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Sezione I civile; sentenza 26 giugno 1984, n. 3709; Pres. Zappulli, Est. R. Sgroi, P. M. Valente...

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Sezione I civile; sentenza 26 giugno 1984, n. 3709; Pres. Zappulli, Est. R. Sgroi, P. M. Valente (concl. conf.); Ceppo (Avv. Zema) c. Silenzi (Avv. Ferri). Cassa App. Roma 16 novembre 1981 Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 9 (SETTEMBRE 1984), pp. 2159/2160-2167/2168 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23177294 . Accessed: 24/06/2014 22:19 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 62.122.73.34 on Tue, 24 Jun 2014 22:19:19 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Sezione I civile; sentenza 26 giugno 1984, n. 3709; Pres. Zappulli, Est. R. Sgroi, P. M. Valente(concl. conf.); Ceppo (Avv. Zema) c. Silenzi (Avv. Ferri). Cassa App. Roma 16 novembre 1981Source: Il Foro Italiano, Vol. 107, No. 9 (SETTEMBRE 1984), pp. 2159/2160-2167/2168Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23177294 .

Accessed: 24/06/2014 22:19

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2159 PARTE PRIMA 2160

Avverso la suddetta sentenza, non notificata, l'amministrazione

finanziaria ha proposto ricorso per cassazione; il Masserizi ha

resistito con controricorso.

Motivi della decisione. — Con l'unico motivo, l'amministrazio

ne finanziaria -dello Stato deduce la violazione e falsa applicazione

degli art. 80, n. 4, e 93, n. 1, r.d. 30 dicembre 1923 n. 3269, 55

d.p.r. 26 ottobre 1972 n. 634, 2392 c.c., in relazione all'art. 360, n. 3, ic4p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motiva

zione in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c., sostenendo che « parti contraenti », ai sensi dell'art. 93, n. il', della legge di registro del

.1923, sono tutti coloro che hanno partecipato all'atto, anche senza

assumere in proprio le obbligazioni nascenti dai contratto conclu

so e quindi anche coloro che siano intervenuti nell'atto in qualità di (rappresentante, procuratore, mandatario e simili.

La ratio della norma è quella di rafforzare la garanzia tributa

ria e tanto nella rappresentanza che nel rapporto organico si

realizzano forme di imputazione giuridica formale. Benché l'am

ministratore sia organo della società, non vi è dubbio che la

persona che ricopre tale ufficio è legata alla società da un

rapporto di mandato; d'altra parte, l'art. 93, n. 1, della legge di

registro ha (riguardo al mero fatto dell'intervento nell'atto. Né è

pertinente il richiamo alla teoria dell'immedesimazione organica,

essendo per contro evidente l'implicazione nel momento volitivo

della persona che interviene all'atto come amministratore della

società la fattispecie dei propri comportamenti; infatti anche

l'organo opera un'imputazione (giuridica e formale e non un'impu tazione psichica.

Il ricorso è infondato. Sul tema che è oggetto della controver

sia la giurisprudenza di questa corte ha, di recente, assunto

orientamenti contrastanti; con sentenza 20 aprile 1982 n. 2449

(Foro it., 1982, I, 2439) ha ritenuto che gli amministratori delle

società di capitali non rientrano fra i soggetti obbligati solidal

mente al pagamento dell'imposta di registro dovuta dalla società

per la quale essi stipulano un atto sottoposto a registrazione; invece, con sentenza 11 agosto 1982, n. 4524 (id., 1982, I, 2439) è stato affermato che anche il rappresentante di una società

munite di personalità giuridica, che abbia posto in essere il

Suddetto atto in nome e per conto della società, è tenuto al

pagamento del tributo in qualità di « parte contraente ».

La corte ritiene di dover confermare il primo dei richiamati

indirizzi. L'art. 93, n. 1, r.d. n. 3269 del 1923 individua i soggetti tenuti verso l'amministrazione al pagamento dell'imposta nelle

parti contraenti e in quelle nel cui interesse fu richiesta la

formalità della registrazione. Con sentenza delle sezioni unite 23

gennaio 1956, n. 202 (id., 1956, I, 515), la nozione di «parte contraente » fu ritenuta comprensiva di quella di rappresentante (volontario) della parte a cui vanno riferiti gli effetti del rapporto

(con riguardo ad un'ipotesi di contratto per persona da nominare,

in quanto l'originario stipulante, anche quando abbia fatto tem

pestivamente la dichiarazione di nomina e questa sia stata accet

tata, doveva ritenersi intervenuto nella contrattazione nella veste di

rappresentante dell'effettivo contraente).

Le sezioni unite osservarono che l'art. 93, n. il, oit., nello

stabilire il principio della solidarietà per il pagamento dell'impo sta -di registro in confronto di tutte le parti contraenti e di quelle nel cui interesse fu richiesta la formalità della registrazione, ha

inteso riferirsi a tutte le parti che, essendo comunque e con

qualsiasi veste intervenute nella contrattazione, non sono estranee

alla stessa. Concetto questo che si basa, sia sul fatto che la legge fiscale non fa distinzione alcuna fra contraente in proprio e

contraente in nome altrui, sia su una situazione di vantaggio, sia

pure relativa, che si presume si estenda a persone la cui qualità non si identifica formalmente con quelle di parti contraenti, ma

la cui sfera patrimoniale variamente il rapporto attinge, sicché la

formalità della registrazione deve ritenersi richiesta anche nel loro

interesse.

La successiva giurisprudenza ha confermato il principio per i

mandatari, con o senza rappresentanza (Cass. 6 ottobre 1972, n.

2856, id., Rep. 1972, voce Registro n. 1107; 9 agosto 1973, n.

2278, id., Rep. 1973, voce cit., n. 1073, quest'ultima — come

risulta dalla motivazione — in relazione ad un rappresentante di

società). La ragione di tale interpretazione risiede sull'assunto che

la legge tributaria ricomprende sia la parte formale che la parte sostanziale, e cioè sia il soggetto che manifesta la volontà

contrattuale sia quello che, in virtù del potere di rappresentanza attribuito al primo, è il destinatario effettivo immediato e diretto

del rapporto giuridico creato dal contratto (art. 1388 c.c.). La

ratio dell'interpretazione suddetta cessa, come ha notato Oass.

2449 del 1982, dove non è possibile ritenere l'esistenza — in sede

di stipulazione del contratto soggetto a registrazione — di due

parti con funzioni distinte, o meglio di due soggetti che compon

gono in maniera diversa la nozione di parte contrattuale (come centro degli interessi regolati dal contratto e termine di riferimen

to soggettivo dei suoi effetti), in quanto non è possibile ritenere

una distinzione fra rappresentante e rappresentato che dia luogo ad un rapporto intersoggettivo fra i suddetti.

È evidente, come ha sottolineato la difesa dello Stato nella

discussione orale, che esiste un riapparto intersoggettivo fra la

persona giuridica e la persona fisica per mezzo della quale la

prima entra in relazioni giuridiche con i terzi; ma tale rapporto

riguarda il momento diverso dell'investitura dell'ufficio (termine

usato, per esempio, dall'art. 2385 c.c.); ufficio che è basato su un

rapporto di gestione equiparato al mandato <(airt. 2392 ex:.), ma in

realtà avente un più ampio e diverso contenuto (cfr., in motiva

zione, da ultimo Cass. 11 aprile 1983, n. 2542, id., 1983, I, 1244).

Con riguardo agli amministratori di società con personalità

giuridica, nel momento della dichiarazione negoziale (che è l'uni

co che interessa ai fini dell'imposta) non esiste la caratteristica della rappresentanza consistente nella sostituzione dell'attività

giuridica compiuta in nome altrui, e cioè la distinzione fra

attività giuridica (imputata all'agente) ed effetti della medesima

(imputati alla società interessata), (perché la persona giuridica deve necessariamente agire attraverso quelli che la legge stessa chiama i suoi organi e risente nella sua sfera giuridica gli effetti di

un'attività che è sua ed è quindi imputabile solo ad essa e non al

suo agente. La difesa dello Stato, nella discussione orale, ha osservato

che non può farsi ricorso alla nozione di « organo » che sarebbe stato sconosciuto al legislatore del 1923, per cui bisognerebbe

operare con gli strumenti giuridici che sarebbero stati tenuti

presenti in quella norma. L'obiezione non coglie nel segno, sia

perché basata su una premessa indimostrata, sia perché, comun

que, l'interpretazione della legge deve, nel tempo, essere coordina ta col sistema, attraverso il metodo dell'integrazione dall'interno dell'ordinamento nel suo complesso. Solo tale metodo permette di valutare le influenze, su una vecchia legge, delle nuove leggi che con essa -si coordinano e la ripercussione che i nuovi istituti o le nuove interpretazioni di altre norme possono avere su una norma che è rimasta immutata quanto alla lettera, ma solo all'apparenza. Invero, tale « lettera si interpreta secondo l'intenzione del legisla tore, intesa come ratio desunta dal complesso dell'ordinamento -in evoluzione in cui essa si inserisce » (Oass. 9 luglio 1975, n. 2694, id., Rep. 1975, voce Legge, n. 46).

L'art. 2384 c.c. fa ricorso impropriamente allo schema della « rappresentanza » per indicare l'organo della persona giuridica che istituisce relazioni con i terzi, e cioè l'organo esterno che ne manifesta la volontà. Tuttavia, la diversità di disciplina, rispetto alla rappresentanza tipica di cui agli art. 1388 ss. c.c., è stata già posta in luce dalla citata sentenza n. 2449; e deve pertanto ribadirsi che l'ordinamento delle società con personalità giuridica è regolato in modo da attribuire all'amministratore-rappresentante le caratteristiche dell'organò, con esclusione dei connotati del

rapporto intersoggettivo della rappresentanza volontaria ordinaria.

Con riferimento all'art. 93, ti. 1, della legge di registro del 1923, in conclusione, « parte contraente » è soltanto la società, non potendosi distinguere, accanto ad essa, una parte « formale »

partecipante all'atto come soggetto di imputazioni giuridiche di atti, diverso dalla parte sostanziale titolare del rapporto contrat tuale.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione I civile; sentenza 26 giugno 1984, n. 3709; Pres. Zappulli, Est. R. Sgroi, P. M. Valente

(conci, conf.); Ceppo (Avv. Zema) c. Silenzi (Avv. Ferri). Cassa App. Roma 16 novembre 1981.

Successione ereditaria — Figli adulterini — Dichiarazione giudi ziale di paternità naturale — Diritto a partecipare alla succes sione del genitore naturale apertasi prima della riforma del

diritto di famiglia (L. 19 maggio 1975 n. 151, riforma del diritto di famiglia, art. 232).

Successione ereditaria — Figli adulterini — Dichiarazione giudi ziale di paternità naturale — Anteriore attribuzione di assegno vitalizio — Preclusione di altri diritti successori — Insussisten

za (Cod. civ. del 1865, art. 752; cod. civ. del 1942, art. 580,

594).

Il figlio adulterino, che abbia ottenuto la dichiarazione giudiziale di paternità dopo l'entrata in vigore della riforma del diritto di

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

famiglia, ha diritto a partecipare alla successione del genitore naturale apertasi prima di quella data. (1)

Il diritto del figlio adulterino, che abbia ottenuto dichiarazione

giudiziale di paternità, di partecipare alla successione del geni tore naturale apertasi prima della riforma del diritto di famiglia non è precluso dal previo conseguimento, con sentenza passata in giudicato o con transazione, dell'assegno vitalizio di cui agli art. 580 e 594 c.c. (2)

Svolgimento del processo. — Con citazione 10 giugno 1977

Emma Betti in Ceppo esponeva di essere nata a Roma il 21

luglio 1935 dalla relazione adulterina di Annibale Prosperini Merlini di Bonsciano con Assunta Betti, come risultava dalla

sentenza 10 aprile 1939 della Corte d'appello di Perugia con la

quale le era stato riconosciuto il diritto agli alimenti, quale figlia naturale non riconoscibile dal Prosperini, all'epoca coniugato con

Brizi Elvira; che le nuove norme della 1. 19 maggio 1975 n. 151

le consentivano di ottenere il riconoscimento giudiziale del suo

status, con tutte le conseguenze in ordine ai diritti successori; che nel frattempo — nel 1937 — era deceduto il Prosperini {ed era poi deceduta anche la Brizi) ed unica erede testamentaria era Maria Luisa Silenzi; che con decreto del 27 gennaio 1977 il Tribunale di Roma aveva dichiarato l'ammissibilità dell'azione di dichiarazione giudiziale di paternità che intendeva proporre. Ciò premesso, la Ceppo conveniva la Silenzi dinanzi al Tribunale di Roma chiedendo che fosse dichiarato che essa era figlia naturale del Prosperini e di Assunta Betti; che fosse annullato o

revocato il testamento redatto a suo tempo dal Prosperini; o,

comunque, che le fosse attribuito quanto le spettava per legge, quale figlia naturale del de cuius.

La Silenzi si costituiva ed eccepiva l'infondatezza dell'azione di

dichiarazione giudiziale di paternità, in quanto non provata; nonché l'infondatezza dell'azione relativa ai diritti successori; sia

a norma dell'art. 230, 3° comma, 1. n. 151/75, sia ai sensi degli art. 533 e 1158 c.c. (e cioè perché essa Silenzi aveva comunque

usucapito d beni ereditari). Con sentenza 16 ottobre 1979 l'adito tribunale dichiarava la

(1-2) Per capovolgere la soluzione di diritto intertemporale cui era approdata Cass. 18 marzo 1981, n. 1584, Foro it., Rep. 1981, voce Successione ereditaria, n. 43 (annotata adesivamente da F. Arrivas, in Dir. famiglia, 1981, 994, diversa, e più vicina alla sentenza ora cassata, la traiettoria di App. Napoli 19 giugno 1982, Foro it., Rep. 1983, voce Filiazione, n. 42, in extenso in Dir. e giur., 1983, 132, con inota critioa di A. Fiorito, Effetti successori della dichiarazione giudiziale di paternità e diritto transitorio, la quale si era valsa dell'art. 277 c.c. per equiparare, anche in sede di diritto transitorio, il riconoscimento ex art. 230 1. 151/75 alla dichiarazione giudiziale di paternità), la pronunzia qui riportata ne smonta pezzo a pezzo l'argo mentazione. La certosina opera di demolizione (cui si sposa la confutazione deH'incongruità denunziata da G. Gabrielli, in Commenta rio alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Oppo, Carraro e Trabucchi, Padova, 1976, li, 40) fa tesoro della critica di A. Finocchiaro, Sussiste il diritto del figlio la cui filiazione sia stata giudizialmente dichiarata dopo l'entrata in vigore del codice civile del 1942 non ancora riformato?, in Giust. civ., 1981, I, 2040, che cosi riassumeva il suo dissenso: « a) la retroattività degli effetti del riconoscimento (o della dichiarazione giudiziale) è un principio di carattere generale che discende dalla natura dichiarativa del riconosci mento (o della dichiarazione); b) tale retroattività può essere esclusa solo sulla base di espresse disposizioni limitative o di disposizioni estensivamente ikiterpretabild come limitative, nella specie non sussisten ti; c) tale retroattività non contrasta con il principio tempus regit actum vigente in materia successoria; d) il principio contenuto nell'art. 230 non è idoneo a fondare la irretroattività degli effetti del riconoscimento (o della dichiarazione) avvenuto dopo il 20 settembre 1975, trattandosi di disposizione che reca eccezioni al principio della generale retroattività non applicabili alla fattispecie; e) l'esclusione della retroattività ai fini delle successioni apertesi prima del 20 settembre 1975 dà luogo ad un'interpretazione sospetta di incostituzio nalità in riferimento all'art. 3 Cost, ed in relazione all'art. 237 1.

151/75 ». Di suo, la corte aggiunge qualche argomento di margine; e, soprattutto, denunzia — a mo' d'inconveniente cui porterebbe l'esito contrastato — l'ipotizzabile disparità di trattamento a danno del figlio concepito prima del 20 settembre 1975 ma dopo la pubblicazione della

legge sulla Gazzetta ufficiale (non è molto: ma, si sa, in discesa tutti d santi aiutano ...).

Quanto alla seconda massima — una volta distinguished on its facts, Cass. 29 novembre 1983, n. 7158, Foro it., Rep. 1983, voce cit., n. 46 — non constano precedenti speoifici (in dottrina v., comunque, G.

Marinaro, Àmbito di operatività della normativa di cui agli art. 580 e 584 c.c., in tema di assegno successorio, in Rass. dir. civ., 1981, 428, 439). Sulla matura di legato ex lege riconosciuta all'assegno vitalizio

spettante ai figli naturali non riconoscibili, v., in generale, L. Mengoni, Successione legittima3, in Trattato già diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1983, 115 ss., e G. Cattaneo, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 5, Torino, 1982, 429 ss.

Il Foro Italiano — 1984 — Parte I-l38.

Emma Betti Ceppo figlia naturale di Annibale Prosperini Merlini; dichiarava inammissibile il capo di domanda concernente i diritti

successori; condannava la convenuta al pagamento della metà

delle spese del giudizio. La Betti proponeva appello, insistendo nella domanda di revoca

del testamento ed in quella subordinata di riduzione delle dispo sizioni testamentarie a suo favore, quale figlia naturale del de

cuius.

La Silenzi resisteva all'appello e proponeva a sua volta appello incidentale in ordine al capo concernente la dichiarazione di

paternità naturale.

Con sentenza 16 novembre 1981 la Corte d'appello di Roma

rigettava gli appelli e confermava la sentenza di primo grado,

compensando tra le parti le spese del giudizio di secondo grado. Il punto relativo alla conferma della dichiarazione giudiziale di

paternità naturale non è oggetto di ricorso per cassazione; quanto alle domande aventi ad oggetti 'diritti successori, la corte d'appel lo osservava che il riconoscimento della Betti, essendosi realizzato

soltanto in virtù delle nuove norme di cui alla 1. 19 maggio 1975 n. 151, poteva esercitare la sua efficacia sulla successione del

defunto Prosperini, apertasi nel 1937, non in modo ampio, ma nei

limiti consentiti dall'art. 230 1. del 1975, secondo cui i diritti

successori del figlio successivamente riconosciuto sono esercitabili,

purché non siano stati esclusi con sentenza passata in giudicato o

definiti con convenzioni fra le parti interessate o non siano

trascorsi tre anni dall'apertura della successione senza che il figlio stesso abbia fatto valere alcuna ragione ereditaria sui beni della

successione.

Osservava la corte d'appello che l'atto del 1° febbraio 1954

(intervenuto fra la madre della attrice quale esercente la patria potestà sulla medesima e la Silenzi) con il quale era stata conclusa una transazione in ordine all'assegno vitalizio spettante alla Betti (figlia naturale non riconoscibile) sull'eredità del defun to Prosperini, concerneva un assegno di natura successoria e non alimentare, come era previsto dall'art. 752 c.c. del 1865 e dagli art. 580 e 594 c.c. del 1942. Pertanto, si era realizzata la seconda condizione provista dall'art. 230 1. del 1975 come ostativa all'esercizio dei diritti successori da parte del figlio riconosciu to. Inoltre, secondo la corte d'appello operava anche l'altra condizione ostativa prevista dal citato art. 230, non avendo la Betti fatto valere le proprie ragioni successorie nel triennio dalla data di apertura della successione del defunto Prosperini.

Avverso la suddetta sentenza la Ceppo ha proposto ricorso per cassazione, illustrato con memoria; la Silenzi ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria.

Motivi della decisione. — Con il primo motivo, la Ceppo deduce la violazione degli art. 687 e 261 c.c. la falsa applicazione dell'art. 230 1. 10 maggio 1975 n. 151, in relazione all'art. 580

c.c., difetto e contraddittorietà di motivazione, nella parte in cui la sentenza d'appello ha ritenuto precluso ogni esercizio di diritti

ereditari, da parte di essa ricorrente, osservando che l'art. 230

cit., per il suo carattere eccezionale, non può applicarsi oltre i

casi espressamente ivi considerati e quindi non poteva riguardare la transazione invocata ex adverso (la quale aveva avuto per oggetto soltanto il quantum dell'assegno alimentare che le spetta va quale figlia non riconoscibile, all'epoca), in quanto tale con

venzione era ben lungi dall'aver definito, in quel tempo, diritti

successori neppure concepibili per la legge allora vigente.

Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli art. 687, 261 c.c., 230 1. 10 maggio 1975 n. 151, in relazione all'art. 364 c.p.c. e difetto di motivazione (art. 360, nn. 3 e 5,

c.p.c.) nella parte in cui la corte d'appello ha ritenuto preclusa l'azione ereditaria, per preteso inutile decorso del triennio dall'a

pertura della successione paterna; infatti, l'eccezione dell'inutile decorso del triennio, già prospettata dalla controparte in primo grado, non era stata accolta dal tribunale e non era stata

espressamente riproposta in appello, per cui doveva considerarsi

rinunciata. Comunque, proprio dagli atti della controparte risulta

va che la legale rappresentante del tempo della Ceppo aveva

impugnato il testamento del 1" novembre 1937, rivendicando la

legittimità di un precedente testamento.

D'altra parte (osserva la ricorrente) non poteva ritenersi che la

Ceppo non avesse agito sin da allora, in quanto la qualifica di

figlia naturale del de cuius era sopravvenuta solo nel 1979.

I motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono fondati, nei

limiti che si diranno. Sia la sentenza impugnata, sia le parti si

sono indugiate su una norma, quale è quella dell'art. 230, 3°

comma, 1. n. 151/75, che non ha invece diretta attinenza con la

specie di causa. L'art. 230 citato consta di tre comma: col 1°

si statuisce che le disposizioni della legge relative al riconosci

mento dei figli naturali si applicano ai figli nati o concepiti prima della sua entrata in vigore. È evidente che il suddetto 1° comma

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2163 PARTE PRIMA 2164

non si doveva applicare alla causa promossa dalla Betti, con

riguardo al punto che è ormai passato in giudicato (dichiarazione giudiziale di paternità naturale della Betti Emma, nei confronti del Prosperini Meritai), perché era direttamente applicabile il

successivo art. 232, che regola appunto l'azione di dichiarazione

giudiziale di paternità. Il 2° comma dell'art. 230 dispone: « il riconoscimento di figli

naturali compiuto prima di tale data fuori del caso in cui era ammesso secondo le leggi anteriori, non può essere annullato, se al momento in cui fu fatto concorrevano le condizioni per cui sarebbe ammissibile secondo le disposizioni della presente legge ».

Il 3° comma sancisce la valenza del riconoscimento predetto (e cioè di quello che sarebbe stato annullabile, secondo la legge anteriore, ma non può più essere annullato, come dispone il 2°

comma) anche agli effetti delle successioni aperte prima dell'en trata in vigore della legge, salvi i tre casi ivi eccettuati. Il 3° comma non regola affatto né il riconoscimento, che sia effettuato

dopo il 20 settembre 1075, di figli nati o concepiti prima della suddetta data; né, tanto meno, la dichiarazione giudiziale di

paternità naturale riguardo ai figli nati o concepiti prima del 20

settembre 1975, ma si preoccupa di completare la disciplina del 2° comma (come risulta anche dall'espressione letterale: «tale

riconoscimento ») e cioè le conseguenze di quella convalidazione

dei riconoscimenti, annullabili secondo le leggi anteriori, che non

possono più essere annullati.

Una disposizione simile '(salva una diversità formale nella seconda ipotesi di eccezione di cui al 3° comma) fu dettata con l'art. 122 disp. trans, c.c. del 1942 e la giurisprudenza di questa corte (sent. 14 luglio 1955, n. 2234, Foro it., Rep. 1955, voce

Successione, n. 218) ha interpretato il 3° comma suddetto come inteso a stabilire i limiti della retroattività della norma concernente la validità del riconoscimento dei figli naturali,

compiuto anteriormente al 1° luglio 1939 fuori dei casi in cui era ammesso secondo le leggi anteriori, ma in concorso delle condi zioni per cui sarebbe stato ammissibile secondo il codice del 1942. Anche la dottrina, sia con riguardo all'art. 122 dip. trans, c.c. del 1942, sia con riguardo all'art. 230 1. n. 151/75, ha costantemente affermato che il 3° comma si riferisce soltanto agli effetti dei riconoscimenti anteriori invalidi regolati dal 2° comma, e la medesima interpretazione è contenuta nelle sentenze di

questa corte del 18 marzo 1981, n. 1584 (id., Rep. 1981, voce

cit., n. 43, in motivazione), del 3 giugno l'978, n. 2782 (id., 1978, I, 1893) e dell'® febbraio 1082, n. 731 (id., Rep. 1082, voce

Filiazione, n. 45), per cui non appare necessario insistere nel motivare una interpretazione idei tutto 'pacifica, dalla quale si è di

scostata — senza portare alcun argomento in contrario — la

sentenza impugnata, deve concludersi, quindi, che nella specie non si trattava affatto di « convalidare » un riconoscimento della

figlia naturale adulterina (Emma Betti) compiuto dal padre natu rale prima del 20 settembre 1975, ma si trattava (in assenza di un qualsiasi riconoscimento anteriore) di un'azione di dichiara zione giudiziale di paternità divenuta proponibile soltanto a

decorrere dal 20 settembre 1975, per cui non era applicabile affatto l'art. 230 1. n. 151, in nessuna delle sue disposizioni, ma

soltanto l'art. 232 e le altre norme ricavabili dal sistema sulla successione della legge nel tempo.

Invero l'art. 232 ha sancito soltanto che le disposizioni della 1. n. 151 relative all'azione per la dichiarazione giudiziale di pater nità e maternità, nonché alle azioni previste dall'art. 279 c.c. si

applicano anche ai figli nati o concepiti prima del 20 settembre 1975. Infatti, la corte d'appello (e sul punto non esiste censura,

perché la Silenzi non ha proposto ricorso) ha esattamente ritenu to che la Betti Emma potesse ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità, sebbene nata in un'epoca in cui tale dichiarazione, secondo la legge anteriore, non sarebbe stata ammessa. L'art. 232

non detta disposizioni specifiche in ordine alle conseguenze di

diritto successorio derivanti dalla suddetta dichiarazione giudiziale di paternità.

La già citata sentenza di questa sezione (18 marzo 1981, n.

1584) ha ritenuto che il figlio adulterino che abbia ottenuto, a

seguito della dichiarazione giudiziale di paternità, lo status di

figlio naturale dopo l'entrata in vigore della riforma del diritto di

famiglia, non ha diritto di partecipare alla successione del genito re naturale apertasi prima del 20 settembre 1975. È da notare che la corte d'appello ha richiamato la suddetta sentenza, ma poi in effetti non l'ha seguita. Se, infatti, avesse voluto conformarsi in

pieno al suddetto precedente, non avrebbe avuto alcuna necessità di indagare sul punto se si fossero verificate o meno le ipotesi di

deroga alla retroattività di cui al 3° comma dell'art. 230 1. del

1975, ma si sarebbe limitata a stabilire l'irrilevanza della dichia razione giudiziale di paternità su una successione apertasi nel 1937. Invece, la corte d'appello ha ritenuto che il riconoscimento

(sic, nella sentenza) della Betti poteva esercitare la sua efficacia

sulla successione apertasi nel 1937 non in modo ampio, ma nei

limiti consentiti dall'art. 230. Gli errori contenuti nella predetta frase della sentenza impugnata sono evidenti; è stata confusa la

disciplina (che non doveva applicarsi) dei riconoscimenti invalidi

secondo la legge nel tempo in cui furono compiuti; ma validi

secondo la nuova legge, con la disciplina delle dichiarazioni

giudiziali di paternità possibili soltanto con la 1. del 1975.

Tuttavia, se si dovesse seguire il principio affermato da Cass. n.

1584 del 1981 (senza alcun bisogno di indagare sulle ipotesi indicate dal 3° comma dell'art. 230 e cioè in materia del tutto

estranea alla presente causa), si dovrebbe confermare il dispositi vo conforme a legge, correggendo la motivazione in diritto

erronea (art. 384 c.p.c.).

La corte ritiene però che non possa confermarsi l'orientamento

già espresso, perché le argomentazioni che lo sorreggono si

devono tutte confutare.

a) La sentenza n. 1584 ha distinto l'ipotesi nella quale il

riconoscimento (o la dichiarazione giudiziale) si verifica nel

vigore della stessa legge applicabile al momento dell'apertura della successione dall'ipotesi in cui il riconoscimento (o la dichia

razione giudiziale) si realizza quando uno ius superveniens ha

modificato la legge vigente all'epoca dell'apertura della successio

ne. Nel primo caso vi sarebbe piena retroattività anche ai fini

successori; nella seconda ipotesi, si deve applicare il principio,

rispettato anche dalla riforma del 1975, secondo cui ciascuna

successione è regolata dalla legge vigente al momento in cui è

aperta. Inoltre, va considerato ohe la libertà di testare presuppo ne che il testatore sia in grado di conoscere, prima di morire, il

regime applicabile alla sua successione.

In contrario, il collegio osserva che il problema si pone nello

stesso modo nelle due ipotesi e che su esso non ha affatto

influenza il principio secondo cui la successione è regolata dalla

legge del tempo in cui la successione si apre, perché detto

principio è rispettato anche accogliendo la tesi opposta, rispetto a

quella già enunciata.

È evidente, in primo luogo, che il problema si pone in

dipendenza della pacifica natura dichiarativa della sentenza di

dichiarazione giudiziale di paternità naturale (Cass. 20 maggio

1961, n. 1196, id., 1962, I, 756; Cass. n. 1584, cit.); il che però

comporta che gli effetti retroattivi di tale status al momento della

nascita non hanno nulla a che vedere col preteso effetto retroat

tivo delle nuove disposizioni sui diritti successori del figlio naturale. Questi saranno sempre regolati dalla legge vigente al

momento della apertura della successione, perché le due questioni si svolgono su piani (anche temporali) diversi.

Una volta stabilito il rapporto di filiazione, con effetti retroatti

vi fino alla nascita, il figlio concorrerà alla successione secondo la

legge del tempo in cui la successione è aperta. Nella specie,

secondo le norme del codice civile del 1865, essendosi la succes

sione aperta nel 1937, per cui — per esempio — non si poteva

applicare l'art. 539 c.c. 1942 (né tanto meno, l'art. 537 del testo

riformato dalla 1. n. 151/75), ma l'art. 816 c.c. 1865.

La qualità dei successibili, invero, non è determinata dalle

norme sulla successione, perché non sono esse che stabiliscono chi

sono i figli « legittimi » ed i figli « naturali ». Le norme sulla

successione si limitano a recepire le suddette qualifiche, per

trarne le conseguenze in materia successoria. Dare retroattività

alle norme sulla filiazione non significa affatto conferire retroatti

vità alle norme sulla successione.

Per le stesse ragioni si confuta l'argomento basato sulle libertà

del testatore, che ha il diritto di conoscere — prima di morire —

il regime applicabile alla sua successione; infatti, si applicheranno

sempre le norme sulla successione vigenti al momento della sua

morte, e quindi note al successore, che può tenerne conto ai fini

testamentari, mentre gli effetti derivanti dagli status familiari su

tali norme si verificano per il carattere recettizio del rinvio che la

legge successoria compie agli istituti di diritto familiare, per

determinare le categorie di successibili ed i loro diritti di succes

sione. È evidente che, trattandosi di istituti di carattere inderoga

bile e sempre prevalenti sulla volontà privata, questa non può

costituire un limite alla retroattività delle norme che regolano gli

status familiari, ove il legislatore abbia voluto sancire tale retroat

tività. Se, in sostanza, il legislatore ritenga, nella sua discreziona

lità, di conferire efficacia retroattiva a nuove norme sugli status

familiari, un limite alla suddetta efficacia agli effetti successori

non può operare in difetto di una espressa statuizione in tal

senso (come avviene, per esempio, nel caso del 3° comma dell'art.

230 1. n. 151). Il limite non può ritenersi derivare, invece, dal

principio secondo cui le successioni sono regolate dalla legge del

tempo della loro apertura, appunto perché tale principio non

viene scalfito, ma si opera soltanto il rinvio — che le norme

successorie dell'epoca della apertura della successione contengono

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

— agli istituti di diritto familiare, quali sono regolati, con effetto

retro-attivo, dalle nuove norme sugli status.

b) La sentenza n. 1584 del 1981 ha argomentato dalla norma del 3° comma dell'art. 230 — riferita all'ipotesi regolata dal 2°

comma, e cioè del figlio non riconoscibile che aveva ottenuto un riconoscimento (sia pure invalidabile) nel vigore della stessa legge applicabile al momento dell'apertura della successione — osser vando che la legge, da un lato, ha derogato al principio tempus regit actum in modo espresso e, dall'altro, ha limitato tale deroga ai casi in cui la situazione non doveva ritenersi esaurita per una delle tre condizioni previste dal 3° comma dell'art. 230. Ha ritenuto poi che la deroga al prinoipio tempus regit actum

riguarda un'ipotesi che è potiore rispetto a quell'altra del ricono scimento avvenuto dopo il sopravvenire della nuova normativa, per cui deve escludersi che il legislatore abbia voluto, in questo secondo caso, riconoscere una situazione giuridica migliore, dero

gando senza alcun limite al principio generale secondo cui ciascuna successione è regolata dalla legge vigente al momento in cui essa si è aperta.

Il collegio osserva, in contrario, che il 3° comma dell'art. 230 enuncia il prinoipio della retroattività (con riguardo all'ipotesi regolata al 2° comma) non in via eccezionale, ma soltanto per ragioni di tecnica legislativa, e cioè perché (dovendo enunciare delle espresse deroghe a tale principio) è ovvio che la elencazione delle tre tassative deroghe doveva essere preceduta dalla indica zione della norma derogata. D'altra parte, non si vede perché l'ipotesi del figlio « invalidamente » riconosciuto secondo le leggi anteriori debba considerarsi potiore rispetto a quella del figlio non riconoscibile secondo le stesse leggi e non riconosciuto. Si tratta di ipotesi « diverse » da coordinare con i principi dell'inva lidazione.

Questa non può più essere pronunciata, dato il sopravvenire della più ampia nuova normativa sulla filiazione naturale; ma, poiché l'atto invalido a suo tempo compiuto poteva aver prodotto degli effetti, è sorta l'esigenza di disciplinare la sorte di tali effetti ai fini successori.

Per converso, il legislatore non aveva alcuna possibilità di sancire delle limitazioni al principio della retroattività, nel caso in cui non vi fosse stato alcun riconoscimento (sia pure invalido) sotto il vigore della legge anteriore; perché in tal caso non si

poteva produrre alcun effetto, dato che i diritti successori del

figlio naturale, derivanti da una filiazione non riconoscibile se condo la legge anteriore e non riconosciuta, non potevano neppu re esistere, e quindi non potevano essere esercitati.

In altri termini: per le ipotesi regolate dal 1° comma dell'art. 230 e dall'art. 232 il legislatore del 1975 non aveva alcuna necessità di sancire espressamente la retroattività agli effetti successori del riconoscimento o della dichiarazione giudiziale di

paternità, intervenuti dopo il 20 settembre 1975, relativamente a

figli nati o concepiti prima di tale data, perché non poteva, contemporaneamente, sancire le limitazioni indicate dall'art. 230, 3° comma, che in tale ipotesi non avrebbero avuto alcun senso. La mancanza anteriore dello status di figlio naturale (neppure derivante da un riconoscimento invalido) impediva la concreta realizzabilità delle ipotesi regolate dal 3° comma dell'art. 230.

Concludendo su questo punto: con riguardo ai figli nati e

concepiti prima dell'entrata in vigore della 1. n. 151, la retroatti

vità di questa non comporta una situazione migliore, agli effetti

successori, di quella goduta dai figli invalidamente riconosciuti a

tenore della legge anteriore.

Infatti, in entrambi i casi vi è piena retroattività agli effetti dei diritti di successione, ma la legge ha ritenuto che nel secondo caso dovessero essere regolati gli effetti « provvisori » dell'atto

invalido già verificatisi a suo tempo: effetti che, invece, non

potevano verificarsi in radice a favore del figlio non riconosciibile e non riconosciuto (invalidamente).

c) L'art. 98, 2° comma, disp. trans, del libro primo del codice

civile, approvato con r.d. 24 aprile 1939 n. 640 precisava che nemmeno nella nuova ipotesi di pronuncia giudiziale di filiazione naturale per intenzione scritta del genitore, l'azione aveva effetto sulla successione del genitore stesso e quindi riaffermava il

principio generale tempus regit actum (secondo la sentenza n.

1584/81). Si osserva, in contrario, che il 2° comma del cit. art. 98 si

inseriva in un contesto (quello del 3° comma, poi trasfuso

nell'art. 123 disp. trans, c.c. del 1942 approvate con r.d. 30 marzo

1942 n. 318) che sanciva il principio opposto a quello contenuto nell'art. 232 1. n. 151/75 (tanto che è stato dichiarato incostitu zionale con sent. n. 7 del 1963 della Corte cost., id., 1963, I, 471). Si spiega, perciò, perché nel caso particolare previsto dal 2° comma dell'art. 98 cit. (su cui v. Cass. 6 maggio 1944, n. 344,

id., Rep. 1943-45, voce Filiazione, n. 57) si escludevano gli effetti

successori. D'altra parte, proprio l'esclusione espressa degli effetti

successori non è la conferma di un principio generale, ma un effetto che poteva derivare soltanto da una norma di deroga al

principio degli effetti retroattivi della dichiarazione giudiziale di

paternità, che è un principio di carattere generale che può essere

derogato soltanto sulla base di disposizioni limitative (come

quelle dell'art. 98, 2° comma, r.d. 24 aprile 1939 n. 640, dell'art.

122, 3° comma, r.d. 30 marzo 1942 n. 318, dell'art. 230, 3°

comma, 1. n. 151/75, che non si applicano alla fattispecie).

d) L'art. 237 1. n. 151 dispone che gli art. 580 e 594 c.c. si

applicano anche alle successioni apertesi prima dell'entrata in

vigore della legge, se i diritti dei figli naturali non riconoscibili non sono stati definiti con sentenza passata in giudicato o mediante convenzione, quindi, se si ritenesse di dover seguire l'interpretazione della sent. n. 1584 del 1981, il figlio adulterino riconosciuto o dichiarato dopo il 20 settembre 1975 (ma nato o

concepito prima), oltre a non poter concorrere alla successione

apertasi prima della suddetta data, si troverebbe in condizione

peggiore rispetto alla prole non riconoscibile. L'irrazionale dispa rità di trattamento sarebbe evidente, mentre è evitata dalla diversa tesi della piena retroattività, agli effetti successori, del riconoscimento o della dichiarazione di paternità o maternità

regolati dal 1° comma dell'art. 230 e dall'art. 232 1. n. 151.

e) Si deve, peraltro, valutare se per ragioni in parte diverse da

quelle ritenute dalla corte di Roma, nella specie la Betti Emma non potrebbe azionare i diritti successori sull'eredità del padre morto nel 1937, perché — come risulta dalla sentenza — nel 1954 fu stipulta a suo nome una convenzione sull'assegno vitali zio previsto dall'art. 752 c.c. 1865 e dall'art. 580 c.c. vigente.

Infatti tale assegno ha natura non di assegno alimentare, ma di legato ex lege {Cass. 30 maggio 1939, n. 1842, id., 1939, I, 1270; 7 luglio 1941, n. 2052, id., Rep. 1941, voce Successio

ne, n. 75, per il c.c. 1865; e, per il c.c. 1942, Cass. 20 novembre 1952, n. 3073, id., 1953, I, 6; 3 marzo 1955, n. 622, id., 1955, I, 465; 19 gennaio 1961, n. 76, id., 1961, 1, 9; 2 agosto 1957, n. 3281, id., Rep. 1957, voce cit., n. 171; 21 ottobre 1954, n. 3957, id., Rep. 1954, voce cit., n. 129); e quindi appartiene a « diritti successori », contrariamente a quel che sostiene la ricor rente.

Recentemente, Cass. 29 novembre 1983, n. 7158 (id., Rep. 1983, voce Successione ereditaria, n. 46) ha affermato che, una volta che sulla base di una declaratoria incidentale di filiazione naturale, l'interessato abbia chiesto ed ottenuto soltanto l'attribu zione di un assegno vitalizio, egli ha consumato l'azione diretta alla soddisfazione delle sue pretese sull'eredità. Infatti, ciò non

preclude l'eventuale successivo esercizio dell'azione {ove ne ricor rano i presupposti) per fare affermare in via principale il

rapporto di filiazione naturale, ma da questa dichiarazione, sia

pure ottenuta principaliter, non possono discendere conseguenze diverse in ordine alle pretese ereditarie già soddisfatte.

Il collegio rileva, a prescindere dal riesame completo dei suddetti principi, che essi comunque non possono applicarsi alla

presente fattispecie. Infatti, il caso deciso da Cass. n. 7158

riguarda l'ipotesi di un'azione {volta alla determinazione dell'as

segno vitalizio) pendente dopo il 20 settembre 1975, e cioè il caso del figlio naturale che, anziché avvalersi delle nuove disposizioni a lui più favorevoli, che già avrebbero consentito di ottenere la declaratoria di filiazione naturale a tutti gli effetti, ha preferito limitare il petitum all'assegno vitalizio ex art. 580 e 279 c.c. con ciò precludendosi volontariamente — per propria scelta, derivante dai principi dispositivi del processo — il conseguimento di diritti successori piò ampi implicitamente rinunciati; si supponga che fra le ragioni di tale scelta vi sia, per esempio, l'opponibilità, da

parte degli eredi, dell'usucapione dei beni ereditari, come si dirà

più avanti. Nella presente fattispecie, invece, l'assegno vitalizio, pur di

carattere ereditario, fu ottenuto con la sent, del 10 aprile 1939 sotto il vigore del c.c. 1865 {essendo entrato in vigore il 1° luglio il939 il primo libro del nuovo c.c.) e fu regolato dalla transazione del 1954 (sotto il vigore del c.c. 1942) quando i più ampi diritti ereditari ora attribuiti alla Betti non erano ancora nati, di modo che nessuna preclusione può essere sorta a suo danno, in ordine alla nuova azione che le conferisce la riforma.

Resta salva, l'eccezione di usucapione fatta valere dall'erede e non esaminata dai giudici idi merito, perché assorbita; su di esse dovrà portare la propria attenzione il giudice di rinvio, non

potendo ovviamente esser presa in considerazione in sede di

legittimità, comportando accertamenti di fatto.

f) L'azione di dichiarazione giudiziale di maternità o paternità si fa valere contro gli eredi {art. 276 c.c.) in caso di mancanza del presunto genitore, proprio perché uno dei suoi naturali effetti è quello di carattere successorio. Asserire che, in certi casi, gli eredi possono avere soltanto un interesse morale e non patrimo

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2167 PARTE PRIMA 2168

niale a contraddire è affermazione che va controllata e non resiste alle osservazioni già fatte.

g) Accogliendo la tesi contraria, poiché l'art. 232 1. n. 151/75

riguarda non soltanto i figli nati, ma anche quelli concepiti prima del 20 settembre il975, si potrebbe avere il caso di un figlio

concepito prima di tale data, ma dopo la pubblicazione della

legge (in G. U. 23 maggio 1975, n. 135); nato dopo il 20

settembre 1975 da padre morto fra le due suddette date, e cioè la

cui successione sarebbe regolata dalle disposizioni anteriori (del codice civile del 1942); in tal caso, quel figlio non potrebbe far

conferire alla dichiarazione giudiziale di paternità gli effetti

successori più ampi che le deriverebbero secondo la nuova legge, il che appare assai irrazionale, per il diverso trattamento rispetto al figlio che sia non soltanto nato, ma anche concepito, dopo il

20 settembre 1975 (e la successione del cui padre, necessariamente, saa-ebbe (regolata datile nuove norme). In realtà, la normativa

appare tutta tesa ad attribuire alla prole naturale una tutela pari a quella della prole legittima e perciò non può escludere il diritto

della prole adulterina, ora riconoscibile, a concorrere sempre alle

successioni apertesi prima del 20 settembre 1975, secondo le

norme concernenti i figli naturali (riconosciuti o dichiarati) vigen ti all'epoca dell'apertura della successione.

L'accoglimento dei primi due motivi di ricorso assorbe l'esame

del terzo e del quarto motivo.

La sentenza impugnata va cassata e la causa va rimessa ad

altro giudice, che si designa in altra sezione della Corte d'appello di Roma che provvederà anche sulle spese del giudizio di

cassazione e si adeguerà ai seguenti principi di diritto.

L'art. 230, 3° comma, 1. 19 maggio 1975 n. 151 riguarda soltanto gli effetti successori del riconoscimento invalido di figli naturali compiuto prima del 20 settembre 1975, nelle condizioni

previste dal 2° comma dello stesso art. 230. Il 3° comma predetto non si applica né alle ipotesi del 1° comma, né a quelle dell'art.

232 1. '18 maggio 1975 n. 151.

La dichiarazione giudiziale di paternità naturale, ottenuta dopo il 20 settembre 1975 da un figlio adulterino concepito o nato

prima di tale data, dà diritto di partecipare alla successione del

genitore apertasi prima del 20 settembre 1975, secondo le norme

regolanti i diritti successori dei figli naturali, riconosciuti o

dichiarati, vigenti all'epoca dell'apertura della successione. Tale

diritto sussiste anche se il figlio naturale, anteriormente al 20

settembre 1975, ha ottenuto una sentenza passata in giudicato o

ha stipulato una transazione, aventi per oggetto l'assegno di cui

agli art. 580 e 594 c.c. 1942 (e 752 c.c. 1865), in quanto l'attribuzione anteriore di tale legato ex lege non preclude la

richiesta dei più ampi e diversi diritti conferiti dalle nuove

norme, che possono farsi valere soltanto dopo il 20 settembre

1975.

CORTE DI CASSAZIONE; Sezione lavoro; sentenza 15 giugno 1984, n. 3583; Pres. Brancaccio, Est. Nocella, P. M. Valente

(conci, conf.); Gelati >(Avv. Rizzardi) c. I.n.pjs.; I.n.p.s. (Avv.

Tripputi, Vario, Ausenda) c. Gelati. Cassa App. Bologna, decr.

17 luglio 1979.

Matrimonio — Divorzio — Pensione di riversibilità — Attribu

zione — Natura — Criteri di determinazione (L. 1° agosto 1978 n. 436, norme integrative della 1. 1° dicembre 1970 n. 898, art. 2).

Matrimonio — Divorzio — Pensione di riversibilità — Attribu

zione — Decorrenza (D.l.lgt. 18 gennaio 1945 n. 39, disciplina del trattamento di riversibilità delle pensioni dell'assicurazione

obbligatoria per l'invalidità e la vecchiaia, art. 5; 1. 1° agosto 1978 n. 436, art. 2).

Matrimonio — Divorzio — Pensione di riversibilità — Giudizio — Natura previdenziale — Esclusione — Intervento dell'ente

erogatore del trattamento — Limiti (Cod. proc. civ., art. 432,

433; 1. 1° agosto 1978 n. 436, art. 2).

L'attribuzione diretta della pensione di riversibilità al divorziato si configura come diritto nuovo ed autonomo rispetto all'asse

gno di divorzio, nella cui determinazione l'esercizio della di

screzionalità del giudice non può limitarsi alla semplice valuta

zione dello stato di bisogno e dell'eventuale immodificazione delle condizioni economiche del richiedente, ma deve conside

rare altri e più determinanti elementi di giudizio, anche in

relazione alla natura dei trattamenti pensionistici come oggetto di aspettative fondate sulla pregressa comunanza di vita, utili

parametri di comparazione potendo essere tratti dai criteri

impiegati nella liquidazione dell'assegno di divorzio. (1) L'attribuzione della pensione di riversibilità al divorziato decorre,

in virtù dell'implicito ed univoco richiamo contenuto nella

relativa disciplina alle norme sui trattamenti pensionistici, dal

primo giorno del mese successivo a quello in cui è avvenuto il

decesso dell'assicurato, purché a tale momento sussistano le

condizioni cui è subordinato il diritto del coniuge divorziato, non escludendo pertanto un simile termine di decorrenza mas

sima una decorrenza concreta da data posteriore, anteriore od

anche coincidente con quella di presentazione della doman

da. (2) La presenza nel giudizio di attribuzione al divorziato della

pensione di riversibilità, nel caso in cui manchi un coniuge

superstite, dell'ente erogatore come parte necessaria non si

estende ai problemi connessi alla relativa quantificazione, re

stando estranea all'oggetto di tale giudizio ogni questione strettamente previdenziale (da risolversi eventualmente nelle

sedi competenti con le particolari procedure previste per le

controversie in tale materia). (3)

(1-3) La decisione .in epigrafe presenta diversi motivi di interesse, nonostante la sua apparente conformità ai precedenti cui si richiama

espressamente. Essa, infatti, nel sintetizzare le più recenti acquisizioni giurisprudenziali sul tema dell'attribuzione pensionistica ex art. 9 1. 1°

dicembre 1970 n. 898, come novellato dall'art. 2 1. 1° agosto 1978 n.

436, contiene delle importanti precisazioni e prosegue, quindi, quella

politica dei piccoli passi con cui la Cassazione si avvia a cogliere

pienamente il senso della richiamata disposizione, non mancando di

anticipare, per certi aspetti, la relativa riforma legislativa che si annuncia vicina. Sull'intera problematica cfr., di recente e per ulteriori

riferimenti: Quadri, Le aspettative pensionistiche nella crisi del rap porto coniugale, in Foro it., 1982, I, 2291 ss. e II divorziato e la

pensione di riversibilità: un cammino ancora pieno di incognite, id., 1983, I, 2727 ss. (cui sii rinvia per un più organico svolgimento dei rilievi di seguito accennati); Garlatti, Pensione di riversibilità e

assegno alimentare al coniuge divorziato, in Riv. dir. civ., 1982, I, 601 ss.; D'Antonio, Il divorzio, Padova, 1983, 420 ss., 438 ss., 446 ss. Sulle proposte di riforma legislativa v. le considerazioni, svolte in relazione alla passata legislatura, ma ira gran parte riferibili anche a

quella in corso, data la sostanziale affinità delle attuali e delle

precedenti iniziative legislative, di Barbiera e Quadri, Prospettive di

riforma dei rapporti patrimoniali fra divorziati, in Giur. it., 1982, IV, 184 ss.; per la presente legislatura v., in particolare; art. 5, 6, 10

d.d.l. d'iniziativa del deputato Garavaglia, n. 88, presentata il 12 luglio 1983; art. 1 d.d.l. d'iniziativa dei deputati Bozzi, De Luca ed altri, n.

437, presentata il 13 settembre 1983; art. 1 d.d.l. d'iniziativa dei

senatori Malagodi, Bastianoni ed altri, n. 244, presentato il 20 ottobre

1983; art. 10 d.d.l. d'iniziativa dei senatori Marinucci Mariani, Buffoni ed altri, n. 150, presentato il 15 settembre 1983.

Pienamente valorizzato risulta, innanzitutto, quel « mutamento quali tativo » intervenuto nel sistema con la novella del 1978, la quale, con

l'espressa previsione dell'attribuzione al divorziato della pensione pur in assenza di un coniuge superstite, ha reso incoerente il ragionare ancora in chiave di « trasmissione » di obblighi e di conseguente « distrazione » di somme ad altri dovute (come tende a fare, frainten dendo l'evoluzsionie legislativa, Gass., sez. un., 8 settembre 1983, n.

5521, Foro it., 1983, I, 2727, sulla scia di Cass. 11 aprile 1978, n.

1690, id., 1978, 1, 1373, relativa alla previgente formulazione dell'art.

9; l'espressione « distrazione » è, invero, ancora impiegata dalla sen

tenza in epigrafe, ma in un contesto tale da svuotarla del suo tradizionale significato e, quindi, quale semplice ossequio formale ad una diffusa terminologia).

Il carattere « proprio » del diritto del divorziato ex art. 9 è qui ampiamente sottolineato, in adesione ad una sempre più nutrita

giurisprudenza (Cass. 11 dicembre 1980, n. 6396, id., Rep. 1980, voce

Matrimonio, n. 181, nella motivazione; 8 maggio 1982, n. 2858, id., Rep. 1982, voce oit., n. 178; 28 aprile 1983, n. 2911, id., 1983, I, 2729), mettendo, in particolare, a frutto il rilievo (di Cass. 22 gennaio 1983, n. 652, id., Rep. 1983, voce oit., n. 289) circa l'oggetto dell'attribuzione, consistente in una prestazione di tipo previdenziale (con tutte le conseguenze che, si vedrà, ne possono derivare; e v. espressamente anche Corte conti 29 maggio 1981, n. 47604, id., Rep. 1982, voce Pensione, n. 133, spec, nella motivazione in Cons. Stato, 1981, II, 825, in cui si parla di rapporto pensionistico tra divorziato ed ente erogatore).

Condivisa l'idea (peraltro obiter, dato che il divorziato, in concreto godeva già di un assegno) secondo cui l'attribuzione della pensione può avvenire anche in mancanza dell'anteriore riconoscimento dell'as

segno di divorzio (Cass. 5 febbraio 1979, n. 754, id., 1979, I, 297; 15 novembre 1981, n. 6045, id., 1982, I, 2290; 2911/83, cit.), e superata decisamente la connotazione alimentaristica dell'aittribuzione (per la

quale v. Cass. 18 ottobre 1982, n. 5411, id., Rep. 1982, voce cit., n.

177), sulla scia di Cass. 652/83, va decisamente oltre quest'ultima, negando (anche se non senza cautela) quella identità di natura tra i due fenomeni (ribadita ancora da Cass. 5521/83 e 5886/83), il cui

superamento è, del resto, chiaramente programmato nell'affermazione

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