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sezione I civile; sentenza 1° marzo 1986, n. 1310; Pres. Granata, Est. Vercellone, P. M. Golia...

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sezione I civile; sentenza 1° marzo 1986, n. 1310; Pres. Granata, Est. Vercellone, P. M. Golia (concl. conf.); Soc. Tutti Alimentari Roma - S.t.a.r. (Avv. Riccitelli) c. Soc. Star - stabilimento alimentare (Avv. E. Biamonti, Prisco). Conferma App. Roma 21 giugno 1982 Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 4 (APRILE 1986), pp. 913/914-919/920 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23180304 . Accessed: 24/06/2014 21:05 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 185.44.78.105 on Tue, 24 Jun 2014 21:05:39 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 1° marzo 1986, n. 1310; Pres. Granata, Est. Vercellone, P. M. Golia(concl. conf.); Soc. Tutti Alimentari Roma - S.t.a.r. (Avv. Riccitelli) c. Soc. Star - stabilimentoalimentare (Avv. E. Biamonti, Prisco). Conferma App. Roma 21 giugno 1982Source: Il Foro Italiano, Vol. 109, No. 4 (APRILE 1986), pp. 913/914-919/920Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180304 .

Accessed: 24/06/2014 21:05

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Col secondo mezzo il ricorrente denuncia il vizio di travisa

mento del fatto a sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c. Sotto questo

profilo — da intendersi come denuncia di un difetto di motiva zione della sentenza impugnata — il dott. Santacroce sostiene che

questa si incentra sul presupposto erroneo della qualificazione, da

parte del giudice istruttore, dei rapporti fra i tre parlamentari e i

personaggi della camorra come delittuosi o quanto meno illeciti

mentre l'ordinanza-sentenza del 17 giugno 1983, con il riferimento

agli episodi riguardanti gli onorevoli D'Arezzo, Quaranta e

Patriarca aveva inteso unicamente sottolineare il connotato tipico della camorra, cioè la sua capacità di infiltrazione nelle ammini

strazioni pubbliche attraverso i canali più esposti ad essere

strumentalizzati, fra cui la collaborazione inconsapevole dei poli

tici, impossibilitati ad operare selezioni e differenziazioni.

A questa prospettazione di carattere generale si ricollegano i

rilievi particolari contenuti nel punto 2 del quarto mezzo, coi

quali si fa osservare che la collaborazione data da Gerardo

Perrotta alla campagna elettorale dell'on. D'Arezzo e l'interessa

mento dell'on. Quaranta per la concessione della grazia a Mario

Farina erano stati indicati nel provvedimento 17 giugno 1983

unicamente al fine di dimostrare, da un lato, la capacità della

camorra di guadagnarsi la riconoscenza degli uomini politici, e,

dall'altro, l'interesse di questi a favorire coloro che avrebbero

potuto in seguito sostenerli.

La complessa censura, è tuttavia, infondata.

La sezione disciplinare non ha affermato principi in contrasto

con quelli esposti dalla corte trattando del primo mezzo di

ricorso, principi condivisi ora dal ricorrente. La decisione dell'or

gano disciplinare, invero, muove dal presupposto — insito in

tutto l'itinerario logico seguito — che il giudice istruttore ben

avrebbe potuto far menzione dei documenti e dei comporta menti emersi a riguardo dei tre parlamentari per dimostrare la

capacità dei camorristi di infiltrarsi nell'area della politica e della

p.a., offrendo sostegno nei confronti elettorali con la riserva di

chiedere favori di dubbia liceità e coperture di contenuto sospetto. Se il provvedimento del 17 giugno 1983 si fosse mantenuto in

questi termini, prospettando cioè i tre uomini politici come

inconsapevoli destinatari di capziose manovre, a conferma della

pericolosità delle associazioni camorristiche, l'estensore sarebbe rimasto nell'ambito di esercizio della propria funzione. Ma cosi

non è — diversamente da quel che tende ad accreditare l'esposta censura del ricorrente — in quanto la qualificazione pesantemente denigratoria data dal dott. Santacroce alla condotta dei tre

parlamentari negli episodi riferiti presenta costoro come perso naggi conniventi con la camorra e consapevolmente partecipi delle trame ordite da quell'associazione criminosa.

Ugualmente infondato è il terzo motivo di ricorso col quale si

denuncia la contraddittorietà della motivazione, ai sensi dell'art.

360, n. 5, c.p.c., a) per avere la sentenza impugnata asserito,

prima, l'inapplicabilità di criteri astratti di valutazione — quali quelli della gratuità e della sovrabbondanza degli argomenti adottati — per verificare quando i provvedimenti giudiziari ecce dano dall'ambito della funzione loro propria e ritenuto, poi, che

l'ordinanza del 17 giugno 1983 fosse censurabile proprio perché riferiva episodi ed esprimeva giudizi gratuiti ed inutili; b) per avere la stessa sentenza della sezione disciplinare, prima, condivi

so l'impostazione generale del provvedimento redatto dal dott. Santacroce ed epresso apprezzamenti in ordine al quadro in cui erano collocati i fatti per i quali si procedeva e, poi, censurato il riferimento ad alcuni episodi che — a dire dell'organo disciplina re — non avrebbero aggiunto nulla alla completezza della moti

vazione. Sul primo punto, è chiaro che il rifiuto di un criterio valutati

vo assoluto non esclude la validità dello stesso, in aggiunta ad altri elementi significativi, in casi specifici appropriati.

Quanto al secondo punto, l'affermazione di un principio di carattere generale e l'indicazione dei limiti cui esso deve sottosta re non rappresentano l'accettazione, razionalmente inammissibile, di due concetti antitetici, significativi della evoluzione di un

pensiero incoerente che abbia, dapprima, accolto ed espresso la

verità di un principio ed abbia, in seguito, questo inopinatamente

rinnegato. In altri termini, il principio ritenuto generalmente valido ed i limiti alla sua applicabilità non comportano una

conflittualità di ordine logico, trattandosi di stabilire, di volta in

volta, l'area di vigenza di un principio normativo, il campo di

esplicazione di un potere o l'ambito di esercizio di un diritto.

La censura di illogicità, contenuta nel quarto mezzo, si incentra

soprattutto sul rilievo che — non essendo emersi fatti costituenti reato a carico dei tre parlamentari — non poteva la sezione

disciplinare addebitare al dott. Santacroce di non avere spedito

Il Foro Italiano — 1986.

loro una comunicazione giudiziaria e di non averli interrogati in

ordine ai fatti che li riguardavano.

In realtà, non si profilavano estremi di reato nei fatti riferiti ai

tre parlamentari né il giudice istruttore ipotizzò a loro carico la

partecipazione alla « nuova camorra organizzata »; ma una lettura attenta alla decisione impugnata consente di chiarire che la

possibilità di spedire comunicazioni giudiziarie e conseguentemen te di interrogare i tre parlamentari è un'ipotesi prospettata dalla

sezione disciplinare nel quadro globale della situazione in cui

erano venuti a trovarsi quelle persone, rimaste totalmente estranee

al processo e perciò impossibilitate ad interloquire in qualche modo sui fatti cosi gravemente interpretati dal giudice istruttore, al fine di chiarire le circostanze, eliminare le ombre, fugare i

sospetti.

Sotto questo profilo, il riferimento contenuto nella decisione

impugnata alla possibilità, non verificatasi, di un interrogatorio dei tre parlamentari è puntuale e pertinente: costoro, infatti, non

hanno avuto l'opportunità di dare chiarimenti e giustificazioni sui

fatti considerati per loro compromettenti né nella veste di testi

moni né in quella di inquisiti; e ragionevolmente non potranno

neppure reagire a difesa della loro onorabilità in sede penale in

quanto il magistrato, sia pure eccedendo dall'ambito dei poteri

spettantegli, ha agito nell'esercizio della funzione giurisdizionale e

senza intento diffamatorio.

Ma, secondo l'avviso della sezione disciplinare che la corte

condivide, questo è un risultato inaccettabile nell'ordinamento di

uno Stato di diritto; e proprio l'incongruenza delle conclusioni

cui si perverebbe affermando la liceità di qualsiasi giudizio riferito nei provvedimenti giudiziari a soggetti rimasti estranei al

processo dimostra l'esistenza di quei limiti cui si è dianzi

accennato. Dunque, l'argomento utilizzato dall'organo disciplinare entra nell'iter argomentativo della decisione come un punto centrale del discorso, la cui logicità non è seriamente contestabile.

In definitiva, il ricorso deve essere rigettato.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 1° marzo

1986, n. 1310; Pres. Granata, Est. Vercellone, P.M. Golia

(conci, conf.); Soc. Tutti Alimentari Roma - S.t.a.r. (Avv.

Riccitelli) c. Soc. Star - stabilimento alimentare (Avv. E.

Biamonti, Prisco). Conferma App. Roma 21 giugno 1982.

Concorrenza (disciplina della) — Atti di confusione ed atti di

appropriazione di pregi — Distinzione — Fattispecie (Cod. civ., art. 2598).

Gli atti di appropriazione di pregi si distinguono dagli atti di

confusione in quanto l'illecito sviamento della clientela da essi causato si realizza non a seguito della confusione di identità tra prodotti od attività di imprese distinte, bensì esclusivamente

ingenerando nel pubblico la convinzione che un prodotto od

un'impresa abbiano le stesse qualità e pregi di quella concor rente (nella specie, la Cassazione ha ritenuto che l'utilizzazione di ditta confondibile con quella adoperata dal concorrente

integri la fattispecie degli atti confusori e non quella di

appropriazione di pregi altrui). (1)

(1) La sentenza confermata, App. Roma 21 giugno 1982, Foro it., Rep. 1984, voce Concorrenza (disciplina della), nn. 65-67, è riportata in Giur. dir. ind., 1982, 585. Il principio di diritto massimato costituisce giurisprudenza costante; in tal senso, tra le decisioni più recenti, v. Cass. 16 aprile 1975, n. 1437, Foro it., Rep. 1975, voce cit., n. 23 (in tema di ditta irregolare); App. Bologna 26 aprile 1983, Giur. dir. ind., 1983, 582; Trib. Torino 22 novembre 1982, Foro it., Rep. 1984, voce cit., n. 69; Trib. Milano 2 ottobre 1980, ibid., n. 70; App. Bologna 11 dicembre 11979, id., Rep. 1981, voce Ditta e insegna, n. 16; Trib. Vercelli 16 luglio 1979, ibid., voce Concorrenza (disciplina della), n. 48; Trib. Milano 7 febbraio 1977, id., Rep. 1978, voce cit., n. 77; Trib. Catania 31 luglio 1976, ibid., n. 76 a; App. Milano 30. aprile 1976, ibid., n. 72; Trib. Roma 30 aprile 1975, id., Rep. 1979, voce cit., n. 13; Trib. Milano 20 settembre 1974, id., Rep. 1975, voce cit., n. 19.

Il profilo più interessante della sentenza in epigrafe è in quella parte della motivazione dove il collegio giudicante affronta il problema della distinzione tra la fattispecie dell'art. 2564, il" comma, c.c. e quella di concorrenza sleale per atti confusorì (art. 2598, n. 1, c.c.). Oggetto di censura è l'affermazione dei giudici d'appello per cui, accertata la violazione del diritto esclusivo sulla ditta, sussiste automa

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PARTE PRIMA

Svolgimento del processo. — La STAR stabilimento alimentare

s.p.a. aveva citato in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la s.r.l. Tutti alimentari Roma (STAR), chiedendo venisse accer tato e dichiarato che l'uso del nome STAR da parte della

convenuta costituiva violazione della denominazione sociale e della insegna di parte attrice, nonché atto di concorrenza sleale.

ticamente anche concorrenza sleale (tale affermazione è, invece, assai

ricorrente nella giurisprudenza di legittimità e di merito: cfr. Cass. 22

dicembre 1978, n. 6150, id., Rep. 1978, voce Ditta e insegna, n. 29;

15 luglio 1966, n. 1884, id., Rep. 1966, voce Concorrenza (disciplina

della), n. 41; 29 maggio 1962, n. 1290, id., 1962, I, 1697; App.

Bologna 26 aprile 1983, cit.; 30 marzo 1982, id., Rep. 1984, voce cit.,

n. 61; Trib. Milano 8 luglio 1981, ibid., voce Ditta e insegna, n.

19; 15 giugno 1981, ibid., voce Concorrenza (disciplina del

la), n. 37; 2 ottobre 1980, ibid., n. 72; 19 maggio 1980, id., Rep.

1983, voce Ditta e insegna, n. 22; in dottrina ha ribadito di recente

tale tesi V. Mangini. Il marchio e gli altri segni distintivi, in Trattato

di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, diretto da F.

Galgano, Padova, 1982, 365 ss., a cui parere non può negarsi che, « una volta accertata la fondatezza della domanda di contraffazione [di

ditta], debba necessariamente riconoscersi anche quella della domanda

di concorrenza sleale »). Pur riconoscendo che la coincidenza tra le due fattispecie è, nella

prassi, assai frequente, la Cassazione ne pone in evidenza la distinzio

ne concettuale; elemento comune è la confondibilità del segno, tratto

differenziale è l'esistenza di un danno (anche potenziale), requisito necessario — quest'ultimo — solo per l'integrazione dell'illecito di

concorrenza sleale, ma non anche della fattispecie di cui all'art. 2564

c.c. Ma proprio a tal proposito il ragionamento della corte sembra non

del tutto convincente. Quando si identifica l'idoneità a danneggiare

l'altrui azienda — un requisito che, per dirla con G. Ghidini, La

concorrenza sleale2, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e

commerciale, fondata da W. Bigiavi, Torino, 1982, 230, « tanto in

dottrina quanto in giurisprudenza... riceve di solito assai scarsa atten

zione » — con il rapporto di concorrenza (anche) potenziale secondo

un'equazione per cui « se concorrenza potenziale sussiste ... potenzialità del danno sussiste pure », si finisce ad un passo dalila conclusione

opposta a quella che si vorrebbe propugnare. La concorrenza potenzia le, infatti, va accertata, secondo la Cassazione, in base alla ragionevole

probabilità che, nel futuro, l'impresa estenda l'oggetto della propria attività ovvero l'ambito territoriale dell'esercizio della stessa sì da

allargare la propria clientela anche alla fascia di consumatori cui ab

origine non si rivolgeva l'usurpatore di ditta (cfr., in dottrina G. Ghidi

ni, cit., 25-35). Ed è facile osservare, a questo punto, come l'iter logico

che il giudice deve seguire per accertare l'esistenza del requisito « pericolo di danno » ( = concorrenza potenziale) di cui all'art. 2598

diventa assai simile, se non proprio identico, al procedimento cui la

giurisprudenza costantemente ricorre al fine di accertare, questa volta

alla luce dell'art. 2564, la sussistenza di « confusione tra ditte per

l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa è esercitata » (cfr.,

in proposito, l'interessante articolo di P. Crugnola, Confondibilità tra

ditte: rassegna di dottrina e di giurisprudenza relativa all'interpreta zione dei concetti di oggetto e di luogo di esercizio dell'impresa, in

Riv. dir. ind., 1977, I, 360 ss., nonché la nota anonima a Trib. Roma 2 ottobre 1981, in Giur. dir. ind., 1981, 563, 564-567, dove si evidenzia

(criticamente) la mancata tendenza della giurisprudenza più recente a

procedere all'identificazione del luogo di esercizio dell'impresa, ai sensi

dell'art. 2564, facendo riferimento al tradizionale criterio del « mercato di sbocco », inteso però nell'accezione allargata per cui « occorre tener

conto degli sviluppi potenziali che siano razionalmente prevedibili sulla base di atti o fatti concreti »).

Non sorprenderà quindi, alla luce di quanto esposto, come in alcune sentenze di merito che si pronunciano a chiare lettere a favore

dell'automaticità del ricorso dell'illecito di concorrenza sleale, una volta accertata la violazione del diritto alla ditta ex art. 2564, si

rinvengano motivazioni assai più vicine all'iter logico a seguito dalla Cassazione per giungere alla soluzione opposta. Cosi, ad es., App. Bologna 30 marzo 1982, cit., per esteso in Giur. dir. ind., 1982, 429, accertata la confondibilità tra ditte ex art. 2564, ha riconosciuto anche la violazione dell'art. 2598, n. 1, senza neppure menzionare il requisito del pericolo di danno, perché, nella specie, sussisteva « confondibilità dei

prodotti e ... concorrenzialità delle imprese »; inoltre, nella motivazio ne di Trib. Milano 8 luglio 1981, cit., id., 1982, 278, 280, è dato

leggere che « ai fini dell'accertamento della confondibilità tra due ditte è ... determinante ex art. 2564 c.c. anche la localizzazione dell'impresa o meglio le zone territoriali in cui le imprese svolgono rispettivamente la loro attività essendo intuitivo che solo nel caso di svolgimento dell'attività nella stessa zona possa sussistere quell'idoneità in concreto a danneggiare l'altrui azienda che costituisce uno dei parametri fondamentali della concorrenza sleale ex art. 2598 c.c. ».

In dottrina, sul rapporto tra la tutela della ditta e quella contro l'illecito concorrenziale, v., da ultimo, C. Rabitti Bedogni, Nome sociale e disciplina della concorrenza, Milano, 1984, e M. Irrera, Contraffazione di ditta priva di capacità distintiva e concorrenza

sleale, in Giur. piemontese, 1984, 129 ss. [O. Troiano]

Il Foro Italiano — 1986.

Chiedeva che, conseguentemente, venisse ordinata la integrazio ne o modificazione della denominazione sociale della convenuta, l'inibizione della continuazione del comportamento di concorrenza

sleale, la pubblicazione della sentenza ex art. 2600 c.c. e che la

convenuta fosse condannata al risarcimento dei danni, da liqui darsi in separato giudizio.

Il tribunale con sentenza 12 ottobre 1978 accolse solo la domanda relativa alla violazione del diritto esclusivo alla deno

minazione sociale; respinse le altre.

Su appello della STAR s.p.a. la Corte d'appello di Roma

affermava sussistere anche concorrenza sleale per confusione, con i provvedimenti conseguenti, tra l'ordine di pubblicazione della

sentenza e la condanna generica al risarcimento dei danni.

Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la

STAR s.r.l. con due motivi. Resiste la STAR s.p.a. con controri corso.

Motivi della decisione. — Il primo motivo del ricorso lamenta violazione dell'art. 2958 in relazione agli art. 2564 e 2568 c.c. Da un lato il ricorrente si duole che la corte di merito abbia affermato che si era realizzato, da parte sua, anche un atto di concorrenza sleale per appropriazione dei pregi dei prodotti altrui.

Secondo il ricorrente parte attrice non aveva mai fatto riferi mento all'ipotesi di concorrenza sleale ex art. 2598, n. 2, c.c. e

dunque la sentenza era incorsa nel vizio di extrapetizione. Inoltre non vi era alcuna simiglianza tra i prodotti STAR ed i tagli di carne venduti nei negozi della ricorrente.

D'altro lato, sempre col primo motivo, il ricorrente contesta che la situazione fosse anche solo potenzialmente suscettibile di

danneggiare l'altrui azienda. Egli sostiene che anche se l'uso della denominazione STAR avesse favorito la vendita della carne, conseguenze dannose si sarebbero verificate nei riguardi delle altre macellerie, non della STAR s.p.a. il cui flusso di clientela non era nemmeno potenzialmente suscettibile di sviamento a causa dell'acquisto di carni fresche che i consumatori facevano nei negozi della convenuta.

Si duole, infine, il ricorrente della condanna anche generica al risarcimento dei danni: è certo sufficiente la potenzialità del

pregiudizio, ma occorre che l'atto di concorrenza sia concreta mente ed attualmente idoneo a provocare danno, il che non era in quanto la STAR s.p.a. non ha mai, fino a questo momento, venduto carne fresca.

Il secondo motivo investe il capo della sentenza che ne ha

disposto la pubblicazione. Questa, secondo il ricorrente, è stru mento essenzialmente risarcitorio e dunque non utilizzabile quan do un danno attuale ancora non si è verificato.

Esaminando il punto a) del primo motivo del ricorso, è indubbio che la sentenza impugnata ha affermato che la concor renza sleale si sarebbe realizzata anche attraverso il profilo della

appropriazione dei pregi e dei prodotti della impresa concorrente. Tale affermazione è errata, come sostiene la ricorrente.

Al di là della questione se l'azione intentata dalla STAR fosse o no anche in funzione di un comportamento sleale rientrante nella categoria di quelli menzionati al n. 2 dell'art. 2598 c.c., l'uso di segni distintivi altrui non costituisce di per sé una ipotesi di appropriazione di pregi di prodotti od attività del concorrente.

I due numeri, 1 e 2, dell'art. 2598 c.c. si riferiscono infatti a due tipi ben distinti di atti di concorrenza sleale. Ambedue rientrano nella categoria degli atti lesivi della sfera esterna della azienda, ma il primo tipo concerne atti di confusione, il secondo, invece, una forma specifica di attività parassitaria che tende a far credere che i prodotti dell'agente (o la attività) abbiano i medesimi pregi di quelli del concorrente.

È vero che anche mediante attività di confusione si giunge al risultato di indurre il mercato a rivolgersi al proprio prodotto anziché a quello altrui: ciò perché la clientela a causa della realizzata confusione crede di ritrovare nei prodotti dell'agente le stesse qualità dei prodotti del concorrente. Ma si tratta, come si è detto, di effetto indiretto, diretto essendo l'effetto confusorio per cui chi acquista il prodotto proveniente da una determinata fonte

produttiva crede, per la identità o simiglianza dei segni distintivi, di acquistare un prodotto proveniente da altra fonte produttiva. Nel comportamento di chi svolge attività confusoria mediante uso di segni distintivi altrui non vi è dunque appropriazione dei

pregi, ma appropriazione della identità altrui.

Nel comportamento descritto al n. 2 dell'art. 2598 c.c., invece, l'agente riafferma la distinzione di identità tra sé ed il concorren te o tra i propri prodotti e quelli altrui, ma tende a far credere al mercato che pur in presenza di due diverse attività imprendi toriali, di due diverse fonti produttive, la qualità del prodotto o

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

dell'attività del concorrente si ritrovano anche nel proprio o nella

propria. Si tratta, dunque, di ipotesi ben distinte di concorrenza e, nel

caso in esame, non può proprio dirsi verificata l'ipotesi ex n. 2, ma sibbene soltanto, come ora si vedrà, quella di cui al n. 1 art.

2598.

L'errore ora constatato nella motivazione della sentenza impu

gnata risulta però irrilevante, essendo sufficiente, alla affermazione

della esistenza di un atto di concorrenza sleale, la constatazione

che si è verificata concorrenza sleale ex art. 2598, n. 1.

Pure sotto quest'aspetto è da premettere che non tutte le

affermazioni contenute nella sentenza sono da condividere.

In essa infatti sono contenute le seguenti affermazioni: a) il

tribunale avrebbe errato nel non trarre dalla affermata violazione

del diritto esclusivo sulla ditta la conseguenza che sussistesse

anche concorrenza sleale; b) la disciplina ex art. 2598 n. 1, è

integratrice della tutela dei diritti assoluti sui segni distintivi i

quali assolvono alla stessa finalità differenziatrice alla quale è

diretta la repressione degli atti confusori ex art. 2598, n. 1.

Ora, queste affermazioni non possono essere condivise, se

espresse in modo cosi categorico. :È indiscutibile, così come è opinione concorde di dottrina e

giurisprudenza, che la disciplina della concorrenza sleale per atti

confusori ha funzione integrativa o completiva di quella che

tutela l'esclusiva sui segni distintivi. Ed è vero che lo stesso

comportamento, di uso indebito di segni legittimamente usati da

altri, può concretare concorrenza sleale e violazione di ditta,

insegna o marchio altrui: si può dunque avere cumulo delle

tutele.

Ma da codeste affermazioni non può trarsi il corollario per cui

sempre vi è coincidenza tra violazione di diritto al segno e

concorrenza sleale ex art. 2598, n. 1, per cui, accertata la prima, inevitabilmente si deve affermare realizzata anche la seconda.

Statisticamente la coincidenza tra le due fattispecie è tanto

frequente da spiegare il fatto che nella pratica sia invalso l'uso di

associare le due azioni e che le decisioni giudiziarie finiscano

quasi sempre per concedere, se la domanda è accolta, le due

tutele pur differenziate.

Ciò si spiega perché l'art. 2564 c.c. delimita e circoscrive il

diritto esclusivo del titolare della ditta. Costui può pretendere il

rispetto non già erga omnes, ma soltanto nei confronti di coloro

che, usando la ditta stessa o ditta analoga, possono creare

confusione tra le due diverse imprese contrassegnate con la

medesima o analoga ditta in quanto le due imprese svolgono attività, per oggetto e per luogo, che di per sé indurrebbero

confusione tra le due imprese. Per la protezione ex art. 2564 si richiede dunque analogia di

oggetto di attività e identità di luogo (seppure intesa in senso

ampio). Ora, nell'applicazione dell'art. 2598 si richiede che vi sia una

situazione concorrenziale tra le imprese; e tale situazione si ha, di regola, proprio quando vi è identità o analogia di attività

svolta, sia per oggetto che per luogo. Ne consegue che, di fatto, accertata la confondibilità a norma

dell'art. 2564, spesso si accerta anche la situazione concorrenziale

che è il presupposto per l'applicazione anche della tutela ex art.

2598.

Ma concettualmente le due protezioni sono distinte, distinti essendo gli interessi protetti, distinte essendo le fattispecie.

La protezione della ditta è protezione del segno. L'interesse

protetto è quello alla identificazione, poiché ogni imprenditore ha

interesse a distinguere la propria impresa, i propri prodotti o

servizi, la propria sede. Il fatto che il divieto di usare ditta

uguale o simile riguardi solo l'ipotesi di confondibilità per luogo ed oggetto dell'attività svolta dai due imprenditori è corollario della natura dell'interesse protetto.

Distinguere attraverso segni è infatti utile o addirittura necessa

rio nell'ambito di entità omologhe: non serve quando si tratta di

entità non omologhe che già si distinguono tra loro per caratteri

stiche intrinseche, nella specie, perché le attività svolte dalle due

imprese sono diverse per oggetto o per luogo. Ma quando la confondibilità esiste, la tutela della ditta va

accordata. La confondibilità è condizione necessaria ma anche

sufficiente. Non è richiesto altro, come è logico perché l'interesse

protetto è quello alla identificazione e il diritto strumentale

(quello al segno) è diritto soggettivo la cui attuazione non è

subordinata ad alcuna altra condizione.

In specie, non è necessario che vi sia un attuale o potenziale danno alla impresa del titolare della ditta. Certo, tale danno

spesso vi sarà: o consistente proprio in una deviazione della

corrente di clientela o nell'offuscamento della immagine per il

Il Foro Italiano — 1986.

riflesso di eventuali reazioni negative che il mercato può avere

avuto nei confronti delle altrui attività contraddistinta col mede

simo segno. Ma che danno vi sia non è necessario. È sufficiente

la confondibilità: in ciò sta l'importanza dell'essere titolare di un

segno distintivo nominato (ditta, marchio, insegna). Ad esempio, la protezione ex art. 2564 potrà aversi anche se

l'attività altrui non crea riflessi negativi di immagine, sì che non

sia ipotizzabile sotto quest'aspetto alcun pregiudizio alla azienda; anche se gli effetti confusori siano possibili fuori dell'ambito del

mercato, cosi presso la p.a., presso fornitori o somministratori di

servizi.

Diversamente stanno le cose per quanto riguarda la disciplina della concorrenza sleale e dunque anche della concorrenza sleale

per confusione. Non basta la confondibilità di segni, occorre

anche che l'uso del segno sia idoneo a danneggiare l'altrui

azienda, requisito, questo, che è comune, per giurisprudenza e

dottrina costanti, a tutte le ipotesi ex art. 2598, anche a quelle ex

nn. 1 e 2, non solo a quella ex art. 2564.

Nel caso di uso di ditta altrui, pertanto, perché vi sia concor

renza sleale non è sufficiente che vi sia confondibilità di segni e

di attività ma è necessario, anche, che tale confondibilità sia

idonea a produrre danno all'azienda contraddistinta con la ditta imitata.

Tale idoneità a danneggiare l'altrui azienda non è in re ipsa,

per il solo fatto della imitazione del segno distintivo altrui.

Occorre che il comportamento di imitazione del segno possa in

qualche modo interferire negativamente sul profitto che l'imprendi tore tende ad ottenere con la sua attività di impresa.

Fatte queste premesse, è però da osservare che la sentenza

impugnata si sottrae alla censura in quanto ha poi seguito di

fatto il corretto principio di accertare non solo se vi era concorrenza ma anche se il comportamento denunciato era poten zialmente dannoso.

La corte, infatti, da un lato ha accennato ad un rapporto di

attuale concorrenza prossima, tenendo conto della produzione della attrice (anche dadi per brodo) e di quella della convenuta

(carni fresche, dunque anche carni per brodo). La concorrenza, infatti, può esistere anche quando si tratti di beni succedanei.

E il pregiudizio è evidente in casi del genere. È infatti

possibile che l'equivoco in cui è indotto il mercato dalla confon dibilità del segno distintivo determini spostamento di clientela.

D'altro lato, e soprattutto, la corte ha fatto riferimento alla concorrenza potenziale, cui la giurisprudenza e la prevalente dottrina danno rilevanza come fattispecie che rientra nella con correnza prossima. Si tratta di concorrenza che si ritiene possa sorgere nel futuro prossimo per la naturale e prevedibile espan sione dell'attività del soggetto passivo, espansione che, una volta verificatasi davvero, si troverebbe esposta agli effetti dannosi costituiti dalla concorrenza tramite atti confusori. Se concorrenza

potenziale sussiste, potenzialità di danno sussiste pure, proprio perché la prosecuzione della attività mediante segno confusorio da parte del concorrente, pregiudica attualmente la possibilità per il soggetto passivo di estendere il suo mercato utilizzando in tale estensione il suo segno distintivo nel pieno della sua funzione

distintiva, senza, cioè, che il mercato già si sia abituato a

distinguere con quel segno l'attività del concorrente.

ÌÈ pur vero che affermare l'esistenza di una concorrenza potenzia le si risolve in una previsione, che dunque deve fondarsi su

probabilità di un certo rilievo, non su mera possibilità, dunque su circostanze concrete o su regole di esperienza.

Ciò soprattutto quando la previsione riguardi l'ampliamento dell'oggetto dell'attività. Può infatti ritenersi regola di comune

esperienza che una impresa sana e fiorente sia anche in espansio ne naturale, fisiologica, nel senso territoriale, che cioè vada estendendo il suo ambito territoriale di mercato.

Mentre le cose stanno diversamente in relazione alla probabilità che un'impresa allarghi il ventaglio delle sue attività.

Tale mutamento, infatti, implica un mutamento del programma imprenditoriale, a volte di grande rilevanza, non è dunque in sé

sempre probabile. Su questo punto la sentenza impugnata non si è invero

soffermata, limitandosi alla osservazione, di mera possibilità, se condo cui l'attrice STAR « ben potrebbe estendere la propria attività alla vendita di carne fresca ».

Ma su questo punto non vi è alcuna doglianza da parte del ricorrente.

Il primo motivo di ricorso va dunque rigettato. Accertata, la

potenzialità dannosa del comportamento del ricorrente, necessa riamente la corte di merito doveva pronunciare la condanna

generica al risarcimento del danno, essendo possibile che danni concreti già si fossero realizzati, proprio nel rendere meno

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PARTE PRIMA 920

agevole alla impresa attrice un suo futuro ingresso nell'area di mercato rappresentata dal commercio di carni fresche a causa del

preesistente uso del segno distintivo STAR da parte della società convenuta.

È infatti costante affermazione di questa Suprema corte che per la condanna generica al risarcimento dei danni non occorre la

prova concreta della sussistenza di un pregiudizio economico, essendo sufficiente che il fatto illecito accertato sia, come nel caso di specie, potenzialmente produttivo di danno, secondo un giudi zio di mera probabilità, impregiudicata, in sede di liquidazione, ogni questione sulla quantità ed anche sulla concreta ed effettiva sussistenza del danno. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 18 feb braio 1986, n. 962; Pres. Lo Coco, Est. Pafundi, P. M. Zema

(conci, conf.); Cassa marittima meridionale (Avv. Formica, Mazziotti) c. Condominio via Quintino Sella n. 215, Bari

(Avv. Spinelli). Cassa App. Bari 14 maggio 1982.

Comunione e condominio — Condominio negli edifici — Servizio di portierato — Spese — Criterio di ripartizione (Cod. civ., art.

1123).

Le spese relative al servizio di portierato vanno ripartite in

proporzione al valore delle singole proprietà, ove risulti lo

svolgimento del servizio nell'interesse di tutti i condomini e non vi siano diverse convenzioni. (1)

Svolgimento del processo. — Con rogito per notar Carbone del 23 maggio 1958 Angela Lattanzi e Carmen Di Cagno vendettero al costruttore Vito Bellomo una zona di terreno in Bari, via Quintino Sella, angolo via Crisanzio; l'acquirente si impegnò a costruire secondo un progetto già redatto a cura delle venditrici, che prevedeva per il primo piano la destinazione ad uffici e per i

piani superiori quella a civile abitazione. Peraltro il Bellomo vendette il primo e secondo piano costruiti

« allo stato grezzo » alla Cassa marittima meridionale, la quale si riservò di completarli e destinarli, secondo le proprie esigenze istituzionali, ad uffici ed ambulatori medici, con esclusione della

degenza. Nei piani superiori vennero realizzate civili abitazioni e pertan

to, essendo sorte controversie tra i condomini e la Cassa marit

tima, questa, allo scopo di ristabilire i buoni rapporti, con dichiarazione trascritta nel verbale dell'assemblea condominiale del 22 ottobre 1965 si assunse l'onere di pagare il 70 % del costo del servizio di portierato, con espressa precisazione che tale concessione veniva effettuata con riserva di conferma anno per anno e con facoltà unilaterale di revoca da parte della cassa.

Accentuandosi il dissenso tra i condomini, la cassa con lettera 16 novembre 1978 comunicò la revoca della concessione, infor mando che per l'avvenire intendeva pagare tutte le spese condo

miniali, compresa quella relativa al servizio di portierato, in base alle tabelle millesimali di proprietà a suo tempo approvate.

L'assemblea del condominio, nella adunanza del 9 dicembre 1978 col solo voto contrario del rappresentante della Cassa

marittima, deliberò di confermare il sistema di ripartizione della

spesa di portierato fin'allora seguito e quindi la cassa, con citazione del 6 gennaio 1979, convenne il condominio avanti al Tribunale di Bari per sentir annullare la predetta delibera che era

in contrasto con il criterio di ripartizione stabilito dalla legge. Il condominio resistette alla domanda, chiedendo in via ricon

venzionale che venisse imposta all'attrice la cessazione dell'uso ad

ambulatorio medico dei due piani di edificio, ovvero, in subordi

ne, che venisse confermata e sancita la ripartizione delle spese in

questione secondo il deliberato dell'assemblea. Con sentenza 11 dicembre 1980 l'adito tribunale annullò la

deliberazione impugnata e rigettò la riconvenzionale del condo

minio, dichiarando che anche le spese di portierato dovevano

ripartirsi in misura proporzionale al valore della proprietà, che era di 311 millesimi per la Cassa marittima.

La Corte d'appello di Bari, in parziale riforma della decisione

(1) Sul punto specifico, in senso conforme, cfr. Pret. Milano 9 giugno 1983, Foro it., 1983, I, 2912, con nota di richiami anche a Cass. 30 ottobre 1981, n. 5751, id., 1981, I, 2650, con nota di richiami (menzionata in motivazione). Circa i poteri dell'assemblea condominiale in ordine alla ripartizione delle spese comuni (nella specie, portierato), cfr. Cass. 5 ottobre 1983, n. 5793, id., 1983, I, 3032.

Il Foro Italiano — 1986.

di primo grado, ha determinato nella misura del 50 % il contri

buto a carico della Cassa marittima sul costo del servizio del

portierato, affermando che la disposizione dell'art. 1123, 2° com

ma, c.c., in base alla quale, se si tratta di cose destinate a servire

i condomini in misura diversa, le spese sono riaprtite in propor zione all'uso che ciascuno può farne, si applica non solo alle cose

ma anche ai servizi, compreso il servizio di portierato, di cui la

Cassa marittima fruisce più intensamente degli altri condomini, dato il grande numero di mutuati che accede giornalmente agli uffici ed agli ambulatori dell'ente. La corte d'appello ha, invece,

rigettato gli altri motivi di gravame del condominio, confermando

i punti relativi all'annullamento della deliberazione assembleare

del 9 dicembre 1978 ed all'insussistenza di un vincolo reale che

impedisse alla Cassa marittima di destinare una parte dei locali

ad ambulatorio medico.

Ha proposto ricorso la Cassa marittima meridionale in base a

due motivi, nei quali deduce la violazione dell'art. 1123, 2°

comma, c.c., che è applicabile soltanto alle spese di conservazione

e godimento di cose, cioè di parti comuni, destinate a servire in

misura diversa i vari condomini, e non può riferirsi a quei servizi

che sono utilizzati in generale da tutti i condomini e la cui spesa deve essere ripartita in proporzione al valore delle singole pro

prietà. Nel secondo motivo deduce in subordine insufficiente motiva

zione su punto decisivo, per avere la corte d'appello determinato

la misura del contributo proporzionale senza compiere alcuna

indagine sull'effettiva misura del maggior godimento, basandosi

soltanto sul rilevante numero di persone che presumibilmente si

reca negli uffici ed ambulatori dell'ente.

Il condominio resiste con controricorso e propone ricorso

incidentale, in base a tre motivi nei quali si lamenta: a) violazione del giudicato interno; b) difetto di motivazione sulla

misura dell'onere spettante alla cassa; c) difetto di motivazione

sul rigetto della domanda riconvenzionale relativa all'arricchimen

to senza causa, dal momento in cui la cassa non aveva più inteso

assumersi il 70 % del costo del servizio di portierato.

Motivi della decisione. — I due ricorsi vanno riuniti a norma

dell'art. 335 c.p.c. e deve essere esaminato preliminarmente il

motivo del ricorso incidentale in cui il condominio deduce

violazione del giudicato interno (art. 112, 339, 343, 346 c.p.c., 2909 c.c.), in quanto il tribunale aveva ritenuto annullabile la

delibera 9 dicembre 1978, mentra la corte d'appello l'ha dichiara

ta nulla, malgrado che la Cassa marittima non avesse impugnato tale capo della sentenza.

La censura è infondata, perché la Cassa marittima era comple tamente vittoriosa nel giudizio di primo grado e non aveva

bisogno di proporre appello incidentale sul punto relativo alla

qualificazione dell'azione, che era nella specie irrilevante, dato

che essa aveva impugnato la delibera condominiale prima della

scadenza del termine di trenta giorni e poteva, quindi, proporre sia l'azione di nullità, sia quella di annullamento.

La corte d'appello si è limitata, al riguardo, a qualificare l'azione nei suoi esatti termini giuridici, in conformità di consoli data giurisprudenza (v. Cass., sez. un., 5 maggio 1980, n. 2928, Foro it., 1980, I, 1627) e non ha violato alcuna delle norme

indicate dal ricorrente incidentale, il quale solo ponendo artificio

samente una netta distinzione tra le due azioni, si fa a sostenere che non avendo la cassa riproposto l'azione di nullità non solo la corte non la poteva dichiarare, ma avrebbe dovuto anche rigetta re l'appello.

Merita accoglimento il primo motivo del ricorso principale, proposto dalla Cassa marittima, in quanto la decisione impugnata è in contrasto col principio di diritto varie volte affermato da

questa corte, secondo cui le spese di portierato di un edificio condominiale debbono essere poste a carico di tutti i condomini, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, se non altrimenti disposto dal regolamento di condominio, dato che

l'obbligo di contribuire a tali spese trova fondamento nel di ritto dominicale e non nella effettiva utilizzazione del servizio

(v. sent. 8 settembre 1966, n. 2353, id., Rep. 1966, voce Comu nione e condominio, n. 219; 22 luglio 1968, n. 2622, id., Rep. 1968, voce cit., n. 102; 28 maggio 1973, n. 1585, id., Rep. 1973, voce cit., n. 106).

Con più recente sentenza (30 ottobre 1981, n. 5751, id., 1981, I, 2650) è stato ritenuto che i tre commi dell'art. 1123 c.c. sono tra loro in un rapporto che va dal generale al particolare, nel senso che nel 1° comma si stabilisce il principio che le spese necessarie

per la conservazione ed il godimento delle parti comuni, nonché

per la prestazione dei servizi nell'interesse comune, sono sostenu te dai condomini in proporzione del valore della proprietà di ciascuno (salva diversa convenzione), mentre il 2° comma si

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