Biblioteca di Limena Norma Cossetto" Associazione "Amici della Biblioteca"
presentano
Scrittori Suicidi Quando il talento non salva dall’autodistruzione
presentazioni di
Alessandro Cecchinato, Andrea Zambotto, Chiara Sambo,
Daniela D’Este, Gabriele Bejor, Graziella Temporin,
Marisa Fracon, Sebastiano Leotta
Limena, 13 aprile 2018
Chiara
Introduzione Più o meno un anno fa, abbiamo realizzato una serata intitolata “Medici Scrittori”. Qualcuno la
ricorderà; io almeno me la ricordo perché l’ho realizzata io. Ed è stato allora che ho cominciato a
pensare a un’altra serata-contenitore, che raggruppasse altri Autori accumunati da… qualche cosa.
Avremmo potuto fare una serata dedicata agli Scrittori Biondi, oppure agli Scrittori Mancini, o a
Scrittori Nati di Lunedì… l’importante era scovare un numero sufficiente di nomi che meritassero
un tributo perché hanno fatto la Letteratura, e nell’elenco degli Scrittori Suicidi di nomi popolari e
immortali ne abbiamo trovati un bel po’. Le storie che ascolterete, ci auguriamo le troverete
avvincenti come i romanzi dei loro Autori; di certo non sono noiose, fidatevi di noi.
Per aver rifiutato il dono divino della vita e aver così peccato contro Dio Creatore e Padre, Dante li
colloca all’Inferno, trasformati in alberi e arbusti contorti e gementi, privati per sempre di ogni
sembianza umana. Sono i suicidi, verso i quali la morale religiosa medievale non è molto
indulgente, né è granché migliorata nei secoli, dato che fino al concilio Vaticano II non era loro
concesso il funerale religioso o l’inumazione in terra consacrata.
Ma non è il giudizio sul suicidio il tema che tratteremo, perché di certo non ci compete.
Tratteremo di suicidi sì, ma nel campo in cui meglio ci muoviamo, ossia la Letteratura. Abbiamo
riunito i nomi di sette scrittori morti suicidi importanti e conosciutissimi, il cui valore letterario
prescinde comunque da questa tragica decisione, e non ne viene scalfito; oggi, quando li leggiamo,
tendiamo a mettere da parte il fatto che si siano suicidati e continuiamo ad apprezzare il talento
che loro sopravvive intatto.
Nel programma di stasera avrete notato che mancano due nomi illustri, quelli di Virginia Woolf e
di Cesare Pavese, entrambi ampiamente trattati in altre serate in tempi recenti. Ne mancano molti
altri, tralasciati per ovvi limiti di tempo; ne ricordiamo doverosamente alcuni, come il nostro Primo
Levi, il francese Romain Gary (del quale condivideremo in settembre il romanzo Gli aquiloni), la
poetessa americana Sylvia Plath, il romeno Paul Celan, i due giapponesi Yukio Mishima e
Yasunari Kawabata (quest’ultimo Nobel per la Letteratura nel 1968), il ceco Bohumil Hrabal
(citato di recente nel corso della serata sui Romanzi ferroviari).
Ognuno di essi possedeva, in vita, il dono dell’arte, un dono inebriante ma pesante perché legato a
un certo tipo di ipersensibilità che di certo non favorisce l’equilibrio mentale. L’arte si accompagna
quasi d’obbligo al tormento creativo e può accentuare le conseguenze di un carattere pessimista o
le difficoltà dell’esistenza. Vedremo di capire quando e in che modo l’idea del suicidio si è fatta
strada in questi Autori, sfogliando nelle loro vite e nelle loro opere. Buona serata.
Graziella presenta
Ernest Hemingway (1899-1961)
Chi era Ernest Hemingway?
Lo scrittore americano trascorse una straordinaria vita avventurosa: il giornalismo, la I Guerra
Mondiale in Italia, poi Parigi, la Spagna con la rivoluzione e le corride, i safari in Africa, la vita a Key
West, durante la II Guerra Mondiale pattugliava le coste alla ricerca di sottomarini tedeschi, la vita
a Cuba… Un personaggio pubblico, attorniato da ammiratori, che ebbe quattro mogli e molte
donne.
Nato a Oak Park, Illinois, nel 1899, morì a Sun Valley, nell’Idaho, nel 1961. Suo padre era
ginecologo naturista e curava anche gli indiani, per cui il bambino giocava con loro, amava vivere
all’aria aperta e apprese, da subito, il rispetto per la natura e gli animali. A dieci anni, gli fu
regalato il primo fucile da caccia che imparò presto a usare meglio dei suoi coetanei. Dopo il Liceo,
non volle iscriversi all’Università, ma lavorò nella redazione del giornale Kansas City Star. Quando
gli USA entrarono nella I Guerra Mondiale, non poté far parte dell’esercito regolare, perché era
stato riformato per un difetto a un occhio. Allora si arruolò volontario, come autista della Croce
Rossa Americana. Voleva vedere da vicino la morte, da lui definita l’eterna puta. Arrivò in Italia e
nell’estate del 1918, a Fossalta di Piave, fu gravemente ferito a un ginocchio. Il dolore era terribile,
tanto che, per due ore, cercò di resistere al desiderio di farla finita con la sua pistola d’ordinanza.
Aveva scritto:
“Morire è una cosa molto semplice. Ho guardato la morte e lo so davvero. Se avessi dovuto morire
sarebbe stato molto facile. Proprio la cosa più facile che abbia mai fatto…E come è meglio morire
nel periodo felice della giovinezza non ancora disillusa, andarsene in un bagliore di luce, che avere
il corpo consunto e vecchio e le illusioni disperse!”
Dopo le prime cure, fu portato nell’ospedale americano di Milano, dove si innamorò
dell’infermiera Agnes von Kurowsky, che però non volle sposarlo, gettandolo nella disperazione.
Da questa esperienza, pubblicherà il romanzo Addio alle armi.
Negli anni Venti, a Parigi, fece parte del gruppo di scrittori della Lost Generation (generazione
perduta), che vivevano lontani dal proprio paese, incapaci di riadattarsi alla nuova realtà, dopo i
traumi subiti nella I Guerra Mondiale.
Nel 1926, pubblicò Il sole sorge ancora, titolo poi cambiato in Fiesta, in cui i protagonisti erano
proprio loro: gli scrittori della Lost Generation, che frequentavano i caffè di Parigi. Hemingway ne
aveva fatto un ritratto realistico e a volte spietato. Essi si sentivano denigrati dal loro amico, anche
perché i clienti dei caffè li riconobbero.
Sotto una superficiale storia d’amore, affiorano i temi della morte, della virilità e
del rapporto dell’uomo con la natura. Il libro fu aspramente attaccato dalla critica,
poiché “i personaggi erano moralmente sordidi”, ma ebbe un tale successo, forse
proprio a causa della carica scandalistica che ne seguì, che gli studenti
dell’Università di Yale imitavano i “duri” del romanzo e così pure le studentesse
dello Smith College, simili, caparbie protagoniste femminili.
In quel periodo, ebbe una profonda crisi depressiva, in cui fu ossessionato dal pensiero della
morte. La motivazione può sembrarci superficiale: era innamorato della prima e di quella che
sarebbe diventata la seconda moglie e non voleva staccarsi da una delle due.
Erano intanto accadute due gravi vicende nella vita di Hemingway: a ventun anni, la madre lo
aveva cacciato di casa, perché imparasse a guadagnarsi la vita, e nel 1928 il padre si suicidò, a
causa di un dissesto finanziario e perché gravemente malato. Ernest aveva idealizzato la figura
paterna, perciò ne fu molto deluso e criticò questa scelta: come primo figlio maschio, inoltre,
diventava capofamiglia, in una situazione molto difficile, tanto che temeva di finire sul lastrico.
Certamente, la depressione che ne seguì gli ispirò il suo suicidio. Hemingway acquisì la
consapevolezza della propria fragilità, in un confronto costante con la morte e la violenza, temi
ricorrenti nelle sue opere.
Addio alle armi, del 1929, fu uno dei suoi romanzi di successo: oltre alla
morte, c’è il tema dell’amore nella seconda parte del romanzo. Il
protagonista, il tenente americano Frederic Henry conosce l’infermiera
inglese Catherine Barkley e se ne innamora ricambiato. Gravemente ferito
sul fronte, viene trasportato all’ospedale di Milano, dove ritrova Catherine
e insieme trascorrono felici il periodo della convalescenza. Tornato al
fronte, si sente smarrito nella disfatta di Caporetto e diserta raggiungendo
a Milano Catherine, che è incinta e fuggendo poi con lei in Svizzera. La
breve parentesi finisce con la morte della sua compagna e del bambino.
Hemingway descrive i personaggi devastati e tristi mentre la natura
accompagna con la pioggia il tragico momento.
Nel 1935, con Verdi colline d’Africa, parla invece di un safari africano a cui aveva partecipato, ma il
libro fu stroncato dalla critica e gli creò una nuova depressione, durata però solo alcune settimane.
Nel 1937, partecipò, come inviato speciale, alla guerra civile spagnola: sentiva che la rivoluzione
repubblicana sarebbe stata sconfitta e si recò a visitare i luoghi della vittoria lealista, dove vide i
corpi dei ragazzi, abbandonati nel fango e nella pioggia.
Nel 1938, con I Quarantanove racconti, si impose per il nuovo linguaggio e l’attenzione ai problemi
sociali. In particolare, ne La breve vita di Francis Macomber, cita Shakespeare: “Un uomo non può
morire che una volta; una morte dobbiamo a Dio e vada come vuole…”.
Nel 1940, pubblicò Per chi suona la campana, sulla guerra civile spagnola, in cui il suicidio
accompagna il consueto tema della morte. I protagonisti sanno che non potranno sopravvivere
alla loro missione, preferirebbero perciò uccidersi. Robert, ferito e incapace di seguire i compagni,
aspetta l’occasione per sopprimersi, ma non lo fa, perché suo padre, da vile, si era suicidato.
Tra gli altri romanzi, ricordo Il vecchio e il mare, del 1952, per cui meritò il
Premio Nobel, nel 1954, per il contenuto e le notevoli qualità stilistiche. È il
migliore dei suoi libri, ha come modello Moby Dick di Melville. Il suo
personaggio, Santiago, è però un povero pescatore cubano che, dopo 87
giorni di inutile pesca, finalmente si rende conto che un grosso pescespada
ha abboccato al suo amo. Così si svolge un dialogo tra due disperati: l’uomo,
che prova un profondissimo rispetto e molta pietà per la sua vittima e il
grande esemplare marino ferito, che verrà poi divorato dagli squali. Il povero
Santiago, come essere umano, fa parte della Natura, anzi si fonde con essa.
Egli riuscirà ad arrivare in porto soltanto con la testa, la colonna vertebrale e la coda del
pescespada: nonostante il suo coraggio e la tenacia di fronte alla Natura, la sua avventura finisce
così, perché questa è la condizione umana.
Nel 1954, durante un safari in Africa, l’aereo prese fuoco e Hemingway fu costretto a sfondare un
portello con la testa, per salvarsi: oltre alle ustioni di secondo e terzo grado, gli vennero
diagnosticati cranio squarciato, perdita della vista e dell’udito sull’orecchio sinistro, fratture e
paralisi, da cui non si riebbe. L’alcool e il disordine alimentare contribuirono a imprimere sul suo
viso un’ombra di disperazione, che non lo abbandonò mai più.
La scrittrice Fernanda Pivano riferisce le memorie della moglie Mary: “Il primo luglio 1961 fu una
giornata relativamente tranquilla… La sera cantò con Mary la vecchia canzone imparata a Cortina:
Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono: porto i capelli neri…” .
Il giorno dopo, era il 2 luglio 1961, quando Hemingway morì, suicida.
Lo stile letterario di Hemingway.
È stato definito un gigante del Novecento letterario perché ha influenzato, con il suo stile, non solo
la letteratura americana, ma la letteratura tout court.
Egli dimostra una padronanza nella forma e usa pochissime parole per descrivere il tema. Per lui, è
importante la narrazione, che ha imparato da Mark Twain, come anche la caratterizzazione dei
personaggi, mentre l’introspezione è ridotta al minimo. Preferisce le frasi coordinate (paratassi)
alle subordinate (ipotassi) e inventa un ritmo nuovo, veloce, incalzante con assonanze e pochi
aggettivi. Usa le ripetizioni per indicare l’insistenza. La lingua è depurata, lavorata e si basa sul
suono che dev’essere efficace, non ci sono belle frasi (Hemingway aveva studiato musica). Anche i
dialoghi sono stringati, usa la lingua quotidiana e racconta la verità. Lo stile è secco e introduce un
nuovo linguaggio, in cui inserisce anche parole in italiano o in altre lingue. Mentre i personaggi
parlano, l’azione è andata avanti, perché c’è dinamicità: parlare e agire. Il senso va oltre la parola:
questo l’ha imparato da Gertrude Stein e da Ezra Pound. Le sequenze descrittive sono brevi,
attraversate spesso da giudizi poetico-morali, come in Morte nel pomeriggio, la descrizione di
Madrid:
“Madrid è un luogo strano. Non credo che piaccia la prima volta che ci si va. Non ha nulla di quello
che ci si può aspettare dalla Spagna. È moderna, più che pittoresca senza costumi, praticamente
senza cappelli di Cordoba, eccetto sulle teste degli imbroglioni, senza castagnette e senza
mistificazioni disgustose come le caverne degli zingari a Granada…”
In Addio alle Armi, smonta la retorica della guerra, che è descritta come un carnaio, da cui non si
esce che menomati, e quella del romanticismo. L’amore è una necessità, un gioco di seduzione,
all’inizio e poi nasce dal dramma. Con Hemingway, il romanzo ha fatto scuola: nei successivi
racconti di guerra o romanzi, è scomparsa la retorica e non si trovano più termini come “onore,
gloria, sacrificio, invano”.
Hemingway e il fascismo.
Lo scrittore americano aveva intervistato Mussolini al Secolo d’Italia esprimendo poi tutto il suo
risentimento contro il duce in un intervento a Losanna del novembre 1922, al Convegno della
Pace. Aveva inoltre descritto in Addio alle Armi la ritirata di Caporetto, pur non avendovi
partecipato, e inserendo invece l’evacuazione dei Greci dalla Tracia, avvenuta in tre giorni, nel
1922, nella guerra Greco-Turca. In Italia, perciò, Hemingway veniva giudicato come un sovversivo,
un autore contrario al regime, e il libro, allora proibito, fu tradotto in Italia soltanto nel 1945.
Nel 1943, difatti, Fernanda Pivano fu arrestata dai nazisti, perché aveva firmato un contratto con
Einaudi, per la traduzione di Addio alle Armi.
La lotta contro il fascismo si combatteva, alla casa editrice Einaudi, anche spaziando tra le
letterature europee, ma soprattutto scoprendo quella americana tra le due guerre, che mostrava
un linguaggio nuovo e diverso. Vi lavoravano Cesare Pavese, Giaime Pintor, Massimo Mila,
Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia e Leone Ginsburg e molti altri.
In questo clima, Elio Vittorini, ma anche Cesare Pavese, direttore editoriale di Einaudi,
traducevano gli autori americani e lo scrittore piemontese, nella sua opera, confrontava le Langhe
con il Middle West. Egli era stato professore di lettere al Liceo D’Azeglio e aveva, tra i suoi alunni,
Fernanda Pivano, che poi entrò all’Einaudi.
E fu proprio Pavese, di ritorno dal confino - racconta Pivano - che una sera le lasciò in portineria
alcuni libri di autori americani, perché potesse capire la differenza tra la letteratura inglese e
quella americana, cogliendo il linguaggio immediato e lo slang (gergo)di questa nuova scrittura.
C’erano: Addio alle Armi, di E. Hemingway, l’Antologia di Spoon River, di E. L. Masters,
l’Autobiografia di Sherwood Anderson e Foglie d’erba, di W. Whitman.
Alessandro presenta
Vladimir Majakovskij (1893-1930)
1893: nasce in Georgia (come Stalin), segue gli studi in maniera discontinua. Molto presto si
interessa di politica.
1908: si iscrive al partito bolscevico dimostrandosi molto attivo e per questo finisce più volte in
carcere.
1911: entra nella scuola d’arte di Mosca dove ha i primi contatti con i vari esponenti del
Futurismo. Come tutti i futuristi svilupperà una forte ostilità nei confronti dell’accademia e
dell’arte del passato in generale.
1912: partecipa alla stesura di un Manifesto Collettivo Futurista intitolato “Schiaffo al gusto
corrente”.
1917: aderisce con entusiasmo alla “Rivoluzione d’Ottobre” diventando ben presto membro del
“Commissariato per l’educazione pubblica” nella sezione delle arti figurative. In questo ruolo
realizzerà migliaia di manifesti di propaganda con immagini e slogan portando avanti, come
artista, un intenso rapporto con la gente del popolo. Un lavoro concreto sul piano reale della
politica e dei vertiginosi mutamenti che l’arte al servizio della rivoluzione ha innescato
nell’arretrato mondo russo.
1918-1924: appartengono a questa stagione creativa i lavori teatrali Mistero Buffo, 150 milioni,
Lenin Vladimir, che è un poema pieno di retorica che si prefigge di esaltare il movimento operaio e
l’eroica figura che l’ha ispirato e guidato (Lenin appunto).
1923-1928: dirige la rivista politica LEF, organo del “Fronte di sinistra delle arti”, e grazie a questo
incarico compie molti viaggi all’estero e anche in America.
Dunque da un lato abbiamo la sperimentazione di una nuova poesia, dall’altro le istanze
rivoluzionarie della società, il tutto rifuggendo da una poesia fine a se stessa e lavorando per una
poesia in funzione rivoluzionaria diretta al popolo e che Majakovskij avrebbe voluto, per quanto in
suo potere, libera e non invece al servizio del regime.
Ben presto infatti la sua fiducia nella Rivoluzione viene scossa da dubbi e incertezze soprattutto a
causa della progressiva burocratizzazione a cui il regime bolscevico sottopone anche l’arte (come
del resto ogni altra attività umana).
La progressiva chiusura ideologica, a cui in breve condurrà la dittatura staliniana, è per Majakovskij
intollerabile sia da un punto di vista politico che artistico.
Con due commedie - La cimice del 1928 e Il bagno del 1929 - Majakovskij si scaglia contro
l’involuzione della rivoluzione attaccando i burocrati stupidi e ottusi del partito.
A questo punto, la potente “Associazione degli scrittori proletari”, strumento di controllo della
cultura in mano al partito, lo accusa pubblicamente di scrivere opere che confondono il popolo,
allontanandosi dalle sue reali esigenze.
La prima stagione poetica di Majakovskij è la più originale, ed è anche quella che ha prodotto
qualche capolavoro al di fuori della retorica di partito. In particolare il poemetto La nuvola con le
braghe che, se la censura l’avesse permesso, si sarebbe dovuta intitolare Il tredicesimo apostolo.
Questo testo rivela una modernità linguistica che il tempo non ha consumato e la sua valenza
poetica risulta più che mai significativa anche per un lettore contemporaneo.
Non usa il “poetese” - il tono è asciutto senza cadute sentimentali - sempre ironico nei confronti di
quegli stanchi continuatori di una logora tradizione poetica incapace ormai di reggere il passo con
il nuovo tempo storico e linguistico. Per questo Majakovskij respinge la funzione ormai solo
consolatoria della poesia tradizionale.
Pur avendo in gioventù aderito al marxismo prima e al bolscevismo dopo, Majakovskij nei suoi
versi ricorre spesso ad immagini prese dalla simbologia della tradizione religiosa russa (ad esempio
il fascino delle icone sacre). Ecco dunque apparire nella sua poesia le immagini della resurrezione,
sia essa umana o divina. Quale migliore resurrezione per quei milioni di persone che hanno atteso
l’evento (cioè la rivoluzione bolscevica) che riscatta dall’oppressione ed dallo sfruttamento?
“L’avvenire e l’amore sono le cose che più interessano il poeta”
I suoi versi sono inquieti, procedono a scatti, c’è una esplosione della parola che troppo
superficialmente negli anni successivi è stata liquidata come semplice esperimento d’avanguardia
culturale.
Nel contesto del suo tempo, la sua poesia si identifica con la denuncia di una verità storica e
drammatica che lascerà il segno nei successivi decenni.
Perfino negli scritti di carattere propagandistico, che comunque non sono mai di bassa lega, è
sempre presente un occhio critico sulla realtà e specialmente sulle contraddizioni post-
rivoluzionarie.
La sua arte è stata tutta tesa nel tentativo di fondere le ragioni del socialismo con quelle della
rivoluzione della forma e del linguaggio.
Tutto ciò si rivelerà irrealizzabile a causa del controllo politico della burocrazia staliniana sulla
cultura. In questa situazione vissuta anche come un fallimento personale Majakovskij si trova
isolato e fiaccato nel morale anche a seguito di alcune delusioni amorose con la sua amante Lilja
Brik, e del tutto coscientemente (e non per un atto impulsivo) decide di porre fine alla propria vita
il 14 aprile 1930 a soli 37 anni.
Qualche critico è arrivato a parlare di continuità “Dostoevskijana”, comunque sia Majakovskij ha
impegnato tutto se stesso fino al limite estremo del suicidio, atto che è ancora tutto da
comprendere e interpretare.
Senza ipocrisia e con autoironia Majakovskij confessa i suoi bisogni di tenerezza e di amore. La vita
di tutti i giorni gli ispira poesia che non è un pretesto ma la condizione più vera e reale della sua
esistenza.
Noi preferiamo definire Majakovskij un rivoluzionario poeta d’amore.
L’ultima lettera di Vladimir Majakovskij
Le motivazioni che hanno spinto il poeta al suicidio sono riportate nella sua ultima lettera e, anche
se non convincono molti, ve la riportiamo di seguito, per farvi comunque apprezzare la
drammaticità e la disperazione contenute in essa.
"A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno.
E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare.
Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi.
Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami.
Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna
Polonskaja.
Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […]
Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano.
La vita e io siamo pari.
Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci.
Voi che restate siate felici."
Il Futurismo.
Il Futurismo di Majakovskij (diversamente dal movimento Futurista italiano di Marinetti ecc.) non
giunge alla distruzione del linguaggio tradizionale, ma crea un folgorante repertorio di immagini
straordinariamente incisive. Lo stile è declamatorio dei valori collettivi e rivoluzionari in un
contesto di tensione politica e sociale.
Un’altra importante differenza con il movimento Futurista italiano è che Majakovskij condanna la
guerra come evento contrario alla solidarietà umana e agli interessi del popolo.
La guerra per Majakovskij favorisce le classi sociali privilegiate e reazionarie, mentre il Futurismo
italiano è plasmato su forme nazionalistiche interventiste.
Marinetti infatti declamava: “La guerra unica igiene del mondo”. Frasi spaventose che hanno
contribuito a dare una base di giustificazione culturale all’entrata in guerra dell’Italia e ai milioni di
morti che ne sono conseguiti.
La guerra è dichiarata
«Edizione della sera! Della sera! Della sera!
Italia! Germania! Austria!»
E sulla piazza, lugubremente listata di nero,
si effuse un rigagnolo di sangue purpureo!
Un caffè infranse il proprio muso a sangue,
imporporato da un grido ferino:
«Il veleno del sangue nei giuochi del Reno!
I tuoni degli obici sul marmo di Roma!»
Dal cielo lacerato contro gli aculei delle baionette
gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio,
e la pietà, schiacciata dalle suole, strillava:
«Ah, lasciatemi, lasciatemi, lasciatemi!»
I generali di bronzo sullo zoccolo a faccette
supplicavano: «Sferrateci, e noi andremo!»
Scalpitavano i baci della cavalleria che prendeva commiato,
e i fanti desideravano la vittoria-assassina.
Alla città accatastata giunse mostruosa nel sogno
la voce di basso del cannone sghignazzante,
mentre da occidente cadeva rossa neve
in brandelli succosi di carne umana.
La piazza si gonfiava, una compagnia dopo l’altra,
sulla sua fronte stizzita si gonfiavano le vene.
«Aspettate, noi asciugheremo le sciabole
sulla seta delle cocottes nei viali di Vienna!»
Gli strilloni si sgolavano: «Edizione della sera!
Italia! Germania! Austria!»
E dalla notte, lugubremente listata di nero,
scorreva, scorreva un rigagnolo di sangue purpureo.
La nuvola con le braghe
Arriverò alle quattro
mi aveva detto Maria.
Le otto, Le nove, Le dieci
E così anche la sera
nello spavento della notte
è scappata dalla finestra,
profonda e scura di dicembre.
Adesso nessuno di voi può riconoscermi:
un ammasso di nervi
che soffre, si agita.
Cosa pensa di fare tutto questo ammasso?
Tanti, troppi, i suoi desideri.
Il cuore un gelido mucchio di ferro
di notte desidera solo di mettere al riparo
la propria musica in un delicato corpo femminile.
Mi piego alla finestra
accarezzo con la fronte i vetri
Arriverà l’amore, non arriverà?
E quando, e come?
Insignificante o immenso?
Resto qui e aspetto
tra poco questa bocca sarà lacerata da un grido.
Ed io sento
che senza dire parole
simile ad un malato nel suo letto
un nervo ha fatto un salto.
Questa notte diventa come un pantano nella stanza
e dal fango non riesce a fuggire
l’occhio ormai pesante.
Improvvisamente le porte hanno cominciato a cigolare
come se tutto l’albergo
sentisse freddo e battesse i denti.
Di colpo sei entrata tu
definitiva come un “sono qui!”
Martoriando i tuoi guanti di camoscio
hai detto:
“Voglio dirti…
io sto per prendere marito”
Andrea presenta
Sandor Marai (1900-1989)
L’incipit “Quando il Talento non salva dall’Autodistruzione” richiama di fatto l’attenzione sul
suicidio, con il quale grandi scrittori e poeti si sono congedati anzitempo dalla vita.
Trattandosi di scrittori di successo quando ancora erano in vita, approdati a una celebrità che li
preserva dal rapido oblio riservato ai comuni mortali, ai tanti lettori delle loro opere si pone quindi
l’interrogativo sul perché il talento non li abbia preservati dal suicidio, atto di per sé simbolo
dell’autodistruzione.
Ora tra le tante possibili cause che possono avere spinto questi scrittori all’atto estremo, non
posso fare a meno di pensare a casi limite, quali: Guido Morselli, che deve il riconoscimento del
proprio talento proprio al suicidio avvenuto a 61 anni, quando, disperato motivò, il gesto estremo
per non aver trovato nessun editore disposto a pubblicarlo. Solo dopo la tragica morte è divenuto
infatti un caso letterario, tanto che i romanzi e altri suoi scritti sono poi usciti nelle prestigiose
edizioni Adelphi, con un vasto seguito di studi critici.
All’opposto Cesare Pavese, appena trentenne raggiunse fama e notorietà in virtù di un
riconosciuto talento per la scrittura, da lui però vissuto come sintomo di una malattia esistenziale,
diventata non più sopportabile all’età di soli 42 anni.
Quindi se l’autodistruzione, per l’appunto il suicidio, può genericamente venire attribuito a uno
stato depressivo, sta a noi appassionati lettori tentare di capire, attraverso le opere di questi
grandi scrittori, le diverse motivazioni di un’intima tragedia.
Nel caso di Sándor Márai, ritenuto unanimemente uno degli scrittori più
importanti del ‘900, l’atto estremo è preceduto da un diario scritto dal
1984 al 1989, comprendente i sui suoi ultimi cinque anni di vita, ora
edito da Adelphi con il titolo L’ultimo dono.
Sono pagine sulla presa d’atto di un’esistenza divenuta, dopo aver
superato la soglia degli ottant’anni, un vivere per sottrazione, con
quotidiani preannunci di morte, dal declino delle forze all’appannarsi dei
sensi.
Malgrado il nulla verso il quale si sente destinato, permane comunque in
Márai una volontà “...non ho fiducia né in me stesso, né nella pagina
scritta. E neppure nello scopo, nella legittimità della ‘letteratura’. Se
scrivo qualcosa di tanto in tanto, si tratta ormai di una sorta di ginnastica
mattutina, una difesa contro la sclerotizzazione”.
È una delle pagine iniziali del diario, datata 5 febbraio 1984: la lucidità e la necessità di capire sono
il movente di L’ultimo dono. Altre aspirazioni non sono consentite a un ottantaquattrenne, che
l’anagrafe e l’usura del tempo fanno sentire nei panni di un condannato a morte, al quale, come
ultimo desiderio, è concessa soltanto la scelta dell’esecuzione.
Queste ultime memorie sono di fatto il diario di un suicidio annunciato e programmato, non come
gesto spettacolare ed eccezionale da consegnare alla memoria dei posteri, ma come ultima
volontà di un vecchio uomo di andare incontro al grande mistero nella piena consapevolezza di sé,
non rinunciando a raccontare quanto la vita può ancora offrirgli.
In questo percorso lungo cinque anni, la prosa è stringata ed essenziale, sia nel commentare
eventi e fatti letterari o rivelare i propri umori, sia nel registrare i lutti che si susseguono: dalla
morte della moglie Lola, a quella del figlio adottivo e dei fratelli.
Ci sono pagine commoventi, senza scadere nel lacrimevole, come impone la lucida ragione alla
quale sottopone ogni giudizio e decisione, anche l’ultima, quando Sándor Márai ottantanovenne,
rimasto solo, decide di andarsene da questo mondo con un colpo di pistola alla tempia, prima che
la sclerosi ottenebri la coscienza di sé.
Questo diario, oltre a prestarsi a una valutazione strettamente letteraria, è la conferma in Márai
dell’inscindibilità tra scrittura e vita. Però non di chi in quanto artista si pone al di sopra della
moltitudine, bensì di chi, coerentemente con quanto postulato sull’insignificanza civile dello
scrittore, si congeda dalla vita come un vecchio, uno dei tanti, che non ha altra scelta, prima di
divenire un vegetale alla mercé di sconosciuti, che anticipare l’inevitabile fine.
In questo suicidio non c’è nulla di eccezionale, di mitico, di sacrificale, non è l’atto conclusivo di chi
in quanto artista si sentiva destinato alla gloria. In questo diario, come nell’intera vasta opera di
Márai, comprendente 30 romanzi, 3 volumi di poesie e 5 ponderosi diari, che ne hanno segnato il
percorso esistenziale, diremmo che l’aspetto determinante è l’umiltà.
Umiltà che non è soltanto il non sopravvalutarsi, bensì l’abito mentale con il quale vive la realtà e
la racconta, ponendosi di fronte alla vita come a un mistero che trascende le stesse forze
individuali che ogni uomo ha a disposizione per svelarlo.
Eppure, qualche motivo di orgoglio poteva vantarlo, dato che il suo esordio letterario, avvenuto
all’età di 18 anni con un volumetto di poesie, era stato accolto con entusiasmo dalla critica.
Ma così egli scriverà sui suoi iniziali trascorsi poetici, nel suo diario Terra, Terra!..., pubblicato nel
1972:
...non sono un poeta; nel mio sistema nervoso e nella mia coscienza manca quell’energia
condensatrice che è la poesia, la quale con una sola parola, per mezzo di un comunicare magico,
qualche volta demoniaco, riesce a catalizzare gli elementi della passione e della ragione... Eppure
mi era capitato di scrivere certi versi alla fine dei quali talvolta si sentiva tintinnare il barbarico
gioiello, la rima. Qualcosa che poteva sembrare poesia, ma ai miei versi mancava la densa ed
esplosiva forza della tensione. E senza tensione non vi è poesia.
A soli vent’anni diviene collaboratore del prestigioso quotidiano di Francoforte Frankfurter
Zeitung, che annovera Thomas Mann e Stephan Zweig, tra le abituali firme della settimanale
rubrica letteraria. Márai scrive direttamente in tedesco, sua seconda lingua, e i suoi articoli di
costume sono tanto apprezzati da essere inviato nelle capitali europee e in Medio Oriente, ma non
è il successo nel giornalismo ad acquietare l’irrequietezza esistenziale di Márai.
Un’irrequietezza fonte di una creatività che prosegue di pari passo con i diari, un guardarsi dentro
senza infingimenti, una sorta di autoanalisi, un’infinità di pagine di chi ritiene la scrittura la
principale attività della propria esistenza.
Qui emerge che l’umiltà non è disgiunta dal
pessimismo di fronte al divenire, un
pessimismo che non è un atteggiamento
aprioristico, ma conseguente al vissuto di
uomo ungherese nato nel 1900, che appena
ventenne sarà costretto ad andarsene dalla
natia città ungherese di Kassa, per non
divenire cecoslovacco, perché così hanno
sanzionato le potenze vincitrici della prima
guerra mondiale, che hanno privato l’Ungheria
sconfitta di tre quarti del suo territorio.
Lo sradicamento ne farà un esule ovunque, sempre alla ricerca di un approdo definitivo, dove
poter esercitare l’unica professione di cui è capace con la libertà che in patria gli è negata.
Lo troveremo prima in Germania, da cui fuggirà con l’avvento del nazismo, per lui e la giovane
moglie Lola, ebrea, sposata a 23 anni, non c’è più posto.
Sarà poi a Parigi e poi ancora in Ungheria, da dove se ne andrà definitivamente nel 1948: nella
patria ora sovietizzata non è più consentito scrivere liberamente a un autore considerato un
borghese.
Dal 1948 al 1952 vivrà a Napoli con la moglie, lasciandoci di quel periodo lo stupendo romanzo Il
sangue di San Gennaro. L’approdo ultimo sono gli Stati Uniti. Vi giunge con i tanti interrogativi di
chi si chiede se il fine dei duemila anni di civiltà su cui è nata l’Europa possano essere l’apocalisse
di due guerre mondiali, con gli orrori dei campi di sterminio nazisti e dei gulag staliniani.
A contatto con il Nuovo Mondo americano, non tutto gli piace, però più che giudicare cerca di
capire quest’umanità tutta proiettata nel futuro. È un altro lungo viaggio, fatto di altri diari,
animato ancora una volta dalla necessità, come i protagonisti dei suoi nuovi romanzi, di ricercare il
senso ultimo della propria esistenza fino all’Ultimo dono di cui abbiamo detto.
Nel 2010 in biblioteca è stata presentata l’opera di Sándor Márai, da allora sono stati pubblicati
altri tre romanzi e il diario Volevo tacere. Presso l’editore Adelphi, che dell’autore ungherese
detiene i diritti d’autore, giacciono, in attesa di essere tradotti in italiano, altri 22 romanzi, 1 diario
e 5 volumi di poesie, a ulteriore testimonianza di un’esistenza inscindibile dalla scrittura.
Sebastiano presenta
Lucio Mastronardi (1930-1979)
(appunti)
Lucio Mastronardi (1930-1979) è uno scrittore periferico e dunque poco letto della letteratura
italiana e, come al solito, invece, è meritevole di lettura e apprezzamento. La sua trilogia su
Vigevano è un ritratto spietato di quella società, un microcosmo della società italiana del boom
economico fatto di avarizia, miseria umana, grettezza, cinismo, ma anche di dinamismo sociale
fatto di padroni e artigiani ossessionato dal mito della roba e dai danè.
Della trilogia il più noto è Il maestro di Vigevano (1962) forse grazie anche al notevole film che ne
ha tratto Elio Petri nel 1963 con un gigantesco Alberto Sordi che interpreta Antonio Mombelli, il
maestro del romanzo. Il maestro di Vigevano è un ritratto cinico della scuola italiana (elementare)
immersa nei pregiudizi e nel decoro piccolo borghese che assedia il maestro Mombelli e la classe
degli insegnanti nel tentativo di surrogare la loro marginalità sociale ed economica.
Mastronardi si suicida nel 1979 gettandosi nel Ticino, suicidio forse dovuto alla notizia di un
neoplasia ai polmoni probabilmente non curabile che s’incrociava con un’antica depressione. Lo
stile de Il maestro di Vigevano è un incrocio di italiano e inserimenti dialettali con splendidi squarci
surreali e visionari attraverso che permettono al maestro Mombelli una fuga per quanto onirica
dalla realtà.
Nel brano che segue (paragrafo 10 della Parte terza), si parla della fine del supplente di scuola
elementare Nanini. Eterno supplente, il povero Nanini è ironico, nichilista e corrosivo. Antipatico a
tutti, tranne al protagonista del romanzo Mombelli, Nanini fa una brutta fine che Mastronardi
sbriga in una tremenda e scarna riga:
Oggi, riunione dei maestri per il doposcuola. Ha parlato il direttore-ispettore.
- Noi siamo favorevoli a quello che impropriamente viene chiamato il doposcuola, mentre sarebbe
più esatto dire: pomeriggio ricreativo. Però questa utile istituzione non si potrà concretizzare,
poiché questo pomeriggio viene pagato dai ragazzi, e un articolo del Regolamento (esattamente
l’articolo diciotto) spiega come un insegnante non possa percepire somme dagli scolari.
Si alzò il collega Bragaglia: - Ma il nuovo stato giuridico non menziona più questo fatto… - Noi
siamo ancora col vecchio stato giuridico!
Si alzò Amiconi: - Avete sentito se è stata approvata la legge della decima commissione?… Non
ancora… oh!
Di nuovo si alzò il collega Bragaglia: - Propongo che i bambini versino le quote al doposcuola… -Al
pomeriggio ricreativo, - corresse l’ispettore.
-… al pomeriggio ricreativo, al Patronato scolastico, il quale poi verserà quelle quote ai maestri!
L’ispettore alzò il dito. - Siamo lieti di riconoscerle una sottile mente giuridica! - disse. così ebbe
inizio il pomeriggio ricreativo. Io raccolgo le quote dei bambini per conto del Patronato e le verso al
Patronato. Il quale ci cambia la busta e me le restituisce.
Il collega Nanini tiene il doposcuola del collega Amiconi.
- Io sono geloso della mia scolaresca, — disse Amiconi, - e darò l’ostracismo a questo pomeriggio
ricreativo!
- Ma deve vivere anche Nanini! - gli dissero i colleghi.
Amiconi serrò le labbra rabbioso. - E deve venire proprio nella mia scuola a fare il doposcuola?
Credi che abbia dimenticato quello che ha detto sulle commende del gran sovrano di Antiochia?
Ostracismo, -s’era messo a urlare.
Mentre stavo facendo doposcuola, arriva il collega Nanini a domandarmi se sapevo risolvere il
problema che Amiconi aveva dato di compito.
Madonna, com’era complicato quel problema.
Morale della favola: alla sera eravamo ancora li a pensarci.
- E ha dato cinquanta equivalenze e due temi e un brano di analisi! - borbottava Nanini.
L’indomani Amiconi piantò un bordello del diavolo.
Chiamò l’ispettore e disse che Nanini gli rovina la scolaresca, che distrugge la sua opera educativa.
- Nulla si crea e nulla si distrugge, - sentenziò l’ispettore.
Amiconi seguitò ad assegnare un mare di compiti e problemi complessi. — Ostracismo, — urlava.
Al doposcuola ci andavano pochi bambini, e la fama di maestro asino si propagandava. - Che
maestar l’è! Al sa nonca fa’ un prublema, - commentavano i parenti degli scolari.
Nanini si lagnò con l’ispettore, il quale chiamò Amiconi e gli disse: - Nanini è del partito dei senza
Dio. Quieta non movere et mota quietare, Amiconi.
Finché un giorno Nanini era alle prese con un problema che più scontorto e complesso non poteva
essere. - Mi ha dato l’ostracismo, - sibilava. - Quindi urlò: - Bambini: scrivete bene anellate il
seguente dettato. È intitolato: il testamento di un educatore. “ Auguro al maestro Amiconi di
crepare nel momento in cui riscuoterà la sua prima pensione di gruppo A ” - dettò sillabando.
Si guardò intorno ironico, e sputò per terra e poi sui muri. — Questo è il mio amore per la scuola!
— diceva. Quindi si nascose dietro la lavagna e pisciò. Poi disse: - Ho amato i bambini come si può
amare la merda!
Se ne andò con un sorriso stravolto.
Dopo qualche ora lo trovarono sulla ferrovia, maciullato.
- È stata una disgrazia, - disse l’ispettore, e tutti i colleghi si passavano la voce: disgrazia! - Non
getti il discredito sulla benemerita categoria magistrale, -si raccomandava l’ispettore al giornalista.
Il quale dedicò al Nanini uno dei suoi raccontini.
“Un incidente ha stroncato la vita dell’educatore Nanini. Bidello!’ ti chiedo una cosa che non puoi
fare; ma ti prego, bidello, falla. Bidello, quando cominceranno le lezioni, lascia aperto il portone
della scuola. Deve entrare il maestro Nanini: e sarà la prima volta che sarà in ritardo. Il maestro
Nanini vuole venire a trovare i bambini che amava tanto, i suoi colleghi che tanto ammirava, il suo
signor direttore. Mi raccomando, bidello, lascia aperto il portone. Il maestro Nanini vuole tornare
nel suo meraviglioso regno: la scuola! ”
Marisa presenta
Emilio Salgari (1862-1911)
Già sulla pronuncia del cognome le scuole di pensiero non si sono ancora accordate: Sàlgari o
Salgàri? Io preferisco 'Salgàri' perché il nostro autore è veneto di nascita e la “salgàra” indica una
pianta tipica della nostra pianura, in italiano 'salice'.
Emilio Salgàri nasce a Verona il 21 Agosto 1863, sul finire quindi del segno zodiacale del Leone,
predestinato così, dagli influssi astrali, a errare in terre sconosciute, a conoscere procellosi mari
orientali, a incontrare genti dall'idioma sconosciuto.
Niente di tutto ciò è realmente accaduto nella sua vita ma i viaggi li ha compiuti lo stesso... attorno
al suo tavolino da scrittura con accanto i suoi 'strumenti': atlanti, carte nautiche, enciclopedie, libri
scientifici e botanici, diari di viaggio, disegni...
Ma che ci importa se non ha fatto i viaggi di cui ha descritto con forza suggestiva i particolari.
Hanno - forse - i suoi lettori, trovato imprecisioni, assurdità, inesattezze? Le sue invenzioni non
hanno danneggiato nessuno ma, al contrario, nei suoi libri abbiamo viaggiato anche noi in terre
lontane, la nostra fantasia si è arricchita e ampliata. Abbiamo viaggiato 'immobili' come lui con
altrettanta follia, curiosità, tenacia, sognando isole remote, giungle impenetrabili, pirati
sanguinari, animali esotici.
Il giovane Emilio conosce naufragi fin da giovanissimo. La scuola è il suo primo fallimento. Dalla
Scuola Tecnica Regia di Verona - con un anno ripetuto - passa al Regio Istituto Tecnico e Nautico
Paolo Sarpi di Venezia. Ha sedici anni ma l'algebra e la trigonometria non gli entrano in testa,
preferisce l'italiano, la storia, la geografia. Ma ciò non basta, e non ottiene il diploma.
Desidera andar per mare e trova un imbarco come mozzo sulla “Italia Una”, nave dal nome
altisonante, in realtà un trabaccolo che faceva la spola tra Pellestrina e Brindisi.
Ma al largo della Dalmazia la nave incappò in una tempesta e rimase in pericolo per un paio di
giorni. Tanta fu la paura provata che il nostro 'capitano' preferì non ripetere mai più l'esperienza.
Né come marinaio né come passeggero. Da quel momento in poi i viaggi sarebbero stati
rigorosamente sedentari, meglio raccontarli che viverli.
Era per lui preferibile naufragare su una trama intricata, su un lessico per nulla addomesticato, su
una ricerca di immagini che innescassero fantasie mirabolanti piuttosto che imbarcarsi
nuovamente su navi rollanti, o penetrare in foreste infestate da animali fastidiosi come gli insetti o
pericolosi come le tigri... E lasciamo perdere gli incontri umani, già così fastidiosi anche in terre
cosiddette civili.
La giovinezza è l'età degli amori. E il nostro imberbe giovinotto, frequentando a Venezia la casa
delle cugine Michieli, si innamora della cugina Ada. Fantastica (è la sua indole unita agli ormoni in
apprendistato) sulle turgide poppe della ragazza portate dalla stessa come reliquie di un santo in
una processione. L'Emilio chiamerà Ada l'eroina dei Misteri della giungla nera, la tremebonda
vergine che doveva essere sacrificata alla sanguinaria dea Kalì.
“Vago fiore della jungla. Il tuo nome?”
“Ada Corishant”
“Ada. Ah! Quanto è bello questo nome. Va', nobile creatura, a mezzanotte ti attendo!”
Riprendiamoci da questa pausa sentimentale. Il giovane Salgàri nel 1882 ritorna a Verona. Qui si
imbarca in avventure destinate al fallimento. Fu noleggiatore e venditore di bicicli, velocipedi e in
sovrappiù di libri di una biblioteca circolante. Doveva essergli stato fastidioso vendere libri scritti
da altri ma nel frattempo leggeva moltissimo, prendeva appunti che poi sarebbero entrati nei suoi
libri. Certo che doveva essere uno spasso vederlo circolare per Verona su un enorme biciclo, lui
che era piccolino, ma la grandezza stava nel turbante che portava sulla testa, un copricapo
orientale su cui aveva infilzato una penna di gallina. Lo inseguivano bambini urlanti e cani
abbaianti.
Ma il popolo veronese avrebbe più tardi riconosciuto in questa parodia levantina il Sultano Selim
Bargani Arpland ne La riconquista di Monpracem.
“Il signore del Borneo non era un gigante. Era un cosettino smilzo, color pane bigio, cogli occhietti
brillantissimi. Indossava una lunga tunica di seta verde ricamata in oro, e portava sul capo un
turbante di dimensioni monumentali”
Abbandonati i bicicli e i libri circolanti, Salgàri inizia l'attività di giornalista presso la “Nuova Arena”
col nome di battaglia di “Ammiragliador”. Finalmente scrive per pubblicare. La sua prima novella
ha per titolo I selvaggi della Papuasia, poi sarà la volta di Tay-See, in ventotto puntate, ma soldi
ancora pochi.
Ma il grande botto arriverà con La tigre della Malesia. Fa il suo ingresso Sandokan, il terribile
pirata:
“Aveva una faccia leggermente abbronzata e di una bellezza incomparabile, resa truce da una
barba nera, con una fronte ampia, incorniciata da fuligginosi e ricciuti capelli che gli cadevano con
pittoresco disordine sulle robuste spalle. (…) Si sapeva che egli era il più terribile e il più capriccioso
dei pirati della Malesia, un uomo che più di una volta era stato visto bere sangue umano e, orribile
a dirsi, succiare le cervella dei moribondi (…) ma non mancava di una certa generosità, che lo
rendeva più attraente. Era cavalleresco con le donne che liberava senza chiedere neppure uno
spillo come riscatto...”
Il nostro autore ha solo ventidue anni, l'età dei progetti, delle speranze, delle attese ma, ci si
chiede, quali drammi interiori viveva dentro di sé per partorire un personaggio così duplice, truce
e pietoso insieme. Diremmo borderline secondo diagnosi contemporanee...
Il nostro da “Ammiragliador” diventa “Emilius” passando così alla cronaca teatrale e musicale.
Incontra attrici e cantanti su cui tesse lodi sperticate innamorandosene sempre perdutamente.
Mai ricambiato.
Finché non incontra una tal signorina Ida Peruzzi, attrice, di anni ventidue, graziosa, piccolina ma
ben proporzionata. È amore a prima vista.
“Ida carissima, cosa avete fatto del mio cuore che un tempo era inaccessibile ad ogni passione?
Tutte le follie di cui un uomo è capace io le ho provate: vissuto fra tempeste ed oceani, la mia vita
doveva essere tempestosa per necessità. Ma ora sento il bisogno di amare fuori dalle procelle...
vostro per sempre, Emilio”
Per lui, e poi per tutti, non fu più “Ida” - nome troppo comune - ma divenne “Aida”, come la
verdiana figlia del re degli Etiopi. Il matrimonio venne celebrato la sera del 30 gennaio 1892 e nel
giro di alcuni anni nacquero quattro figli a cui impose nomi da romanzo: Fatima, Nadir, Romero,
Omar.
Nel 1894 la famiglia si trasferisce a Torino, città nobile, severa, prima capitale del Regno. Emilio
scrive e scrive, fabbrica trame senza sosta ma i soldi sono sempre pochi. I traslochi sono numerosi
e le abitazioni via via più modeste. Le necessità della famiglia crescono di giorno in giorno, Aida è
sempre più stanca, lo scrittore passa notte e giorno al suo tavolino per onorare impegni editoriali
di assoluto schiavismo, si tiene sveglio con pipa e tabacco. Fuma cento sigarette al giorno.
1897: trasferimento a Genova. Qui la sua vena letteraria ne è rinvigorita e Salgàri scrive i suoi
romanzi più belli. Uno per tutti: Il corsaro Nero. Non è un caso che il vero nome del corsaro sia
”Emilio signore di Ventimiglia, Valpenta e Roccabruna”.
Personaggio e autore hanno tratti simili: la malinconia, il tormento, l'inquietudine.
Potremmo pensare che i numerosi scritti pubblicati (80 romanzi, oltre 100 racconti!), i
riconoscimenti ottenuti da un vasto pubblico di estimatori, a cui si aggiunge un personale encomio
da parte della Regina Margherita di Savoia, avessero reso la famiglia Salgàri esente da problemi
economici. In realtà una serie di fattori influirono sulle precarie finanze di Salgàri: una cattiva
amministrazione domestica, un'invadenza e una esosità da parte di suocera, cognati, cugini, e poi
spese mediche per tutti, e infine contratti capestro con gli editori.
Così i Salgàri all'inizio del XX secolo ritornarono a Torino.
Aida mostra vistosi segni di cedimento psichico e sarà ricoverata in manicomio dove più tardi
morirà. La figlia Fatima è malata di tisi, lo stesso Emilio soffre di insonnia, la sua vista si è
affievolita, il fegato ingrossato. Il fumo e l'alcol non aiutano.
Non ha più senso vivere.
Il 22 aprile 1911 scrive numerose lettere d'addio ai figli, agli editori, ai giornali.
Il 25 aprile si allontana da casa, porta nella tasca della giacca un rasoio.
Il suo corpo verrà ritrovato il giorno successivo nel bosco di Val San Martino. Si era dato la morte
ferendosi al collo e all'addome. Chissà quante letture sul Giappone e sui samurai!
Lascia quest'ultima lettera:
“Miei cari figli,
Sono ormai un vinto. La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie.
Io spero che i milioni di miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti e istruiti, provvederanno a
voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di 600.
Fatemi seppellire per carità essendo completamente rovinato.
Mantenetevi buoni e onesti e pensate appena potete ad aiutare vostra madre.
Vi bacia tutti, col cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre
Emilio Salgàri
Vado a morire nella Valle di San Martino, presso il luogo ove, quanto abitavamo in via Guastalla,
andavamo a fare colazione. Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete,
perché andavamo a raccogliere fiori.
Chiara presenta
David Foster Wallace (1962-2008)
Io dico che DFW non si è suicidato.
Io dico che DFW è stato ucciso.
Ucciso da una malattia invisibile, sleale e senza pietà che si chiama “depressione clinica” e che lo
aveva colpito a 15 anni, quando era un ragazzino.
Oddio, ragazzino: DFW era un ragazzone cresciuto a sport e vitamine, alto, prestante atletico,
sportivo praticante a livello agonistico nazionale nel tennis. In più, simpatico, di compagnia e
brillante negli studi. A vederlo, il ritratto della salute, della giovinezza, del futuro.
Nasce nel 1962 in una famiglia di alto livello intellettuale: la madre insegna in un liceo, il padre è
docente universitario. Tutti gli riconoscono un'intelligenza fuori dal comune e una sensibilità del
tutto particolare, che gli permette di calarsi nel suo prossimo, di entrare nella sua pelle. Il male di
vivere che si manifesta negli anni del liceo, lo tiene nascosto con uno sforzo quotidiano immane, e
fino alla fine ne sono a conoscenza solo gli intimi. A una lettura superficiale. non traspare
nemmeno dai suoi scritti - i romanzi, e i più numerosi racconti e saggi -, che al contrario sono ricchi
di ironia e di trovate brillanti che spesso sfociano in una comicità surreale, da humour nero.
In realtà, solo dopo la sua morte e il disvelamento del suo segreto ora possiamo vedere come ogni
suo scritto sia una testimonianza dolorosa e in prima persona di quella sofferenza che non gli dava
mai tregua.
Nell’ultimo paio d’anni ho sentito le persone più disparate cercare di descrivere la «vera»
depressione. Uno della televisione con lo scilinguagnolo ha detto che secondo certi è come
sott’acqua, sotto una massa d’acqua che non ha superficie, almeno per te, che qualunque direzione
prendi trovi soltanto altra acqua, niente aria fresca né libertà di movimento, solo restrizioni e
soffocamento, e niente luce. Immaginate quella sensazione in tutta la sua piacevolissima intensità
soffocante protrarsi per ore, giorni, mesi... Una poetessa davvero meravigliosa di nome Sylvia
Plath, che purtroppo non è più in vita, diceva che è come stare sotto una campana di vetro a cui
hanno risucchiato tutta l’aria, e tu non puoi respirare nemmeno un briciolo di aria fresca (e
immaginate il momento in cui i vostri movimenti sono invisibilmente impediti dal vetro e voi capite
di essere sotto vetro...) Certi dicono che è come avere sempre davanti e sotto un enorme buco nero
senza fondo, un buco nero, nerissimo, con dentro qualche spunzone, magari, e tu fai parte di quel
buco, e cadi anche quando rimani dove sei (... magari quando capisci che il buco sei tu, e
nient’altro...) Io non ho uno scilinguagnolo incredibile, ma voglio raccontarvi com’è secondo me la
Cosa Brutta. Per me è come una nausea completa, totale, assoluta.
Immaginate di avere una nausea davvero tremenda che parte dallo stomaco. Quasi tutti hanno
avuto una nausea davvero tremenda, perciò tutti sanno come ci si sente: è tutt’altro che
divertente. OK. OK. Ma quella è una sensazione circoscritta: si accentra grossomodo intorno allo
stomaco. Immaginate che tutto il corpo abbia la nausea: i piedi, i grossi muscoli delle gambe, le
clavicole, la testa, i capelli, ogni cosa, tutto nauseato come uno stomaco in subbuglio.
Poi, se ci riuscite, vi pregherei di immaginare la stessa sensazione ancora più diffusa e totale.
Immaginate che ogni cellula del vostro corpo, ogni singola cellula del vostro corpo stia male come
quello stomaco nauseato. E non solo le cellule, ma anche gli escherichia coli e i lactobacilli, i
mitocondri, i corpi basali, tutti con la nausea a ribollire infiammati come larve nel collo, nel
cervello, ovunque, dappertutto, in ogni cosa. E tutti con una nausea da morire. Ora immaginate
che ogni singolo atomo di ogni singola cellula del corpo abbia quella stessa nausea, una nausea
insopportabile. E ogni protone e neutrone di ogni atomo... gonfio e pulsante, malaticcio, nauseato,
senza speranza di vomitare per liberarsi da quella sensazione. Ogni elettrone ha la nausea, perde
l’equilibrio e sbarella negli orbitali da luna park inondati da un turbinio screziato di gas velenosi
gialli e viola, tutto stordito e sbarellante. Quark e neutrini fuori di testa che schizzano nauseati
dappertutto, impazziti. Immaginate questo, immaginate una nausea diffusa capillarmente in ogni
vostro minimo frammento, perfino nei frammenti dei frammenti. Di modo che la vostra essenza, la
vostra... quintessenza è caratterizzata unicamente dalla nausea; voi e la nausea siete, come si dice,
«una cosa sola».
Questo brano è tratto dal racconto Il pianeta Trillafon in relazione
alla Cosa Brutta, che fa parte della raccolta “Questa è l’acqua”, e
contiene - mascherata da uno humour nero - una descrizione spietata
del male di vivere che assedia il paziente depresso, e che è così
difficile (praticamente impossibile) condividere, spiegare a parole,
rendere credibile a chi depresso non è. Immaginate un ragazzino di
15 anni che di punto in bianco precipita in questa dimensione senza
nome, senza forma, senza spiegazione, ma capace di annientare.
Immaginate la sofferenza quotidiana di vivere, da allora, altri 30 anni
fingendo che la vita vada bene così, che si possa andare avanti
mentendo anche a se stessi, e imponendosi le comuni responsabilità
di tutte le persone normali: crescere, diventare una persona adulta con un lavoro, occuparsi di
altre persone e non solo di non annegare ogni giorno, ogni ora.
Si laurea in filosofia, ma il suo vero obiettivo è la scrittura, e a soli ventiquattro anni esordisce nella
narrativa con il suo primo romanzo, dal titolo La scopa del sistema. La critica riconosce subito in lui
la nuova stella della letteratura postmoderna e del realismo isterico, genere caratterizzato da
lunghezza del testo, personaggi maniacali e prolisse e stralunate digressioni. Mentre passa da un
impiego precario all’altro, prima di entrare come docente nel mondo accademico, continua a
scrivere racconti e saggi sempre più maturi. Nulla gli sfugge e nulla va sprecato: dal suo raccolto
quotidiano di osservazioni e esperienze nascono personaggi e vicende grotteschi o eccessivi - ma
la realtà stessa lo è più di quanto ci piaccia ammettere - e il merito più sorprendente è il registro
sapientemente umoristico con il quale gestisce materiale che contiene in sé nodi esistenziali anche
tragici. Con invenzioni impensabili e situazioni paradossali, riesce a trasformarli in quadri farseschi.
La sua è una prosa torrenziale, inarrestabile, fatta di continue aggiunte e infiniti rimandi, quasi che
il restare aggrappato alla parola e il tentativo ossessivo di spiegarla fino nelle più remote pieghe lo
aiutasse a tenere fuori dal pozzo almeno il respiro, per forzarsi a sopravvivere.
I temi di fondo sono le debolezze umane, anche quelle più banali e quotidiane come la
competizione, l'ansia da prestazione, l'esibizionismo o viceversa il complesso di inadeguatezza e
tutta la serie di piccole manie che ciascuno di noi coltiva quasi inconsapevolmente, e che in
definitiva generano una schiavitù meno letale ma in tutto e per tutto paragonabile alla dipendenza
che creano vizi ben più patologici come l'uso e l'abuso di alcol, farmaci o stupefacenti.
Con profonda sensibilità osserva e immagazzina la società che lo circonda, e con una meticolosità
che sottintende una umanissima empatia la riproduce nei suoi scritti, tracciando personaggi di
volta in volta depravati o vittime, cinici o fragili, affetti da manie o semplicemente stralunati o
bizzarri, caratteri vari e opposti ma accumunati dai mali storici del genere umano. DFW ha
sviscerato, sezionato, messo sul tavolo questi mali con la meticolosità e l’accanimento di un
chirurgo, direi meglio di un anatomopatologo.
Questa indagine sull’Uomo e su se stesso portata all’eccesso deve essere stata sfibrante, e lo è
sempre in individui dotati di intelligenza e sensibilità superiori al normale. La vita, quei 30 anni
dopo la diagnosi, è stata durissima per DFW, che non è riuscito a farsi salvare né dal successo né
dall’amore di una moglie perfetta, la donna ideale per una personalità come la sua. Un matrimonio
tardivo ma felice, un gesto che fece sperare la famiglia perché pareva un rientro nella normalità. E
oltre a Karen, la moglie, un lavoro accademico, una carriera internazionale come scrittore, una
bella casa, i suoi adorati cani, tanti estimatori e tanti amici.
Ma la depressione, contro la quale la farmacopea aveva tentato tutte le possibili prescrizioni con il
solo risultato di creare, volta per volta, resistenze o intolleranze ai farmaci, continuava il suo
lavoro sotterraneo di accerchiamento, di soffocamento. Più subdola di un cancro, che ha una
localizzazione, delle dimensioni, una rintracciabilità diagnostica, la depressione si rintana per
lunghi periodi, tace nel buio, aspetta un momento qualsiasi per risvegliare le sue metastasi e
sopraffare la sua vittima.
È bastato che Karen, per una volta, si fosse fidata ad assentarsi da casa per un’ora o due lasciando
Dave da solo, apparentemente sereno.
Al suo ritorno i cani lo vegliavano, impiccato in garage.
Come si è detto, ci ha lasciato saggi, racconti e romanzi. L’ultimo, rimasto incompiuto, si intitola Il
Re pallido, ed è stato dato alle stampe postumo, per volere della moglie, malgrado manchi di
quell’imponente lavoro di revisione che DFW non trascurava mai. Operazione commerciale forse
discutibile, perché questo resta il più criptico e arduo dei suoi romanzi, almeno per un lettore che
già non abbia letto e studiato lo stile e le tematiche dell’Autore.
Il suo capolavoro resta comunque Infinite jest, un tomone di oltre 1000 pagine delle quali più di un
centinaio solo di note dell’Autore: note, sia chiaro, solo apparentemente superflue, in realtà
funzionali perché arricchiscono la vicenda e non vanno assolutamente tralasciate. Il romanzo,
costituito da più vicende parallele, contiene la messa a nudo dei dèmoni della nostra società,
illustrata sotto diverse metafore: le principali sono un’Accademia sportiva dove si crescono - a
ritmi pazzeschi - ragazzini da destinare al tennis agonistico e uno squinternato Istituto che ospita e
tenta di riabilitare relitti umani dipendenti da alcol, droghe, farmaci. Sono tutte anime dannate, in
ognuna delle quali DFW, con la sua personale vicenda umana, si riconosceva: ecco perché, accanto
alla brutalità delle loro esperienze, emerge fortissima la compassione per questi figli di un dio
minore, che la società biasima e respinge ben vedendo la pagliuzza nell’occhio dell’altro ma non la
trave nel proprio.
Desidero terminare con una frase che costituisce l’explicit, la chiusa, proprio di Infinite jest; anche
senza l’antefatto, dice qualcosa, anzi molto, e forse tutto.
“Quando si riebbe era disteso sulla schiena su una spiaggia di sabbia ghiacciata, e pioveva da un
cielo basso, e la marea era molto lontana”.
Daniela D. e Gabriele Bejor presentano
Stefan Zweig (1881-1942)
Stefan Zweig, a 76 anni di distanza dalla sua morte, continua ad avere in tutto il mondo uno
straordinario successo editoriale e le sue opere sono vendute ogni anno in centinaia di migliaia di
esemplari. Anche nella nostra Biblioteca risulta uno scrittore molto amato e nel corso degli ultimi
anni alcune sue opere sono state presentate al Gruppo come Consigli di lettura: l’autobiografia Il
mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Mendel dei libri, La novella degli scacchi, Magellano.
Grande intellettuale austriaco e insigne protagonista culturale della monarchia asburgica giunta
ormai al suo tramonto, Stefan Zweig era nato a Vienna nel 1881 da una agiata famiglia di origine
ebraica. Era stato il cantore nostalgico di un mondo perduto, l’impero austro-ungarico
multinazionale e cosmopolita.
Nel suo capolavoro Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, lo scrittore viennese aveva confrontato
amaramente “l’età d’oro della sicurezza” dei suoi anni giovanili con la squallida e buia realtà
dell’era nazista:
“Tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile […] Nessuno
credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale ed
ogni violenza apparivano ormai impossibili nell’età della ragione. Questo
senso della sicurezza era il possesso più ambito, l’ideale comune di
milioni e milioni […]
Noi che nel nuovo secolo abbiamo imparato a non lasciarci più
sorprendere da alcuno scoppio di bestialità collettiva, noi che dal
domani aspettiamo ancor più atroci eventi che dall’ieri, siamo ben più
scettici circa la perfettibilità morale degli uomini. […] noi abbiamo dovuto a poco a poco abituarci a
vivere senza un saldo terreno sotto i piedi, senza diritti, senza libertà, senza sicurezza”.
Fino agli anni Trenta, Zweig aveva conosciuto una popolarità immensa ed era stato lo scrittore di
maggior successo dei suoi tempi, letto e tradotto in tutto il mondo in una trentina di lingue. Con
l’avvento del nazismo, però, le sue opere erano state vietate e anche Zweig era stato messo al
bando insieme a pensatori e artisti come Einstein, Marcuse, Freud, Roth, Brod, e Werfel.
Terrorizzato dall’espandersi della minaccia hitleriana, Zweig era stato uno dei primi intellettuali
europei a scegliere la via dell’esilio già nel 1934, cioè 4 anni prima dell’annessione dell’Austria al
Terzo Reich.
Rifugiatosi a Londra, lo scrittore austriaco aveva ottenuto nel 1938 la cittadinanza britannica;
quando però l’anno successivo la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania, era
diventato improvvisamente “Alien Enemy”, sospetto di tradimento, per appartenere a un paese
ostile in tempo di guerra. Proprio lui che più di tutti aveva creduto nel cosmopolitismo e nel
pacifismo.
Zweig aveva deciso perciò di partire per l’America insieme a Charlotte Elizabeth Altmann, la
giovane e colta ebrea che aveva sposato in seconde nozze. Speravano entrambi di trovare
sicurezza e tranquillità. Verso la fine di giugno del 1940 erano arrivati a New York, ma presto
anche il sogno del Nuovo Mondo si era infranto, mentre la salute di Lotte, che era gravemente
malata d’asma, era andata via via peggiorando.
Zweig era consapevole che non sarebbe più tornato nell’amata Vienna. A New York lo scrittore
aveva incontrato moltissimi esuli come lui, in fuga dall’Europa e bisognosi di tutto, che gli si
rivolgevano in continuazione per chiedere aiuto, ottenere denaro, visti e passaporti.
Nell’agosto 1940, stanco e sotto pressione, lo scrittore austriaco aveva compiuto la sua ultima,
disperata fuga verso il Brasile, il paese sudamericano che aveva già visitato qualche anno prima. Lì
si era stabilito con la moglie, a Petropolis, non lontano da Rio de Janeiro.
Se i due sposi avevano creduto che il Brasile fosse anche per loro il paese dell’avvenire, la
delusione, l’angoscia e la disperazione dettate dallo sradicamento e dal richiamo delle tenebre li
avrebbero, al contrario, portati a finire anzi tempo la loro vita nella notte tra il 22 e il 23 febbraio
1942.
Con un’iniezione di Veronal Stefan Zweig avrebbe concluso tragicamente i suoi giorni a 60 anni da
poco compiuti, e la moglie, consenziente, l’avrebbe seguito nella morte, imitando il suo tragico
esempio. Accanto ai corpi che giacevano vestiti sul letto, era stato trovato un biglietto con cui
Zweig aveva dato il suo addio per sempre al mondo:
“Saluto tutti i miei amici! Che dopo questa lunga notte possano vedere l’alba! Io che sono troppo
impaziente, li precedo. Penso sia meglio concludere in tempo e in piedi una vita in cui il lavoro
intellettuale significava la più pura gioia e la libertà personale il bene più alto sulla Terra”.
Nemmeno l’annuncio dell’entrata in guerra dell’America contro il Giappone e la Germania aveva
potuto sollevare lo scrittore dallo stato di prostrazione in cui era precipitato.
Il crollo e il decadimento fisico si accompagnavano all’isolamento, alla solitudine,
all’annientamento della psiche, al venir meno delle forze e ai frequenti attacchi di disperazione per
le notizie di rastrellamenti e deportazioni di ebrei nella lontana Europa.
Zweig era tormentato dal senso di colpa: non sentiva il diritto di vivere mentre il suo popolo veniva
avviato al macello. Durante la festa organizzata per il suo sessantesimo compleanno, pochi mesi
prima di morire, aveva pronunciato queste parole: “In quanto uomini, in quanto ebrei, non
abbiamo il diritto di essere felici in questo momento. Non siamo né migliori, né più preziosi di chi
viene perseguitato in Europa”. E aveva concluso con questi versi, tristemente profetici:
“È più dolce il passare del tempo, / quando i capelli ormai incanutiscono,
“È quando si svuota il bicchiere, / Che si può vedere l’oro sul fondo
Il presentimento delle tenebre vicine / Non spaventa, consola!”
Come Giobbe, Zweig aveva avuto tutto dalla vita e tutto gli era stato tolto.
Ostile al nazismo, aveva cercato di opporsi al regime, era fuggito, ma alla fine era rimasto
sommerso. Anche la sua vena poetica e creativa, un tempo così feconda, si era andata inaridendo.
La sua vita era diventata un “ammasso di rovine”.
Nel settembre 1940, il filosofo tedesco Walter Benjamin, in fuga verso gli Stati Uniti dalla Parigi
occupata, si era suicidato in Spagna, con un’elevata dose di morfina, dopo che il suo visto di
transito gli era stato ritirato. Ma tra il 1939 e il 1940 si erano suicidati numerosi altri scrittori e
intellettuali ebrei, amici di Zweig: il drammaturgo rivoluzionario e pacifista Ernst Toller; lo scrittore
boemo, amico di Franz Kafka, Ernst Weiss, e Erwin Rieger, che gli era stato d’aiuto nel suo lavoro di
ricerca.
Zweig aveva ormai di fronte un mondo in rovina. Il “mondo di ieri“ era diventato dunque il mesto
lamento funebre per una civiltà ormai scomparsa.
Gli ultimi sei mesi della vita di Stefan Zweig sono stati raccontati con molta partecipazione e
delicata raffinatezza da Laurent Seksik nel romanzo Gli ultimi giorni di Stefan Zweig.
Questa biografia romanzata è veramente commovente, perché lo scrittore francese sa mescolare
magistralmente finzione e realtà, basandosi su fonti archivistiche e documentarie molto solide.
Si sa che lo scrittore viennese aveva sofferto fin dalla giovinezza
di depressione bipolare, alternando periodi di eccitazione e
iperattività a stati di depressione, disperazione, solitudine e
angoscia.
Zweig era stato uno scrittore di passioni ardenti e di amori
impetuosi e aveva interpretato con grande sensibilità l’animo
femminile.
Come i suoi eroi, anche le protagoniste delle sue opere avevano
spesso concluso la vita in modo tragico, suicidandosi o cedendo
alla follia, travolte da amori passionali e da sensi di colpa per
essersi irrazionalmente arrese alla passione del cuore. Quasi
tutti i protagonisti delle novelle di Zweig finivano trascinati
nell’abisso, condannati senza appello alla deriva e
all’annientamento di sé.
In uno dei suoi primi racconti, Paura, scritto nel 1910, lo scrittore aveva indagato con notevole
empatia i sentimenti di Irene Wagner, una signora dell’alta società viennese, che, colta da attacchi
di panico e in preda a sensi di colpa, aveva deciso di suicidarsi, essendo incapace di confessare al
marito la relazione clandestina intrapresa con un giovane pianista.
In Storia di una caduta, pubblicato nel 1912, Zweig aveva invece descritto il tramonto di una nobile
dama, Madame de Prie, amante del duca di Borbone, che non accettando il declino fisico, l’esilio e
il tradimento dell’amato, aveva messo in atto un plateale suicidio, bevendo una tazza di veleno,
mentre la vita a corte continuava indisturbata.
“… chiuse la porta e prese immediatamente un’ampolla da un cassetto. Era di finissima porcellana
cinese, decorata con inquietanti draghi azzurri che si curvavano e si avvinghiavano. La esaminò
incuriosita, poi vi giocò spensierata, come aveva giocato con gli uomini, con i principi, con la
Francia, con l’amore e con la morte. Svitò il tappo, versò il liquido chiaro in una coppetta. Esitò un
attimo, in fondo solo per la paura infantile che fosse amaro. Con cautela vi immerse la punta della
lingua, come un gattino annusa il latte caldo: no, non aveva un sapore cattivo. E così vuotò il calice
d’un fiato. […] Tutto, gli uomini, il mondo, la morte e la vita, le parve per un istante così
immensamente buffo che, senza volerlo, il sorriso da lei programmato divenne autentico sulle sue
labbra spensierate. Si raddrizzò come se da qualche parte, di fronte a lei, ci fosse uno specchio, era
in attesa della morte e intanto sorrideva, sorrideva, sorrideva…
Ma la morte non si lasciò ingannare e infranse quel sorriso. Quando ritrovarono Madame de Prie,
il suo volto era distorto in una smorfia spaventosa”.
In Ventiquattr’ore nella vita di una donna, lo scrittore doveva ancora una volta esaltare la forza
travolgente della passione, facendo rievocare a un’anziana nobildonna inglese, Mrs. C., un lontano
amore giovanile con un diplomatico polacco, rovinato dal gioco e aspirante suicida.
Zweig subiva il fascino di queste forze irrazionali e demoniache che lo spingevano verso
l’annientamento e aveva un particolare interesse per gli spiriti maledetti ed eroici, Hoelderlin,
Kleist e Nietzsche che, come scriveva nell’introduzione del saggio, La lotta col demone, “spinti in
un ciclone di passione che li annienta” finiscono prematuramente “in una mortale ebrietà dei sensi,
pazzi o suicidi”. In particolare, si sentiva in sintonia con Heinrich von Kleist, il poeta e
drammaturgo tedesco che nel 1811 si era suicidato insieme alla seconda moglie, Henriette Vogel.
Di quel doppio suicidio, egli aveva scritto parole di elogio, sedotto da quel gesto che gli appariva
grandioso e sublime: “Egli vide il mondo come tragedia, perciò del suo mondo foggiò tragedie e
della sua propria vita fece l’ultima e la più alta di esse”.
Tra il doppio suicidio di Kleist e Henriette Vogel e quello di Zweig e Lotte Altmann (come Henriette
gravemente malata) c’è dunque un evidente parallelismo. E questa passione della morte in
comune è la stessa che lega ”di un’ingannevole luce crepuscolare d’amore e di comunione”
Christine Hoflehner e Ferdinand, i protagonisti del romanzo incompiuto di Zweig, Estasi di libertà, i
quali programmano con lucidità il loro doppio suicidio anche se poi non lo metteranno in atto.
Per completezza devo aggiungere che attorno alla morte di Stefan Zweig furono ben presto
sollevati dei dubbi. Voci complottiste suggerirono che l’autore fosse stato assassinato. Lo scrittore
brasiliano Deonisio Da Silva, professore universitario di Filologia a Rio, autore del giallo storico
Stefan Zweig deve morire, ha addirittura immaginato che Zweig possa esser stato “suicidato” da
una banda di nazisti, agenti della Gestapo in Brasile, con la collaborazione della prima moglie dello
scrittore, Friderike, desiderosa di vendetta.
Di sicuro Zweig era stato minacciato in Brasile con lettere anonime e la sua vita era in pericolo. La
tesi dell’omicidio è stata però archiviata per mancanza di riscontri concreti e non appare molto
fondata, anche se alcuni interrogativi non hanno finora avuto risposta: perché le indagini
investigative furono scarse e inadeguate e le fotografie dei cadaveri manomesse, perché i funerali
furono celebrati in tutta fretta e soprattutto perché non fu eseguita l’autopsia come prevedeva la
legge dello stato.
Chiara
Conclusione Per concludere, una riflessione del poeta ligure Camillo Sbarbaro che ci indica, con garbo
sommesso, quello che potrebbe essere l’unico suicidio desiderabile, incruento e addirittura
armonioso:
“È aperto un concorso per segretario comunale a Scarnafigi. Se vi concorressi? Immagino un paese
tagliato fuori dal mondo; un grosso borgo, piatto, terribilmente banale. Vi arriverei in un giorno di
pioggia. Vi sposerei una donna insignificante, ad esempio un’economa. Nessuno saprebbe più nulla
di me. Mi preparerei una vecchiaia perbene. Accarezzo l’idea. Sarebbe un suicidio tranquillo e
decente; più silenzioso dell’annegamento che riempie d’acqua la bocca.”
ALESSANDRO Cecchinato, ANDREA Zambotto, CHIARA Sambo, DANIELA D’Este, GABRIELE Bejor, GRAZIELLA Temporin, MARISA Fracon, SEBASTIANO Leotta
(13/04/2018)