-

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Reti antigrandine, 2012-2014, fotografia bn, 49x49

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redana Gazzola sembra fotograficamen-te avanzare una domanda cruciale: c'è an-cora voglia (e possibilità) di attivare unqualsiasi tipo di comunicazione in questofitto intreccio privo di senso logico-gram-maticale, che sembra destinato a non ave-re inizio o fine? Forse, o forse il gioco del-la fotografia sarà solo l'ennesimo retico-lo costrittivo, ingabbiamento disposto amodificare la nostra conoscenza del mon-do, un filtro attraverso cui la realtà è pre-sa come dato di fatto, quasi involontaria-mente, come non ci si rendesse conto chesentirsi “dall'altra parte” significa assume-re quell'intreccio snervante a condizioneprimaria del quotidiano. Una rete già impiegata in proporzioneconcettuale e che la Gazzola riprende nel-la libera interpretazione dei suoi termi-ni, con l'intenzionale duplicità percetti-va di una maglia realmente intessuta o diuna sommatoria fittizia tra elementi

eterogenei, equivocando le immagini se-condo la legge dell'inganno più che men-tale. Non blocco, ma interferenza in gra-do di condizionare la percezione indivi-duale, di un individuo obbligato dalla Gaz-zola (per prima, ma non da sola) ad os-servare (quindi ad una presa di coscien-za sul proprio esistere) da dietro lasemi-penetrabilità delle sue maglie larghe,fitte o piegate dal passare del tempo. Di nuovo sul concetto d'interferenza,quella che si trasforma in abitudine, en-tra in circolo nella sua dimensione deco-rativo-aggiuntiva, agendo sulla compren-sione delle immagini, sulla loro iconogra-fia, ma senza intaccarne la base iconolo-gica. Con alcuni passaggi in analogia alpercorso video-installativo della statuni-tense Trisha Baga, la Gazzola colpisce alcuore il nostro “saper vedere”, vittima tan-to delle incidenze esterne quanto della sualogica frammentazione.

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Solo il cielo lo sa, 2012-2014, fotografia bn, 49x39

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LUDOVICA LANCI OLTRE LE FINESTRE APERTE

di Elena Colombo

Ludovica Lanci riflette sulla permeabilità tra Interno ed Esterno nella per-cezione dello Spazio. Questo approccio fondamentale è dato non solo dal-la scelta degli oggetti da rappresentare ma anche e soprattutto dai colo-ri, ossia dall’uso calcolato della luce che di volta in volta crea sgranatureo saturazioni sulla retina. Se dal punto di vista tecnico ritroviamo il gu-

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Green light, 2013, fotografia digitale su forex

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sto di Childe Hassam e Edward Hopper perle finestre, filtri trasparenti tra un Noi os-servante e una realtà pregnante. La lette-ratura aveva già esplorato queste possibi-lità utilizzando una serie di metafore: dal-la famosa “Stanza tutta per Sé” di VirginiaWoolf alle “Finestre aperte” di John Irvingnel romanzo “Hotel New Hampshire”. At-traverso i vetri si può spiare il mondo sen-za essere visti, costruendosi una dimensio-ne che sarà privata e al contempo sociale.Nella sua Teoria dei Sistemi, Nikolas Lu-hamnn evidenziava tre piani di lettura: ilmateriale, il temporale e il sociale ricom-binati secondo la personale percezione deifattori ambientali, cronologici e psicologi-ci. Le immagini propongono una simile ela-borazione del rapporto tra Ego e Alterego,situando la scena in luoghi che non sareb-bero considerati come location privilegia-te e soffermandosi sui particolari. Nell’im-magine, la modernità convive con la soli-dità dell’antico, il calore del mattone si af-fianca alla schematicità di tubi e ringhie-

re malferme. Le inquadrature lasciano in-tuire un’ascensione anche quando sonosemplicemente statiche o mere trascrizio-ni della geometria; pare infatti che il gustocontemporaneo trovi sempre il modo dispezzare la linearità in favore del movimen-to. Si tratta chiaramente di scorci di peri-feria urbana – laddove il termine “perife-ria” viene messo in discussione dalla cen-tralità che il luogo assume sul momento.Si evidenzia così l’importanza dei lin-guaggi metropolitani, specie se posti in re-lazione con la presenza spontanea della Na-tura. Nella logica in cui l’ecosistema etra nel-l’architettura e ne diventa parte, il graffi-tismo ha il valore semiotico di un albero,grazie a un processo che deriva direttamen-te dal Post-Impressionismo violento di Vin-cent Van Gogh. Per Ludovica Lanci a emo-zione è quindi una fiammata fredda o unatag spezzata, mentre il soggetto nascostonelle proprie inquietudini come un nuovoNoferatu di Munch o come i ragazzini fotofobici ma foto-generati di “The Others”.

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Riflessi, 2013, fotografia digitale su forex

Sadness, 2013, fotografia digitale su forex

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ALLA CHIARA LUZZITELLIUNDER THE SKIN I DON’T LIVE IN

di Elena Colombo

Ritratti che qui traducono il senso di teatralità che è implicito in ogni“scena della vita”, ovvero l’idea di movimento che si cela dietro al di-stacco dei gesti . Quelle di Alla Chiara Luzzitelli sono foto che vannoviste in sequenza, cercando la ragione dinamica dietro alla posa as-sunta nella transitorietà dell’istante. Come in una coreografia, ciascunmovimento racconta una storia e ha un’armonia, ma trova collocazio-ne in una struttura narrativa complessa, che dipana le due principa-li coordinate: è il Tempo che viaggia all’interno dello Spazio. Il sogget-to può essere uno e compiere un’azione lungo i vari scatti posti in suc-cessione, svelandosi o nascondendosi allo sguardo – e allora la sen-sibilità è quella che si ritrova anche nelle performance della danza con-temporanea che si chiude sul singolo e gli dà corpo, mostrandolo comeunico attore. Non più la coralità che si ricercava nello sfarzo, ma piut-

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tosto l’essenzialità ridotta fino all’annul-lamento dell’Altro e la conseguente can-cellazione di qualsiasi sfondo o riferimen-to. Avvicinandosi all’individuo – e quin-di alla sfera privata che analizza il cor-po e lo rende tramite dell’emozione –s’inaugura un percorso di conoscenzache ci spinge a interrogarci nella smaniadi zumare sempre di più. In ogni caso,l’esperienza è straniante quanto il kami-kakushi. Si ha la sensazione che i nuo-vi Ego, prodotti dalla post-modernità enati per ciò dalle contrazioni di teatro Bu-toh siano stati rapiti restituiti dagli Spi-riti e che restino egosintonici, incapacidi rapportarsi con realtà esterne. Abban-donato nella neutralità fittizia di un pal-co, Uomini e Donne devono fronteggia-re le paure relazionali e reinterpretareuna condizione di pre-artificialità ri-scritta sulla non-riconoscibilità oggetti-

va di un Io dai mille volti che non è piùun Eroe ma un essere dimezzato dallapromessa di una finitezza di là da veni-re. In “Time” di Kim Ki-Duk, i protago-nisti vogliono cambiarsi per potersi ac-cettare nel rinnovamento. Come le figu-re di René Magritte erano standardizza-te dal completo grigio con bombetta, que-sti soggetti declinano l’incomunicabilità– e il conseguente bisogno di oltrepassa-re il Muro nichilista – nell’interpretazio-ne psicosociale della fascinazione con-temporanea per le bende: non più sim-bolo di sottomissione come nella modadelle ragazze kega-doru, ma espressio-ne d’isolamento. Se ci si apre alla pos-sibilità offerta dal panorama, se si affron-ta l’esplorazione dei luoghi oltre che delfisico l’ignoto diventa una dimensione av-volgente, brumosa, nella quale punti car-dinali sono stati inghiottiti.

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GIUSEPPE PALUMBOFORMA COME ESSERE

di Flavia Motolese

Giuseppe Palumbo riesce a coniugare nelle sue opere tutta la forza del-la materia ed un profondo sentimento di liricità. Ha iniziato il suo per-corso artistico, dedicandosi alla scultura e dimostrando uno spicca-to interesse per la plasticità dei corpi: l’utilizzo di diversi materiali de-nota la volontà di indagarne la struttura interna con un approccio dimeditato verismo per cogliere l’interazione della luce con la materia,la corporeità delle cose.Le sculture di Palumbo mostrano chiaramente come sia centrale nel-la sua ricerca la questione della forma, quale elemento fondante e enig-ma da dirimere con cui l’artista deve confrontarsi per arrivare a com-prenderne la realtà. La concretezza della materia e la scelta di defini-re solo per sommi capi la figura, lasciando alcune parti abbozzate, ac-centua l’intensità espressiva dell’opera. Le figure femminili in terra-cotta in cui non sono definiti volti e dettagli, ma l’attenzione è foca-lizzata sui volumi, sembrano derivare da un impeto creativo subita-

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Mucca, 1981, gesso, garza e filo di ferro, 47x100x20

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neo, scaturito per cogliere la loro essen-za e dominare i segreti della forma e deivolumi. In altre sculture prevale la sin-tesi formale, come negli animali, in cuila figura è definita da una struttura me-tallica avvolta da garze immerse nel ges-so. L’artista esegue una sorta di scarni-ficazione del corpo dal suo interno, loevoca come apparenza, lasciandone in-tuire l’ineluttabile caducità, fino ad ap-prodare ad opere in cui l’estrema sinte-si delle forme rende l’illusione del mo-vimento e della contemporaneità dei pia-ni prospettici.Approdato, in un secondo momento, allapittura, Palumbo richiama con i suoi ri-tratti un senso di rarefatta atemporali-tà, la materia pittorica è di classica me-moria, mentre i soggetti e l’indagine psi-cologica che trapela sono figli dellacontemporaneità. La purezza delle for-me e la linearità della composizione de-notano la dimestichezza con la statua-ria, le tonalità diffuse, a tratti opache e

gli scarti tonali richiamano atmosfere so-spese di morandiana memoria. La ridu-zione degli sfondi a campiture uniformi,quasi monocrome, concentra l’atten-zione sul soggetto prediligendo il tagliofotografico della rappresentazione e in-tensificando la modellazione dei perso-naggi in senso plastico.Palumbo si dedica anche alle nature mor-te e al paesaggio: i giochi chiaroscurali,la luminosità diffusa, gli impasti mate-rici nelle tonalità dell’ocra e del verde re-stituiscono immagini di un universo in-teriorizzato senza perdere il contatto conl’elemento naturalistico reale che le haispirate. L’artista dimostra come sempreuna grande sensibilità, approdando adesiti figurativi di ieratica purezza e ar-moniosa composizione.

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Ritratto di ragazza con sottoveste nera, 2003, oliosu tela, 95x70

Ritratto di uomo con maglia rossa, 2005, olio sutela, 110x85

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ROBERTA SIGNANIRAZIOCINIO PITTORICO

di Andrea Rossetti

In origine era il paesaggio. Senonché i bisogni che sottendono la ricercadi un artista possono cambiare le sue scelte, anche di molto, prestandoil fianco alla delineazione di spartiacque che non prevedono ritorno. Cosìper Roberta Signani è arrivato il tempo di dedicarsi ad un nuovo modod'intendere la pittura, e di trainare lo sviluppo paesaggistico verso unanetta razionalizzazione di ogni tratto pittorico maturato nell'osservazio-ne della realtà, prevedendo perciò una riduzione primaria sulla comple-

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Da uno a cinque, 2014, acrilico su tela, 40x40

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mentarietà di colori e forme. È la libera en-trata dell'artista spezzina nella cultura vi-siva promossa dal Movimento Arte Con-creta, dove Bruno Munari fu personalità dipunta attenta ad un ritorno al significatoeffettivo, in qualche modo “crudo”, di unapittura messa nelle condizioni di dar va-lore per prima cosa ai suoi componenti. Unarte che non ha bisogno della realtà (manemmeno di eccessivi afflati poetici) peresistere, ma anzi in cui giochi illusori e iste-rismi soggettivanti hanno cessato di esse-re necessità. Non per nulla questo attuale rapporto dicoesione pittorica tra la Signani el'artista/designer milanese (come anchecon la figura “similare” dello svizzero MaxBill) nasce da un background comune, ches'identifica nella passione per la progetta-zione oggettuale. L'arte così congetturata

diviene un vero luogo di strutturazione, lapittura passa da istintualità libera a pro-getto precostituito, quindi a farsi valere inquanto tecnica e controllo del proprio eser-cizio. È il raziocinio che porta l'azione pit-torica ad essere metodo applicato, dove ilcolore (acrilico non a caso) steso con do-vizia di precisione tuttavia è un'appendi-ce colour field tirata a lucido, incontran-do alcuni stilemi prediletti da artisti qua-li Noland o Stella; con la loro stessa inten-zionale precisione la Signani “delega” astretti rapporti geometrico-numerici la co-struzione dell'opera, districando quindimunariamente transizioni cromatichepseudo-motorie, teorizzate a mo' di cine-tici movimenti di superficie. Geometria e colore trattati da unici elemen-ti costituenti, e il dosaggio di un esigen-za concreto-pittorica (svincolata da ogniinganno dimensionale, ma non percettivo)con quella anti-espressionista dell'astra-zione post-pittorica americana, sono que-sti i termini con cui la pittura andrà a ri-formulare “signanamente” la sua univer-sale concretezza.

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Spirale Fibonacci 1, 2014, acrilico su tela, 100x80

Spirale policentrica, 2013, acrilico su tela, 60x60

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Bell’ItaliaLa pittura di paesaggio dai Macchiaioli aiNeovedutisti veneti 1850-1950Luci e colori di affascinanti paesaggiraccontati da sensibili artisti che tra il 1850 eil 1950 hanno eternato tra Toscana e Venetosuggestioni di ieri che scivolano intensenell’animo di chi oggi ammira le circa 120opere (in cinque sezioni) che nella tranquillacittadina di Caorle (dal suggestivo centrostorico) descrivono territori di notevolebellezza. Capolavori con acque vibranti,campagne rilassanti e monti incappucciati dicandida neve testimoniano magie del passato,spesso ancora realtà odierne.Una laguna variegata con la vita che pulsa efreme in Giorno di vento a Venezia di EttoreTito capace di adornarla con il viso raffinato esognante di Donna sul molo e di contemplarecon tenerezza Il tuffo entusiasta di ragazzipieni di gioia di vivere, quasi dinamicametafora di rinnovata libertà, placida esorniona in Vele al sole di Guglielmo Ciardiche ne scopre angoli silenti e ricchi di fascinoin Rio verso le zattere o vanitosa e fiera nellaLuce di maggio che si frange nell’acqua graziealla sapienza pittorica di Emma Ciardi: l’opera,affascinante icona della mostra, è un sogno incui tuffarsi.

Acqua che diventa mare impetuoso ancorchégeneroso in La raccolta delle conchiglie aCastiglioncello di Luigi Bechi e palpitante dioperosità umana in Golfo di Trieste di PietroFragiacomo o scorre in un corso fluvialeintorno a cui si affollano laboriose Lavandaiedi Aversa sul fiume Lori dai colori luminosi diAngelo Dall’Oca Bianca, memoria di un anticomestiere femminile sostituito da ben più

ecologiche lavatrici.Una campagna in cui fervono i lavori agricolicome in La raccolta delle pannocchie inLucchesia di Ruggero Focardi o in Lavendemmiatrice, fiera figura di donna, diArturo Faldi o ci si può confidare contranquillità come nelle Bambine inconversazione di Augusto Tommasi e unamontagna ben resa da Guglielmo Ciardi e auna sezione dedicata a Luigi De Giudici,artista capesarino che rielabora con stilepersonale gli stimoli del suo tempocompletano la mostra.↪ Caorle/VE, Centro Culturale ‘A. Bafile’, RioTerrà10 – 18 venerdì, sabato e domenicaFino al 25 ottobre 2015Biglietto: ingresso € 7, ridotto € 5/4Informazioni: 0421 219254,www.comune.caorle.it,www.civitatrevenezia.itPrenotazioni: 199757519Catalogo Marsilio Editore

Da Chagall a MalevitchLa rivoluzione delle avanguardie Il Grimaldi Forum presenta ogni estateun’esposizione di ottima qualità dedicataquest’anno, in occasione dell’Anno dellaRussia a Monaco, alle avanguardie russe (tra il1905, domenica di sangue al Palazzod’Inverno, e il 1930 ‘suicidio’ di Majakovskij) icui artisti più emblematici rompendo in modoradicale con la tradizione danno vita a Moscae a San Pietroburgo a un’affascinantemodernità con un diverso modo di osservaree riprodurre una realtà mutata anche dai nuovimezzi di comunicazione.Sorgono così movimenti e scuoleanticonvenzionali che colgono e incanalanoqueste dinamiche pulsanti in ‘avanguardie’(futurismo, cubo-futurismo, raggismo,suprematismo, costruttivismo…) che sipongono contro accademismo e convenzionicome raccontano in modo esaustivo eintrigante i circa 200 pezzi (pitture, sculture,disegni e documenti) provenienti dai principalimusei russi ed europei grazie alla competentescelta di Jean-Louis Prat, curatore dellamostra.Un percorso completo, ben articolato,

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ANDANDO PER MOSTRE di Wanda Castelnuovo

Emma Ciardi, Luce di maggio

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affascinante, illuminante e imperdibile conopere straordinarie come l’allegra e ludicaIntroduction au théâtre juif, uno dei settepannelli decorativi di Marc Chagall per ilTeatro ebraico statale Karmeny di Moscadipinto dopo che l’artista dalla pitturafigurativa con elementi fantastici e poetici haabbandonato la natia Vitebsk e l’Accademiaper essersi scontrato con Kazimir Malevitch(che vi insegna), sostenitore di un rigoroso eaustero astrattismo geometrico, ma che comealtri attraversa varie avanguardie: splendido ilsuo Portrait perfectionné d’Ivan Kliounevenato di vivace cromatismo, uno degliesempi più significativi del cubo-futurismorusso.E Ivan Klioune suo amico e adepto a sua voltafigura come autore di una raffinata edequilibrata Composition sphérique sans-objetdai tratti suprematisti.Tra le opere futuriste seduce Le Vélocipédiste(Le Cycliste) di Natalia Gontcharova in cui lastaticità delle lettere in cirillico contrasta conla dinamicità della figura che pedala.

↪ Principato di Monaco, Grimaldi ForumMonaco, Avenue Princesse Grace 1010.00 – 20.00 tutti i giorni salvo giovedìfino alle 22.00Fino al 6 settembre 2015Biglietto: intero € 15, ridotto € 8, gratuitofino a 18 anniInformazioni e prenotazioni/Biglietteria:tel. 00 377 99993000,www.grimaldiforum.comCatalogo Editions Hazan/Grimaldi ForumMonaco

Il demone della modernitàPittori visionari all’alba del secolo breveTra fine del 19° secolo e inizio del 20° -complice un progresso galoppantedeterminato da numerose innovazionitecnologiche - si affaccia prepotente sullascena mondiale una modernità varia,sfaccettata e dirompente attraversoilluminazioni e visioni tradotte dalle diversesensibilità artistiche in soggetti, forme e coloridifferenti.La sfera onirica estatica, l’inconscioprimitivo e indocile, gli incubi arcani, leossessioni mostruose, le nevrosiangoscianti e i più sconcertanti e alienantimoti irrazionali danno luogo ad apparizionidi angeli e demoni messaggeri di destinidiversi e fluttuando dalla psiche turbata simaterializzano nelle opere simboliste esurrealiste, presaghe di un secolo daglieventi catastrofici e luttuosi tra cui dueconflitti mondiali e in grado di indurreemozioni, turbamenti, inquietudini… in chile guarda.La modificazione dei linguaggi artisticisovverte gli schemi della classicità e le abitualirelazioni spazio-temporali portando a unacontaminazione di generi con esiti diversificatie a volte sconvolgenti che in un intersecarsifra varie discipline radicano anchenell’esaltazione delle idee innovative diCharles Baudelaire che ne Les Fleurs du Malintepreta i turbamenti di un passaggioepocale.Paradigmatico Mikalojus Konstantinas�iurlionis, elegante pittore e musicistasinestetico e raffinata la produzione diGennaro Favai che parte da atmosferenotturne, brumose e decadenti della suaVenezia dove non riesce ad affermarsi, siimpone a livello internazionale e accesa la sua

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Malevitch, Portrait perfectionne d’Ivan Klioune

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tavolozza nel sud dell’Italia arriva aglistupendi esiti delle opere dipinte oltreoceanocome New York (1930 ca.), icona della mostra,dall’atmosfera incantata. I suoi lavoriconcludono l’esposizione dialogandoarmoniosamente con il moderno cinemaimpressionista di fine anni ’20 il cuirappresentante più significativo è il registaFritz Lang con il celeberrimo Metropolisconnotato da una folla e da ritmi angosciantiche anticipano quelli di alcune metropoliodierne.

↪ Rovigo: Palazzo Roverella, Via Laurenti8/109.00 – 19.00 martedì, mercoledì, giovedì evenerdì, 9.00 – 20.00 sabato e festiviFino al 14 giugno 2015Biglietto mostra (inclusa audioguida): intero €11.00, ridotto € 9.00Informazioni e prenotazioni: tel. 0425460093, www.palazzoroverella.comCatalogo: Marsilio Editore

Jackson Pollock, MuraleEnergia resa visibileIn quella che fu la splendida dimora venezianadi Peggy Guggenheim, ora affascinanteMuseo, si ammira in anteprima europeaun’esposizione itinerante dedicata almonumentale Murale di Jackson Pollock(Cody/Wyoming 1912 – Springs/New York1956), geniale artista americano,rappresentante dell’Espressionismo astratto ein particolare dell’action painting, correnteamericana dell’informale.Jackson Pollock, figura chiave dell’arte del XX

secolo e di forte impatto su quella americana,ha elaborato un modo originale di comunicareil proprio inconscio trattando la tela con ampie violenti movimenti del pennello eutilizzando la tecnica del dripping(sgocciolamento) che consiste nel faregocciolare il colore sulla tela attraverso gestirituali - mediati dagli Indiani d’America - conrisultati apparentemente irrazionali.Murale, lungo 6 metri (la più grande operarealizzata da Pollock) - dipinto tra l’estate el’autunno 1943 per l’appartamentonewyorkese di Peggy Guggenheim cheaffascinata dal suo estro, dopo averloscoperto, sostiene e promuove il suo lavorotanto da organizzargli nel 1950 la primapersonale in Europa al Museo Correr - dopo unaccurato intervento di conservazione epulitura durato 18 mesi, è giunto a Venezia esuccessivamente sarà esposto alla DeutscheBank Kunsthalle di Berlino e al Museo Picassodi Malaga.Lo accompagnano altre opere dello stessoautore tra cui Alchimia e di altri artisti qualiLee Krasner (sua moglie), David Smith eRobert Motherwell con Elegia alla Repubblicaspagnola N.126 posta di fronte al Muralequale tributo a Pollock di cui sonoapprofonditi fonti, significati, influenze e isuoi rapporti con la fotografia d’azione diautori quali Herbert Matter, Barbara Morgan,Aaron Siskind e Gjon Mili.Lo studio di Murale, sorta di labirintotumultuoso, ha evidenziato come dietrol’apparente disordine vi sia un movimento dadestra a sinistra, cioè uno spostamento versoovest (tema da lui già iniziato con Versol’Ovest) tipico della cultura americana.↪ Venezia, Collezione Peggy Guggenheim,Palazzo Venier dei Leoni, Dorsoduro 70110.00 – 18.00 da mercoledì a lunedìFino al 16 novembre 2015Biglietto (consente di visitare tutti gli eventi incorso): ingresso € 15, ridotto € 12/9

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Gennaro Favai, New York

Gennaro Favai, New York

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Informazioni e prenotazioni: 0412405440/419, www.guggenheim-venice.itCatalogo Thames & Hudson

Jing Shen The act of painting in contemporary ChinaUn’originale mostra che permette di penetrareattraverso opere d’arte contemporanee nellamentalità di un popolo vario e sfaccettato etuttavia unito dalla singolare scrittura cherappresenta una forma d’arte e dicomunicazione legata alla filosofia e allospirito ed è fonte d’ispirazione della collettivadi venti artisti cinesi di tre generazioni diversepresentati al Pac e in due installazioni esterne:nella Soglia Magica (spazio che collega lastazione ferroviaria all’aeroporto di Malpensa)Forward di Wang Gongxin con persone checamminano verso il futuro e presso FeltrinelliDuomo nella Galleria della città meneghina unallestimento site specific.

Una diversità fondamentale quanto a canoniestetici e stilistici in una Cina in cui dipingereè scrivere e viceversa; non a caso ‘Jung Shen’significa ‘consapevolezza del gesto’ e insieme‘forza interiore’ e nella pittura classica anchedi matrice buddista o taoista è propedeuticoalla produzione di un’immagine.L’esposizione non è solo una rassegna diopere (quadri, grandi installazioni, disegni,rituali, sculture e video), ma anche un’analisi

sul rapporto tra pittura e altri linguaggi in undialogo tra passato e presente arricchito conapporti dall’Occidente sui cui movimentid’avanguardia l’arte cinese esercita a sua voltaun’influenza.Un mondo complesso, affascinante emisterioso da esplorare, conoscere,approfondire, capire… a cominciare dagliartisti: Kan Kuan con il suo scrivere, cancellaree riscrivere, Liao Guohe con il mescolaregrafica e pittura, Qiu Zhijie, uno dei piùprolifici e comunque emblema dell’uomo dicultura di oggi, con i suoi cinque libri illustraticon disegni a inchiostro di oggetti, invenzioni,sogni… come da Jinling Chronicle TheaterProject lo spaventapasseri abbigliato allacinese con sullo sfondo alti monti mentre conuna calamita va raccogliendo solitarioviandante un nugolo di chiavi di tutte le formee fogge, Yan Pei-Ming che con ampie e rapidepennellate di grigio fonde figure e ambiente…↪ Milano, PAC (Padiglione d’ArteContemporanea), Via Palestro 149.30 – 19.30 martedì, mercoledì, venerdì,sabato e domenica, 9.30 – 22.30 giovedìFino al 6 settembre 2015Biglietto: ingresso € 8, ridotto € 6.50/4Informazioni e prenotazioni: 02 88446359,www.pacmilano.itCatalogo Silvana Editoriale

La Grande GuerraI luoghi e l’arte feritiUna grande mostra organizzata da IntesaSanpaolo con 500 opere (da Musei pubblici ecollezioni private italiani e stranieri con più di100 restaurate dalla Banca) articolata in trecittà Milano (Arte e artisti al fronte), Napoli(Società, propaganda, consenso) e Vicenza (Iluoghi e l’arte feriti) per raccontare - alloscopo di ricordare e non ripetere - aspettidiversi di un tragico evento come la GrandeGuerra di cui ricorre il centenario.La sede di Vicenza descrive la guerra in séattraverso le numerose testimonianze di vitaquotidiana di soldati spesso volontari - artistipoco conosciuti o reporter in veste ufficiale -che anonimi eroi in prima linea hannocombattuto patendo, soffrendo e sacrificandospesso la vita.Circa 130 tra dipinti e disegni offrono unresoconto dettagliato dei luoghi del fronteitaliano ormai entrati nella memoria collettivadel popolo come i grandi fogli con ampie

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Qiu Zhijie

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panoramiche del Montello, Monte Grappa,Vittorio Veneto, San Michele del Carso e ilmitico Piave disegnati dal bravissimoInnocente Cantinotti, artista dalla mano feliceanche nei Ritratti di prigionieri austriacimelanconici e dolenti, le cui testimonianzericordano tanti quadri della tradizioneottocentesca.

Né sono da meno quanto a icasticità lerappresentazioni di solitari quanto affascinantipanorami alpini - luoghi in cui secondo imanuali di strategia militare del tempo sidoveva combattere la guerra - di AchilleBeltrame, il più noto degli illustratori digiornali dell’epoca, capace di rendere l’imparifatica dei soldati sul Monte Pasubio.Toccanti le testimonianze del quotidiano comele manovre raccontate dalle tavole di ItalicoBross, dalle litografie di Aldo Carpi e daidisegni di Michele Casciello e delle distruzioniviolente che non hanno risparmiato niente,neanche la grande arte come evidenzia laGipsoteca di Possagno con i numerosi gessi diAntonio Canova dolorosamente mutilati ericordati dagli scatti di Luca Campigotto: unoscempio di vite umane, valori e tesori.↪ Vicenza, Gallerie d’Italia – Palazzo LeoniMontanari, Contra’ Santa Corona 2510.00 - 18.00 da martedì a domenica (ultimo

ingresso ore 17.30)Fino al 23 agosto 2015Biglietto: intero € 5.00, ridotto € 4.00,gratuito per le scuoleInformazioni: 800.578875 (numero verde),www.gallerieditalia.comCatalogo Intesa Sanpaolo

Antonio Ligabue in Museo della FolliaVivace e provocatoria azione culturale quelladi organizzare in occasione di Expo 2015 nelPalazzo della Ragione (risalente all’11°-12°secolo) - risanato come il resto della città diMantova dai danni del recente sisma con unatempestività e un’operosità encomiabili - unamostra che induce a riflettere sul rapporto traarte e salute attraverso sei sezioni con opere etestimonianze sulla tematica degli scompensinervosi da cui il titolo Museo della Follia.Cuore dell’iniziativa - mostra nella mostra - èl’originale dialogo tra le 190 opere, di cui 12dipinti e 2 disegni inediti, di Antonio Ligabue(Zurigo 1889 – Gualtieri/RE 1965) e i 37 lavori(alcuni mai esposti e pubblicati) di PietroGhizzardi (Viadana/MN 1906 – Boretto/RE1986), due esponenti del ‘900 i qualimalgrado le condizioni di vita sono riuscitigrazie all’arte a trovare un rapporto con lanatura e l’umanità evitando di perdersi nellenebbie della follia e raggiungendo notevoleaffermazione personale.

Toccante la dolorosa vita di Ligabue, figlio diun’operaia bellunese emigrata in Svizzera elegittimato dopo due anni da BonfiglioLaccabue, pare il vero padre, non amatodall’artista che muta il cognome. Segnato nelcorpo e nello spirito da un’alimentazioneinsufficiente, ha rapporti difficili con la

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Antonio Ligabue, Paesaggio con cani

Innocente Cantinotti, Ritratto di prigionero

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famiglia adottiva che lo denuncia per la suaaggressività con il risultato di farlo estradare aforza dalla Svizzera e spedire a Gualtieri (dacui era giunto Laccabue) aumentandonesolitudine e isolamento anche perché ilgiovane parla solo lo zurighese.Emarginato in modo drammatico, riesce ariscattarsi grazie anche all’aiuto dello scultoreMazzacurati dipingendo e scolpendo ecreando uno stile personale dominato dacromatismo, vitalità, forte senso della naturaconsolatoria nei confronti di questo fanciullodolce e violento, ‘bambino selvaggio’cresciuto nell’indifferente ‘giungla’ sociale.E tra le splendide opere l’inedito Paesaggiocon cani con gli amati animali e il ricordo dellanatia Svizzera nella forma del campanile.↪ Mantova, Palazzo della Ragione, Piazza Erbe14.00 - 19.00 lunedì; 10.00 – 19.00 damartedì a venerdì e festivi; 10.00 – 22.00sabatoFino al 22 novembre 2015Biglietto: intero € 10, ridotto € 8.50/6/4.50Informazioni: tel. 0376 1505892/223810,www.csaligabue.itCatalogo Augusto Agosta Tota

Mondi a MilanoCulture ed esposizioni 1874 - 1940Il Museo delle Culture - che risale all’acquistonegli anni ‘90 da parte del Comune di Milanocon l’intento di destinarle ad attività culturalidelle fabbriche dismesse dell’Ansaldo (esempidi archeologia industriale): modificate da unmirato intervento architettonico, queste sonodivenute un polo multidisciplinare di 17.000 m²dedicato alle differenti culture e sede espositivadelle civiche Raccolte Etnografiche - inaugura isuoi spazi con due mostre, una sull’Africa el’altra sui Mondi a Milano raccontati con legrandi esposizioni dal 1874 (Esposizionestorica d’arte industriale) fino al 1940.Una Milano alacre, cosmopolita einterculturale che al pari dell’Occidente scoprele diverse culture come qualcosa di esotico eman mano ne approfondisce la conoscenza avolte allontanandosi dalla realtà: opere d’arte,architetture, oggetti di design, documenti earredi testimoniano l’affascinante percorsodall’esotismo all’ansia di modernità.Dal successo nel 1874 dei manufatti bronzeidell’estremo oriente in particolare di Cina eGiappone all’Esposizione nazionale del 1881

ricca di suggestioni di altre culture (russa,turca, persiana, moresca…) che influenzanogli artisti dell’epoca fino alla tragica avventuracoloniale italiana in Africa e alla singolareesposizione egiziana del 1891 con tanto dicarovana beduina e villaggi-spettacolo.È tuttavia la prima Esposizione Internazionaledel 1906 in occasione dell’apertura delSempione a stupire con la ricostruzione di unvillaggio eritreo e di un quartiere del Cairocome raccontano fantastiche cartoline conFigure e volti che animavano “Il Cairo aMilano”. Né si attenua, pur essendoaumentata la possibilità di viaggiare,l’influenza degli altri mondi sulle manifattureitaliane: dai mobili ai soprammobili nelleEsposizioni di Monza e nelle successive FiereCampionarie con rievocazioni favolose dellecolonie attraverso la Sedia Tripolina e allaTriennale del 1933 un modello di Casacoloniale che diverrà smontabile eprefabbricabile.

↪ Milano, Mudec (Museo delle Culture), ViaTortona 5614.30 – 19.30 lunedì, 9.30 – 19.30martedì, mercoledì, venerdì e domenica,9.30 – 22.30 giovedì e sabatoFino al 19 luglio 2015Biglietto: ingresso con audioguida inclusa €15, ridotto € 13/11/7/6.Informazioni e prenotazioni: 02 54917,www.mudec.itCatalogo 24 Ore Cultura

Nelle antiche cucineNella suggestiva Villa edificata - su progetto diGiuliano da Sangallo per Lorenzo de’ Medici eterminata alcuni decenni dopo - sulle pendicidel monte Albano all’interno di un’ampiaproprietà agricola tra Firenze, Prato e Pistoia,

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Figure e volti che animavano “Il Cairo a Milano”

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un’affascinante mostra in sintonia con Expo2015 focalizza l’attenzione sulla cucina, fulcrodella casa e del nucleo familiare, attraverso lapittura di genere del Sei e Settecento.Interni di cucine, cuochi e dispense sono leintriganti tematiche delle tre sezioni in cuioltre a dipinti sono presenti anche vari oggettid’uso domestico (ceramiche, recipienti estrumenti in rame e vetri) che hanno ispiratogli artisti del passato oltre a famosi manuali dicucina quali l’Opera di Bartolomeo Scappi aindicare come dal Seicento la maggioreattenzione delle arti figurative verso le ‘cucine’sia concomitante a una serie di innovazionirelative allo svilupparsi di un’arte culinaria,della figura del cuoco professionista e dinuove progettazioni delle cucine.È possibile visitare (su prenotazione) per laprima volta nella Villa le cucine “segrete” -fatte costruire da Cosimo II de’ Medici edestinate all’esclusiva preparazione dei cibiper il Granduca - che conservano intatto ilfascino del passato.Un percorso avvincente a cominciare dalleprime rappresentazioni cinquecentesche (diascendenza fiamminga) di cucine con echireligiosi, allegorici e moraleggianti chescompaiono nelle nature morte del ‘600ambientate in cucine come quella del NordEuropa di Scene di vita domestica in unacucina dell’olandese Monsù Teodoro.Di piccole dimensioni La cuoca intenta a pulireuna conca di rame, opera straordinaria perl’aura di dolcezza melanconica, dell’olandeseCaspar Netscher mentre di rara efficacia sonoalcune nature morte classificate ‘dispense’ perl’eccezionale varietà e abbondanza di cibi estoviglie come le Dispense del fiorentino

Jacopo Chimenti e l’elegante Natura morta converdura, pane, testa di vitello e oggetti dacucina del fanese Carlo Magini.Orari variabili: consultare il sitoFino al 25 ottobre 2015Ingresso gratuitoInfo e prenotazioni: tel. 055 877012,www.polomuseale.firenze.it/musei/?m=poggiocaianoCatalogo Sillabe

Surfaces et correspondencesEnrico Castellani e Lee UfanInserita nel progetto Arte Milano - che inoccasione di Expo 2015 riunisce cinquegallerie e due storiche Fondazioni tutte attivea livello internazionale e vede risorgerel’omonima pubblicazione (distribuitagratuitamente) ricalcando un’analogainiziativa del 1971 quando sette galleriehanno dato vita alla rivista in grado divivacizzare l’informazione sull’arte nazionale einternazionale - un’intrigante mostra mette aconfronto Enrico Castellani e Lee Ufan, dueesponenti di spicco della contemporaneitàlontani per ambiti e percorsi culturali, maaccomunati da corrispondenze quali il rigoreconcettuale e il linguaggio sintetico e rarefattodalla forte incisività.

Nato a Castelmassa (Rovigo) nel Polesinenel 1930, Castellani, che lavora e vive aCelleno (sito tra i laghi di Bolsena e diAlviano), studia tra Novara, Milano eBruxelles. Tornato a Milano, nel 1959 fonda con Piero Manzoni la rivista Azimuth,crea la sua prima superficie a rilievo(estroflessione) dando origine a una poetica

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Enrico Castellani, Superficie bianca

Carlo Magini, Natura morta con verdura, pane,

testa di vitello e oggetti da cucina

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rigorosa definita dalla critica “ripetizionedifferente” e approfondisce temi comespazio, ritmo e tempo. Esposizioni esuccessi si susseguono in Italia e all’esterotra cui il prestigioso Praemium imperialedella Japan Art Association.Poco più giovane Lee Ufan nasce (1936) aKyongnam in Corea, dove soffre gli esiti diun regime che arresta il padre per la suaattività di giornalista. Dopo il liceo sitrasferisce in Giappone approfondendoanche la filosofia e realizzando nel 1968 aTokio la sua prima esposizione con unlinguaggio artistico, da lui chiamatoyohaku (vacuità), aperto a uno spaziopoetico vuoto nei dipinti e nella realtà.Apparsi sulla scena a una decina d’annil’uno dall’altro e presenti in tutto il mondoin collezioni permanenti e musei, i dueartisti oggi dialogano attraverso le operecome di Castellani i vari Superficie Biancacon un alternarsi serrato tra pieno e vuotoe gli ampi spazi bianchi di dipinti e sculturein cui occhieggiano le pennellatemeditative di Hufan.↪ Milano: Lorenzelli Arte, corso BuenosAires 210.00 – 13.00 e 15.00 -19.00 da martedì asabato, lunedì su appuntamento, festivichiusoFino al 16 luglio 2015Ingresso liberoInformazioni: tel. 02 201914,www.lorenzelliarte.comCatalogo: lorenzelli arte n. 146

Tra sogno e realtàOttocento e Novecento dalle collezioni delMuseo Civico della Città di BellinzonaUna magnifica opportunità lo scambio di unasettantina di opere d’arte tra il Museo CivicoVilla dei Cedri di Bellinzona e il Museo dellaPermanente di Milano, frutto di un progettovolto a mettere in luce le comuni radicilinguistico-artistico-culturali tra Lombardia eCanton Ticino.In particolare la mostra esplora la storia delMuseo ticinese iniziata più di quarant’anni fanel 1971 grazie a Emilio Sacchi, medico, eAdolfo Rossi, banchiere, i quali, donandoopere di artisti di area ticinese e lombardasoprattutto tra fine Ottocento e inizioNovecento, determinano la nascita del primonucleo di 73 opere cui si sono aggiunte

successive acquisizioni e donazioni.Numerosi pittori ticinesi sono stati legati alcapoluogo lombardo avendo frequentatol’Accademia di Brera ed esposto i propri lavoria partire dalla mostra del 1886 (anno in cui èinaugurata la nuova sede progettata da LucaBeltrame) alla Permanente, all’epoca punto diriferimento per il mercato italiano dell’arte eper la promozione di molti giovani artisti.L’esposizione approfondisce le tematiche della‘natura’ tra Naturalismo e Simbolismo fino alpaesaggio astratto del dopoguerra conGuglielmo Ciardi dall’incantato Paesaggiolagunare o locustre, Alberto Pasini dal MonteBianco visto da Courmayeur con nevai eghiacciai oggi arretrati ed Emilio Longoni il cuionirico Ghiacciaio richiama altri climi e della‘figura’ con ritratti che vanno da fine ‘800come lo Studio di testa di grande intensità diGiuseppe Pelizza da Volpedo e la Giovanedonna tra candore giovanile e sbocciatasensualità e il raffinato Ritratto della SignoraTina Ruffini Rocca di Cesare Tallone.

Interessante la presenza di opere di esponentidella Scuola del Paesaggio svizzero tra cuiFriedrich Zimmermann e Gustave EugèneCastan che testimoniano la complessità dellaterra ticinese a cavallo tra sud e nord e diesemplari di fondi monografici su singoliartisti (Italo Valenti, Giuseppe Bolzani…) deiquali esaminano in modo approfondito lapoetica.↪ Milano, Museo della Permanente, ViaFilippo Turati 3410.00 – 13.00 e 14.30 – 18.30 da lunedì asabatoFino all’11ottobre 2015Ingresso liberoInformazioni: 02 6599803,www.lapermanente.itCatalogo Skira

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Enrico Castellani, Superficie bianca

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FIORI ARTIFICIALI Luiz RuffatoLa Nuova Frontiera, 166 pp.,15.50 €

Luiz Ruffato si conferma unadelle voci più promettentidella letteratura brasilianacontemporanea portandoavanti il gioco della finzioneche trasforma lo scrittore insemplice testimone dellanarrazione e depositario dellostile prima ancora che liberoinventore. Se in “Di me ormaineanche ti ricordi” la vocenarrante passava per le letteredi un ragazzo emigrato dallecampagne alla città, in “Fioriartificiali” il testo originalepare giungere da un certoDório Finetto, ingegnere dellaBanca Mondiale: è un altroregistro, un’altra visione che sidipana sulla pagina. Anche sedobbiamo riconoscere ilmedesimo punto di partenza(São Paulo – ovvero Il Mostro)le memorie del protagonistaallargano la lente fino acomprendere scorci dei diversiPaesi che si affacciano sullaglobalizzazione, questo aindicare che non è possibile

Sindel che vive in una baracca;c’è Lillo che sta in villeggiaturae persino Claudia che ungiorno si dedicherà alleillustrazioni. C’è Ottavio chesta sopra a un cinema eimmagina i suoi film e Simoneche è circondato dal silenzio,ma c’è sempre la fantasia acreare nuove geometried’incontro che consentonod’individuare una sequenza.Lo stile grafico è volutamenteschematico, ma ricco diparticolari: ogni camera è unriquadro in cui inserire unframmento per costruire unanarrativa, suggerita e nonimposta dalla brevità del testo,come in un gioco di bamboleal quale aggiungere semprenuovi dettagli da scoprire. Lepersone sono colte da unosguardo esterno e si mostranonel loro privato uscendo dallecornici fisse per muoversisulla pagina. I colori vividiriempiono l’occhio: l’azzurrodel cielo che entra dallefinestre senza profondità ètalmente intenso che quasiferisce, il grigio trasmette lamalinconia ma la rendetrattabile, appena venata dauna nostalgia d’altri tempi.

scrivere di se stessi senzasommare i ritratti di centopersone che si sono incontratelungo il cammino: è comerivedere Chaucher in chiavemoderna. La lente si allarga, illinguaggio piano di Célio lasciail posto alla citazione colta ealla riflessione filosofica chetrae origine dalle cronache diformazione e dalleimpressioni di AlmeidaGarrett. Niente paura. Non ènecessario conoscere i classiciportoghesi, T. S. Eliot oOsvaldo Soriano perapprezzare il poliedrico donodella lingua che si unisce allamolteplicità dei quadri perarricchirli senza appesantirli.La vita di ciascuno si ri-costruisce in un mosaico cheva da Buenos Aires a Beirut,dall’Avana a Timor, ultimoangolo sperduto delle TerreAltrui. I personaggi entranonel racconto regalandocammei.

LE CASE DEGLI ALTRI BAMBINILuca Tortolini e Claudia PalmarucciOrecchio Acerbo, 48 pp., 14.50 €“Si lasciano mai le casedell’infanzia?” si chiedeFerzan Ozpetek; e la risposta èno, mai. Le stanze in cui siamostati bambini restano sempredentro di noi, anche quandovengono distrutte. LucaTortolini e Claudia Palmaruccidisegnano queste splendidearchitetture dei sentimentiraccontandoci i vari tipi dicasa che esistono, ognuna conla sua storia di persone chevivono e condividono gli spazie i tempi di ciascuna; ilrealismo dei personaggiricorda gli scorci urbani rubatida Edward Hopper. C’è Lorenacon la sua villa antica e c’è

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I LIBRI di Elena Colombo

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PURGATORIOTomás Eloy MartínezEdizioni Sur, 283 pp., 15 €“Tutte le famiglie felici sisomigliano” diceva AnnaKarenina “ogni famigliainfelice è invece disgraziata amodo suo”. La citazione diuno dei più noti incipit dellaletteratura si applicatragicamente in sensoinverso alle dittature. Se sipensa alla Storia recentedell’America Latina, è facileconfondere gli orrori del Ciledi Pinochet con quellidell’Argentina di Videla. Aportarci in questo contesto dicruda finizione è Tomás Eloy

Martínez – autore epersonaggio – una delle vocipiù importanti del Cono Sur,portata in Italia grazie aqueste splendide edizioni.Simón è scomparso dopol’arresto durante i primigiorni dal golpe. Sua moglieEmilia è scampata alla torturagrazie alla posizione delpadre, consigliered’immagine di una Giunta dipersonaggi da operetta. Leinon si rassegna alla mortedel marito e continua acercarlo ovunque fino aconvincersi di averlo

d’élite che si guarda esovverte se stesso fino alleestreme conseguenze. Allospettatore – e a Marcos,studente dell’accademia easpirante critico – il compitodi capire e filtrare. Laripetizione diventa copia.Pagare un immigrato perrischiare la vita ed essereparte di un’opera non è piùamorale di contrattarlo perun salario da fame nellalogica schiavista delcaporalato che raccogliemanodopera all’alba. Comeassistente della suaaffascinante professoressa,Helena, Marcos scopre questimeccanismi e li mette indubbio, chiamandosi fuori daun progetto che minaccia dipassare qualsiasi limiteallontanandosi dall’ideaoriginaria, incentratasull’attività come narrazione.Quello di Miguel ÁngelHernández è un excursus nellato oscuro, la decostruzionedell’idea platonica attraversol’apparato teorico dell’artedegli ultimi decenni; ma“Tentativi di Fuga” non è unmanuale: una poeticatagliente genera un giallo chetiene incollati fino all’ultimo.

ritrovato trent’anni dopo, mail suo è il dialogo con unfantasma che riallaccia i filidella memoria nel tentativodi colmare il bisogno d’amore– fisico ed emotivo – rimastoinappagato. È dunque cosìche inizia il delirio di unadonna che però mostra ancherealtà di un Paese ancoradiviso, in cui la percezione sicostruisce sulla basedell’apparenza e del raccontomediatico. La narrazionepassa da un piano all’altro:dalla cartografia che inventagli spazi annullandoli (comenel mondo Attraverso loSpecchio), alla magiabugiarda del cinema diWelles che diventa base dellapropaganda, al presente –ibrido di sogno e disillusione.Un mosaico espresso con unostile luminoso che lascia illettore sul ciglio del dubbio.

TENTATIVI DI FUGA Miguel Ángel HernándezGuanda, 231 pp., 16 €Se preconizzare la Fine delleGrandi Narrazioni è forsetroppo catastrofista, ècomunque vero che siamonell’era della post-immagineche dà all’apparenza unaveste primaria diversa. OggiMichele Smargiassi riflettesul ruolo dominantedell’immagine nellacostruzione di unapercezione manipolabile.Cosa si deve fare per esseredavvero trasgressivi? Lastrada è trasformare il corpoin creazione in modo daentrare nel reale, descriveredall’interno le situazionimarginali diventandone parteoperante. Le performance diJacobo Montes – come quelledi Santiago Sierra, suoeponimo reale – sono cinismoallo stato puro, il capitalismo

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TOKYO ORIZZONTALE Laura Imai MessinaEdizioni Piemme, 264 pp.,14.50 €

“Tokyo Orizzontale” è unadichiarazione d’amore chenasce dal cuore e da un verotalento letterario che hasuperato meritatamente iconfini della rete. È il libroperfetto per chi conosce lacapitale giapponese e i suoiquartieri, che sono cittànella città e hanno un lorocarattere e una loro logica:Shibuya e Shinjuku - iluoghi che connotano Tokyonelle cartoline – e poi i postidove si lavora e basta, i postiche si svuotano con la nottee quelli che invece di notte siriempiono di persone e distorie. In questa moltitudineche si sgrana sulle strade cisono Sara e Carmelita,adottate dal Sol Levante peril loro desiderio di scapparesempre più in fretta, Hiroshie suo fratello, che nonpossono lasciarsi alle spalleil loro trauma e poi Jun eMasako, impegnati acostruirsi una personalità.Sono le maglie checostituiscono il blog TokyoOrizzontale, una piattaforma

cornice di una tragediarussa cercando qualcosa.Attraverso l’apparatosimbolico di Jirô taniguchi edi Takashi Hiroade, ciascunosi collega intimamente alla

Natura trasformandosi in unelemento che va letto inbase al Tempo; alberi eanimali sfuggenti delineanoun Tempo diacronico chescorre diversamente dalnormale e che ha nellafigura femminile assente ilsuo fulcro. Gli scambiamorosi si sviluppano solofino a un certo puntoarrivando a una cesura checrea un vuoto, unallentamento della tensionein cui mettono radici lecontraddizioni e si fa stradail dubbio: che cos’ènecessario al cuore e cosanon lo è; quale deve essere ilruolo del corponell’approccio con l’altro –parlando delle divergenzeculturali prima chedell’aspetto fisico?Trascendendo fino allostadio di pura metafora. È ilracconto a fare da pontesull’abisso, le parole sono ilpassaggio di un viaggioconoscitivo.

che pubblica le foto deisalary man ubriachi stesi suimarciapiedi; non è soloderisione, ma la ricerca diuna prospettiva più vera chetrova nel cielo le radici dellametropoli-melograno. LauraImai Messina ha uno stilepoetico e viscerale,immediato ma pieno diimmagini evocative che siannodano alla fantasia di chiha già visto quel panoramamultiforme, ma checatturano anche chi non loconosce e ne ha solo sentitoparlare con curiosità. Itasselli si incastrano allaperfezione nella forma diquesto romanzo che sisvolge in tre giorni decisivi,rapidi, scanditi come in“After dark” di HarukiMurakami.

UOMINI SENZA DONNE Haruki MurakamiEinaudi, 222 pp., 19 €Sette storie di uomini chenon odiano le donne maanzi che ne hanno bisognoperché sono loro il filo checuce insieme i frammentidella memoria ed è propriograzie ai ricordi che sisopravvive, si può diventareun’altra persona sanando lescissioni interne o si scrivela propria (auto)biografia.Seguendo le tracce dei multiversi di Haruki Murakami cisi ritrova qui a scegliere trauna serie di crocicchi checonducono alla dimensionepiù “realistica” dell’autoregiapponese, quella cioè chediscende naturalmente daNorwegian Wood,strizzando sempre l’occhioal vecchio jazz e i Beatles.Tornano i personaggi-attoriche dello scrittoreconservano i tratti, lo stile eche si reinventano nella

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