Sezione I civile; sentenza 1 febbraio 1962, n. 191; Pres. Celentano P., Est. Bianchi d'Espinosa, P.M. Tavolaro (concl. diff.); Ministero dell'interno (Avv. dello Stato Agrò) c. Rascid Kemali (Avv.D'Aiuto, Quadri, Tesauro)Source: Il Foro Italiano, Vol. 85, No. 2 (1962), pp. 189/190-195/196Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23151439 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
siasi terzo giratario, Per di più, sempre a parere del ricor
rente, la Corte ' avrebbe anche errato nello escludere un
nesso di causalità immediato tra il comportamento del Visani ed il danno risentito dal ricorrente, dato che, trattandosi di cambiali e perciò di titoli di credito destinati a circolare con trasferimento operabile per semplice girata, il Visani, nel momento in cui aveva emesso le cambiali, doveva avere
necessariamente avuto la perfetta consapevolezza di dan
neggiare qualunque giratario delle medesime. Le doglianze del mezzo sono infondate.
Va, anzitutto, chiarito che nessuna censura può essere formulata dal Baldi per violazione dell'art. 2394 cod.
civ., non essendo egli a tanto legittimato come, nel ricorso, finisce poi per riconoscere egli stesso.
E, di vero, l'azione di responsabilità, che l'art. 2394
cod. civ. concede ai creditori sociali verso gli amministra
tori di società per azioni per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio
sociale, può, nel caso di fallimento della società, essere
esercitata solo dal curatore del fallimento.
Ora nella specie, la Società centro avicolo S. Bartolo, di cui il Visani era amministratore unico, è fallita, cosic
ché l'attuale ricorrente non ha, a prescindere da ogni altra considerazione, alcuna legittimazione a proporre l'azione di cui all'art. 2394 cod. civ. ed a muovere doglianze in relazione all'azione stessa.
Quanto, invece, all'azione concessa dal successivo art.
2395 cod. civ., esperita dal Baldi quale terzo individual
mente danneggiato, neppure può dirsi che le censure del
mezzo sono, comunque, fondate.
Infatti, l'azione individuale concessa dall'art. 2395 cod.
civ. ai soci od al terzo per il risarcimento dei danni loro
cagionati per effetto degli atti dolosi o colposi degli am
ministratori di società per azioni, di natura perciò extra
contrattuale, presuppone che i danni stessi non siano solo
il riflesso di quelli arrecati eventualmente al patrimonio
sociale, ma siano direttamente cagionati al socio od al
terzo, in conseguenza immediata del comportamento degli amministratori.
Non è legittimato, pertanto, a detta azione verso gli amministratori il giratario di effetti cambiari sociali, emessi
dagli amministratori in favore di un prenditore che ne
abbia, poi, effettuato la girata ad un terzo nel proprio interesse esclusivo ed al di fuori di ogni intesa con gli ammi
nistratori stessi, neppure se l'insolvenza della società
(successivamente fallita) si asserisca determinata da colpa di questi ultimi, per dedotta cattiva amministrazione e per avere questi emessi effetti cambiari di importo superiore allo stesso capitale sociale.
La Corte ha già escluso, nella specie, che vi sia stata
da parte dell'amministratore alcuna intenzione di ledere
chicchessia, nell'emissione delle cambiali. In ogni caso, detta intenzione non poteva certo essere rivolta in incer
tam -personam, come sarebbe stata quella di un eventuale
giratario degli effetti così emessi in favore della Ditta
Raggi, che li girò poi all'attuale ricorrente, in pagamento di merce ad essa fornita ed in virtù, perciò, di un rapporto del tutto distinto ed autonomo rispetto a quello sottostante
all'emissione degli effetti girati. A tacere d'altro, l'attuale ricorrente aveva ed ha
un'azione di rivalsa verso il proprio girante e se, in pratica,
questa non gli è stata sufficiente a recuperare il credito,
perchè anche il Raggi è, a sua volta, fallito, è cosa che
non rileva ai fini della dimostrazione che il danno subito
dal Baldi non può in alcun modo ricollegarsi direttamente,
in rapporto di causalità necessaria, al comportamento
colposo dell'amministratore della Società nella gestione degli
affari sociali : del resto, tale nesso di causalità è stato
anche escluso, con corretta motivazione, dalla Corte di
merito e contro tale valutazione inutilmente si fa ricorso
alla natura di titolo di credito che le cambiali sicuramente
hanno, perchè gli eventuali giratari entrano nel rapporto cambiario in virtù di autonomi negozi cambiari e possono
anche non avere rapporti con l'emittente se, a loro volta,
girano gli effetti ad altri giratari che preferiscano di non
esercitare la rivalsa.
Il vero è che l'attuale ricorrente come non aveva avuto
rapporti diretti con la Società e con i suoi amministratori,
neppure poteva riceverne quel danno diretto al quale la
legge ha riguardo nel concedere ai terzi l'azione sopra ricordata prevista dall'art. 2395 cod. civ., con esclusione,
perciò, di danni meramente riflessi, indiretti o conseguen ziali, come, al più, possono essere classificati quelli del
l'attuale ricorrente, mero giratario degli effetti rimasti
insoluti ed il cui danno è perciò dovuto al mal riposto credito nel proprio girante, che, se solvente, lo avrebbe
certamente rivalso del credito, una volta ritualmente
richiesto di ciò, e non al comportamento doloso, o colposo,
degli amministratori nella gestione sociale, così come la
Corte ha, del resto, esattamente rilevato.
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 1 febbraio 1962, n. 191 ; Pres.
Cementano P., Est. Bianchi d'Espinosa, P. M. T avo
laro (conci, diff.) ; Ministero dell'interno (Avv. dello
Stato Agro) c. Rascid Remali (Avv. D'Aiuto, Quadri,
Tesauro).
(Conferma App. Napoli 21 aprile 1959)
Cittadinanza -— Italiani libici — Residenza in Italia — Cittadinanza italiana (Costituzione della Repub
blica, art. 3, 10 ; d. 1. 28 novembre 1947 n. 1430, esecu
zione del Trattato di pace tra l'Italia e le Potenze
alleate ed associate, art. 19, 23 ; r. d. 1. 9 gennaio 1939
n. 70, aggregazione delle quattro provincie libiche al
territorio del Regno e concessione ai libici musulmani
di una cittadinanza italiana speciale, art. 1, 6, 8 ; r. d.
1. 3 dicembre 1934 n. 2012, sull'ordinamento organico amministrativo della Libia, art. 33, 42).
Sono cittadini italiani gli italiani libici, che, per risiedere in
Italia all'epoca della costituzione del Regno unito di
Libia (7 ottobre 1951), non hanno acquistato la citta
dinanza libica. (1)
La Corte, ecc. — La questione, sottoposta per la prima volta all'esame di questa Corte suprema, consiste nello
stabilire quale sia, a seguito della legge ebe ha dato esecu
zione al Trattato di pace, lo status civitatis di quei « citta
dini italiani libici», che per avere il loro domicilio nel terri
torio nazionale, e non in Libia all'epoca della costituzione
del Regno unito di Libia (7 ottobre 1951), non hanno
(1) La sentenza confermata, App. Napoli 21 aprile 195!), è riassunta nel nostro Eep. 1959, voce Cittadinanza, nn. 8, 9, ed annotata da Abbamonte, in Dir. e giur., 1959, 377 e da R. Q., in Dir. internaz., 1959, 347 ; mentre quella, difforme, di
primo grado Trib. Napoli 1 agosto 1957 è nel Eep. 1957, voce
cit., nn. 25-27 (in Foro nap., 1957, I, 202 la comparsa conclusio nale del P. m. Cuomo).
Sulla persistenza della funzione giurisdizionale italiana sui territori libici ed eritrei (e suoi limiti), v. Cass. 12 agosto n. 2719 e 6 maggio n. 1245 del 1953, Foro it., Rep. 1953, voce Africa it., nn. 7-9 ; 3 marzo 1953, n. 517, id., 1954, I, 347 ; sulla sorte di una società italiana con sede in territorio libico, dopo la pro clamazione dello Stato indipendente, Cass. 12 settembre 1952, n. 2900, id., Rep. 1952, voce Società, n. 404 ; e della Cassa di
risparmio della Libia, Cass. 18 agosto 1959, n. 2530, id., 1959,
I, 1676. Per la qualifica di cittadini italiani libici israeliti agli origi
nari di comunità israelitiche sparse nel bacino del Mediterraneo,
App. Tripoli 20 febbraio 1939, id., 1940, I, 254.
In dottrina : Vill ARI, Italiani dell'Egeo e sudditi coloniali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1950, 668 ; Vuoli. La condizione
giuridica del territorio libico, in Foro it., 1939, IV, 217 ; Folchi, Cittadinanza e sudditanza nella espansione imperiale italiana, in
Riv. dir. pubbl., 1939, 53 ; Sertoli Salis, Cittadinanza e suddi
tanza nelle colonie, in Nuovo dig. it., Ill, pag. 196.
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191 PARTE PRIMA 192
acquistato, ai sensi delle leggi emanate in detto Regno, la cittadinanza libica.
Non essendovi alcuna norma legislativa che espressa mente regoli la situazione di detti soggetti, in astratto
potrebbero prospettarsi tre soluzioni : che essi debbono considerarsi apolidi (tesi sostenuta dall'Amministrazione
ricorrente) o cittadini italiani optimo iure ; ovvero tuttora « cittadini italiani libici » (tesi queste ult ime due, sostenute subordinatamente l'una all'altra dal resistente Rascid
Kemali). La decisione della Corte d'appello di Napoli, che ha
ritenuto il Kemali cittadino italiano, è in effetti esatta, e la sentenza impugnata deve essere quindi tenuta ferma, anche se con qualche integrazione e chiarimento nella motivazione.
La Corte di merito ha ritenuto che la soluzione del
problema consistesse nell'interpretare l'art. 19 del Trattato di pace sottoscritto il 10 gennaio 1947 (reso esecutivo in Italia con decreto legisl. 28 novembre 1947 n. 1430), che
disciplina appunto la nazionalità e il cambio di cittadi nanza dei cittadini italiani a seguito dei mutamenti terri toriali imposti dal Trattato e che stabilisce che i citadini domiciliati il 10 giugno 1950 nei territori ceduti dall'Italia, nonché i loro figli nati dopo la detta data, diventeranno cittadini dello Stato cessionario, con il conseguente obbligo di detto Stato di emanare apposite leggi al fine di regolare la situazione dei soggetti interessati (n. 1) e con l'ulteriore
obbligo di consentire che i cittadini italiani, che si trovino in dette condizioni, e la cui lingua usuale è l'italiano,
possano optare entro un anno per la cittadinanza ita lana (n. 2). La Corte ha ritenuto applicabile la norma in
questione anche ai cittadini italiani libici e anche con riferimento alle colonie alle quali l'Italia dichiarò di rinun ziare (art. 23 Trattato di pace).
A questo secondo punto ha riferimento il primo motivo del ricorso dell'Amministrazione dell'interno : con il quale si afferma che le disposizioni dell'art. 19 sono applicabili solo ai territori ceduti « dall'Italia ad un altro Stato » non alle colonie, alle quali l'Italia ebbe a rinunziare, ma la cui sorte rimase per il momento incerta, e che non furono con il Trattato cedute ad altro Stato (nò poteva, per la
Libia, parlarsi di cessione, non essendo ancora esistente nel 1947 il Regno unito di Libia, creato solo nel 1951).
Questa Corte suprema già altre volte (sentenze 26
agosto 1950, n. 2543, Foro it., 1950, I, 985 ; e proprio per la Libia : 17 febbraio 1951, n. 399, id., 1951. I, 720) ha avuto occasione di riconoscere che, a differenza che per i territori ceduti alla Francia, alla Repubblica federale popo lare di Jugoslavia ed alla Grecia (art. 6, 11 e 14 Trattato), l'Italia dichiarò soltanto per le colonie in Africa di rinun ciare » a ogni diritto e titolo », rimanendo nel Trattato incerta la sorte definitiva di quei territori (art. 23) e che
perciò, per le dette colonie, non può parlarsi di una vera e
propria cessione ad un soggetto determinato, ma solo di una rinunzia unilaterale (derelictio), salva l'attribuzione alle quattro Potenze associate, e poi all'Assemblea del
l'O.N.U., del potere di determinare successivamente il
soggetto cui sarebbe spettata in definitiva la sovranità nei diversi territori in questione. Può quindi ammettersi che nel disciplinare la nazionalità dei cittadini residenti nei territori « ceduti » le Alte parti contraenti (e, di conse
guenza. il legislatore italiano con la legge che rese esecutivo il Trattato) abbiano inteso regolare soltanto i rapporti relativi ai territori direttamente ceduti ad altri Stati, e di cui agli art. 6, 11 e 14, nell'evidente presupposto che la sorte degli abitanti delle ex colonie africane sarebbe stata
regolata in seguito, sia a mezzo di accordi diretti, sia con emanazione di leggi interne, da parte dell'Italia e degli Stati cui in definitiva sarebbe stata attribuita la, sovranità su quelle ex colonie. In realtà, costituito il Regno unito di Libia, l'Italia concluse un accordo con il nuovo Stato (stipulato in Roma il 2 ottobre 1956 e reso esecutivo in Italia con la legge 17 agosto 1957 n. 843), in cui fra l'altro si regolarono alcune questioni di natura economica e finan ziaria sorte da quella che fu definita « successione di sovra
nità fra i due Stati » nel territorio libico (art. 9), ma non
quelle relative alla cittadinanza dei libici.
Per questo, invece, una legge dello Stato libico (pub blicata il 25 aprile 1954) stabilì che venisse considerato
cittadino libico chiunque fosse nato in Libia, e fosse resi
dente in Libia alla data del 7 ottobre 1951, ma nessuna
disposizione interna della Repubblica italiana ha regolato la sorte di quei « cittadini italiani libici » che, per essere
(come il Remali) residenti in Italia, non furono compresi fra coloro che avevano acquistato la cittadinanza del nuovo
Regno unito di Libia.
In difetto di una precisa disposizione al riguardo,
quindi, la questione deve essere risolta in base all'analogia ed ai principi generali dell'ordinamento giuridico dello
Stato (art. 12 preleggi) ; onde, essendo evidente l'analogia di situazione fra territori « ceduti » e territori per cui era
avvenuta rinunzia, perfettamente legittima è l'applica zione ai secondi, in tutto ciò che non è regolato da apposita norma, delle disposizioni contenute nel Trattato di pace
(decreto legisl. 28 novembre 1947 n. 1430) relative ai
territori « ceduti ». Tale procedimento interpretativo, del
resto, fu altra volta ammesso da questa Corte suprema, la
quale (con la sentenza 12 settembre 1952, n. 2900, Foro it.,
Rep. 1952, voce Società, n. 404) applicò, sia pure in materia
diversa (società), una disposizione del Trattato di pace
(art. 12 dell'allegato XIV), riguardante espressamente le
società aventi la sede sociale nel territorio « ceduto » ad
una società-avente la sede sociale in Libia, territorio per il quale era avvenuta l'unilaterale « rinunzia » di cui all'art.
23 del Trattato.
Del resto, l'applicazione dell'art. 19 nella presente controversia non veniva neanche direttamente in questione dal momento che detto articolo regolava la sorte solo dei
cittadini italiani domiciliati nei territori ceduti, non
potendo neanche quindi parlarsi (come in un punto della
motivazione fa la sentenza impugnata) di diritto di opzione a favore della cittadinanza italiana nei confronti del Kemali
che, per risiedere in Italia, non si trovava nelle condizioni
di cui al ripetuto art. 19. In realtà, come esattamente
nota in altro punto la stessa sentenza, per i « cittadini
italiani libici » così come per tutti gli altri cittadini (am messo che i primi potessero considerarsi cittadini, e non
sudditi, italiani, del che si dirà in appresso) la questione non si poneva neppure se essi fossero domiciliati nel terri
torio metropolitano, cioè in territorio non ceduto nè rinun
ziato, essi restavano (come è naturale) cittadini italiani, senza bisogno di alcuna manifestazione di volontà (opzione). Entro tali limiti, e soltanto a tale scopo, veniva in discus
sione solo una delle disposizioni contenute nell'art. 19
Trattato di pace : la norma per la quale i soggetti ivi consi
derati perderanno la loro cittadinanza italiana al momento in cui diverranno cittadini dello Stato subentrando (e
quindi, se non avranno acquistato altra citadinanza, resteranno italiani), norma secondo la quale il Kemali, che non ha acquistato la cittadinanza libica, ha conservato la nazionalità italiana. Non vi è bisogno del resto, nella controversia in esame, neanche di ricorrere all'applicazione analogica di detta norma, costituendo essa una particolare manifestazione di un principio generale del nostro ordina mento giuridico (tradotto in norma legislativa, fra l'altro,
negli art. 8, nn. 1 e 2, 10, 3° comma, 11, 1° comma, 12, 2° comma, della legge fondamentale sulla cittadinanza
italiana, 13 giugno 1912 n. 555), secondo il quale (salvo casi di indegnità o di incompatibilità espressamente pre visti dalla legge : ad es. art. 8, n. 3, della legge citata) la cittadinanza italiana non si perde se non al momento del
l'acquisto di nazionalità diversa. E ciò, a sua volta, in
applicazione dell'altro principio fondamentale, comune ad
ogni ordinamento di un moderno Stato di diritto, per cui
l'apolidia è uno stato eccezionale, perchè ogni persona umana ha diritto, per quanto possibile, ad uno status civitatis : principio fondamentale formulato anche nel l'art.. 15 della dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall'Assemblea delle Nazioni unite, il 10 dicem bre 1948. Tale dichiarazione non ha solo per la nostra
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193 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 194
legislazione interna, un valore programmatico, essa infatti costituisce un principio generale, che deve ritenersi accolto nel nostro ordinamento non solo ex art. 10 Costituzione
(come ha ritenuto la Corte di merito), ma anche in virtù
dell'espresso riconoscimento, se anche indiretto, di cui alla legge 4 agosto 1955 n. 848, che ha dato piena ed intera
esecuzione all'analoga Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sotto scritta dai Governi degli Stati membri del Consiglio d'Eu
ropa il 4 novembre 1950 (la quale, a sua volta, nel pream bolo, si richiama alla Dichiarazione dell'O.N.U. del 1948).
Si deve perciò concludere che è principio generale del nostro ordinamento giuridico che un cittadino italiano
non possa essere privato dello status civitatis e ridotto alla
condizione di apolide, senza una espressa disposizione di
legge : la quale, nel caso dei « cittadini italiani libici »
che, per essere domiciliati in Italia, non sono divenuti
cittadini del nuovo Stato di Libia, manca assolutamente.
Ciò si intende sempre che il Kemali dovesse essere
considerato cittadino italiano : che cioè la particolare « cittadinanza italiana libica », fosse una vera e propria cittadinanza italiana, sia pure con particolari limitazioni nel
godimento di alcuni diritti, specialmente politici. È ciò che
contesta l'Amministrazione resistente, la quale (in una delle
censure formulate nel secondo motivo del ricorso) afferma
che quella « cittadinanza » fu una lustra esteriore con
cessa ai libici per motivi politici e che, in definitiva, i libici
erano « sudditi » e non cittadini italiani.
Anche su questo punto però la decisione impugnata è
esatta. Essa ha ritenuto che la cittadinanza italiana libica, che garantiva ai libici il godimento di tutti i diritti civici
non riservati ai cittadini metropolitani, costituisse uno
status di cittadinanza italiana speciale, non un rapporto simile alla sudditanza, rapporto che, come è noto, prescinde dal possesso di uno status derivante dall'organico colle
gamento del singolo al territorio dello Stato. È da osser
vare, infatti, che ai libici la cittadinanza fu per la prima volta concessa, non dal r. decreto legge 3 dicembre 1934
n. 2012 (cui si riferiscono la sentenza impugnata e le parti), ma nell'immediato primo dopoguerra, e precisamente con
il decreto legge luog. 1° giugno 1919 n. 931 (relativo all'ordi
namento della Tripolitania) ed il r. decreto legge 31 ottobre
1919 n. 2401 (relativo all'ordinamento della Cirenaica).
Questi provvedimenti disponevano (art. 1 dei due decreti), in relazione rispettivamente ai tripolitani ed ai cirenaici, che essi sono considerati cittadini italiani, parlando così
semplicemente di « cittadinanza italiana », sia pure impo nendo poi a detti cittadini particolari limitazioni. I citta
dini di cui all'art. 1 conservavano infatti il proprio sta
tuto personale e successorio, e godevano (art. 5) dei diritti
fondamentali di libertà e di inviolabilità del domicilio e
della proprietà, nonché del diritto di concorrere alle cariche
civili e militari di cui agli ordinamenti locali ed il diritto
elettorale attivo e passivo per gli organi rappresentativi coloniali (art. 5, nn. 4 e 6) ; del diritto di esercitare la
professione liberamente anche in Italia (n. 5), e perfino di alcuni diritti politici nel territorio metropolitano, quale il diritto di petizione (di cui all'art. 57 dello Statuto alber
tino) al Parlamento nazionale (art. 5, n. 7). ( Non poteva non parlarsi, in tali condizioni, di una
vera e propria cittadinanza italiana, sia pure con parti colari limitazioni, essendo attribuito ai libici perfino l'eser
cizio di diritti politici nel Regno, esercizio che è l'elemento
caratteristico dello status civitatis in una condizione che
ricorda singolarmente la latinitas dell'ordinamento romano
classico.
È ben vero che, dopo l'instaurazione del regime fascista,
quell'ordinamento ispirato a principi largamente liberali
nei confronti delle popolazioni della Libia, venne in parte mutato ; sì che con la legge 26 giugno 1927 n. 1013, nonché
con la successiva legge già ricordata del 1934 n. 2012
(gli art. 29 a 38 della prima, riguardanti la cittadinanza
libica, sono identici agli art. 33 e 42 della legge del 1934)
si parlò di « cittadini italiani libici », anziché di cittadini italiani puramente e semplicemente ed ai libici fu sottratto
il diritto dell'esercizio professionale in Italia (fermo restando
lo stesso diritto in colonia), nonché la facoltà di presentare
petizioni alle Camere : ma purtuttavia restò ferma, oltre
la garanzia delle libertà fondamentali, la concessione dei
diritti civili e politici nel territorio libico, con la facoltà
di concorrere alle cariche civili e militari previste in quel territorio. L'evoluzione si chiuse, infine, con il r. decreto
legge 9 gennaio 1939 n. 70 che, se per una parte (in appli cazione dei principi « razzistici » allora introdotti nella nostra
legislazione) tolse ai libici la facoltà di acquistare la citta
dinanza metropolitana (art. 8), d'altra parte ribadì che i
cittadini libici godevano dei medesimi diritti di cui alle
leggi precedenti, ed altri anzi ne aggiunse, come i diritti
politici di esercitare la carica di podestà nei comuni con
popolazione di stirpe libica, di far parte del comitato corpo rativo per la Libia, e di divenir dirigenti nelle organiz zazioni sindacali (art. 6 decreto del 1939). Sì che in defini
tiva i libici godevano dei diritti di libertà allo stesso modo
dei cittadini italiani, e dei diritti politici limitatamente al
territorio libico, cioè (poiché per la legge del 1939, art. 1, le quattro provincie costiere della Libia erano entrate a far
parte integrante del territorio del Regno) godevano dei
diritti politici limitatamente ad una parte del territorio
italiano. In tale situazione non può assolutamente dirsi
che i libici si trovassero nella condizione di sudditanza
(come ad esempio i nativi delle colonie dell'Africa orientale,
per i quali, da ultimo, provvidero gli art. 28 e segg. r.
decreto legge 1° giugno 1936 n. 1019), se per sudditanza si
intende (come si deve intendere) soltanto la condi
zione di sottoposto alla potestà di imperio dello Stato, ma
godevano di uno status, da cui derivavano una serie di
diritti anche politici, oltre che di doveri nei confronti dello
Stato italiano, e cioè dovevano considerarsi veri e propri
cittadini, se pure con particolari limitazioni. Le stesse
leggi italiane dell'epoca, del resto, distinguevano tra
« cittadini delle colonie » e « sudditi coloniali », ponendo in
rilievo che la distinzione era di natura sostanziale (ad
esempio, l'art. 4 cod. pen. del 1930). D'altra parte, lo stato di cittadino italiano non può
ritenersi escluso per il solo fatto che per i libici era limitato, nei confronti dei cittadini metropolitani, l'esercizio dei
diritti politici, chè la legislazione dell'epoca presenta nume
rosi esempi di discriminazioni nei confronti di alcune
categorie di soggetti, dei quali pure non può porsi in dubbio
lo status di cittadini italiani. Ed è sufficiente ricordare
(oltre che la cosiddetta «piccola cittadinanza» senza il
godimento dei diritti politici, di cui ai decreti legge 10 set
tembre 1922 n. 1387 e 14 giugno 1923 n. 1418) la condi
zione in cui vennero a trovarsi i cittadini italiani di stirpe ebraica dopo i noti provvedimenti « razziali » del 1938
1939, che, così come i cittadini libici, erano ammessi al
l'esercizio professionale solo a favore degli appartenenti alla medesima stirpe ; e, a differenza degli arabi libici, i
quali per lo meno godevano dell'esercizio dei diritti politici in quattro provincie del Regno, furono privati in toto
dell'esercizio di quei diritti, pure rimanendo cittadini
italiani. Si deve concludere, quindi, che lo status del Kemali fosse
quello di cittadino italiano, sia pure con particolari limi
tazioni a motivo della stirpe alla quale appartiene ; e che
di conseguenza, al momento della rinunzia dell'Italia alla
colonia libica, non fu privato dello status civitatis, non
avendo acquistato (poiché domiciliato in Italia) la citta
dinanza del nuovo Regno unito di Libia in difetto di qual siasi norma legislativa che consenta di ritenere che egli sia stato ridotto alla condizione di apolide.
Resta da esaminare, a questo punto, per quali motivi
un « cittadino italiano libico » residente in Italia, debba
essere oggi considerato cittadino italiano optimo iure.
L'Amministrazione ricorrente, infatti, afferma che il Trat
tato di pace non avrebbe potuto procedere alla « promo zione » del Kemali da cittadino italiano libico a cittadino
italiano tout court, perchè esso non avrebbe potuto inter
ferire nella più gelosa sfera della sovranità nazionale,
quale è quella dell'attribuzione della cittadinanza.
Ma l'asserita « conversione » in cittadinanza metro
politana della cittadinanza << libica » è effetto diretto pro
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195 PARTE PRIMA 196
prio della legislazione italiana del dopoguerra, una volta
ammesso, come deve essere ammesso, che la « cittadinanza
italiana libica » integrasse uno status di vera e propria cittadinanza italiana, sia pure con particolari limitazioni.
Ciò non soltanto per la constatazione evidente (su cui
soltanto si sofferma la sentenza impugnata) che la speciale cittadinanza suddetta non può più sussistere dopo la perdita dei territori libici, essendo strettamente collegata, e presup
ponendo l'ordinamento coloniale ; ma per il motivo assor
bente che la legislazione italiana del dopoguerra ha sop
presso tutte le limitazioni al libero esercizio dei diritti
civili e politici imposto in precedenza ad alcune categorie di cittadini. Ciò è avvenuto, infatti non soltanto in virtù
dell'art. 15 del Trattato di pace (il quale è divenuto legge italiana a seguito dell'atto legislativo che vi ha dato piena ed intera esecuzione), che, consacrando l'impegno dell'Italia
a prendere le misure necessarie per assicurare a tutte le
persone soggette alla sua giurisdizione pari godimento dei
diritti e delle libertà senza distinzione di razza, lingua o
religione, costituisce evidentemente un principio cui è
ispirata la successiva legislazione in materia ; ma proprio
per l'attuazione di tale principio nel piano legislativo interno. Nel quadro delle leggi speciali che soppressero le discriminazioni fra i cittadini per motivi « razziali »
attuate nell'ultimo periodo del regime fascista (leggi riguar danti la reintegrazione nei loro diritti dei cittadini ebrei, decreto legge 3 agosto 1947 n. 1906 che abrogò le norme
relative ai « meticci », ecc.) il principio fu consacrato in via
generale nell'art. 3 della Costituzione del 1947, per il quale « tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali ». Norma che per la sua struttura
può essere immediatamente applicata, e che ha avuto per effetto l'abrogazione di tutte le precedenti disposizioni, che creavano disparità fra i cittadini, e ponevano limitazioni
ai loro diritti in relazione alla stirpe di appartenenza. Si deve perciò ritenere che, dal citato art. 3 siano state
abrogate le limitazioni inerenti alla qualifica di libici dei cittadini italiani nativi della Libia, e questi, con l'entrata in vigore della Costituzione, siano divenuti, alla pari degli altri cittadini, cittadini optimo iure. Tale va tuttora consi derato il Kemali che come si è detto, non ha perduto la
nazionalità italiana, non avendo acquistato, dopo la costi tuzione del Regno unito di Libia, la cittadinanza del nuovo Stato. (Omissis)
Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE.
Sezione I civile ; sentenza 1 febbraio 1962, n. 189 ; Pres. Torrente P., Est. Spagnoletti, P. M. Trotta (conci, conf.) ; Polenghi (Avv. Barbera. Marucchi) c. Pe stelli (Avv. Cannetta, Gramaccini).
(Oassa App. Milano 19 gennaio 1960)
Titoli di eredito — Cambiale in bianco — Data «li emissione -— l'atto di riempimento — Validità
(R. d. 14 dicembre 1933 n. 1669, norme sulla cambiale, art, 2, 14, 37, 101).
Il requisito della data di emissione può formare oggetto del
patto di riempimento d'una cambiale in bianco. (1)
(1) La sentenza cassata, App. Milano 19 gennaio 1960, leg gesi in questa rivista, 1960, I, 1577, con nota di richiami, cui adde : Cass. 2 settembre 1961, n. 2006, id., 1961, I, 1300, che ha negato efficacia esecutiva alla cambiale emessa in bianco su foglietto bollato per quelle sino a quattro mesi e ciò pur se le parti siansi accordate di apporre una data di emissione di quattro mesi anteriore a quella di scadenza ; Cass. 25 maggio 1960, n. 1355, id., Rep. 1960, voce Titoli di credito, n. 53, per la validità di un foglietto contenente soltanto il bollo e la firma dell'emit tente e privo dell'indicazione cambiale o altra simile.
La Corte, ecc. — La Corte d'appello ha dichiarato la
nullità della cambiale perchè consegnata al prenditore senza
l'indicazione della data di emissione ; ha ritenuto che tale
indicazione è requisito essenziale della cambiale e non può formare oggetto del patto di riempimento, sia perchè la
data di emissione segna il dies a quo per la decorrenza del
termine triennale di decadenza dal diritto di riempire la
cambiale in bianco (art. 14, 2° comma, legge cambiaria), sia perchè gli art. 2 e 101 della legge stessa includono la.
indicazione della data di emissione fra i requisiti essen
ziali del titolo cambiario, sancendone la nullità in relazione
alla sua mancanza.
Conseguentemente la Corte ha dichiarato la nullità del
l'obbligazione cambiaria dell'avallante, essendo nulla l'ob
bligazione principale per vizio di forma (art. 37, 2° comma,
legge cambiaria). 11 ricorrente, denunciando la violazione e la falsa appli
cazione degli articoli citati, deduce, con il primo motivo, che la sentenza impugnata avrebbe dovuto ritenere valida
la cambiale rilasciata in bianco, e conseguentemente l'obbli
gazione cambiaria dell'avallante, anche in mancanza della
data di emissione. Rileva che dall'art. 5, lett. d), tariffa
ali. A al decreto pres. 23 giugno 1953 n. 492, che assoggetta a bollo proporzionale le cambiali ... « con data o scadenza
in bianco », si desume un implicito riconoscimento della
validità della cambiale emessa senza data ; inoltre che, in
mancanza di un'espressa limitazione legislativa, deve
ritenersi una valida cambiale in bianco anche quella che
rechi soltanto la sottoscrizione sul titolo. La censura è fondata. La possibilità di emettere una cambiale in bianco,
destinata ad essere completata nei requisiti mancanti senza la cooperazione dell'emittente, è ammessa dall'art. 14
legge cambiaria, approvata con r. decreto 14 dicembre
1933 n. 1669 e poiché questo articolo, nel parlare di cam biale « incompleta quando fu emessa », non distingue fra i
requisiti di cui all'art. 1, che possono essere omessi, o meno, al momento della negoziazione, si deve ritenere, per quanto attiene al caso in esame, che è valida come cambiale in
bianco anche quella mancante della indicazione della data di emissione. Per tali considerazioni è stata ritenuta, con sentenza n. 1355 del 25 maggio 1960 (Foro it., Rep. 1960, voce Titoli di credito, n. 53), la validità, come cam biale in bianco, anche di un foglietto contenente soltanto il bollo e la firma dell'emitente, senza l'apposizione della denominazione « cambiale » o di altra equipollente. Rela tivamente al caso in esame si può aggiungere l'osservazione desunta dal ricorrente dalla citata disposizione tributaria, dalla quale risulta implicitamente riconosciuta la validità della cambiale mancante della data di emissione.
Si deve, inoltre, rilevare l'infondatezza delle ragioni addotte in contrario dalla sentenza impugnata. Infatti la considerazione che la data di emissione della cambiale in bianco fissa il termine di decadenza della facoltà di
riempimento, non indurrebbe a far ritenere che l'indica zione relativa abbia natura di requisito essenziale, come ha asserito la sentenza impugnata, bensì soltanto che ha una funzione probatoria, la quale potrebbe essere assolta da
ogni altro mezzo di prova. Inoltre gli art. 2 e 101 sanciscono, è vero, la nullità
del titolo cambiario mancante di uno dei requisiti indicati
rispettivamente negli art. le 100, ma ciò in relazione al momento in cui l'obbligazione cambiaria diventa attuale ed esigibile e viene presentata per il pagamento, cioè
rispetto ad un titolo che si presenta « incompleto » in tale
momento, perchè non sia stata concessa la facoltà di riem
pimento o perchè il portatore non se ne sia avvalso, senza
che, però, i citati articoli incidano sulla disciplina del « titolo in bianco », regolato da altre norme. (Omissis)
Per questi motivi, cassa, ecc.
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