sezione I civile; sentenza 16 luglio 1985, n. 4186; Pres. Granata, Est. Falcone, P. M. Cantagalli(concl. conf.); Min. finanze (Avv. dello Stato Salimei) c. Cassa autonoma di previdenza equiescenza per il personale dipendente dell'Istituto autonomo per le case popolari di Roma(Avv. Picciredda). Cassa Comm. trib. centrale 26 aprile 1982, n. 2604Source: Il Foro Italiano, Vol. 108, No. 11 (NOVEMBRE 1985), pp. 2901/2902-2907/2908Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23180031 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Devesi coerentemente ritenere che il; legislatore non «abbia votato estendere il divieto di nova in appello fino ad impedire l'acquisi zione di documenti, che per la loro natura di voces mortuae e
l'esaurimento della loro produzione in unico atto, non richiede alcun prolungamento dell'attività processuale, contrario alla esi
genza di celerità e concentrazione, che il legislatore stesso ha
voluto soddisfare con il nuovo rito, con particolare riferimento al
giudizio d'appello.
Né può ritenersi che la possibilità accordata alle parti di
produrre documenti in grado d'appello è incoerente con il sistema di preclusione, introdotto in primo grado, in quanto la decadenza
già verificatasi per effetto degli art. 414 e 416 c.p.c. ne impedi rebbe l'ammissione in grado d'appello. L'incoerenza è soltanto
apparente. Se il divieto del novum in quanto inteso ad assicurare
il principio del doppio grado di giurisdizione, gioca un ruolo
decisivo e rigoroso nell'impedire l'estensione del giudizio di
secondo grado a domande ed eccezioni nuove, che, ampliandone il
contenuto, creerebbe una diversità del thema decidendum, non
assume, invece, una rilevanza altrettanto rigorosa sul piano delle
prove, quando queste, rimanendo nell'ambito del decisum, non
siamo poste a sostegno di domande ed eccezioni nuove. Occorre
infatti considerare che nel sistema normativo, introdotto dalla 1. n.
533 del 1973, non rientrano soltanto le preclusioni di cui agli art.
414 e 416 c.p.c., che impongono all'attore e, pariteticamente, al
convenuto d'indicare i mezzi di prova e i documenti, offerti in
comunicazione e depositati, rispettivamente con il ricorso introdut
tivo e la memoria di costituzione, ma anche i poteri istruttori del
giudice, che in primo grado implicano le disponibilità d'ufficio di
ogni mezzo di prova in qualsiasi momento ed in secondo grado l'ammissibilità d'ufficio di nuovi mezzi di prova, anche se subor
dinatamente alla loro indispensabilità: il che rende evidente che il
sistema normativo, seppur non attua un sistema inquisitorio puro, tende a contemperare in considerazione dalla particolare natura
del rapporto di lavoro e degli interessi in discussione, alcuni dei
quali riguardanti diritti di rilevanza costituzionale, il principio
dispositivo, che obbedisce alla regola formale di giudizio fondato
sull'onere della prova (art. 2697 c.c.), con il principio inquisitorio, che tende alla ricerca della verità reale mediante una rilevante
partecipazione ed un'efficace azione del giudice nel processo. Può
essere pertanto accettato l'orientamento dottrinale, secondo cui, in
relazione alla tipicità delle controversie del lavoro, la rigidità del
sistema di preclusioni risulta in definitiva superata dal tendenziale
principio della ricerca della verità reale, per modo che come in
primo grado l'attività istruttoria può essere disposta anche supe rando le preclusioni formatesi a danno delle parti, cosi in grado
d'appello l'acquisizione dei mezzi di prova può essere disposta ove siano ritenuti indispensabili per risolvere la causa sulla base
dell'accertamento pieno dei fatti controversi e non sulla base di
regole formali di giudizio.
Non è pertanto accettabile la tesi, sostenuta nella sentenza n.
4660 del 18 agosto 1982 di questa Corte suprema, secondo cui
non possono più ritenersi ammissibili in grado d'appello i docu
menti, che la parte, ove fosse stata più diligente, avrebbe potuto e
dovuto portare all'esame del giudice di primo grado e norma dei
richiamati art. 414, n. 5, e 416, 3° comma, c.p.c., e che, colpiti
da decadenza, diventano per ciò stesso inidonei alla dimostrazione
del fatto costitutivo della domanda, secondo la regola generale
prevista dall'art. 2697 c.c. Tale tesi, che sostanzialmente crea un
onere insussistente, non si pone io linea col ritenuto criterio di
prevalenza della verità reale, fondamentale nelle finalità del rito
del lavoro, rispetto al criterio formale della regola legale di
giudizio, ed attribuisce al requisito dell'indispensabilità dei mezzi
di prova un valore di direttiva generale, mentre esso, quando è
funzionalmente possibile in relazione alla natura non documentale
della prova, si esaurisce in una valutazione del caso concreto,
riservata al giudice d'appello, e soggetto al controllo di legittimità
soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione.
Alla stregua dei principi esposti la motivazione del tribunale si
rivela apodittica ed insufficiente, essendosi esso limitato a dichia
rare inammissibile la copiosa documentazione sol perché prodotta
dall'appellante soltanto in secondo grado « senza giustificato moti
vo », mentre avrebbe dovuto dare ingresso alle prove « precostitui
te » per procedere alla valutazione della loro rilevanza ai fini
della decisione.
Con l'accoglimento del primo motivo deve ritenersi assorbito il
secondo punto perché attinente ai pretesi difetti logici e giuridici
della valutazione di merito, che dovrà essere compiuta dal giudice
Il Foro Italiano — 1985.
d'appello, in assoluta libertà di giudizio, anche in relazione
all'eventuale rilevanza dei nuovi documenti prodotti. Il ricorso dev'essere accolto nei limiti esposti e la sentenza
impugnata cassata con rinvio ad altro giudice, che si atterrà ai
principi enunciati. Quale giudice del rinvio si designa il Tribunale
di Viterbo. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 16 luglio
1985, n. 4186; Pres. Granata, Est. Falcone, P. M. Cantagalli
(conci, conf.); Min. finanze <Avv. dello Stato Salimei) c. Cassa
autonoma di previdenza e quiescenza per il personale dipenden te dell'Istituto autonomo per te oase popolari' di1 Roma (Aw.
Picciredda). Cassa Comm. trib. centrale 26 aprile 1982, n. 2604.
Ricchezza mobile (impasta sulla) — Esenzioni — Interessi sui
mutui per costruzione di case non di lusso — Limiti temporali
(L. 2 luglio 1949 n. 408, disposizioni per l'incremento delle
costruzioni edilizie, art. 18; 1. 2 febbraio 1960 n. 35, agevola zioni tributarie in materia di edilizia, art. 2, 3; 1. 19 luglio 1961 n. 659, agevolazioni fiscali e tributarie in materia di
edilizia, art. 1). Ricchezza mobile (imposta sulla) — Ente previdenziale e di
assistenza — Redditi mobiliari derivanti da plusvalenze su titoli — Assoggettabili — Condizioni — Esercizio di attività d'im
presa — Fattispecie (D.p.r. 29 gennaio 1958 ti. 645, t.u. delle
leggi sulle imposte dirette, art. 8, 106).
L'esenzione dall'imposta di ricchezza mobile degli interessi sui
mutui concessi per la costruzione di case non di lusso ai sensi
dell'art. 18 l. 2 luglio 1949 n. 408 è venuta meno a far data
dal 31 dicembre 1959, in quanto le proroghe disposte dalla l. 2
febbraio 1960 n. 35 e dalla l. 19 luglio 1961 n. 659 riguardava no le esenzioni relative alle tasse ed imposte indirette sugli
affari e non anche quelle in materia d'imposta di ricchezza
mobile. (1) Sono soggetti all'imposta di ricchezza mobile i redditi mobiliari
derivanti da plusvalenze su titoli conseguiti da un ente (nella
specie, si trattava della cassa autonoma di previdenza e quie scenza per il personale dell'I.a.c.p. di Roma) che abbia come
fine istituzionale quello di svolgere attività assistenziale o
previdenziale, ove venga accertato l'effettivo esercizio da parte dell'ente di attività d'impresa nella gestione del suo patrimonio
(nella specie, si trattava della concessione di prestiti e mutui
ipotecari da cui venivano ricavati utili destinati ad incrementare
i fondi dell'ente). (2)
(1) Con la decisione in epigrafe (che si affianca alla precedente sent. 8
luglio 1985, n. 4079, resa dallo stesso collegio e tra le stesse parti) la Corte di cassazione avalla la soluzione fornita dalla sent. 18 aprile 1983, n. 2647, Foro it., Rep. 1983, voce Ricchezza mobile (imposta sulla), n.
145, circa il problema relativo all'estensione temporale del regime agevolativo disposto dalla 1. 408/49 per i mutui destinati alla costru zione di case non di lusso. Sembra cosi superato il contrario avviso
espresso da Cass. 29 aprile 1982, n. 2690, id., Rep. 1982, voce cit., n.
126, e dalla giurisprudenza della Commissione tributaria centrale: v. dee. 15 marzo 1982, n. 2604, ibid., n. 125; 20 novembre 1980, n.
11994, id., Rep. 1981, voce cit., n. 176; 12 maggio 1980, n. 5428, ibid., n. 177; 8 giugno 1980, n. 6686, id., Rep. 1980, voce cit., n. 206.
Isolata, ed oscura, la decisione di Comm. trib. centrale 28 giugno 1983, n. 1594, id., Rep. 1983, voce cit., n. 146, secondo la quale l'agevo lazione in questione non è più vigente dopo la riforma del 1973.
(2) I giudici della Cassazione, nell'enunciare il principio di cui in
massima, richiamano il dictum di Cass. 13 dicembre 1980, n. 6454 e 24 giugno 1980, n. 3954, Foro it., Rep. 1980, voce Ricchezza mobile
(imposta sulla), nn. 145, 149, secondo il quale anche un ente pubblico che abbia fini istituzionali non economici, ma che eserciti di fatto attività commerciali, è soggetto all'imposta di ricchezza mobile
per gli interessi percepiti in relazione a detta attività ai sensi dell'art. 85 t.u. 645/58; ma più conferente sarebbe stato il richiamo a Cass. 27
aprile 1979, n. 2437, id., Rep. 1979, voce cit., n. 45, a cui dire gli enti tassabili in base a bilancio sono soggetti alia disposizione dell'art. 106 t.u. 645/58 a condizione che esercitino effettivamente un'attività com merciale (nella specie, si trattava di una società cooperativa edilizia; nello stesso senso v. Comm. trib. centrale 18 dicembre 1980, n. 13640, id., Rep. 1981, voce cit., n. 104). Né la decisione in epigrafe dà conto del dibattito che (sembra) stia per sollevarsi all'interno della corte di
legittimità, nonché tra questa e la Commissione tributaria, centrale:
dopo la pronuncia di Corte cost. 25 febbraio 1975, n. 32, id., 1975, I, 510, con nota di richiami, con cui veniva dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 106 nella parte in cui assoggettava all'imposta di ricchezza mobile le plusvalenze realizzate da enti tassabili in base a
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2903 PARTE PRIMA 2904
Svolgimento del processo. — L'ufficio distrettuale delle imposte dirette di Roma accertava, con distinti avvisi, a carico della cassa
autonoma di previdenza e di quiescenza per il personale dipen dente dall'I.a.c.p. di Roma, redditi mobiliari relativi agli anni
1971, 1972 e 1973, derivanti dalla riscossione di interessi attivi su
mutui ipotecari concessi ai propri iscritti per la costruzione di case di civile abitazione e da plusvalore su titoli, con l'applica zione delle soprattasse.
La commissione tributaria di primo grado, adita dalla cassa, annullava gli accertamenti, mentre la commissione di secondo
grado, in parziale riforma della decisione impugnata, con separate decisioni, riconosceva la legittimità dell'imposizione quanto ai redditi da plusvalenze su titoli e delle relative soprattasse.
L'amministrazione delle finanze proponeva ricorso alla Commis sione tributaria centrale, sostenendo l'erronea applicazione ai redditi da interessi sui mutui della norma agevolativa dell'art. 18 1. 2 luglio 1949 n. 408, in relazione alle disposizioni delle 1. 2 febbraio 1960 n. 35 e 19 luglio 1961 n. 659.
La cassa resisteva al ricorso facendo presente che, in ogni caso, difettava di legittimazione passiva, a norana dell'ult. comma
dell'art. 127 t.u. n. 645 del 1958 per gli interessi ad essa
corrisposti da società cooperative edilizie e, con ricorso incidenta
le, sostenva la non tassabilità delle plusvalenze su titoli per mancanza del presupposto dello svolgimento di attività imprendi toriale e l'applicabilità, in subordine, della esimente prevista dall'art. 248 del ricordato t.u. quanto alle soprattasse.
La commissione adita con la decisione ora denunciata, riuniti i
giudizi, respingeva il ricorso principale ed accoglieva quello in cidentale.
Considerava la commissione: a) che l'esenzione dall'imposta di ricchezza mobile degli interessi sulle somme mutuate prevista dal
2° comma dell'art. 18 1. n. 408 del 1949 era stata prorogata, insieme con quela delle ilmposite iindiiirettie sui mutui stessi, d'afe
1. 2 febbraio 1960 n. 35, come risultava anche dalla successiva 1.
19 luglio 1961 n. 659, la quale aveva esteso l'ambito dell'agevola zione prevista dal detto art. 18 senza operare alcuna discrimina
zione; b) che l'investimento di fondi in titoli costituiva un'attività di conservazione del patrimonio e non un'attività imprenditoriale, sicché doveva essere esclusa la configurabilità di pluslavenze tassabili.
Ha proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza l'ammi
nistrazione delle finanze sulla base di due motivi. Resiste con
controricorso la cassa autonoma di previdenza del personale
dell'I.a.c.p. di Roma.
Motivi della decisione. — (Omissis). Con unico motivo l'ammi
nistrazione delle finanze denuncia la violazione e falsa applica zione degli art. 13 e 18, 2° comma, 1. 2 luglio 1949 n. 408, degli art. 2 e 3 1. 2 febbraio 1960 m. 35 e dell'art. 1 1. 19 luglio 1961
n. 659 sostenendo che l'esenzione dalla ricchezza mobile degli interessi sui mutui agevolati (art. 18, 2° comma, oit.) era venuta
bilancio senza escludere quelli non esercenti attività commerciali, si è andato affermando l'orientamento secondo cui anche l'esercizio occa sionale di attività commerciali, pur se quantitativamente o qualitativa mente limitato, impone la tassazione delle plusvalenze conseguite dagli enti tassabili in base a bilancio ai sensi dell'art. 106 (cosi, oltre le sentenze della Cassazione ricordate sopra, Comm. trib. centrale 13 dicembre 1977, n. 15992, id., Rep. 1978, voce cit., n. 90; 20 novembre 1980, n. 11994, id., Rep. 1981, voce cit., n. 109 [decisione confermata da Cass. 4079/85, oit., supra, sub (1)]; 18 giugno 1981, n. 6870, id., Rep. 1982, voce cit-, n. 33; 11 febbraio 1982, n. 1432, ibid., n. 32; sicché l'esclusione della tassabilità trova luogo solo quando venga accertato che l'ente non svolge alcuna attività commerciale: v. Comm. trib. centrale 12 maggio 1975, n. 6630, id., Rep. 1976, voce cit., n. 44; 21 maggio 1979, n. 6612, id., Rep. 1980, voce cit., n. 98; 1° luglio 1980, n. 7818, ibid., n. 99; è stato qualificato come non esercente attività commerciali un ente ospedaliero: Comm. trib. centrale 19
giugno 1979, n. 7866, ibid., n. 97; unico precedente in senso contrario Comm. trib. centrale 15 marzo 1982, n. 2604, id., Rep. 1982, voce cit., n. 66, decisione cassata dalla sentenza in epigrafe); ma, di recente, la stessa Cassazione ha mostrato di non ritenere punto
' indiscusso '
siffatto orientamento se con le sent. 30 luglio 1984, nn. 4543-4549, id., Rep. 1984, voce cit., nn. 32-38 ha affermato che le plusvalenze realizzate da un ente tassabile in base a bilancio sono soggette all'imposta di ricchezza mobile, secondo il disposto dell'art. 106, « a condizione che l'ente medesimo eserciti, in via esclusiva o prevalente, per legge o per statuto, un'impresa commerciale » (nella specie, è stata esclusa la ricorrenza di siffatta condizione nell'ipotesi relativa all'alie nazione di alcuni immobili da parte dell'ente autonomo Mostra d'ol tremare, qualificato dalla decisione come « ente pubblico di tipo istituzionale con finalità di ordine generale, che svolge attività imprenditoriale non fine a se stessa, oon scopo di lucro, ma solo come strumento per le suddette finalità pubblicistiche »).
Il Foro Italiano — 1985.
meno con il 31 dicembre 1959, essendo state prorogate, dalle
leggi ricordate, le esenzioni relative alle tasse ed imposte indirette
sugli affari ma non anche quelle in materia di ricchezza mobile
sui redditi di cui trattasi.
Espone la ricoprente, a sostegno della censura: che la condi
zione per beneficiare delle agevolazioni previste dalla 1. n. 408
del 1949 era che le costruzioni fossero iniziate entro il 31
dicembre 1953; che quesito termine (prorogato dapprima di amino in
anno lo era stato, poi, fino al 31 dicembre 1959, con la 1. 10
dicembre 1957 n. 1213; che la 1. 2 febbraio 1960 n. 35, nel
prorogare ulteriormente detto termine fino al 31 dicembre 1969,
aveva, nell'art. 2 relativo all'esenzione della imposta di ricchezza
mobilie, fatto riferimento al solo art. 15 1. n. 408 del 1949 e non
pure all'art. 18 ed aveva, poi, nell'art. 3, relativo alle agevolazio ni, in materia di imposte indirette, richiamato la 1. n. 408 del
1949, con riferimento, quindi, al solo 1° comma del ricordato art.
18, attinente all'imposta di iregistro sui mutui; che, infine, l'esten
sione delle agevolazioni previste tra l'altro dall'art. 18 della più volte ricordata 1. n. 408 del 1949, agli edifici scolastici, ecc.,
disposta dalla 1. 19 luglio 1961 n. 659, non idonea, certamente, a
far rivivere l'agevolazione in materia di ricchezza mobile ormai
soppressa, ed era giustificata dal riferimento che ne risultava
all'agevolazione in materia di imposte indirette concessa dal 1°
comma del menzionato art. 18, rimasto in vigore.
Il motivo di censura merita accoglimento. La questione se il
beneficio dell'esenzione dall'imposta di r.m. degl'interessi corri
sposti sui mutui stipulati per le costruzioni o per la prima
compravendita delle case di abitazione non aventi il carattere di
abitazioni di lusso, concesso dall'art. 18, 2° comma, 1. 2 luglio 1949 n. 408, sia stato prorogato oltre il termine del 31 dicembre
1959, per effetto delle norme della 1. 2 febbraio 1960 n. 35, è
stata già affrontata da questa corte con la sentenza in data 18
aprile 1983, n. 2647 (Foro it., Rep. 1983, voce Ricchezza mobile, n. 145), e decisa nel senso sostenuto dall'amministrazione.
Non è dubbio che l'efficacia della normativa in genere di tutta
la 1. n. 408 del 1949, fissata con riferimento alle costruzioni
iniziate entro il 31 dicembre 1953 (art. 13), ebbe termine, con
l'esaurimento delle proroghe generali successivamente disposte (1. 16 aprile 1954 n. 112; 27 gennaio 1955 n. 22; 15 marzo 1956 n.
166; 27 dicembre 1956 n. 1416; 10 dicembre 1957 n. 2118), alla
data del 31 dicembre 1959, e che la 1. 2 febbraio 1960 n. 35, a
differenza delle precedenti leggi di proroga ora ricordate, non ha
disposto una proroga in blocco di tutte le agevolazioni fiscali già
previste dalla 1. n. 408 del 1949, ma soltanto di alcune di esse, dalle quali risulta esclusa quella che ne occupa.
La ricorrente insiste, sia nel controricorso che nella memoria, in una lettura delle disposizioni di proroga del regime agevolativo
susseguitesi alla .legge fondamentale, secondo la quale l'esenzione
prevista dall'art. 18 (1. n. 408 del 1949) per il periodo successivo
al 31 dicembre 1959 non potrebbe essere validamente inferita
dalla mancata indicazione di tale articolo nella legge di proroga di detto termine fino al 31 dicembre 1969 (1. 2 febbraio 1960 n.
35), perché, già con il provvedimento del 27 dicembre 1956 n.
1416, la proroga annuale era stata dettata con riferimento ai
termini in scadenza espressamente previsti in talune disposizioni della 1. n. 408 del 1949, con il risultato (di cui nemmeno
l'amministrazione finanziaria ha mai dubitato) di prorogare, pur senza farne espressa menzione, anche le agevolazioni non aventi
un termine di scadenza autonomo (quale il 2° comma del cit. art.
18), ma la cui validità era indirettamente collegata ai termini
esplicitamente stabiliti.
L'argomentazione non convince. È certamente esatto ài rilievo che, mentre le 1. 16 aprile 1954 n. 112, 27 gennaio 1955 n. 22 e 15
marzo 1956 n. 166 disposero la proroga di « tutte le agevolazioni tributarie previste in materia edilizia dalla 1. 2 luglio 1949 n.
408 », rispettivamente fino al 31 dicembre 1954; al 31 dicembre
1955; al 31 dicembre 1956; invece all'ulteiior proroga (fino al 31 dicembre 1957) la 1. 27 dicembre 1956 n. 1416 provvide, adottan
do una diversa tecnica legislativa, disponendo, cioè, la proroga dei termini stabiliti negli art. 13, 14, 16 e 19 1. n. 408 del 1949. Ed è parimenti da condividersi l'osservazione che l'agevolazione prevista dal non menzionato art. 18 (anche quanto al 2° comma) risultava anche essa prorogata, perché tale agevolazione mancante di un termine autonomamente ad essa riferito, era attribuita alla condizione che si trattasse di mutui per la costruzione o per la
prima compravendita di case indicate nel precedente art. 17 e,
quindi, in forza del richiamo operato da quest'ultima norma all'art. 13 della stessa legge, che fossero relativi a case la cui costruzione fosse iniziata nel termine del 31 dicembre 1953
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
(termine poi prorogato) ed ultimato entro il biennio successivo
all'inizio.
Ma queste premesse non consentono di giungere ad una conclu
sione di irrilevanza del mancato richiamo dell'art. 18 anche nella
successiva legge di proroga (2 febbraio 1960 n. 35) che qui
interessa, perché quest'ultima legge ha provveduto in una prospet tiva e con norme di diversa portata, regolando distintamente (per la prima volta) la proroga delle agevolazioni in materia di
ricchezza mobile e quelle in materia d'imposte indirette.
L'art. 2 1. n. 35 del 1960, infatti, ha preso direttamente in
considerazione, prorogandolo al 31 dicembre 1969, il termine per le agevolazioni previste agli effetti del tributo mobiliare, sgan ciandolo dalla connessione con il termine posto dall'art. 13, e
facendo esplicito riferimento ai soli benefici concessi (oltre che
dall'art. 71 t.u. 28 aprile 1938 n. 1165, dall'art. 90 d.l. c.p.s. 1°
aprile 1947 n. 261) dall'art. 15 1. n. 408 del 1949, più volte
ricordata senza alcun cenno all'art. 18 della stessa legge, il cui 2°
comma disponeva, come s'è detto, il beneficio di cui si discute.
L'intenzione del legislatore di restringere l'ambito delle agevo lazioni vigenti nel settore, nel prorogarne i termini di efficacia,
risulta, quindi, evidente; e ciò tanto più se si considera che la
norma del 2° comma dell'art. 18, non menzionata e quindi esclusa dalla proroga, era ben presente alla sua attenzione,
quando con il successivo art. 3, facendo riferimento alle agevola zioni previste in materia di tasse ed imposte indirette ha richia
mato, nel fissare l'ulteriore scadenza alla diversa data del 31
dicembre 1967, tutte quelle concesse con la 1. n. 408 del 1949, e
quindi anche quelle disposte con il 1° comma dell'art. 18 in
ordine ai contratti di mutuo di cui si è detto.
Resta pertanto un'affermazione priva di pertinenti e decisivi
agganci alla disciplina dettata, l'affermazione che, stante il coor
dinamento della disciplina delle agevolazioni fiscali per i contratti
di mutuo, dettata dal 1° comma dell'art. 18 quanto aille imposte
indirette e dal 2" quanto all'imposta di ricchezza mobilie, deve
ritenersi che fino a quando un contratto di mutuo usufruisca
delle riduzioni in materia di imposte indirette non possa non
usufruire nello stesso tempo dell'esenzione dell'imposta mobiliare
sugl'interessi, essendo identica la ratio delle due disposizioni. Che
anzi, la sottolineata diversità dei termini di durata della proroga
dell'agevolazione per i due tipi d'imposta distintamente regolati
(31 dicembre 1967 per le imposte indirette), dimostra la non
necessaria correlazione tra i due generi di agevolazioni fino ad
allora vigenti e l'evidente ispirazione della concreta disciplina
parzialmente innovativa al soddisfacimento di precise esigenze di
politica fiscale, articolatamente valutate dal legislatore nella sua
discrezionalità di apprezzamento della incidenza nel settore d'in
tervento delle diverse imposte e della correlativa normativa di
favore.
Né, come osserva l'amministrazione ricorrente, può ritenersi,
conducendo a suffragare la tesi accolta dalla decisione impugnata,
l'argomento tratto dall'art. 1 1. 19 luglio 1961 n. 659, nel senso
che l'estensione, da questo disposta, delle agevolazioni1 fiscali e
tributarie stabilite per la costruzione di case di abitazione dagli
art. 13, 14, 16 e 18 1. 2 luglio 1949 n. 408 agli edifici contemplati
dall'art. 2, 2° comma, r.d. 21 giugno 1938 n. 1094 (conv. in 1. 5
gennaio 1939 n. 35) e cioè ad edifici di utilizzazione collettiva
(scuole, caserme, ospedali, ecc.), confermerebbe la persistente
vigenza a quella data dell'integrale normativa dettata dall'art. 18.
Al riguardo sono decisive le osservazioni svolte nella preceden
te sentenza di questa corte innanzi richiamata.
La proroga del 2° comma dell'art. 18 non può ritenersi
contenuta nella 1. n. 659 del 1961, sia perché detta legge non è
una legge di proroga, ma unicamente una legge di estensione, ad
ipotesi diverse da quelle disciplinate dalla 1. n. 408, della norma
tiva di detta legge; sia perché, seppure è vero che l'art. 1 1. n.
659 del 1961 dichiarò applicabile agli edifici contemplati dal t.u.
sulle case economiche e popolari, fra gli altri, l'art. 18 1. n. 408
del 1949, ciò non poteva bastare a far rivivere il 2° comma
dell'art. 18 anzidetto, che aveva ormai cessato di produrre effetti
relativamente alle costruzioni ultimate oltre il termine previsto
dalle leggi di proroga anteriori alla 1. n. 35 del 1960. Il richiamo
all'art. 18, infatti, poteva valere solo per ciò che ancora restava
in vigore di detto articolo ai sensi della 1. n. 35 del 1960, e cioè
per il 1° e 3° comma, non anche per il 2° comma non più
prorogato, essendo stata espressamente estesa l'applicabilità delle
norme alla 1. 2 luglio 1949 n. 408 « e successive proroghe e
modificazioni »; con un richiamo che non poteva non comprende
re anche il -regime d'i proroghe e modificazioni introdotto con la 1.
n. 35 del 1960.
Il Foro Italiano — 1985.
Il motivo di ricorso per le considerazioni esposte, deve essere
accolto.
La cassa di previdenza ripropone la tesi fatta valere in sede di
merito, di non potere essere considerata debitrice d'imposta con
riferimento agli imponibili costituiti da quegl'interessi sui mutui
di cui si è detto, ad essa corrisposti da cooperative edilizie, in
quanto debitrici degli stessi sarebbero le oooperaitive che li hanno
corrisposti, quali sostituti d'imposta, a norma dell'art. 127, ult.
comma, t.u. n. 645 del 1958.
Ma trattasi di questione sulla quale la Commissione tributaria
centrale non si è pronunciata in conseguenza della decisione
adottata in senso sfavorevole all'amministrazione finanziaria, la
cui pretesa tributaria veniva respinta per la ritenuta insussistenza
della norma di legge posta a fondamento della stessa, questione
che pertanto non può essere esaminata in questa sede, ma che
resta proponibile in sede di rinvio.
Con il secondo motivo del ricorso l'amministrazione delle
finanze censura la decisione impugnata per avere ritenuto non
assoggettabili alla imposta di ricchezza mobile, i redditi mobiliari
derivanti da plusvalenze su titoli, in considerazione dell'attività
esercitata dalla cassa di previdenza, non qualificai He come attività
imprenditoriale in quanto l'investimento in titoli veniva eseguito
in funzione di semplice amministrazione e conservazione del
patrimonio per le finalità previdenziali ed assistenziali da essa
perseguite in conformità allo statuto.
Sostiene che la circostanza che la cassa abbia oome finalità
istituzionale quella di svolgere attività assistenziale o previdenzia
le in favore dei dipendenti dell'I.a.c.p. di Roma non implica
l'esenzione dai tributi anche per le attività strumentali a quella
istituzionale.
Il motivo di ricorso è fondato. L'art. 106 t.u. n. 645 del 1958,
come emerge anche dalla sentenza della Corte costituzionale (n.
32 del 1975, id., 1975, I, 510) che ne ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale nella parte in cui prevede la tassabilità delle
plusvalenze e sopravvenienze attive di enti tassabili in base a
bilancio senza escludere quelli « non esercenti attività commercia
li », si coordina, quanto alla sua portata, con la norma dell'art. 8
dello stesso t.u., la quale stabilisce che, in caso non sia diversa
mente disposto, te norme del t.u. che fanno riferimento alte
« imprese commerciali » si applicano anche ai soggetti tassabili in
base a bilancio (e tra questi rientra indubbiamente la cassa di
previdenza dei dipendenti dell'I.a.c.p. di Roma) che esercitano
« attività commerciali ». È agevole il rilievo che la Corte costitu
zionale nella dichiarazione d'incostituzionalità e l'art. 8 ricordato
non fanno riferimento alle « imprese commerciali » e si applicano
anche ai soggetti tassabili in base a bilancio (e tra questi rientra
indubbiamente la cassa di previdenza dei dipendenti dell'I.a.c.p.
di Roma) che esercitano « attività commerciali ».
È agevole il rilievo che la Corte costituzionale nella dichiara
zione d'incostituzionalità e l'art. 8 ricordato non fanno riferimen
to all'esercizio o meno di una « impresa commerciale » al singola
re, ossia al suo espletamento esclusivo, come specifico oggetto
dell'attività del soggetto, ma più genericamente ad « attività
commerciali » o « imprese commerciali », al plurale, ossia all'eser
cizio di attività che ben possono essere diverse da quella tipica
ed istituzionale del soggetto d'imposta e possono essere esercitate
occasionalmente, accanto alla diversa attività istituzionale. Il che
significa, come ha osservato questa corte, con riguardo ad enti
pubblici o di diritto pubblico aventi fini istituzionali non econo
mici, qualora di fatto esercitino altresì attività commerciali1 (v.
Cass. 24 giugno 1980, n. 3954 e 13 dicembre 1980, n. 6454, id.,
Rep. 1980, voce cit., nn. 149, 145, con riferimento all'imposta di
ricchezza mobile per i redditi di cui all'art. 85 t.u.) che anche un
ente che non sia società commerciale o che non abbia come suo
specifico oggetto l'esercizio di un'impresa commerciale, ma che
comunque di fatto eserciti « un'impresa commerciale », è soggetto,
per tali attività, all'imposta di ricchezza mobile.
Consegue che non è decisiva la considerazione delle finalità
istituzionali della cassa, ma è determinante, invece, la constata
zione del concreto svolgimento da parte della stessa di attività
d'impresa nella gestione del suo patrimonio, circostanza questa
che la stessa decisione impugnata ha riconosciuto essersi verificata
nella specie. Ha accertato, infatti, la deoisione impugnata che i fondi costi
tuiti con i contributi degli iscritti sono impiegati dalla cassa,
secondo l'esplioita previsione statutaria, nell'esercizio di una atti
vità commerciale in concessione di prestiti e di mutui ipotecari
dalla quale vengono ricavati utili (interessi) che incrementano i
fondi stessi, ed ha rilevato, in particolare, che tale attività
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2907 PARTE PRIMA 2908
creditizio-fìnanziaria si svolge non solo a favore degli iscritti ma
pure di terzi (di enti pubblici in particolare) previa valutazione, in questa ipotesi, per la concessione dei mutui ipotecari, della
convenienza economica dell'operazione (art. 3, lett. d, dello statu
to). Nell'ambito di questa attività imprenditoriale, consentita ed in
concreto esercitata in mancanza del vincolo di destinazione degli utili, non solo per legge ma neppure per statuto, si svolgono anche le operazioni d'investimenti in titoli le cui plusvalenze realizzate e destinate ad incrementare, insieme con gli altri utili, il patrimonio della cassa, non possono, quindi, essere sottratte
all'imposizione diretta per ricchezza mobile.
Per tutte le considerazioni esposte, il ricorso dev'essere accolto
con rinvio della causa alla Commissione tributaria centrale. (O
missis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 11 luglio 1985, n. 4133; Pres. Santosuosso, Est. A. Finocchiaro, P. M.
Cecere (conci, diff.); Sacco e altri (Avv. Terenzio) c. Com
pagnia Intercontinentale di assicurazioni (Avv. Russo). Cassa
App. Roma 1° ottobre 1980.
Assicurazione (contratto di) — Assicurazione obbligatoria della
responsabilità civile per i danni derivanti dalla caccia —
Clausola limitativa — Esercizio della caccia — Nozione —
Fattispecie (R.d. 5 giugno 1939 n. 1016, t.u. delle norme per la
protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia, aut.
1, 8).
In presenza di contratto di assicurazione obbligatoria della
responsabilità civile per i danni derivanti dalla caccia, che
contenga la clausola per la quale la copertura assicurativa è
circoscritta ai soli incidenti avvenuti nell'esercizio della caccia, rientra nel rischio assicurato l'incidente avvenuto nel compi mento di attività chiaramente diretta all'esercizio della caccia,
quale il dirigersi verso un luogo prestabilito per esercitarvi la
caccia. (1)
(1) Nulla in termini. In poche righe la vicenda. Il cacciatore assicurato, nel recarsi a
piedi verso la località prescelta per una battuta di caccia insieme ad altri amici dopo aver lasciato le proprie autovetture, veniva colpito accidentalmente da uno dei compagni. Di fronte alla richiesta dei
congiunti per il risarcimento dei danni, la compagnia assicurativa
eccepiva che la polizza si limitava a coprire gli incidenti occorsi durante l'esercizio della caccia. Al formalismo dell'assicuratore (e della corte d'appello che aveva accolto tale eccezione) i giudici di legittimità hanno replicato facendo propria l'interpretazione proposta dalle sezioni
penali della Cassazione oirca l'espressione « esercizio della caccia »
contenuta nell'art. 1 r.d. 1016/39 (che non va intesa restrittivamente, identificandola con la sola uccisione o cattura della selvaggina, ma deve essere collegata a quell'insieme di attività che sono svolte in funzione dell'obiettivo finale della caccia: cosi — in riferimento al
oomportamento di chi vaga o si sofferma con armi et similia in attesa della selvaggina — Cass. 23 gennaio 1975, Alessandria, Foro it., Rep. 1976, voce Caccia, n. 12; 21 novembre 1974, Ceppatelli, ibid., n. 11; 7 febbraio 1972, Camoletto, id., Rep. 1972, voce cit., n. 8; 27 ottobre
1969, Brandom, id., Rep. 1970, voce cit., n. 10; App. Milano 7 maggio 1969, ibid., n. 11, per citare solo le più 'fresche'; sicché anche le attività di organizzazione dirette all'effettiva caccia della selvaggina rientrano nella nozione legislativa: v., in generale, Cass. 2 aprile 1973, Frigo, id., Rep. 1974, voce cit., n. 42, nonché Cass. 17 ottobre 1974, Biancardi, id., Rep. 1975, voce cit., n. 4, che ritiene inerente all'eserci zio della caccia il comportamento di chi esplode un colpo per provare U fucile, e Cass. 20 marzo 1970, Camiciottoli, id., Rep. 1971, voce cit., n. 21, che qualifica come atteggiamento venatorio il sostare con mezzi fraudolenti in attesa della selvaggina); e, soprattutto, sottolineando come il tipo di assicurazione in questione (opportunamente reso
obbligatorio dall'art. 1 1. 2 agosto 1967 n. 799, come rileva Cla
rizia, Caccia, voce del Novissimo digesto, appendice, Torino, 1980, I, 914, 934) presenti il dichiarato obiettivo di tutelare con il più ampio raggio possibile gli interessi del pubblico che entri in contatto con lo svolgersi dell'attività venatoria (cosi già Cass. 5 settembre 1980, n. 5136, id., Rep. 1980, voce Assicurazione (contratto di), n. 170, in extenso in Giust. civ., 1980, I, 2625, con nota favorevole di Bonilini, che ha dichiarato la nullità della clausola secondo cui non sono risarcibili i danni verificatisi in violazione di leggi o regolamenti sulla
caccia). Ma le compagnie assicurative non sono nuove a tali atteggia menti a dir poco scandalosi: il caso in esame fa il paio con la
pratica, diffusa a livello di assicurazione contro il furto degli autovei coli, che tende a limitare i danni risarcibili a quelli legati direttamente alla consumazione del reato lasciando scoperti gli ulteriori danni
Il Foro Italiano — 1-985.
Svolgimento del processo. — Con atto di citazione notificato il
26 ottobre 1971 Benedetto, Matilde, Tito Livio e Claudio Sacco,
quali eredi di Maurilio Sacco conveniva in giudizio la compagnia Intercontinentale di assicurazioni s.p.a. per sentirla condannare,
oltre al risarcimento dei danni per inadempimento, al pagamento dell'indennizzo di lire 5.000.000, in conseguenza di un infortunio
mortale di caccia avvenuto verso le ore 4,30 del giorno 21
settembre 1970 del quale era rimasto vittima il predetto Maurilio
Sacco, assicurato con polizza n. 1855046.
Esponevano gli attori che il loro congiunto era stato raggiunto da un colpo di fucile partito dall'arma di Giovanni Feligioni, mentre insieme a quest'ultimo e ad altri cacciatori, si stava
preparando ad una battuta di caccia nella campagna di Civita
vecchia.
Si costituiva la convenuta eccependo l'infondatezza della prete sa trattandosi di incidente non coperto da assicurazione perché avvenuto non durante la caccia o, in caso contrario, in manifesta
violazione della legge sulla caccia.
Il Tribunale di Roma con sentenza 9 maggio-12 luglio 1977
condannava la convenuta a pagare agli attori l'indennizzo di lire
5.000.000, oltre le spese giudiziali, ma la corte d'appello riforma
va tale pronuncia e rigettava la domanda in accoglimento del
primo motivo di gravame con il quale si era dedotto che
l'incidente non si era verificato nell'esercizio della caccia.
Osservava in proposito il giudice del gravame che pacifico in
punto di fatto che l'infortunio si era verificato mentre i cinque
cacciatori, dal luogo ove ' avevano lasciato le proprie autovetture,
si trasferivano a piedi verso Monte Cucco dove erano diretti per una battuta di caccia alla lepre, la fattispecie in esame esulava
dall'ipotesi di esercizio della caccia, cosi come configurata dall'art.
1 t.u. 5 giugno 1939 n. 1016.
Secondo la corte dall'art. 1 della polizza emergeva che erano
indennizzabili solo i rischi occorsi nell'esercizio della caccia e che
tale espressione era stata intesa con riferimento al concetto che il
legislatore ne dà nel richiamato articolo.
L'attitudine venatoria può desumersi! da un complesso di ele
menti indicativi, ma questi debbono pur sempre rivelare una
chiarezza di comportamento intenzionalmente diretto alla ricerca,
all'attesa, alla cattura o all'uccisione di selvaggina, con la conse
guenza che ogni preliminare organizzazione di mezzi o appresta mento di preparativi, ancorché diretti chiaramente all'attività
venatoria, non sono compresi nel concetto di esercizio della
caccia che dal legislatore stesso è stato limitato agli atteggiamenti di ricerca e di attesa ovvero alla cattura o all'uccisione di uccelli
o di altri animali e con l'ulteriore conseguenza che muoversi
dalla propria dimora per raggiungere il luogo prestabilito per esercitare la caccia non costituisce esercizio reale o presunto di
caccia.
Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione
sulla base di due motivi illustrati da memoria gli eredi di
Maurilio Sacco, cui resiste con controricorso la compagnia assicu
ratrice.
Motivi della decisione. — Con il primo motivo di ricorso si
deduce violazione dell'art. 1, 2° comma, r.d. n. 1016 del 1939, in
relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. per avere la corte fornito
un'interpretazione del citato articolo restrittiva ed errata in quan to il legislatore nella determinazione del concetto non può avere
escluso quell'attività preliminare e comunque propedeutica consi
stente nel trasferimento del cacciatore per raggiungere il luogo
prestabilito per ivi svolgere attività d'i caccia in senso stretto.
Con il secondo motivo si deduce violazione dell'art. 360, n. 5,
c.p.c. per omessa ed insufficiente motivazione per avere la corte
derivati, ad esempio, dalla circolazione del veicolo rubato (sulle diverse soluzioni seguite a riguardo dalla giurisprudenza v., da ultimo, App. Roma 19 settembre 1984, Foro it., 1984, I, 3026, con nota di
richiami); ed altrettanto significativa è la vicenda delle polizze assicu rative della responsabilità civile che non coprono gli incidenti causati dal comportamento imprudente dell'assicurato (su cui v. la vigorosa reprimenda di Cass. 17 novembre 1976, n. 4270, id., 1976, I, 2798, con nota di richiami, che ammonisce come una siffatta esclusione « com
porterebbe un'inammissibile incertezza sull'oggetto stesso del contratto e farebbe sorgere il dubbio non solo delh nullità del contratto per mancanza del rischio, ma, addirittura, di un vero e proprio inganno ordito dall'assicuratore ai danni dell'assicurato » [2802]).
Non v'è che da rallegrarsi del buon senso delle nostre corti; resta, però, uno sconsolato interrogativo; dov'è finita (se mai c'è stata) la tanto auspicata (e perfino teorizzata in altra terra: cfr. C. M. Roos, On Insurer Generosity, in Scandinavian Studies in Law, 1981, 151) bonomia dell'assicuratore?
S. di Paola
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