sentenza 6 luglio 1985; Pres. Castaldi, Est. Di Amato; Fiorellini (Avv. Micera) c. Fall. Montagna(Avv. De Angelis)Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 3 (MARZO 1986), pp. 793/794-797/798Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180241 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Si è previsto — con la prima — che le disdette del contratto
inviate prima dell'entrata in vigore della 1. n. 118/85, ed i
provvedimenti di rilascio per finita locazione — non fondati su uno dei casi di necessità del lavoratore di cui all'art. 29 1. n.
392/78 — perdono efficacia, e le disdette possono essere ripropo ste ai sensi del precedente comma.
E, con la seconda, si è stabilito che le « disposizioni dei
precedenti commi 9 bis, 9 ter e 9 quater si applicano anche ai
giudizi in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto ».
Il comma 9 quater non può essere « letto » se non in collega mento con il comma 9 bis (ed il comma 9 quinquies, a sua volta, va coordinato con il precedente), nel senso che si è ritenuta l'inefficacia di disdette e di eventuali provvedimenti di rilascio già ottenuti, ma riferentisi alle scadenze di cui all'art. 67, lett. a), b) e c), ed a quelle di cui all'art. 71, ancora da verificarsi (in relazione al momento di entrata in vigore della 1. n. 118/85).
Trattasi, cioè, di provvedimenti di rilascio ottenuti « per futura
utilizzazione » e non già relativi a rapporti ormai cessati o scaduti.
E, per evitare ogni problema interpretativo, il legislatore ha
avvertito anche l'esigenza di precisare, ad ogni buon fine, che le
disposizioni dei commi 9 bis, 9 ter e 9 quater si sarebbero applica te anche ai giudizi in corso alla data di entrata in vigore della 1. n. 118/85.
Si è voluto chiarire, cioè — nell'eventuale contrasto tra ius
superveniens (favorevole al conduttore, avente diritto al rinnovo del contratto) e provvedimenti giudiziali di rilascio (licenze conva lidate o sentenze emesse a seguito di opposizione) — che avrebbe dovuto prevalere il primo: ciò sempre a condizione che fosse
ancora pendente un giudizio e che si trattasse di statuizioni ottenute per un rapporto di locazione in corso e non già scaduto.
Peraltro, una siffatta interpretazione sembra scaturire proprio dal dettato del comma 9 quinquies, nel quale si fa riferimento
espresso alle « disposizioni dei precedenti commi 9 bis, 9 ter e
9 quater »; non pare, cioè, che si possa assegnare alla norma in
questione una portata più ampia, tale da farvi rientrare ogni sorta di rapporto locatizio — come esattamente è stato puntua lizzato dalla difesa dello Scafi.
La « chiave di lettura » di tale comma e del precedente è nel senso che debbano coordinarsi con gli altri due (9 ter e 9 bis) e con lo stesso 8° comma; e tale sistema organico normativo porta a riconoscere che il « diritto al rinnovo » del contratto sussista
per il conduttore solo per quei rapporti ancora in corso alla data di entrata in vigore della 1. n. 118/85, e non anche per quelli ormai cessati.
D'altro canto, una eventuale efficacia retroattiva della legge —
ove si ritenesse che la « rinnovazione obbligatoria » fosse stata
prevista anche per contratti ormai scaduti al momento di entrata in vigore della stessa — non potrebbe non ingenerare dubbi di
costituzionalità, avuto riguardo all'orientamento espresso in mate ria dalla Corte costituzionale.
Questa, invero, facendo seguito alle decisioni del 15 gennaio 1976, n. 3 (id., 1976, I, 5), e del 18 novembre 1976, n. 225 (ibid.,
2745) — con le quali si era rilevato che il sistema vincolistico
non avrebbe potuto trovare giustificazione se non su un piano di
emergenza — ha ribadito — con sentenza 3 aprile 1984, n. 89
(id., 1984, I, 1450), a proposito della proroga biennale delle
locazioni non abitative introdotta dalla cosiddetta legge Nicolazzi — che l'intervento legislativo poteva accettarsi, in quanto aveva
carattere di straordinarietà e rappresentava un adeguamento della
disciplina della 1. n. 392/78, rivelatasi insufficiente alla luce di
situazioni contingenti ed eccezionali.
Ed ha anche chiarito — nel dichiarare la legittimità costituzio
nale della proroga — che questa avrebbe dovuto rappresentare « l'ultimo e definitivo » anello di congiunzione della graduale attuazione della nuova disciplina di cui alla legge sull'equo canone, di talché ogni altro intervento sarebbe stato inammissibile.
A tali conclusioni la Corte costituzionale è pervenuta sul rilievo
che il regime straordinario del blocco non può lecitamente essere
trasformato in disciplina ordinaria, senza che risulti violata la
proprietà privata, tutelata dall'art. 42 Cost.
E non pare che si possa ovviare a tale inconveniente con il
correttivo dell'aumento del canone, fissato dal comma 9 bis cit.
Sicché, anche sotto questo profilo, pare al collegio che l'inter
pretazione delle indicate disposizioni di legge debba essere condot
ta negli esposti termini.
Ne discende che, scaduto il contratto di locazione per cui è
causa il 7 gennaio 1984, il Chiara è tenuto al rilascio dell'immo
bile, nella piena disponibilità dello Scafi. (Omissis)
Il Foro Italiano — 1986.
TRIBUNALE DI ROMA; TRIBUNALE DI ROMA; sentenza 6 luglio 1985; Pres. Castaldi,
Est. Di Amato; Fiorellini (Aw. Micera) c. Fall. Montagna
(Avv. De Angelis).
Fallimento — Presunzione muciana — Acquisto compiuto dal
fallito ricadente nella comunione legale dei beni — Applicabili
tà (Cod. civ., art. 177; r.d. 16 marzo 1942 n. 267, disciplina del fallimento, art. 70).
Rientra nel campo di applicazione della disposizione di cui all'art.
70 l. fall., relativa alla c.d. presunzione muciana, anche l'ipotesi
in cui l'acquisto sia stato compiuto direttamente dal fallito, e
non dal di lui coniuge, e il bene acquistato sia caduto in
regime di comunione legale. (1)
Svolgimento del processo. — Con atto di citazione notificato il
2 febbraio 1984 Ada Fiorellini esponeva che in data 18 febbraio
1978 il coniuge Mario Montagna aveva acquistato, in regime di
comunione con essa attrice, l'appartamento sito in Roma - Fiumi
cino via Bignami 39; che il coniuge era stato dichiarato fallito
con sentenza del Tribunale di Roma in data 17 gennaio 1980;
che la Cassa di risparmio di Roma, in virtù di un credito
fondiario assistito da ipoteca, aveva intrapreso, in danno di essa
attrice e del Montagna, innanzi al Tribunale di Roma, l'espropria zione forzata del menzionato appartamento; che il fallimento era
intervenuto nella procedura esecutiva chiedendo, in virtù della
presunzione ex art. 70 1. fall., di partecipare alla distribuzione del
ricavato della vendita dell'intero appartamento e non soltanto della
quota di proprietà del fallito; che essa attrice con ricorso al
giudice dell'esecuzione aveva proposto opposizione all'intervento
del fallimento deducendo che la presunzione muciana non poteva
applicarsi agli acquisti effettuati dal coniuge del fallito in regime di comunione legale; che il giudice dell'esecuzione aveva rigettato la richiesta di sospensione dell'esecuzione ed aveva concesso il
termine di sessanta giorni per la riassunzione della causa innanzi
alla sezione fallimentare del Tribunale di Roma.
Tanto premesso, l'attrice chiedeva che il tribunale dichiarasse la
nullità del provvedimento con cui il g.d., autorizzando il curatore
ad intervenire nell'esecuzione promossa dalla Cassa di risparmio di Roma, aveva avocato alla massa attiva del fallimento l'appar tamento in via Bignami anche nella quota di proprietà di essa
attrice. (Omissis) Motivi della decisione. — Il tribunale osserva anzitutto, sebbene
le parti nulla abbiano rilevato in proposito, che erroneamente il
giudice dell'esecuzione di questo stesso tribunale si è spogliato della causa concedendo un termine per la riassunzione innanzi
alla sezione fallimentare.
Infatti, la distinzione di un ufficio giudiziario in sezioni attiene
(1) In termini esattamente conformi v., citata in motivazione, Trib. Monza 25 novembre 1982, Foro it., 1983. I, 1440, con nota di
richiami, che ha ritenuto operante la presunzione muciana rispetto alla
quota spettante al coniuge del fallito in forza del regime di comunione
legale introdotto con la riforma del diritto di famiglia. In ordine al
problema, esaminato dalla sentenza riportata, della compatibilità del l'art. 70 1. fall, con l'istituto della comunione legale di cui alla 1. 19
maggio 1975 n. 151, cfr., oltre ai riferimenti in nota a Trib. Monza 25 novembre 1982, cit., Trib. Udine 9 febbraio 1985, Fallimento, 1985, 865; Trib. Venezia 22 maggio 1984, Dir. fallim., 1985, II, 166; Trib. Prato 13 giugno 1984, id., 1984, II, 1068; Trib. Napoli 3 novembre
1982, Foro it., Rep. 1983, voce Fallimento, n. 378, tutte orientate a favore della tesi che ritiene tuttora applicabile la presunzione muciana, escludendo che l'art. 70 sia stato abrogato con l'entrata in vigore della normativa di cui alla 1. n. 151/75 sulla comunione legale fra coniugi: nello stesso senso v., in dottrina, Salanitro, La presunzione muciana tra nuovo diritto di famiglia e progetto di ri/orma, in Dir. fallim., 1984, I, 696; Bronzini, Presunzione muciana e comunione dei beni, id., 1984, II, 1068; Millozza, Ancora sui rapporti tra il regime della comunione dei beni e l'art. 70 l. fall., in Fallimento, 1984, 1338. Per
l'inapplicabilità della presunzione muciana agli acquisti compiuti in
regime di comunione legale v. Trib. Modena 7 marzo 1985, id., 1985, 765; Trib. Lucca 7 luglio 1982, Foro it., Rep. 1983, voce cit., n. 380; Trib. Lucca 21 maggio 1982, id., Rep. 1984, voce cit., n. 313; Trib. Verona 8 luglio 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 382, e, in dottrina, Apice, Morte e sopravvivenza della presunzione muciana, in Fallimen
to, 1984, 1327; Bartalena, Inapplicabilità della presunzione muciana
agli acquisti in regime di comunione legale, in Giur. comm., 1984, II, 122. Sui rapporti tra presunzione muciana e il regime della comunione
legale tra coniugi cfr., altresì, Jannarelli, La presunzione muciana tra interessi dei creditori e interessi dei coniugi, in Foro it., 1978, I, 73.
Sul carattere personale dell'azione volta a far accertare l'operatività della presunzione muciana, v. Cass. 18 ottobre 1983, n. 6110, id., 1983, I, 3028, che ha ritenuto compresa la relativa controversia nella competenza esclusiva del tribunale fallimentare, ai sensi dell'art. 24 1. fall.
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PARTE PRIMA
soltanto alla organizzazione interna ed è perciò irrilevante ai fini
della competenza; tale rilievo esclude anche che in questa sede
possa prospettarsi una qualsiasi questione di competenza con
l'ufficio giudiziario di appartenenza del giudice dell'esecuzione.
Inoltre, poiché la citazione in riassunzione, quando contenga tutti
gli elementi prescritti dall'art. 163 c.p.c., ben può valere come
atto introduttivo di un giudizio nuovo (Cass. 20 settembre 1977, n. 4027, Foro it., Rep. 1977, voce Procedimento civile, n. 158),
qualsiasi collegamento con la precedente fase del procedimento diviene irrilevante di fronte alla chiara formulazione della do manda come opposizione alla presunzione muciana ed alla avoca
zione del bene alla massa attiva del fallimento sulla quale
opposizione questo tribunale {non la sezione) è competente ai sensi dell'art. 24 1. fall.
L'attrice, infatti, non ha riproposto la contestazione del diritto
del fallimento di partecipare alla espropriazione individuale in
corso e di provocarne i singoli atti, rispetto alla quale è forse
ipotizzabile la competenza territoriale del giudice del luogo dell'e
secuzione (ma nella specie l'ufficio giudiziario sarebbe lo stesso)
con il dubbio, tuttavia, se la competenza possa estendersi sino a
conoscere della legittimità dell'avocazione alla massa attiva ovve
ro, come sembra più probabile, debba limitarsi all'accertamento
della sussistenza di tale avocazione quale titolo che consente
l'intervento. Ciò premesso, il tribunale rileva che la questione
sottoposta al suo esame è quella della compatibilità o meno della
presunzione muciana, regolata dall'art. 70 1. fall., con il regime di
comunione legale introdotto dalla riforma nel diritto di famiglia
(1. n. 151 del 1975).
La tesi dell'inapplicabilità della presunzione muciana nei con
fronti degli acquisti compiuti in regime di comunione legale è
largamente prevalente in dottrina ed ha trovato seguito anche in
giurisprudenza (Trib. Monza 15 maggio 1981 e Trib. Lucca 7
luglio 1982, id., Rep. 1983, voce Fallimento, n. 380). Tale
soluzione è argomentata con il rilievo che nel nuovo regime
patrimoniale della famiglia è del tutto indifferente, per la caduta
in comunione dei beni acquistati, la provenienza del denaro
utilizzato così come è irrilevante chi (un coniuge, l'altro o
entrambi) proceda all'acquisto; pertanto, anche a presumere che il
denaro utilizzato per l'acquisto provenga dal fallito, questa pre sunzione non cambierebbe nulla in ordine all'effetto della caduta
in comunione. Inoltre, a sostegno dell'inapplicabilità della presun zione muciana si è osservato che l'art. 189, 2° comma, c.c., nel
testo dettato dalla 1. n. 151 del 1975, consentirebbe ai creditori
particolari di uno dei coniugi — e quindi anche ai creditori del
fallito — di soddisfarsi sui beni della comunione soltanto in via
sussidiaria e « fino al valore corrispondente alla quota del coniuge
obbligato ».
Malgrado l'indubbia consistenza degli argomenti il tribunale
ritiene preferibile la tesi contraria, accolta in giurisprudenza da
Trib. Napoli 22 giugno 1981 (id., Rep. 1982, voce cit., n. 334),
Trib. Monza 25 novembre 1982 (id., 1983, I, 1440), e Trib.
Monza 12 marzo 1983.
La chiave per risolvere la questione va individuata nella
specialità della disciplina fallimentare a fronte del carattere
generale della successiva disciplina della comunione legale, che,
infatti, non contiene alcuna disposizione particolare riferibile alla
materia fallimentare, tranne il disposto dell'art. 191 c.c. ove il
fallimento viene elencato tra le possibili cause di scioglimento della comunione. La richiamata specialità dell'art. 70 1. fall,
comporta che la sua tacita abrogazione potrebbe configurarsi solo nel caso di insanabile contrasto con il nuovo diritto di
famiglia. Detto contrasto è, invece, da escludere per le ragioni che seguono.
La disciplina degli effetti del fallimento su beni acquistati dal
coniuge del fallito nel quinquennio anteriore alla dichiarazione del
fallimento opera sia presumendo, di fronte ai creditori, che i beni
siano stati acquistati con denaro del fallito sia considerando,
sempre di fronte ai creditori, tali beni di proprietà del fallito.
Infatti, la sola presunzione di provenienza del denaro dal fallito
consentirebbe, alla stregua del diritto comune, di acquisire al
fallimento soltanto il danaro e non anche i beni acquistati. Per
raggiungere tale risultato la legge surroga il danaro proveniente dal fallito con i beni acquistati dall'altro coniuge.
Orbene nessuno dei due profili della presunzione muciana è
incompatibile con il nuovo diritto di famiglia. Per ciò che
concerne la provenienza del danaro dal fallito, se è vero che il
regime di comunione legale risponde all'esigenza di dare equo
riconoscimento al contributo del coniuge economicamente più
debole alla formazione del patrimonio familiare, la riforma del
diritto di famiglia non si spinge, sovrapponendosi alla realtà, sino
a considerare comuni i redditi particolari dei coniugi ed anzi
Il Foro Italiano — 1986.
prevede (art. 177, lett. b e c, c.c.) che tali redditi restino nella
disponibilità esclusiva del coniuge che li ha prodotti sino allo
scioglimento della comunione (rectius cessazione del regime di
comunione), momento in cui i redditi non consumati vengono a
cadere nella comunione (c.d. comunione da residuo).
Pertanto, il nuovo regime patrimoniale della famiglia non
postula affatto che i coniugi contribuiscano in modo eguale agli
acquisti, ma fa cadere in comunione « gli acquisti compiuti dai
due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio » (art.
177, lett. a, c.c.).
Neppure il secondo profilo della presunzione muciana è in
contrasto con la disciplina della 1. n. 151 del 1975. Infatti, la
presunzione muciana non opera nei rapporti tra i coniugi, rispetto ai quali resta ferma la comunione sugli acquisti, ma soltanto a
favore dei creditori fallimentari nel senso che soltanto nei loro
confronti e soltanto nell'ambito della procedura fallimentare il
bene acquistato si considera di proprietà del fallito.
La presunzione (rectius la surrogazione), pertanto, opera con un
meccanismo che non è diverso da quello con cui operava prima della riforma del diritto di famiglia ovvero da quello con cui
opera oggi rispetto agli acquisti del coniuge in regime di separa zione dei beni.
La specialità della disciplina, in un caso come negli altri, opera,
infatti, attraverso una surrogazione ope legis del danaro con i
beni con esso acquistati che il diritto comune, anche prima della
nuova disciplina del diritto di famiglia, non avrebbe consentito. Al
riguardo è sufficiente ricordare che nella donazione indiretta, realizzata con il pagamento, da parte del donante, del prezzo dovuto dal beneficiario per l'acquisto di un bene, oggetto della
donazione è il danaro e non il bene che non è mai entrato nel
patrimonio del donante (Cass. 21 gennaio 1954, n. 131, id., 1954,
I, 438); identica è la soluzione nel caso di donazione diretta del
danaro utilizzato per l'acquisto (Cass. 19 ottobre 1978, n. 4711,
id., Rep. 1978, voce Donazione, n. 7).
Più in generale, poi, si deve escludere un contrasto della
presunzione muciana con gli obiettivi perseguiti dalla riforma del
diritto di famiglia. Quest'ultima, infatti, non ipotizza neppure che
la tutela del coniuge economicamente più debole possa essere
realizzata sacrificando le esigenze di tutela dei creditori concorsua
li del fallito. Invero, quelle disponibilità che il coniuge imprendi tore ha destinato all'acquisto del bene caduto in comunione
sarebbero rimaste, in difetto dell'acquisto, vincolate al soddisfaci
mento dei creditori e sarebbero cadute, soltanto se non esaurite,
nella comunione de residuo che si apre con la cessazione del
regime di comunione legale (art. 177, lett. b e c, c.c., per i frutti
dei beni personali e per i proventi dell'attività separata dei
coniugi, art. 178 c.c. per i beni destinati all'esercizio dell'impresa non gestita da entrambi i coniugi).
Accertata la compatibilità della presunzione muciana con il
regime di comunione dei beni si può osservare, rispetto al
menzionato argomento contrario fondato sull'art. 189, 2° comma,
c.c., che l'appartenenza del bene alla comunione, cui consegue un
limite alla possibilità di aggressione da parte dei creditori partico lari del coniuge, viene elisa in radice perché il bene — di fronte
ai creditori concorsuali — si considera (iuris et de iure) di
proprietà del fallito.
Tale rilievo non si traduce, come forse potrebbe apparire, in
una petizione di principio perché darebbe per dimostrato (la
compatibilità) ciò che si deve dimostrare anche alla stregua del
disposto dell'art. 189 c.c. Infatti, il diverso trattamento dei
creditori individuali (nessun riferimento alla procedura concorsuale
può essere rinvenuto nell'art. 189 c.c.) e di quelli concorsuali non
pone problemi di compatibilità giacché discende dalla specialità della disciplina fallimentare e sussisteva negli stessi termini anche
prima della riforma del 1975. Anche allora, infatti, i creditori
individuali non avrebbero potuto aggredire i beni comuni nella
quota di pertinenza del coniuge del debitore.
Resta, infine, da dire, sebbene le parti non abbiano fatto cenno
al problema, che nella fattispecie prevista dall'art. 70 1. fall, si
può ricondurre, con una interpretazione evolutiva (in tal senso v.
Trib. Monza 25 novembre 1982, cit.), non solo l'ipotesi in
cui l'acquisto sia stato posto in essere dal coniuge del fal
lito, ma anche l'ipotesi in cui, come nella specie, l'acquisto sia
stato posto in essere direttamente dal fallito. L'ipotesi naturalmen
te non poteva essere prevista dai compilatori della legge fallimen
tare poiché all'epoca non sussisteva nel nostro ordinamento l'im
putazione alla comunione degli effetti degli atti di acquisto dei
coniugi. Tuttavia, la formulazione della norma, che fa riferimento
all'acquisto e non all'atto di acquisto (« i beni che il coniuge del
fallito ha acquistato... ») è idonea a ricomprendere tutti gli
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
acquisti del coniuge del fallito anche se i relativi atti siano stati
posti in essere dal medesimo fallito. La soluzione contraria
sarebbe d'altro canto assolutamente aberrante perché escluderebbe
l'applicazione della presunzione muciana proprio nel caso in cui è
praticamente certo che il danaro impiegato per l'acquisto proviene dal patrimonio dell'imprenditore. (Omissis)
TRIBUNALE DI MONZA; TRIBUNALE DI MONZA; sentenza 9 marzo 1985; Pres. Laudi
sio, Est. Lapertosa; Castagnaro e De Sarro (Avv. Giuliani) c.
Soc. immob. Lamezia (Avv. Pigliasco).
Sequestro conservativo, giudiziale e convenzionale — Sequestro
giudiziario — Giudizio di convalida — Legittimazione — Causa
di merito devoluta ad arbitri (Cod. proc. civ., art. 670, 818).
Il giudizio sulla convalida del sequestro giudiziario, concesso
anteriormente all'instaurarsi della causa sul merito, deve svol
gersi tra gli stessi contraddittori del giudizio di merito; pertan to, ove quest'ultimo sia rimesso ad arbitri, il sequestro può essere convalidato solo quando prima della decisione sulla
istanza di convalida sia stato instaurato il detto giudizio arbitrale. (1)
Svolgimento del processo. — Con ricorso depositato il 31
marzo 1981 Castagnaro Santo e De Sarro Eugenia, premesso di
(1) Nella specie si verte in tema di diritto al controllo di libri e documenti della società da parte dei soci accomandanti.
In sede di decisione sulla convalida di sequestro giudiziario il
tribunale, partendo da una affermazione iniziale sulla competenza esclusi va del giudice ordinario in ordine alla concessione delle misure cautelari ove il giudizio di merito sia rimesso ad arbitri, perviene tuttavia ad una declaratoria di inefficacia del sequestro concesso al socio accomandante nei confronti della società, sulla base del principio che il processo si deve svolgere tra i legitimi contradictores. Infatti per il giudicante, mentre risulta chiara la legittimazione passiva dell'accomandatario amministratore (« il quale, per la coessenziale carica di amministratore, risponde per la tenuta di quei libri e può avere interesse a sottrarsi all'interferenza dei soci accomandanti »), non altrettanto facile è individuare una azione di merito che veda sullo stesso oggetto la
legittimazione passiva della società. E, poiché non è stata neanche avviata la procedura arbitrale nei confronti di quest'ultima, si deve ritenere che il sequestro sia stato chiesto contro chi non è legittimato passivo nel procedimento di merito e sia pertanto inefficace.
La sentenza in epigrafe si allinea ad un orientamento giurispruden ziale tendente ad affermare la necessità che il procedimento arbitrale sia iniziato al momento della decisione sulla convalida del sequestro. Precedenti sul punto sono Cass. 20 dicembre 1982, n. 7056 (Foro it., Rep. 1982, voce Sequestro conservativo, n. 17) e Cass. 17 mag gio 1979, n. 2829 (id., 1979, I, 2035). Quest'ultima decisione, cui espressamente si allinea la sentenza del Tribunale di Monza, prende posizione negativa sull'applicabilità dell'art. 680, 1° e 2°
comma, al caso di misura cautelare afferente ad un giudizio di merito rimesso ad arbitri (in contrasto con la maggioranza della dottrina): tuttavia dalla natura strumentale e provvisoria delle misure cautelari discende per la Cassazione la impossibilità che le stesse siano convali date senza che sia stato iniziato il procedimento di merito. Pertanto, con sentenza sostanzialmente creatrice di diritto, afferma il principio che al momento della decisione sulla convalida deve essere stato instaurato il procedimento arbitrale.
L'unico punto su cui la sentenza in epigrafe diverge da Cass. 17
maggio 1979, n. 2820, cit., è nella individuazione della ratio che induce a ritenere necessario l'instaurarsi del procedimento arbitrale prima della decisione della convalida sul sequestro, che viene rinvenuta appunto nella necessità che i contraddittori del giudizio di convalida siano gli stessi contraddittori del giudizio di merito, condizione che non potrebbe essere verificata dal giudice della convalida nel caso di scissione temporale tra i due giudizi. La necessità che il processo di merito abbia corso tra le stesse parti del procedimento cautelare è
espressamente affermata da Cass. 15 ottobre 1960, n. 2747, id., Rep. 1960, voce cit., n. 74, ma applicazioni particolari del principio si ritrovano anche in Cass. 10 novembre 1965, n. 2346, id., Rep. 1965, voce cit., n. 62 e Cass. 15 gennaio 1965, n. 79, ibid., n 65, secondo le
quali in materia di divisione ereditaria procedimento di convalida del
sequestro e procedimento di divisione debbono entrambi svolgersi alla
presenza di tutti i legittimi contraddittori. Una estensione del principio elaborato con riguardo ai provvedimenti
cautelari in rapporto a giudizi di merito devoluti ad arbitri è stata attuata da Trib. Torino 1° dicembre 1983 con riguardo al rapporto tra il sequestro conservativo sui beni mobili previsto dalla 1. 7 gennaio 1929 n. 4, e avviso di accertamento o rettifica fatto valere dall'ammi nistrazione finanziaria. Tale sentenza si può leggere in Foro it., 1985, I, 902, con nota di R. Santulli sui contrasti esistenti sul punto tra dottrina e giurisprudenza.
Il Foro Italiano — 1986 — Parte I- 52.
essere soci accomandanti della soc. immob. Lamezia di De
Sarro Vittorio e C., con sede in Carugate, chiedevano il sequestro
giudiziario dei libri e documenti contabili della società deducendo
che l'accomandatario, dopo aver compiuto una serie di atti di
amministrazione suscettivi di arrecar loro pregiudizio, aveva ma
nifestato l'inequivoca intenzione di sottrarsi al loro legittimo potere di controllo. Il presidente fissava l'udienza del 14 aprile 1981 per la comparizione delle parti avanti a sé, fissando ai
ricorrenti termine fino al 9 aprile 1981 per la notifica del ricorso e del pedissequo provvedimento alla controparte.
Constatata l'assenza di quest'ultima all'udienza prefissata, il
giudice adito con decreto in data 15 aprile 1981 autorizzava il
sequestro, limitatamente peraltro alla gestione chiusa con il bilan
cio dell'anno precedente e a quello in corso, nominando custode 10 stesso De Sarro.
Eseguito il sequestro in data 13 maggio 1981, il Castagnaro e la De Sarro, con citazione notificata il 27 maggio 1981, convenivano davanti a questo tribunale la s.a.s. immob. Lamezia di De Sarro
Vittorio e C., chiedendo la convalida della misura cautelare e la condanna della convenuta al rimborso delle spese di lite. Costitui tosi in giudizio, l'immobiliare Lamezia eccepiva preliminarmente la nullità del sequestro e di tutti gli atti successivi deducendo che la notificazione del ricorso era stata eseguita in violazione delle formalità previste dall'art. 145 c.p.c. e fuori del termine perento rio fissato dal giudice adito ante causam.
La convenuta eccepiva inoltre l'incompetenza del tribunale per effetto della clausola compromissoria prevista dall'art. 10 dello statuto sociale e rilevava comunque la mancanza dei presupposti di legge per la concessione del sequestro; nel merito, e in via
subordinata, chiedeva che fosse dichiarata la decadenza degli accomandanti dalla qualità di soci per omesso versamento dei
rispettivi conferimenti. (Omissis) Motivi della decisione. — La difesa della società convenuta ha
preliminarmente eccepito la nullità del sequestro giudiziario in data 15 aprile 1981 in conseguenza della nullità della notificazio ne del ricorso e del pedissequo decreto con il quale il presidente del tribunale fissò la previa comparizione delle parti avanti a sé
per l'udienza del 14 aprile 1981, deducendo in particolare che la notificazione sarebbe stata eseguita fuori del termine all'uopo fissato (fino al 9 aprile 1984) e senza il rispetto delle inderogabili formalità prescritte dall'art. 145 c.p.c.
L'eccezione è infondata. Non sembra inutile osservare in primo luogo che, trattandosi di sequestro giudiziario ex art. 670, n. 2,
c.p.c. la preventiva audizione delle parti non era certamente impo sta dall'art. 672, ult. comma, c.p.c., mentre l'opportunità di assume re sommarie informazioni prima di provvedere sull'istanza cautela
re, pur potendo essere soddisfatta attraverso l'audizione delle parti (o di una sola), non comportava certamente l'esigenza di assicu rare l'immediato contraddittorio, che la citata norma si preoccupa invece di instaurare per la più grave ipotesi contemplata dall'art.
670, n. 1 (salvi i casi di eccezionale urgenza o pericolo nel ritardo). Peraltro, anche a prescindere dalla considerazione che precede,
deve escludersi che il decreto autorizzativo del sequestro sia nullo
per i vizi di notificazione denunciati dalla convenuta. Il ricorso ed 11 relativo provvedimento di fissazione della udienza per la
comparizione delle parti furono infatti notificati in data 9 aprile 1981 ai sensi dell'art. 138, 2° comma, c.p.c. a mani proprie dell'accomandatario della società Lamezia e presso la sede legale di questa (in Carugate via Don Minzoni 16) come risultante dai
registri della cancelleria del Tribunale di Monza ove essa risulta va iscritta.
Non diversamente va valutata l'attestazione con la quale l'ufficiale giudiziario, dopo un precedente infruttuoso tentativo di notifica presso una sede diversa da quella legale, diede atto nella successiva relazione del 9 aprile 1981 del rifiuto del legale rappresentante della società di ricevere in consegna la copia dell'atto.
E a nulla vale disquisire sulla ritualità delle ulteriori formalità
(affissione dell'avviso alla porta dell'abitazione e invio della lettera racc. con R.R.) compiute dall'ufficiale giudiziario ai sensi dell'art. 140 c.p.c. (e non dell'art. 143 c.p.c., come erroneamente ritenuto dalla difesa della convenuta), trattandosi di adempimenti ultronei compiuti evidentemente nell'errato convincimento dell'in sufficienza del « rifiuto » ai fini della perfezione della notifica
eseguita ai sensi degli art. 138 e 145, 1° comma, c.p.c. Del pari infondata è l'eccezione d'incompetenza sollevata dalla
convenuta sulla base dell'art. 10 dello statuto sociale, integrante una clausola compromissoria relativa alle « controversie insorgenti tra la società ed i soci » (ecc.).
È noto infatti che il deferimento ad arbitri della decisione della
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