Sentenza 6 aprile 1961; Pres. Bonenti P., Est. Vittorio; Rossi (Avv. Santulli) c. Soc. Convectio(Avv. Vecchioni)Source: Il Foro Italiano, Vol. 84, No. 4 (1961), pp. 697/698-699/700Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151058 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
TRIBUNALE DI MILANO.
Sentenza 6 aprile 1961 ; Pres. Bonenti P., Est. Vittorio ; Eossi (Avv. Santulli) c. Soe. Convectio (Avv. Vec
chioni).
Lavoro (rapporto) — Contratto individuale — Clau sola di nuhilato — IVullità - Eifetti (Costituzione della Repubblica, art. 3, 31, 35, 37 ; cod. civ., art.
2119; 1. 26 agosto 1950 n. 860, tutela fisica ed eco nomica delle lavoratrici madri, art. 17, 19).
È nulla la clausola contrattuale che impone alla lavoratrice
l'obbligo di dimettersi in caso di matrimonio. (1) Conseguentemente la mancata dichiarazione, da parte della
lavoratrice medesima, di aver contratto le nozze non co stituisce giusta causa di licenziamento e, ove sopravvenga 10 stato di gravidanza, il datore di lavoro non può esimersi
dagli obblighi derivantigli dalla legge 26 agosto 1950 n. 860. (2)
11 Tribunale, ecc. '•— (Omissis). Bisogna esaminare se
ricorreva nella fattispecie la giusta causa di recesso che la Convectio ha contestato alla Rossi, onde superare il divieto di licenziamento che la legge 26 agosto 1950 n. 860 pone in favore delle lavoratrici gestanti.
Come è stato detto, dopo dieci mesi dall'assunzione la Convectio comunicò alla Rossi che intendeva porre una condizione nel contratto di lavoro costituita dall'obbligo della lavoratrice di accettare la risoluzione del rapporto di lavoro, previo regolare preavviso, in caso di matrimonio. Tale clausola, per evidenti motivi di quieto vivere, venne accettata dall'attrice, la quale però si guardò bene dal co municare alla datrice di lavoro la propria volontà di contrarre matrimonio e così convolò a giuste nozze all'in
saputa della Convectio. Quest'ultima apprese che la dipen dente aveva contratto matrimonio dalla firma che la Rossi aveva posto in calce alla raccomandata 15 settembre 1959, in quanto al proprio cognome aveva aggiunto quello di
sposata. La Società convenuta, ritenendo che tale omissione costituisca giusta causa di licenziamento, invocando il 2° comma, lett. a, dell'art. 3 legge 26 agosto 1950 n. 860, risolveva il rapporto in tronco.
Può costituire la violazione della cosiddetta clausola di nubilato valido motivo di recesso del rapporto di lavoro !
È noto che della quistione si sono occupati numerosi studiosi del diritto pervenendo a conclusioni contrastanti in ordine alla liceità o meno della clausola. Ciò che maggior mente è motivo di preoccupazione, da qualche tempo a
questa parte, è il continuo inserimento in numerosi con tratti di lavoro di condizioni risolutive del rapporto a causa del matrimonio della prestatrice d'opera. I sostenitori della validità della clausola hanno posto in rilievo il fatto che
(1-2) In senso contrario, v. Pret. Genova 21 giugno 1960, retro, 558, con nota di richiami in dottrina e in giurisprudenza, cui adde : Unione Donne Italiane, Libro bianco sui licenzia menti per causa di matrimonio in Italia, Roma, 1961.
Informa la Rivista giuridica del lavoro, 1961, I, 54, che il 25 e il 26 febbraio 1961, promosso dal comitato di associazioni femminili per la parità di retribuzione e sotto il patrocinio della Società umanitaria, si è svolto in Milano il convegno sui licen ziamenti per causa di matrimonio e sulla clausola di nubilato : nella relazione introduttiva il prof. Arturo Carlo Jemolo ha posto l'accento sugli aspetti sociali e giuridici del fenomeno, af fermando che deve ritenersi condannabile sotto qualsiasi pro filo ; sono seguite le relazioni deH'aw.ssa Maria Giuseppina Manfbedini su il problema giuridico del matrimonio quale causa di licenziamento delle lavoratrici e della on.le Giuseppina Re su le cause economiche e sociali del fenomeno ; ha concluso il con vegno l'avv.ssa Ada Picciotto indicando quattro possibili ri medi : 1) una legge contenente il divieto di tali licenziamenti ; 2) l'intervento sempre più attivo delle associazioni sindacali per la sensibilizzazione dell'opinione pubblica al grave problema ; 3) l'estensione della mutualizzazione degli oneri derivanti dalla legge per la tutela delle lavoratrici madri ; 4) il potenziamento dei servizi sociali atti a tutelare e garantire la libera esplicazione del lavoro femminile.
l'attuale diritto positivo, ammettendo il recesso ad nutum del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nei modi ed alle condizioni stabilite dalla legge, non vincola il re cedente a rendere noto il motivo che fosse a base del li
cenziamento, con la conseguenza che se il datore di lavoro è libero di licenziare il dipendente anche senza l'esistenza di un motivo, non si vede perchè tale recesso non possa essere valido quando il motivo è costituito dal matrimonio della dipendente, atteso che nessuna norma ne fa specifico divieto.
Tale opinione non è condivisa dal Tribunale, in quanto la clausola di nubilato viene a trovarsi in contrasto con una serie di norme costituzionali e urta contro quei principi etici che costituiscono la morale sociale.
Se è vero che, in omaggio al principio dell'autonomia
contrattuale, è riconosciuta la facoltà di recedere dal rap porto di lavoro senza alcuna causa, allorché il recedente manifesta il motivo del recesso, è necessario che esso sia conforme alla legge, giacché in caso contrario, trattandosi di motivo illecito, il recesso sarebbe colpito da nullità.
È noto come la Costituzione della Repubblica abbia
dedicato particolare tutela alla personalità umana (art. 3), non solo riconoscendo, ma anche garantendo i diritti invio labili dei cittadini, ai quali è accordata pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso.
Come è facilmente desumibile da tale principio, la clausola di nubilato si trova in pieno contrasto con esso, giacché in pratica la donna viene a trovarsi in situazione di svan
taggio rispetto agli uomini. Né vale a ristabilire l'ugua
glianza il fatto che in alcuni casi anche agli uomini viene
imposta la clausola di celibato, poiché, come è noto, simili
casi, peraltro molto limitati, sono giustificati dalla specialità del lavoro (vedasi il caso degli appartenenti alle forze di
polizia). Lo Stato tutela il lavoro in tutte le sue forme ed appli
cazioni e tale principio, sancito dall'art. 35 Cost., non può subire limitazione alcuna dovuta al sesso o a particolari condizioni del cittadino. Né può passare sotto il silenzio il contrasto della clausola in esame col favor familiae, che la Costituzione ha sancito all'art. 31.
È noto che la partecipazione della donna alla attività
economica e sociale del Paese non deve privarla del diritto di formarsi una famiglia e di adempiere agli obblighi re lativi. Non si dimentichi che l'art. 37 Cost, recita così : « Le condizioni di lavoro devono consentire (alla donna)
l'adempimento della sua essenziale funzione familiare. . . ».
Pecca invero di superficialità l'argomentazione di coloro i quali sostengono che la lavoratrice, cui viene imposta la
clausola di nubilato, è liberissima di sposare, purché ab
bandoni il lavoro.
È a tutti noto che nella generalità dei casi, salvo qualche rara eccezione, le mogli lavoratrici concorrono in maniera determinante alle spese della famiglia, e spesso senza il loro apporto la situazione del bilancio familiare sarebbe
gravemente compromessa, poiché il solo stipendio del capo
famiglia, in particolar modo nei grandi centri, per la sua
inadeguatezza rispetto al costo della vita, non può assi curare alla famiglia una esistenza dignitosa. È inoltre fre
quente il caso di giovani che formano famiglia facendo af
fidamento, per far fronte agli impegni economici derivanti dal matrimonio, sull'apporto economico di entrambi, co
stituito, nella maggioranza dei casi, dai soli proventi del
l'attività lavorativa.
Orbene, è conseguenziale che ponendo la donna nella alternativa di scegliere fra il lavoro ed il matrimonio, si viene a violare il principio costituzionale sopra accennato, concretandosi la stessa alternativa in una vera e propria conculcazione del diritto a formarsi una famiglia.
Ma vi è di più. Talora, allo scopo di eludere gli effetti di clausola ri
solutiva del contratto di lavoro le lavoratrici sono indotte a sposarsi di nascosto, come se commettessero un atto contro la morale, oppure, e non si tratta di mere ipotesi, sono por tate a creare delle unioni irregolari con le immaginabili conseguenze di ordine morale e con grave pregiudizio della famiglia, che dal Costituente è considerata il tessuto
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connettivo su cui si fonda la società. Nessun dubbio quindi che la clausola di nubilato sia in contrasto non solo con le
citate norme costituzionali (art. 3, 31, 35, 37), ma anche
con il buon costume per gli effetti che la sua pattuizione
può provocare. Infine appare util9 ricordare l'analogia che la clausola
di nubilato presenta con le condizioni testamentarie
(art. 636 cod. civ.), che impediscono all'erede le prime nozze e le ulteriori, e per le quali il legislatore ha sancito
la illiceità.
Da ciò discende che la clausola risolutiva del rapporto di lavoro posta alla Rossi è illecita e conseguentemente la
violazione non può produrre effetti giuridici, venendo così a
mancare la presunta giusta causa del recesso invocata dalla
Convectio, ed il rapporto tra le parti si deve ritenere valido
fino al 15 marzo 1961, data del compimento di un anno del
figlio nato alla Bossi, in quanto solo a tale epoca la datrice di lavoro era legittimata a recedere liberamente dal rap
porto. Sono quindi dovute all'attrice tutte le spettanze dal 15 ottobre 1959 al 15 marzo 1961 da liquidarsi in sepa rata sede, semprechè non abbia prestato altro lavoro re
munerativo.
Per questi motivi, ecc.
TRIBUNALE DI BOLOGNA.
Sentenza 10 marzo 1961 ; Pres. Belli P., Est. Euisx ; Ta
glioli (Aw. Segapeli) e Giuffrè (Aw. Beetini, Destito, Fornaciari, Mastellari, Mauceri) c. Fallimento Giuf
frè (Aw. Santini, Musso), Nasci e altri (Aw. Magna
rini, Trombetti, Masetti).
Fallimento — Imprenditore commerciale — Requi siti — Scopo di lucro — Necessità — Insussistenza
(Cod. civ., art. 2082 ; r. d. 16 marzo 1952 n. 267, di
sciplina del fallimento, art. 1). Fallimento — Imprenditore — Concetto di econo
micità (Cod. civ., art. 2082). Impresa e imprenditore — Attività bancaria — Hac
colta del risparmio — Sufficienza (Cod. civ., art.
2195, n. 4 ; 1. 7 marzo 1938, n. 141, tutela del risparmio e disciplina della funzione creditizia, art. 1, 2, 96).
È imprenditore commerciale, e come tale soggetto a falli mento, colui che in modo stabile e sistematico esercita una attività economica organizzata avente per oggetto la intermediazione nella circolazione del denaro, anche se manchi in lui l'intento del lucro. (1)
Il concetto di economicità dell'attività dell'imprenditore con siste nella potenziale idoneità a realizzare un vantaggio patrimoniale, e questa sussiste anche se si seguano metodi imperfetti o errati o addirittura delittuosi, a pre scindere quindi dall'effettivo conseguimento del lucro. (2)
Costituisce attività bancaria, secondo le norme del codice
civile, la raccolta del risparmio, ancorché non connessa all'esercizio della funzione creditizia. (3)
(1-3) La sentenza confermata del Tribunale di Bologna 8 aprile 1959 (riassunta in Foro it., Rep. 1959, voce Fallimento, n. 108) è annotata criticamente da Bigia vi (Il fallimento Giuffrè, in Giur. it., 1959, I, 2, 353) il quale sostiene la necessità della individuazione del tipo di attività commerciale esercitata; e in proposito ritiene che l'attività del Giuffrè non possa conside rarsi, allo stato attuale della legislazione, di natura bancaria, in quanto manca la connessione fra attività di raccolta del ri sparmio ed esercizio del credito, così com» richiesto dalla legge speciale bancaria, fe interessante rilevare che l'A., peraltro, con sidera la lettera del n. 4 dell'art. 2195 cod. civ. non contrastante con una diversa interpretazione o una eventuale riforma della legge 7 marzo 1938 n. 141.
Ancora più decisi, nel ssnso della assoluta necessità della connessione delle due attività, sono Molle, Il « caso Giuffrè » e la legge bancaria, in Banca, borsa, ecc., 1960, I, 407 e Crespi, Attività bancaria e raccolta di risparmio non autorizzata, ibid.,
Il Tribunale, ecc. — (Omissis). Alquanto più complessa risulta la controversia relativa all'altro presupposto del
fallimento : la qualità di imprenditore commerciale. Attesa
infatti la natura singolare ed anomala dell'attività svolta
dal Giuffrè, che non ha forse riscontro testuale nelle comuni
classificazioni economiche e giuridiche, è stato facile con
testarne o quanto meno metterne in dubbio, dentro e
fuori il processo, tutti o quasi gli elementi essenziali alla
figura dell'imprenditore commerciale, quale risulta dagli art. 1 legge fall., 2082, 2195, 2221 cod. civ. : e cioè a volte
la titolarità dell'impresa, l'organizzazione, la professionalità, il cosiddetto intento di lucro, ed infine la stessa natura
commerciale.
Ma prima di esaminare partitamente tali questioni, è
necessario porre a base dell'indagine un approfondito accertamento circa la concreta attività svolta dal Giuffrè,
per controllare poi se effettivamente ricorrano in essa
tutti gli elementi che caratterizzano l'impresa commer
ciale. In proposito i risultati raggiunti dalla zelante opera
degli organi fallimentari, nonostante il loro impegno ed
ogni più vigile cura, presentano purtroppo qualche lacuna, sia per la manifesta ed ostinata reticenza del fallito (i cui documenti contabili sono stati interamente distrutti
o occultati), sia per il deliberato assenteismo della mag
gior parte dei suo' creditori, a sua volta determinato, con
ogni probabilità, dal clamore sorto a suo tempo intorno
alla vicenda.
Sembra comunque accertato che l'attività iniziale del
fallito, risalente ad epoca anteriore al 1947 quando egli
prestava ancora servizio alle dipendenze del Credito roma
gnolo quale cassiere in Imola, sia consistita nel prestare ad alcuni enti monastici della zona consulenza ed assi
stenza di natura tecnico-tributaria per l'amministrazione
dei loro beni temporali. Qualcosa di analogo insomma, anche se solo in via officiosa, a quelle mansioni di « sindaco
apostolico » sulle quali il Giuffrè ha imperniato tutta la
sua difesa nel presente giudizio. Egli cioè provvedeva,
per conto dei monasteri che a lui si rivolgevano, ad erogare le somme che gli venivano affidate ai fini della ordinaria
amministrazione : e cioè per le spese di vitto, vestiario,
spese generali, tributi, ecc.
Tali modeste incombenze però lentamente si svilup
parono ed incrementarono su un piano di autonomia,
soprattutto dopo che il Giuffrè fu dimesso dal Credito
romagnolo nel giugno 1949. Su tale evoluzione influirono
notevolmente due fatti nuovi e determinanti : da una parte
l'esigenza degli enti amministrati di provvedere alla rico
struzione di stabili sinistrati o addirittura all'ampliamento o alla costruzione di nuovi fabbricati, dall'altra i primi contatti del Giuffrè con non meglio precisate organizza zioni estere di beneficenza.
Su questa fonte misteriosa di notevoli sovvenzioni il
fallito è stato assai parco di notizie, adducendo più o meno accettabili esigenze di discrezione, sia per ovvi motivi
fiscali, sia per evitare il diffondersi di richieste dirette.
Sembra comunque che il denaro gli pervenisse di rado
489. Sostanzialmente nello stesso senso Pkatis, La disciplina giuridica delle aziende di credito, Milano, 1959, pag. Ile Ferri, Aziende di credito, in Enciclopedia del diritto, vol. IV, pag. 754.
In senso contrario Formiggini, Attività bancaria illecita, in Riv. dir. civ., 1960, II, 251.
Per la essenzialità, in genere, dell'intento del lucro, negato dalla sentenza in esame, vedi Trib. Genova 17 febbraio 1959, Foro it., Rep. 1959, voce Fallimento, r. 110. Contra Bracco, L'impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, I960, pag. 192 (per il quale tuttavia nella normalità dei casi ricorre l'intento del lucro).
La Corte d'appello di Napoli con sentenza 19 agosto 1957
(Foro it.., Rep. 1958, voce Impresa, n. 8) ha ritenuto che il re
quisito della professionalità sussista nel caso di unicità o preva lenza dell'attività del soggetta ; nel senso della sistematicità e
continuità, v. Cass. 19 luglio 1954, n. 2579, id., Rep. 1954, voce cit., n. 15.
L'essenzialità del requisito della organizzazione è stata affermata dal Tribunale di Genova, con sentenza 12 luglio 1958, id., 1959, I, 1676.
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