sezione I civile; sentenza 3 settembre 1996, n. 8048; Pres. Cantillo, Est. Rordorf, P.M.Buonajuto (concl. conf.); Credito emiliano holding (Avv. Irti, Corradi) c. Sinigaglia. ConfermaApp. Bologna 4 aprile 1992Source: Il Foro Italiano, Vol. 119, No. 9 (SETTEMBRE 1996), pp. 2685/2686-2699/2700Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23191576 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Assume il ricorrente che tali disposizioni contrasterebbero con
i principi statutari posti a protezione della minoranza ladina, alla quale si vuole offrire una tutela peculiare attraverso l'art.
56 dello statuto. Le stesse contrasterebbero, altresì, con l'art.
51, 1° comma Cost., in quanto impedirebbero agli appartenenti al gruppo ladino l'accesso alle cariche elettive in condizioni di
parità con tutti gli altri cittadini.
13. - La questione relativa all'art. 2, 5° comma, secondo il
quale «nei comuni con popolazione superiore a 13.000 abitanti
della provincia di Bolzano dove nel consiglio comunale sono
presenti più gruppi linguistici, il vicesindaco deve appartenere al gruppo linguistico maggiore per consistenza escluso quello cui appartiene il sindaco», è infondata.
Il ricorso, infatti, non considera che la disposizione, nell'am
bito del sistema di garanzie sopra illustrato, altro non fa che
tener conto del grado di rappresentatività che è proprio delle
varie componenti etniche. E questo senza escludere, peraltro,
che, nell'elezione del sindaco, possa riuscire eletto, ottenendo
i consensi necessari, anche un esponente del gruppo ladino.
14. - La censura proposta avverso il 6° comma dello stesso
art. 2 è inammissibile. Trattasi della disposizione che, dopo aver previsto — in ciò
rifacendosi all'art. 61, 2° comma, dello statuto — che «nei co
muni della provincia di Bolzano, ciascun gruppo linguistico ha
diritto di essere comunque rappresentato nella giunta, se nel
consiglio comunale vi siano almeno due consiglieri appartenenti al gruppo medesimo», dispone che «il numero dei posti spet tanti a ciascun gruppo linguistico nella giunta viene determinato
includendo nel computo anche il sindaco».
Secondo il ricorrente «qualora l'art. 61, 2° comma, venisse
(peraltro, è da ritenere, illegittimamente) interpretato nel senso
che solo i gruppi linguistici con almeno due consiglieri comuna
li possono essere rappresentati in giunta, il sindaco del gruppo
ladino, eventualmente eletto, si troverebbe in condizione di non
poter far prate della giunta medesima».
La doglianza, invero di non agevole lettura, più che proporre una vera e propria censura nei confronti della disposizione di
cui trattasi, sembra risolversi nella prospettazione, in via mera
mente ipotetica, degli effetti che una delle possibili interpreta zioni dell'art, 61 dello statuto — interpretazione che, peraltro, il ricorrente mostra di non condividere, anzi di ritenere illegitti ma — avrebbe sulla possibilità del sindaco ladino di far parte della giunta.
Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara inammissi
bili le questioni di legittimità costituzionale sollevate con il ri
corso in epigrafe — ai sensi dell'art. 56 dello statuto speciale, in riferimento agli art. 2, 61, 62, 92 e 102 del medesimo statuto
nonché agli art. 2, 3, 6, 48 e 49 Cost. — nei confronti dell'inte
ra legge della regione Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994
n. 3 (elezione diretta del sindaco e modifica del sistema di ele
zione dei consigli comunali nonché modifiche alla 1. reg. 4 gen naio 1993, n. 1);
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzio nale sollevata con il ricorso in epigrafe — ai sensi dell'art. 56
dello statuto speciale, in riferimento agli art. 2 e 102 del mede
simo statuto e 2, 3, 6 e 51 Cost. — nei confronti dell'art. 2, 6° comma, della predetta legge regionale;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale
sollevate:con il ricorso in epigrafe — ai sensi dell'art. 56 dello
statuto speciale, in riferimento agli art. 2, 61, 62, 92 e 102 del
medesimo statuto nonché agli art. 2, 3, 6, 48 e 49 Cost. —
nei confronti degli art. 2, 6° comma, 17, 1° comma, 32, 1°
comma, lett. b), 35, 1° comma, lett. h), e 3° comma, lett. c),
36, 1° comma, lett. h) e 3° comma, lett. c), 65, 1° comma,
della predetta legge regionale; dichiara non fondata là questione di legittimità costituzionale
sollevata con il ricorso in epigrafe — ai sensi dell'art. 56 dello
statuto speciale, in riferimento agli art. 2 e 102 del medesimo
statuto e 2, 3, 6 e 51 Cost. — nei confronti dell'art. 2, 5° com
ma, della predetta legge regionale.
Il Foro Italiano — 1996.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 3 settem
bre 1996, n. 8048; Pres. Cantillo, Est. Rordorf, P.M. Buo
najuto (conci, conf.); Credito emiliano holding (Aw. Irti,
Corradi) c. Sinigaglia. Conferma App. Bologna 4 aprile 1992.
CORTE DI CASSAZIONE;
Società — Società di capitali — Bilancio — Violazione dei pre cetti di chiarezza e precisione — Insufficienza delle informa
zioni fornite ai soci — Illiceità del bilancio — Deliberazione assembleare approvativa — Nullità (Cod. civ., art. 2379, 2423;
d.leg. 9 aprile 1991 n. 127, attuazione delle direttive n.
78/660/Cee e n. 83/349/Cee in materia societaria, relative
ai conti annuali e consolidati, ai sensi dell'art. 1,1° comma, 1. 26 marzo 1990 n. 69).
Società — Società di capitali — Deliberazione assembleare ap
provativa del bilancio — Insufficienza delle informazioni for
nite dal bilancio — Legittimazione ed interesse a proporre
l'impugnazione (Cod. civ., art. 1421, 2379; cod. proc. civ., art. 100).
Società — Società di capitali — Bilancio — Azioni proprie —
Iscrizione — Criteri di valutazione per i titoli azionari in ge nere — Applicabilità (Cod. civ., art. 2357 ter 2425; d.leg. 9 aprile 1991 n. 127).
Società — Società di capitali — Bilancio — Azioni — Iscrizione — Criteri di valutazione — Principio di prudenza — Discre
zionalità degli amministratori — Superamento del limite della
ragionevolezza e difetto di motivazione — Illiceità del bilan
cio — Valutazione del giudice di merito — Insindacabilità
in Cassazione (Cod. civ., art. 2423, 2425, 2429 bis, 2432; d.leg. 9 aprile 1991 n. 127).
Società — Società per azioni — Trasferimento delle azioni —
Clausola di gradimento — Discrezionalità degli organi sociali — Assenza di obbligo di motivare il rifiuto — Impegno della
società a curare il collocamento delle azioni — Nullità della
clausola (Cod. civ., art. 2355; 1. 4 giugno 1985 n. 281, dispo sizioni sull'ordinamento della Commissione nazionale per le
società e la borsa; norme per l'identificazione dei soci delle
società con azioni quotate in borsa e delle società per azioni
esercenti il credito; norme di attuazione delle direttive Cee
79/279, 80/390 e 82/121 in materia di mercato dei valori mo
biliari e disposizioni per la tutela del risparmio, art. 22).
Il bilancio d'esercizio di una società di capitali che sia in con
trasto con i precetti di chiarezza e precisione dettati dall'art.
2423, 2° comma, c.c. (nel testo anteriore alle modificazioni
apportate dal d.leg. n. 127 del 9 aprile 1991) è illecito, ed
è quindi nulla la deliberazione assembleare con cui esso sia
stato approvato, non solo quando la violazione dei suaccen
nati precetti abbia determinato una divaricazione tra il risul
tato effettivo dell'esercizio (o il dato destinato alla rappresen tazione complessiva del valore patrimoniale della società) e
quello indicato in bilancio, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile de
sumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole
invece siano fornite per ciascuna delle singole poste di cui
è richiesta l'iscrizione. (1) L'interesse che legittima il socio ad impugnare per nullità la
deliberazione approvativa di un bilancio redatto in violazione
delle prescrizioni legali non dipende solo dalla frustrazione
dell'aspettativa che il medesimo socio possa avere alla perce zione di un dividendo o, comunque, da un immediato van
taggio patrimoniale che una diversa e più corretta formula zione del bilancio possa eventualmente far sperare; l'interesse
a proporre l'impugnazione può derivare, invece, anche dal
solo fatto che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio non consenta aI socio di avere tutte le informazioni — desti
nate a riflettersi anche sul valore della sua quota di partecipa zione — che il bilancio dovrebbe invece offrirgli, ed alle qua
li, attraverso la declaratoria di nullità e la conseguente neces
saria elaborazione di un nuovo bilancio emendato dai vizi
del precedente, il socio impugnante legittimamente aspira. (2)
(1-2) I. - La Suprema corte torna ad occuparsi di alcuni temi ormai classici in materia di bilancio d'esercizio della società di capitali. In
primo luogo, il tema della rilevanza informativa del bilancio e la con nessa questione dei riflessi che provoca, sulla validità del bilancio me
desimo, la violazione del precetto di chiarezza enunciato dall'art. 2423, 2° comma, c.c. In secondo luogo, il tema della natura dell'interesse da cui dipende la legittimazione ad agire in giudizio per far dichiarare
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2687 PARTE PRIMA 2688
Le azioni proprie che la stessa società emittente conserva in por
tafoglio rappresentano un valore che esiste nel patrimonio so
ciale ed è suscettibile di essere monetizzato, sicché esse deb
bono essere iscritte in bilancio secondo i criteri di valutazione
e, in genere, secondo le regole stabilite dalla legge per qual siasi altro titolo azionario. (3)
la nullità di una deliberazione con la quale l'assemblea abbia approvato un bilancio non rispettoso dei precetti legali.
Sul primo aspetto, la sentenza si segnala per la decisa presa di posi zione in favore dell'autonomia del precetto di chiarezza — la cui rile vanza è fatta discendere dalla centralità della funzione informativa del bilancio e dall'impossibilità che tale funzione venga compiutamente as solta ove quel precetto non sia rispettato — e per la conseguente affer mazione secondo la quale anche un bilancio ipoteticamente vero, nell'e
spressione contabile delle sue poste, è da considerare illecito nel caso in cui quelle poste, e le relative spiegazioni che nelle relazioni di ammi nistratori e sindaci debbono essere fornite, manchino di sufficiente chia rezza e determinino quindi un deficit informativo. È da notare, a tal
proposito, che la Cassazione si è pronunciata su un bilancio redatto in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.leg. 9 aprile 1991 n. 127, con cui è stata recepita la IV direttiva comunitaria sui conti annuali delle società di capitali e sono state apportate non poche modificazioni alla corrispondente disciplina nazionale. Tuttavia, la corte non ha man cato di sottolineare espressamente come l'importanza della funzione in formativa del bilancio, con quel che ne consegue in tema d'illiceità dei bilanci non rispettosi del precetto di chiarezza, appaia ancor più eviden te alla luce della suindicata normativa comunitaria e della nuova rego lamentazione nazionale che da quella è derivata, risultando l'autonomia del menzionato precetto di chiarezza, nel nuovo testo dell'art. 2423, 2° comma, forse ancor più marcata che in precedenza. E si tratta, pro babilmente, di qualcosa di più di un mero obiter dictum, perché tra
gli argomenti addotti a sostegno della propria decisione, la corte ha richiamato proprio la normativa comunitaria (benché non ancora rece
pita nell'ordinamento interno al tempo cui il giudizio si riferisce), rifa cendosi al principio secondo cui il giudice, quando applica disposizioni di diritto nazionale tanto precedenti quanto successive alla direttiva, ha sempre l'obbligo di interpretarle quanto più è possibile alla luce del lo scopo e della lettera della direttiva (principio ripetutamente afferma to dalla Corte di giustizia della Comunità europea: si vedano le decisio ni del 13 novembre 1990, nel caso Marleasing, in Foro it., 1992, IV, 173, con nota di L. Daniele, e 14 luglio 1994, nel caso Faccini Dori, id., 1995, IV, 38, con altra nota di L. Daniele; in termini più generali, sul tema dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, si veda
anche, da ultimo, A. Barone, L'efficacia diretta delle direttive tra cer tezze comunitarie e fraintendimenti nazionali, in nota a Corte giust. 7 marzo 1996, causa 192/94, id., 1996, IV, 358).
L'orientamento seguito dalla sentenza in rassegna ha un immediato antecedente in Cass. 30 marzo 1995, n. 3774, id., Rep. 1995, voce So
cietà, n. 836 (per esteso in Giust. civ., 1995, I, 3021, con nota di V.
Salafia, ed in Società, 1995, 1180, con nota di F. Zuconi). Va però segnalato che quanto ora affermato dalla Suprema corte in tema di autonomia del precetto di chiarezza non era affatto pacifico nella giuris prudenza di legittimità formatasi sotto il vigore della normativa prece dente all'emanazione del citato d.leg. n. 127. Anzi, almeno a partire dalla fine degli anni settanta, è stata di gran lunga prevalente la tesi che tendeva ad accreditare una più o meno esplicita supremazia del
principio di verità del bilancio o che comunque, pur quando attribuiva rilevanza ai difetti di chiarezza, avvertiva la necessità di ravvisare nella relativa violazione anche una qualche compromissione del suaccennato
principio di verità (in tal senso, sia pur con varietà di sfumature: Cass. 2 ottobre 1995, n. 10348, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 816; 25
maggio 1994, n. 5097, ibid., n. 819, ed in Giur. comm., 1994, II, 759, con nota di P. G. Jaeger, Una polemica da seppellire: il principio di chiarezza del bilancio tra «strumentalità» e «autonomia»; 23 marzo 1993, n. 3458, Foro it., 1995, I, 257, con nota di A. Zucco, nonché in Socie
tà, 1993, 1463, con nota di G. Gava, ed in Giur. it., 1994, I, 1, 10, con osservazioni di G. Cottino, Noterelle in tema di diritto di opzione e di invalidità delle delibere assembleari, con una breve appendice sulla
disciplina dei bilanci tra il vecchio e il nuovo regime; 18 marzo 1986, n. 1839, Foro it., 1987, I, 1232; App. Milano 23 luglio 1991, id., Rep. 1992, voce cit., n. 643, e Società, 1992, 49, con nota critica di V. Sala
fia; Trib. Firenze 18 maggio 1993, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n.
683, e Giur. comm., 1993, II, 632, con nota di M. Desario, Il transito
per conto economico dei prelievi dalla riserva «avanzo di fusione»; Trib. Crema 22 gennaio 1993, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 690, e Socie tà, 1993, 1067; e Trib. Napoli 12 gennaio 1989, Foro it., Rep. 1989, voce cit., n. 391, e Giur. comm., 1989, II, 426). Non di rado, peraltro, le affermazioni formulate dalla giurisprudenza, pur nei casi in cui pre stano formale ossequio all'asserita strumentalità del precetto di chiarez za rispetto a quello di verità del bilancio, appaiono dirette soprattutto a sottolineare come la mancanza di chiarezza ed analiticità di singole appostazioni contabili possa incidere sulla validità del bilancio unica
II Foro Italiano — 1996.
La valutazione delle azioni di società ai fini della loro iscrizione
in bilancio, ai sensi dell'art. 2425, 1° comma, n. 4, c.c. (nel testo in vigore prima dell'emanazione del d.leg. n. 127 del
9 aprile 1991), determina l'illiceità del bilancio e la nullità della relativa deliberazione approvativa ogni guai volta gli am
ministratori, nell'esercizio del potere discrezionale loro at
tribuito dalla citata norma, abbiano violato il principio di
mente a condizione che risulti effettivamente messa in dubbio la possi bilità di conoscere la reale situazione patrimoniale ed economica del
l'impresa. In quest'ultimo senso, ed in generale nel senso di una più accentuata rilevanza della funzione informativa del bilancio e del pre cetto di chiarezza che a tale funzione si ricollega, si vedano, oltre a Cass. 3774/95, cit., Cass. 14 marzo 1992, n. 3132, Foro it., Rep. 1992, voce cit., n. 657, e Gìust. civ., 1992, I, 3070, e Giur. it., 1993, I, 1, 108, con nota di G. Mignone; App. Milano 22 ottobre 1993, Foro
it., Rep. 1994, voce cit., n. 763, e Società, 1994, 225, con nota di V.
Salafia; App. Milano 4 dicembre 1992, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 682, e Società, 1993, con nota di P. Balzarini; Trib. Napoli 31 ottobre 1991, Foro it., Rep. 1992, voce cit., n. 612, e Società, 1992, 679, con altra nota di V. Salafia; Trib. Milano 7 marzo 1991, Foro
it., Rep. 1991, voce cit., n. 666, e Società, 1991, 990; Trib. Milano 16 giugno 1988, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 406, e Società, 1988, 1144, con ulteriore nota di V. Salafia; Trib. Genova 5 maggio 1988, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 634, e Società, 1988, 383, con nota di R. Rordorf; Trib. Napoli 3 giugno 1986, Foro it., Rep. 1986, voce
cit., n. 512, e Società, 1986, 1326, con altra nota di R. Rordorf; Trib. Milano 5 gennaio 1981, Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 275, e Giur.
comm., 1981, II, 458, con nota di S. Pansieri, Interesse ad agire, fun zione informativa del bilancio e principio di «chiarezza».
In dottrina, l'autonoma rilevanza del precetto di chiarezza, con la
conseguente illiceità del bilancio non chiaro (ancorché non necessaria mente falso), è sostenuta, oltre che da Jaeger, op. loc. ult. cit., da G. E. Colombo, Il bilancio d'esercizio, in Trattato delle società per azioni diretto da Colombo e Portale, Torino, 1994, 7, 57 ss.; e da R. Ror
dorf, Impugnazione e controlli giudiziari sul bilancio d'esercizio di so cietà di capitali, in Giur. comm., 1994, I, 854 ss.
II. - La giurisprudenza è saldamente orientata a ritenere che la viola zione dei precetti fondamentali posti dal citato art. 2423 a presidio della chiarezza e precisione (nel nuovo testo: chiarezza, verità e correttezza) del bilancio d'esercizio è causa d'illiceità del bilancio medesimo e, quin di, comporta la radicale nullità della deliberazione assembleare che lo abbia approvato; con l'ovvio corollario che tale nullità, ai sensi del l'art. 1421 c.c., può essere fatta valere in qualunque tempo non solo dai soci, ma da chiunque dimostri di avervi interesse, ed è rilevabile anche d'ufficio da parte del giudice. In tal senso, da ultimo, Cass. n.
3132/92, cit., e Trib. Napoli 23 giugno 1995, Foro it., 1995, I, 3324, con note di G. Vidiri e S. Fortunato, cui si rinvia per altri riferimenti sul punto; contra, ma piuttosto isolatamente, Trib. Bologna 17 gennaio 1995 e 7 gennaio 1995, id., Rep. 1995, voce cit., nn. 821, 822, e Socie
tà, 1995, 944 e 1316, con note entrambe critiche, rispettivamente, di P. Balzarini e G. E. Colombo, cui pure si rinvia per ulteriori richiami anche di dottrina.
L'interesse che legittima il socio ad impugnare di nullità la delibera zione approvativa del bilancio — in coerenza con quanto già sopra s'è accennato in ordine alla centralità della funzione informativa del bilan cio medesimo — non viene peraltro inteso dalla giurisprudenza in senso meramente ed immediatamente patrimoniale, potendo quell'interesse in vece attenere anche soltanto alla corretta informazione in ordine alla situazione dell'impresa, la quale, ovviamente, non manca di riflettersi sul valore delle singole partecipazioni; cfr. Cass. 30 marzo 1995, n. 3774, cit.; 14 marzo 1992, n. 3132, cit.; Trib. Milano 10 ottobre 1991, Foro it., 1991, I, 280, e Società, 1992, 673, con nota di R. Ambrosini; e Trib. Milano 11 aprile 1991, Foro it., 1991, I, 3422, con nota G. Vidiri, Vecchio e nuovo in tema di bilanci d'esercizio, nonché in Giur. it., 1991, I, 2, 885, con nota di G. Mignone, All'avanguardia la giuris prudenza di merito sui principi di redazione del bilancio.
È pure ricorrente in giurisprudenza — e trova qualche eco anche nel la sentenza in rassegna — l'affermazione secondo cui la nullità del bi lancio non correttamente redatto dev'essere tuttavia esclusa ogni qual volta l'indicato vizio possa essere sanato mediante ricorso alle notizie ed ai chiarimenti contenuti nelle relazioni degli amministratori e dei
sindaci, e talvolta persino facendo leva sulle spiegazioni rese dagli am ministratori nel corso dell'assemblea e riportate nel relativo verbale: si vedano Cass. 11 marzo 1993, n. 2959, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 721, e Società, 1993, 1202, con nota di F. Liconti; 27 febbraio 1985, n. 1699, Foro it., 1985, I, 2661; App. Milano 4 dicembre 1992, cit.; Trib. Napoli 31 ottobre 1991, cit.; e Trib. Milano 21 dicembre 1987, id., Rep. 1989, voce cit., n. 653, e Giur. comm.., 1988, II, 932. La dottrina si mostra però in prevalenza critica verso tale orientamen to, considerato poco compatibile con la necessità di assicurare al lettore del bilancio la possibilità di rinvenire le informazioni che egli intenda ricercare nel luogo ove è presumibile che esse si trovino: cfr. G. Ca stellano, La relazione degli amministratori al bilancio d'esercizio, in Giur. comm., 1983, I, 336 ss.; P. G. Jaeger, Problemi topici del bilan
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
prudenza, operando una valutazione macroscopicamente ir
ragionevole, oppure non abbiano fornito (né vi abbiano prov veduto i sindaci nella loro relazione) un'adeguata spiegazione dei criteri ai quali detta valutazione si è ispirata; la verifica dell'eventuale violazione dei suaccennati limiti di ragionevo
lezza, così come quella concernente la sufficiente enunciazio
ne dei criteri di valutazione, è rimessa al giudice di merito
e, se adeguatamente motivata, non è censurabile in sede di
legittimità. (4) È insanabilmente nulla, in quanto assolutamente inidonea a pro
durre effetti a norma dell'art. 22 l. n. 281 del 4 giugno 1985,
la clausola di «mero gradimento», inserita nell'atto costituti
vo di una società per azioni, con la quale venga rimesso al
giudizio discrezionale del consiglio di amministrazione, o, in via di reclamo, dell'assemblea, il potere di autorizzare l'alie
nazione delle azioni (e dei diritti di opzione) del socio, senza in alcun modo vincolare l'esercizio di tale potere né a criteri
predeterminati né ad obbligo di motivazione, e con la sola
generica previsione, in caso di rifiuto del gradimento, del
l'impegno della società a curare il collocamento delle medesi
me azioni sul mercato ad un prezzo non inferiore a quello
corrispondente al valore desumibile dai dati di bilancio. (5)
ciò d'esercizio, id., 1986, I, 990 ss.; B. Libonati, L'informazione socie
taria e i documenti contabili, in AA.VV., L'informazione societaria,
Milano, 1982, 1020; G. Pellizzi, L'informazione sul bilancio nella re
lazione degli amministratori, ivi, 1148. Rordorf, Impugnazioni e con
trolli, cit., 863 ss., sottolinea la necessità di considerare la questione anche alla luce dei requisiti della concretezza e dell'attualità dell'inte
resse ad agire di chi abbia impugnato la deliberazione.
(3-4) Sui criteri d'iscrizione in bilancio delle azioni proprie — posse dute cioè dalla stessa società emittente — non constano precedenti nella
giurisprudenza di legittimità. Tra i giudici di merito, una soluzione conforme all'orientamento se
guito dalla Suprema corte nella sentenza in rassegna era stata adottata, oltre che da App. Bologna 4 aprile 1992, Foro it., Rep. 1993, voce
Società, n. 569, e Giur. comm., 1993, II, 621 (la cui decisione è stata
ora confermata dalla Cassazione), anche da App. Milano 5 novembre
1993, Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 769, e Società, 1994, 230, con
nota di P. Balzarini, e da Trib. Milano 10 ottobre 1991, cit. Nel senso
che le azioni proprie possano essere iscritte in bilancio al prezzo di co
sto, assimilandole ad immobilizzazioni finanziarie, salvo l'obbligo di
iscrizione al passivo di un'apposita riserva indisponibile, come prescrit to dall'art. 2357 ter, ultimo comma, c.c., Trib. Milano 14 luglio 1983
(Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 538), e Trib. Vicenza 18 ottobre
1984 (id., Rep. 1985, voce cit., n. 538), entrambe in Giur. comm., 1986,
II, 495, con nota di A. Toffoletto, Le azioni proprie e il bilancio
d'esercizio. Le maggiori incertezze, tuttavia, riguardano la natura di tale riserva.
Parte della dottrina, infatti, la considera una posta meramente corretti
va dell'attivo, cioè destinata soltanto ad elidere gli effetti contabili della
corrispondente iscrizione tra le attività delle azioni proprie, alle quali non potrebbe in realtà riconoscersi valore alcuno fin quando esse ri
mangano nella titolarità della stessa società emittente (in tal senso, Co
lombo, Il bilancio d'esercizio, cit., 309 ss.; e L. Cursio, Natura giuridi ca del fondo azioni proprie, in Riserve e fondi nel bilancio d'esercizio,
Milano, 1986, 183 ss.). Secondo altri, invece (cfr. Toffoletto, op. loc. cit.) — ed ora anche
secondo la Cassazione —, si tratterebbe di una vera e propria riserva, facente parte del patrimonio netto della società, come sarebbe ora con
fermato anche dalla disposizione dettata dal nuovo testo dell'art. 2424
c.c. (quale risultante dopo il già ricordato recepimento della quarta di
rettiva) in tema di struttura dello stato patrimoniale.
Quanto all'iscrizione in bilancio delle azioni e delle partecipazioni in genere, dev'essere segnalato come la nuova normativa cui s'è fatto
cenno — ed in specie il nuovo testo dell'art. 2426 (che ha rimpiazzato il vecchio art. 2425) c.c. — abbia apportato rilevanti novità alla disci
plina precedente, che era essenzialmente incentrata quasi solo sul crite
rio di prudenza. Per una diffusa disamina di tale nuova normativa si
veda Colombo, op. ult. cit., 277 ss.
Sul principio di prudenza, ora codificato in termini generali dall'art.
2423 bis, n. 1, vedi, da ultimo, Trib. Napoli 23 giugno 1995, cit.
(5) Sulla complessa problematica delle clausole di gradimento negli statuti della società di capitali, e delle società azionarie in particolare, la Suprema corte aveva già avuto occasione di pronunciarsi piuttosto di recente: si veda, infatti, sent. 20 luglio 1995, n. 7890, Foro it., 1996,
I, 1351, con nota di R. Rordorf, cui si rinvia per ulteriori riferimenti
di giurisprudenza e di dottrina sui vari temi toccati anche dalla sentenza
in rassegna. In quel caso, la Suprema corte aveva manifestato maggiore apertura
che in precedenza verso l'ammissibilità di simili clausole, anche quando
Il Foro Italiano — 1996.
Svolgimento del processo. — Sandro Sinigaglia, socio del Cre
dito emiliano holding s.p.a. (in prosieguo indicata come il Cre
dito emiliano), convenne detta società in giudizio dinanzi al Tri
bunale di Reggio Emilia e chiese che fossero dichiarati nulli
i deliberati con cui l'assemblea aveva approvato il bilancio d'e
sercizio dell'anno 1982 (sopravvalutando la posta dell'attivo pa trimoniale riguardante le azioni proprie), aveva proceduto alla
nomina di quattro amministratori ed aveva determinato il com
penso a costoro spettante. Con lo stesso atto il Sinigaglia chie
se, altresì, che il tribunale dichiarasse la nullità dell'art. 8 dello
statuto sociale, contenente una clausola (cosiddetta «di gradi
mento») volta a subordinare all'immotivata decisione degli or
gani sociali ogni eventuale trasferimento di azioni da parte dei
soci, o, in subordine, che fosse dichiarato nullo l'ultimo com
ma di detto articolo, introdotto con deliberazione assembleare
del 1967, nella parte in cui tale disposizione statutaria assogget ta al medesimo regime anche la possibilità di alienazione dei
diritti di opzione spettanti ai soci in caso di emissione di nuove
azioni. Chiese, infine, che la società convenuta fosse condanna
ta a risarcire il danno (da liquidarsi in separata sede) da lui
subito per non aver potuto cedere a terzi i diritti di opzione di cui era titolare in conseguenza della mancata concessione del
gradimento da parte degli amministratori.
Tali domande, accolte dal tribunale solo nel senso dell'ineffi
cacia dell'art. 8 dello statuto speciale, vennero poi, per effetto
di contrapposte impugnazioni delle parti, portate all'esame del
la Corte d'appello di Bologna, la quale, con sentenza deposita ta il 4 aprile 1992, dichiarò la nullità della deliberazione assem
bleare approvativa del bilancio del Credito emiliano per l'anno
1982, dichiarò altresì la nullità dell'indicata clausola statutaria
di gradimento, con riguardo ai vincoli da essa apposti sia al
trasferimento delle azioni che dei diritti di opzione dei soci, e pronunciò condanna generica della società al risarcimento dei
danni per la mancata concessione del gradimento richiesto a
suo tempo dal Sinigaglia. A fondamento di tale decisione la corte bolognese osservò
che le oltre tremilacinquecento azioni proprie possedute dalla
società erano state iscritte, nell'attivo patrimoniale del bilancio, al valore unitario di lire 144.639; valore da ritenersi però non
corrispondente al reale, come poteva desumersi dal fatto che
nel medesimo anno 1982, in occasione di un'operazione di fu
sione cui la società aveva partecipato, i periti a tal fine nomina
ti avevano attribuito a quelle azioni il valore unitario di sole
lire 94.189, senza che nessun chiarimento gli amministratori o
i sindaci avessero fornito, nelle rispettive relazioni allegate al
in esse non sia prevista alcuna determinazione dei criteri in base ai quali gli amministratori o l'assemblea si riservano di esprimere il placet al
l'ingresso di nuovi soci né sia stabilito l'obbligo di motivare l'eventuale
diniego di gradimento. A rendere la clausola legittima sarebbe infatti
sufficiente, secondo Cass. 7890/95, che al rifiuto del placet faccia da
contrappeso l'obbligo per la società di designare altro acquirente in luo
go di quello non gradito. Ora, invece, sembra che i margini si restringano di nuovo. Questa
volta, infatti, la Cassazione ha stimato insanabilmente nulla una clau sola di «mero gradimento», con cui la possibilità del socio di cedere a terzi le proprie azioni sia rimessa alla totale ed immotivata discrezio nalità degli organi sociali, precisando che la nullità non è esclusa né dalla previsione di un possibile reclamo all'assemblea contro il diniego del placet espresso dagli amministratori (perché l'assemblea si trovereb be in tal caso ad essere investita di un potere discrezionale altrettanto inammissibile ampio ed incontrollato), né dalla previsione di un troppo generico impegno della società di adoperarsi per la collocazione sul mer cato delle azioni che il socio non abbia potuto cedere a causa del rifiuto di gradimento.
Sembra però doversi escludere che la corte abbia inteso smentire il
proprio ancor fresco precedente, ed infatti la stessa sentenza in epigrafe si premura di chiarire che la fattispecie in esame presenta connotati diversi da quelli su cui era pronunciata Cass. 7890/95. In sostanza, la corte non rimette in forse l'affermazione secondo cui la validità della
clausola è salva quando sia previsto un meccanismo che offra comun
que al socio alienante la possibilità di vendere le proprie azioni, anche se ad un acquirente diverso da quello che egli si era all'inizio prefigura to; ma precisa, in chiave assai più rigorosa, i termini entro i quali que sta possibilità deve essere offerta. A rendere legittimo il diniego immo tivato del gradimento non basta, quindi, la previsione di un impegno della società a far vendere le azioni, occorrendo invece che sia concrèta mente reperito un altro acquirente; con la conseguenza che, nel caso in cui non si riesca a rinvenire un tale acquirente alternativo, il socio deve tornare libero di poter vendere le azioni a chi preferisca.
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2691 PARTE PRIMA 2692
bilancio, di un così rilevante divario, neppur giustificabile con
l'andamento del mercato, giacché nell'anno successivo le mede
sime azioni risultavano essere state vendute ad appena lire
35/36.000 ciascuna.
Quanto alla clausola di gradimento, premesso che non poteva trovare applicazione nella specie il disposto dell'art. 22 1. n.
281 del 1985, entrata in vigore in epoca successiva ai fatti di
causa, la corte territoriale rilevò trattarsi di una clausola di gra dimento «mero», come tale implicante un'inammissibile com
pressione del diritto del socio di poter disporre della propria
partecipazione sociale, e quindi nulla (e non solo inefficace), in conformità ai principi enunciati dalla Suprema corte con la
sentenza n. 2365 del 1978 (Foro it., 1978, I, 2781). E del pari
nulla, secondo la corte d'appello, doveva ritenersi l'estensione
del medesimo regime di gradimento anche all'ipotesi di aliena
zione dei diritti di opzione, in quanto introdotta nello statuto
con deliberazione assembleare assunta a maggioranza e non quin di riferibile all'unanime volontà di tutti i soci.
La domanda generica di risarcimento dei danni fu infine rite
nuta meritevole di accoglimento perché il rifiuto della società
di consentire al Sinigaglia la cessione a terzi dei diritti di opzio ne spettantigli era da considerare sostanzialmente immotivato
e l'ostacolo così frapposto a tale cessione appariva potenzial mente dannoso per il Sinigaglia medesimo, in relazione al suc
cessivo andamento negativo del prezzo di dette azioni sul
mercato.
Contro tale sentenza il Credito emiliano ha proposto ricorso
per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrato anche con
successiva memoria. Il Sinigaglia non ha spiegato difese in que sta sede.
Motivi della decisione. — I. - Il primo motivo di ricorso, concernente il capo di sentenza con cui è stata dichiarata nulla
la deliberazione approvativa del bilancio del Credito emiliano
per l'anno 1982, è volto a denunciare la violazione dell'art. 2425
c.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.leg. n.
127 del 1991), nonché il vizio di motivazione da cui sarebbe
affetta l'impugnata sentenza.
La ricorrente si duole che la corte territoriale abbia giudicato
incongruo il valore attribuito in bilancio alle azioni proprie del
la società sulla scorta dià indicazioni desunte da una relazione
di stima che, per esser stata effettuata al diverso fine di deter
minare il rapporto di cambio delle azioni in occasione di una
precedente fusione, non sarebbe invece assolutamente significa tiva. Così come per nulla indicativa della pretesa sopravvaluta zione di dette azioni sarebbe la circostanza che esse erano poi state vendute ad un prezzo minore nell'esercizio successivo, per ché i fatti accaduti dopo la redazione del bilancio non possono essere utilizzati per giudicare ex post della congruità di valuta
zioni compiute in precedenza. Pertanto, secondo il ricorrente,
giacché la disposizione dell'art. 2425, n. 4, c.c. (nel testo all'e
poca vigente) rimetteva al prudente apprezzamento degli ammi
nistratori la valutazione delle azioni in bilancio e poiché nessun
elemento il socio impugnante aveva addotto per dimostrare che
detta valutazione avesse esorbitato dai limiti della ragionevolez
za, sarebbe errata (o, comunque, non adeguatamente motivata) la declaratoria di nullità pronunciata dalla corte bolognese.
Anche il secondo mezzo di gravame, con cui si lamenta la
violazione degli art. 1421, 2357 ter e 2379 c.c., è riferito alla
pronuncia di nullità del deliberato assembleare con cui è stato
approvato il bilancio d'esercizio del Credito emiliano per l'anno
1982. Il ricorrente si duole che la corte territoriale abbia omesso
di considerare che l'asserita sopravvalutazione riguardava azio
ni proprie della società, per le quali l'art. 2357 ter c.c., recepen do una prassi contabile già precedentemente praticata, stabilisce
che dev'essere iscritta al passivo una riserva indisponibile pari al valore delle azioni stesse: di modo che tale duplice iscrizione
(all'attivo tra le partecipazioni ed al passivo tra le riserve), com
portando in ogni caso l'equivalenza delle due poste, renderebbe
irrilevante, ai fini pratici, il criterio adottato per la valutazione
di dette azioni. Perciò, sempre secondo il ricorrente, non poten dosi dichiarare nulla una deliberazione assembleare se non per l'illiceità o l'impossibilità del suo oggetto, e non essendo confi
gurabile alcuna di tali situazioni in presenza di un'iscrizione con
tabile comunque ininfluente sulla verità della rappresentazione
patrimoniale della società, l'eventuale sopravvalutazione della
posta in esame non avrebbe in nessun caso giustificato la deci
II Foro Italiano — 1996.
sione adottata, ed in rapporto ad essa avrebbe fatto difetto l'in
teresse dell'attore ad ottenere l'invocata pronuncia di nullità.
1.1. - Conviene esaminare congiuntamente i due motivi di ri
corso di cui si è appena riferito, essendo evidente la connessio
ne che li lega. Si tratta, a giudizio della corte, di motivi infondati.
È opportuno brevemente premettere che, secondo un orienta
mento ormai da gran tempo consolidato (si vedano, per tutte, Cass. 14 marzo 1992, n. 3132, id., Rep. 1992, voce Società, n. 656; 8 giugno 1988, n. 3881, id., 1989, I, 2925, e 18 marzo 1986, n. 1839, id., 1987, I, 1232), dal quale non si ha qui alcun motivo per discostarsi, la deliberazione assembleare di una so
cietà di capitali con la quale venga approvato un bilancio redat
to in modo non conforme ai fondamentali precetti stabiliti al
riguardo dall'art. 2423 c.c. (o in violazione delle norme dettate
dagli articoli seguenti, in quanto espressione di quei medesimi
precetti) è da ritenersi nulla, per illiceità del suo oggetto, ai
sensi dell'art. 2379 c.c. Quei precetti, infatti, sono fissati dal
legislatore in funzione di interessi che trascendono i limiti della
compagine sociale e riguardano anche i terzi, pur essi destinata
ri delie informazioni sulla situazione patrimoniale, economica
e finanziaria della società che il bilancio deve fornire con chia
rezza e precisione (ovvero, come ora si esprime il 2° comma
del citato art. 2423 — dopo le modificazioni apportatevi dal
d.leg. n. 127 del 1991 — con chiarezza ed in modo veritiero
e corretto), com'è reso evidente dal regime pubblicitario cui tale
documento è soggetto. Donde consegue che un bilancio redatto
in violazione di dette norme è, per ciò stesso, illecito, e, come
tale, costituisce appunto oggetto illecito della deliberazione as
sembleare che, nondimeno, lo abbia approvato. Da tale premessa discendono alcuni importanti corollari.
In primo luogo, va rilevato che il bilancio d'esercizio di una
società di capitali è illecito non solo quando la violazione delle
suaccennate norme determini una divaricazione tra il risultato
effettivo dell'esercizio (o il dato destinato alla rappresentazione
complessiva del valore patrimoniale della società) e quello del
quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi
in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole
invece siano fornite con riguardo alle singole poste di cui è ri
chiesta l'iscrizione.
Non può dubitarsi che la funzione del bilancio, soprattutto
per l'aspetto che interessa i terzi, non è solo quella di misurare
gli utili e le perdite dell'impresa al termine dell'esercizio, ma
anche quella di fornire ai soci ed al mercato in genere tutte
le informazioni che il legislatore ha ritenuto al riguardo di pre scrivere. E giacché tali informazioni non attengono soltanto ai
dati conclusivi, ma anche alle singole poste (ed al modo della
loro informazione), onde il lettore del bilancio sia messo in gra do di ripercorrere l'iter logico che ha guidato i redattori del
documento nelle scelte e nelle valutazioni che ogni bilancio ne
cessariamente implica, e sia posto in condizione di conoscere
in maniera sufficientemente dettagliata anche la composizione del patrimonio della società ed i singoli elementi che hanno de
terminato un certo risultato economico di periodo, ne consegue che si avrà illiceità del bilancio ogni qual volta la violazione
dei ricordati precetti inderogabili di legge non permetta di per
cepire, con chiarezza sufficiente, le specifiche informazioni che la lettura del documento e dei suoi allegati deve invece offrire
con riguardo a ciascuna delle poste da cui il bilancio è formato.
Non può quindi seguirsi l'orientamento pur talvolta echeggia to nella giurisprudenza di questa stessa corte, che subordina
la rilevanza del precetto di chiarezza al rispetto di un sovraordi
nato principio di verità del bilancio, quasi che un bilancio non
idoneo a fornire informazioni sufficientemente leggibili possa esser considerato valido sol perché, in ultima analisi, i dati in
esso riportati non risultino, nella loro espressione contabile, con
trari al vero. Una siffatta opinione sarebbe manifestamente in
sostenibile dopo che sono stati formalmente recepiti nel nostro
ordinamento (con l'emanazione del citato d.leg. n. 127) i detta mi della quarta direttiva comunitaria in materia di società, pa lesemente ispirati alla massima valorizzazione del cosiddetto prin
cipio di trasparenza del bilancio. Essa, però, non appare condi
visibile neppure alla stregua della normativa pregressa (in vigore
all'epoca di redazione del bilancio qui in esame), alla cui inter
pretazione, del resto, non possono restare estranei i principi già da tempo enunciati dalla surrichiamata quarta direttiva, la cui
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
emanazione risale al luglio del 1978: perché, se è vero che le
direttive comunitarie, prima del loro formale recepimento, non
sono suscettibili di diretta applicazione nei rapporti tra privati, è altresì vero che — come anche la Corte di giustizia europea ha avuto modo di affermare nella sentenza resa il 14 luglio 1994, in causa n. 91/94 (id., 1995, IV, 38) — il giudice «quando apli ca disposizioni di diritto nazionale, tanto precedenti quanto suc
cessive alla direttiva, ha l'obbligo di interpretarle quanto più è possibile alla luce dello scopo e della lettera della direttiva».
D'altronde, seguendo l'opinione qui contestata, da un lato
si trascura senza alcuna reale giustificazione il dettato espresso dal citato art. 2423, che (nel testo allora vigente) pone il precet to di chiarezza sullo stesso piano di quello di precisione, senza
suggerire alcuna graduatoria d'importanza e senza in alcun mo
do subordinare il rispetto del primo a quello del secondo o di
qualsiasi altro precetto; d'altro lato, non si tien conto di ulte
riori e non meno importanti disposizioni, quali ad esempio quelle
dettagliatamente volte a disciplinare il contenuto della relazione
degli amministratori, che invece testimoniano della massima im
portanza attribuita dal legislatore alla chiarezza delle singole in
formazioni che debbono essere garantite ai destinatari del bilan
cio. E si rischia perciò di tradire, in ultima analisi, la stessa
ragion d'essere delle norme in esame, essendo di tutta evidenza
che la mancanza di chiarezza nelle singole poste in cui il biancio
si articola fatalmente compromette quella funzione informativa
(anche all'esterno della compagine sociale) che si è già visto
essere uno degli scopi principali perseguiti dal legislatore nel
disciplinare il profilo contabile del diritto societario.
Coerentemente con tali rilievi, dev'essere quindi ribadito che,
proprio per la già rilevata funzione informativa del bilancio, l'interesse del socio ad impugnare per nullità la deliberazione
approvativa di un bilancio redatto in violazione delle prescrizio ni legali non dipende solo dalla frustrazione dell'aspettativa che
il medesimo socio possa avere la percezione di un dividendo
o, comunque, da un immediato vantaggio patrimoniale che una
diversa e più corretta formulazione del bilancio possa eventual
mente far balenare. Quell'interesse, invece, ben può nascere dal
fatto stesso che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio
non permette al socio di avere tutte le informazioni — destinate
ovviamente a riflettersi anche sul valore della singola quota di
partecipazione — che il bilancio dovrebbe invece offrirgli, ed
alle quali, attraverso la declaratoria di nullità e la conseguente necessaria elaborazione di un nuovo bilancio emendato dai vizi
del precedente, il socio impugnante legittimamente aspira (cfr.
anche, in tal senso, la recente pronuncia di questa corte in data
30 marzo 1995, n. 3774, id., Rep. 1995, voce cit., n. 826). Si dovrà poi ancora brevemente tornare sulle considerazioni
difensive con cui la società ricorrente sostiene che, ove pure in concreto ravvisabile, la violazione delle norme in tema di
appostazione nel bilancio di azioni proprie non sarebbe idonea
a determinare la nullità del bilancio medesimo e della conse guente deliberazione approvativa, e non giustificherebbe l'inte
resse del socio all'impugnazione. Quanto sopra detto vale però sin d'ora a chiarire che tali considerazioni difensive muovono da premesse d'ordine generale non condivisibili.
1.2. - Il bilancio d'esercizio del Credito emiliano, come già s'è accennato, è stato giudicato illecito dalla corte d'appello a
causa della sopravvalutazione delle azioni proprie iscritte all'at
tivo della situazione patrimoniale. Secondo la difesa della società ricorrente, di tale sopravvalu
tazione non sarebbe stata offerta prova adeguata e, comunque,
essa sarebbe irrilevante.
Conviene cominciare da questo secondo rilievo, che mette in
questione il modo stesso in cui, a termini di legge, debbono
essere iscritte in bilancio le azioni proprie. È noto che, a tal riguardo, la dottrina ha proposto nel tempo
soluzioni diverse. Talvolta, in epoca più remota, si è sostenuto
che le azioni di cui sia titolare la stessa società emittente, in
quanto già rappresentative di una quota del patrimonio di quel
la medesima società, non sarebbero in grado d'incrementare ul
teriormente detto patrimonio e dovrebbero, perciò, essere regi
strate in bilancio come semplici poste di memoria (nummo uno).
Ma tale soluzione (oltre ad essere ora non facilmente conciliabi
li con il disposto dell'art. 2357 ter, ultimo comma, c.c.) è poco
plausibile, perché si rivela incapace di dar conto dell'utilizzo
di ricchezza impiegato dalla società nell'acquisto delle proprie
azioni. E, però, pur dando atto della necessità d'iscrivere nel
II Foro Italiano — 1996.
l'attivo del bilancio una posta patrimoniale corrispondente al
valore di dette azioni (o comunque dell'importo di utili impie
gato nel relativo acquisto), una parte della più moderna dottri
na, ricollegandosi per certi versi ai presupposti argomentativi di quella più antica tesi, tuttora sostiene che detta iscrizione
possa prescindere da un'effettiva valutazione delle azioni di cui
si tratta, in quanto la posta attiva sarebbe comunque destinata
a trovare contropartita contabile in una posta passiva di uguale
importo (come prescrive la citata disposizione dell'art. 2357 ter,
introdotta, peraltro, in epoca successiva ai fatti cui si riferisce
la presente causa). Il corollario di tale tesi sarebbe, secondo
alcuni, la totale irrilevanza del valore attribuito alle azioni pro
prie in bilancio, la cui validità non potrebbe quindi essere giam mai messa in discussione per un preteso eccesso o difetto di
valutazione, dovendosi dette azioni iscrivere sempre e comun
que per un importo pari alla somma degli utili impiegati per il loro acquisto.
Quest'opinione, come altra parte della dottrina non ha man
cato di rilevare, non è però condivisibile, e le conclusioni cui
essa conduce non sono accettabili. Essa presuppone che la po sta passiva cui s'è fatto cenno abbia una mera funzione rettifi
cativa dell'attivo, serva cioè unicamente ad elidere, nella som
ma algebrica le due colonne contrapposte dello stato patrimo
niale, l'effetto dell'iscrizione in attivo delle azioni proprie. Se
anche così fosse, probabilmente non ne deriverebbe l'irrilevan
za della valutazione attribuita a quelle azioni, perché il solo
fatto che una posta venga iscritta in bilancio postula, logica
mente, che essa debba poter fornire un'indicazione significativa e riferibile alla data di chiusura del bilancio. Vero è, comun
que, che la posta passiva di cui si è parlato non ha affatto
funzione meramente rettificativa dell'attivo, ma costituisce in
vece una vera e propria riserva, destinata ad esprimere valori
facenti parte del patrimonio netto della società. E ciò si desume
con assoluta evidenza non solo dal già citato ultimo comma
dell'art. 2357 ter, che appunto parla di «riserva indisponibile», ma anche, e soprattutto, dal tenore del vigente art. 2424, che
appunto include la «riserva per azioni proprie in portafoglio» tra le poste del passivo destinate a rappresentare il patrimonio netto della società (ed impone di iscrivere le azioni proprie al
l'attivo, distinguendo tra quelle che costituiscono immobilizza
zioni finanziarie e quelle che fanno parte dell'attivo circolante). E se volesse obiettarsi che la norma da ultimo citata è stata
introdotta nell'ordinamento nazionale in epoca successiva alla
redazione del bilancio di cui qui si sta discutendo, occorrerebbe
replicare che quella norma ha recepito un precetto comunitario
(espresso nell'art. 9 della già richiamata quarta direttiva) ema
nato sin dagli anni settanta: onde, per le ragioni già dianzi illu
strate, è doveroso optare anche nel caso di specie per un'inter
pretazione che sia conforme ai presupposti da cui l'accennata
normativa comunitaria muove. Tanto più che tali presupposti
paiono del tutto coerenti con la realtà di un fenomeno che pur
sempre implica un impiego (non certo la neutralizzazione) dei
valori monetari utilizzati per l'acquisto delle azioni proprie, le
quali non cessano di costituire un valore esistente nel portafo
glio della stessa società e possono, occorrendo, essere ricondot
te ad espressione monetaria o trasformate in investimento di
altro tipo per effetto di successiva alienazione.
Ed allora, anche ammesso che debba esservi una rigorosa e
biunivoca corrispondenza tra l'entità della posta iscritta in atti
vo per indicare il valore delle azioni proprie in portafoglio e
quella del passivo riguardante la suaccennata riserva di patri monio netto, nulla permette di affermare l'irrilevanza dell'indi
cata valutazione ai fini della corretta redazione del bilancio,
non foss'altro perché quella valutazione, in quanto destinata
ad influenzare l'entità del patrimonio netto della società, si ri
flette in modo tutt'altro che marginale su una delle informazio
ni di maggiore importanza che un bilancio di società deve forni
re ai propri destinatari.
Deve perciò concludersi, sul punto, nel senso che le azioni
proprie in portafoglio, siccome rappresentano un valore che esi
ste nel patrimonio della società emittente ed è suscettibile di
essere monetizzato, debbono essere iscritte in bilancio secondo
i criteri di valutazione e, in genere, secondo le regole stabilite
dalla legge per qualsiasi altro titolo azionario. E deve aggiun
gersi che, per le già indicate funzioni informative del bilancio,
se l'iscrizione di tali azioni sia avvenuta, invece, in violazione
di detti criteri e di dette regole, il socio ha interesse a far dichia
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2695 . PARTE PRIMA 2696
rare la nullità della deliberazione approvativa del bilancio anche
per il solo fatto che, in tal modo, egli non è stato posto in
condizione di avere una informazione corretta sulla situazione
patrimoniale della società.
1.3. - Con riguardo all'iscrizione in bilancio delle partecipa zioni azionarie, l'art. 2435, n. 4, c.c., nella formulazione in
vigore al tempo della redazione del bilancio in esame, si limita
va a stabilire che le azioni dovessero essere appostate ad un
valore determinato dagli amministratori secondo il loro pruden te apprezzamento (salvo tener conto, per i titoli quotati in bor
sa, dell'andamento delle quotazioni). Prudente apprezzamento, però, come da tempo dottrina e giu
risprudenza hanno chiarito, non significa incensurabile arbitrio, bensì uso di discrezionalità tecnica, correlato all'obbligo di mo
tivazione delle scelte operate, come prescritto dallo (allora vi
gente) art. 2429 bis, 1° comma, n. 1, c.c. Con la conseguanza che una valutazione esorbitante dai limiti della ragionevolezza, o non chiara nelle sue motivazioni, è da considerarsi illegittima e tale da inficiare la validità del bilancio.
Quindi, se in linea di principio anche prima del recepimento in Italia della quarta direttiva comunitaria non poteva escluder
si la correttezza dell'iscrizione delle azioni (anche proprie) ad
un valore corrispondente al costo di acquisto, specie quando dette azioni avessero il carattere di una vera e propria immobi
lizzazione finanziaria (cfr., in proposito, Cass. 4 febbraio 1992,
n. 1211, id., 1992, I, 1781, e 18 marzo 1986, n. 1839, id., Rep.
1986, voce cit., n. 504), ciò tuttavia non costituiva in nessun
caso un criterio automatico, ma restava pur sempre soltanto
uno dei possibili modi di esplicazione del prudente apprezza mento degli amministratori, soggetto ai limiti di ragionevolezza e di motivazione cui s'è appena fatto cenno. E non occorre
aggiungere che, quanto più in concreto una valutazione discre
zionale si avvicini ai margini della ragionevolezza, tanto più bi
sogna che di essa venga data una motivazione puntuale ed esau
riente.
Orbene, la corte d'appello ha appunto escluso che la valuta
zione delle azioni proprie operata nel caso di specie dagli ammi
nistratori del Credito emiliano, e poi trasfusa nel bilancio im
pugnato dal socio Sinigaglia, fosse ragionevole. Ed a tale con
clusione è pervenuta sulla base del rilievo che, in occasione di
un'operazione di fusione cui la società aveva partecipato nel
corso del medesimo esercizio, a quelle azioni era stato attribui
to un valore inferiore di quasi un terzo rispetto a quello indica
to in bilancio; aggiungendo poi che tale diversa valutazione non
avrebbe potuto giustificarsi neppure nella prospettiva di un for
te rialzo delle quotazioni, smentito dal fatto che, nell'esercizio
successivo, le medesime azioni erano state invece collocate sul
mercato ad un prezzo pari addirittura alla metà del valore ipo tizzato in sede di fusione.
Trattasi, con ogni evidenza, di un giudizio di merito congrua mente motivato, cui non giova obiettare che la stima della con
gruità del rapporto di cambio nella fusione è altra cosa rispetto alle valutazioni di bilancio, o che il corso cedente dei titoli nel
l'esercizio successivo non è indicativo del loro valore al termine
dell'esercizio cui il bilancio si riferiva.
Al primo argomento può replicarsi che il ragionamento svol
to dalla corte bolognese non postula una coincidenza necessaria
ed assoluta tra le diverse valutazioni del titolo azionario, ai fini
del rapporto di cambio in sede di fusione ed ai fini dell'iscrizio
ne in bilancio delle azioni della società, ma vale a porre in luce
come tra dette valutazioni, riferite al medesimo arco di tempo, non sia plausibile una divaricazione così clamorosa, se non in
presenza di ben precise cause che la giustifichino e delle quali,
viceversa, nella specie non emergeva traccia. È certamente vero,
infatti, che la stima operata per determinare il rapporto di valo
re tra azioni di società diverse, destinate a fondersi tra loro, ha carattere essenzialmente comparativo e può essere influenza
ta da fattori (anche di ordine soggettivo, e comunque rilevanti
solo nel contesto negoziale in cui si attua il cambio tra azioni
della società incorporata e dell'incorporante) estranei alla cor
retta determinazione di valore di quelle medesime azioni in sede
di redazione del bilancio d'esercizio. Tuttavia, ciò non può in
durre a dimenticare che si tratta pur sempre di valutazioni aventi, in definitiva, il medesimo oggetto, e che la discrezionalità rico
nosciuta agli amministratori nell'iscrizione delle azioni in bilan
cio deve esercitarsi nel rispetto del principio di prudenza, espres samente richiamato dalla citata disposizione dell'art. 2425 (nel
Il Foro Italiano — 1996.
testo all'epoca vigente); e la prudenza impone che i redattori
di un bilancio tengano conto di un dato così rilevante e così
prossimo nel tempo, quale quello che possa ricavarsi dalla sti
ma delle azioni compiuta nell'ambito di un'operazione di fusio
ne effettuata nel medesimo esercizio, e non azzardino una valu
tazione tanto più elevata senza che ve ne siano oggettive e ben
dimostrabili ragioni. Quanto al secondo rilievo, si deve osservare che l'andamento
dei titoli nell'anno 1983 è stato richiamato dalla corte d'appello solo in guisa di argomento aggiuntivo e per sottolineare come
neppure sotto il profilo del prezzo di mercato potesse giustifi carsi una così macroscopica sopravvalutazione delle azioni in
discorso. E se certo è vero che il valore di un determinato cespi te al momento della chiusura del bilancio non può essere giudi cato ex post, sulla base di eventi di mercato verificabili solo
in epoca successiva, è vero anche, nondimeno, che il raffronto
tra la stima delle azioni del Credito emiliano operata in sede
di fusione nell'anno 1982 ed il prezzo di vendita delle stesse
azioni registrato nel 1983 offriva l'evidenza di un andamento
assai negativo delle quotazioni nell'arco di tempo considerato, rendendo perciò ancor più evidente l'incongruità di una valuta
zione di bilancio che, collocandosi nel mezzo dell'indicato pe
riodo, aveva assegnato invece a quelle azioni un valore così ma
croscopicamente più elevato rispetto ad entrambi i suindicati
estremi temporali di riferimento.
S'è già dianzi accennato, del resto, all'obbligo di motivazione
delle scelte operate dagli amministratori, ed al fatto che quanto
più una determinata scelta di bilancio si manifesti apparente mente non sorretta da una giustificazione evidente, tanto mag
giore è la necessità di una adeguata spiegazione del criterio di
valutazione seguito. Le considerazioni appena svolte rendono
quindi superfluo sottolineare ulteriormente come il rispetto di
quest'obbligo di motivazione fosse particolarmente necessario
in un caso come quello in esame; e, viceversa, la corte territo
riale ha accertato che di spiegazioni, al riguardo, non ne è stata
fornita alcuna, perché né i sindaci né gli amministratori hanno
dato ragione, nelle rispettive relazioni, della valutazione in bi
lancio delle azioni proprie e, soprattutto, dei motivi che giusti ficavano una valutazione così divaricata rispetto agli indicatori
di valore cui sopra s'è fatto cenno.
In conclusione, deve perciò affermarsi che la valutazione del
le azioni di società ai fini della loro iscrizione in bilancio, ai
sensi dell'art. 2425, 1° comma, n. 4, c.c. (nel testo in vigore
prima dell'emanazione del d.leg. n. 127 del 1991), determina
l'illiceità del bilancio e la nullità della relativa deliberazione ap
provativa ogni qual volta gli amministratori, nell'esercizio del
potere discrezionale loro attribuito dalla norma, abbiano viola
to il principio di prudenza, operando una valutazione macro
scopicamente irragionevole, oppure non abbiano fornito (né vi
abbiano provveduto i sindaci nella loro relazione) un'adeguata
spiegazione dei criteri cui detta valutazione si è ispirata. Con
la precisazione che la verifica dell'eventuale violazione dei suac
cennati limiti di ragionevolezza, così come quella concernente
la sufficiente enunciazione dei criteri di valutazione, è rimessa
al giudice di merito e, se adeguatamente motivata, non è censu
rabile in sede di legittimità. II. - Il terzo motivo di ricorso sposta l'attenzione sulla decla
ratoria di nullità dell'art. 8 dello statuto del Credito emiliano
e della deliberazione assembleare che, introducendo un ulteriore
comma in detto articolo, ha esteso anche all'ipotesi di aliena
zione dei diritti di opzione la clausola di gradimento originaria mente prevista solo per il caso di trasferimento delle azioni.
Il Credito emiliano, denunciando la violazione e la falsa ap
plicazione degli art. 2355 e 2379 c.c., nonché dell'art. 112 c.p.c.,
prospetta in realtà due ben distinti profili di doglianza. In primo luogo, la società ricorrente osserva che l'indicata
clausola statutaria non si limita a subordinare il trasferimento
delle partecipazioni azionarie al gradimento degli organi sociali, ma contempla altresì l'onere per la stessa società di curare il
collocamento delle azioni presso altri possibili acquirenti, così
assicurando in ogni caso al socio la possibilità di uscire dalla
compagine sociale: il che basterebbe ad escludere il dedotto pro filo d'invalidità della clausola, la cui concreta attuazione nel
caso di specie, del resto, neppure giustificherebbe la pronuncia di nullità emessa dalla corte bolognese, essendo stato adeguata mente motivato il rifiuto del placet al trasferimento dei diritti
di opzione richiesto dal socio Sinigaglia ed essendosi la società
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
offerta di agevolare comunque detto trasferimento ad altri soci.
E comunque, poiché l'art. 22 1. n. 281 del 1985 non qualifica le clausole di mero gradimento nulle, bensì inefficaci, e poiché detta norma ha valore interpretativo, non potrebbe parlarsi di
nullità, ma semmai d'inefficacia della clausola in esame, come
aveva correttamente ritenuto il tribunale.
In secondo luogo, il Credito emiliano rileva che la domanda
del Sinigaglia volta a far dichiarare la nullità anche dell'ultimo
comma del citato art. 8 dello statuto, relativo al trasferimento
dei diritti di opzione, era stata formulata solo in via subordina
ta, cioè per il caso in cui il giudice non avesse ritenuto fondata
la precedente domanda in tema di nullità della clausola di gra dimento riguardante i trasferimenti azionari. Poiché, però, que st'ultima domanda era stata invece accolta dalla corte d'appel
lo, nessuna pronuncia avrebbe dovuto essere emessa sulla do
manda subordinata. La quale domanda subordinata, in ogni
caso, avrebbe dovuto esser respinta, in quanto la deliberazione
assembleare con cui era stato a suo tempo approvato il menzio
nato ultimo comma dell'art. 8 dello statuto, lungi dall'implicare l'introduzione ex novo di un'ulteriore clausola di gradimento, aveva inteso semplicemente chiarire la portata della clausola già esistente e non richiedeva, perciò, l'unanime consenso dei soci.
II. 1. - Neppure le doglianze dianzi riassunte appaiono fondate.
Quanto al fatto che la clausola riportata nell'art. 8 dello sta
tuto del Credito emiliano sia da qualificare come di «mero gra dimento» — secondo la nozione prima elaborata dalla giuris
prudenza, a partire dalla nota sentenza di questa corte 2365/78, e poi ripresa dal legislatore nell'art. 22 1. n. 281 del 1985 —,
è sufficiente osservare che il giudice di merito ha accertato (né v'è contestazione al riguardo, in punto di fatto) che detta clau
sola rimette al giudizio discrezionale del consiglio di ammini
strazione, o, in via di reclamo, dell'assemblea, un potere del
tutto discrezionale di autorizzare o meno l'alienazione delle azioni
(e dei diritti di opzione) del socio, senza in alcun modo vincola
re l'esercizio di tale potere né a criteri predeterminati né, co
munque, ad un connesso obbligo di motivazione. Il che giustifi ca la definizione di detta clausola come di «mero gradimento», dovendosi con quest'espressione appunto intendere un potere di gradimento del tutto incondizionato e perciò tale da sconfi
nare in arbitrio.
Non vale a spostare i termini della questione la circostanza
che, nella clausola in esame, sia anche prevista la possibilità di reclamo all'assemblea avverso il diniego di placet del consi
glio di amministrazione. Che da tale possibilità di reclamo pos sa dedursi, per implicito, l'esistenza di un obbligo di motivazio
ne del diniego del placet da parte dell'organo amministrativo
è affermazione inaccettabile, per la sua evidente assiomaticità.
Per il resto, è noto che le ragioni del disfavore dell'ordinamen
to verso l'introduzione di clausole siffatte negli statuti delle so
cietà azionarie risiedono, da un canto, nella naturale destinazio
ne alla circolazione delle azioni, la cui alienazione può essere
quindi, a norma dell'ultimo comma dell'art. 2355 c.c., sottopo sta dall'atto costitutivo a particolari condizioni, ma non del tut
to impedita, come invece ben potrebbe accadere ove ogni scelta
al riguardo fosse rimessa all'arbitrio degli organi sociali; e, d'altro
canto, nella necessità d'impedire che il socio — privo com'è, in questo tipo di società, di un diritto di recesso generalizzato, fuor dei casi tassativamente indicati dall'art. 2437 c.c. — resti
«prigioniero della società», per effetto di un meccanismo che
finirebbe per subordinare completamente ogni suo diritto di di
sposizione sull'azione a determinazioni del tutto insindacabili
degli organi sociali. Inconvenienti, questi, che evidentemente non
dipendono dall'essere il gradimento rimesso alla discrezionalità
dell'organo assembleare o di quello amministrativo della socie
tà, oppure di entrambi, l'uno in veste di revisore dell'operato
dell'altro, finché resti insito in tale meccanismo il connotato
della potenziale arbitrarietà della decisione, in quanto non cor
relata a criteri oggettivi e predeterminati né ad un obbligo di
motivazione che consenta di verificare la correttezza e la ragio nevolezza del bilanciamento compiuto tra gli interessi sociali e
quelli del socio alienante.
La ricorrente sottolinea, però, che la clausola di gradimento inserita nello statuto del Credito emiliano contiene anche un'ul
teriore previsione, che sembrerebbe in certo senso attenuarne
il rigore, giacché stabilisce che, su richiesta dell'azionista, la
società potrà «curare il collocamento delle azioni a prezzo non
inferiore al valore corrispondente pro quota del capitale sociale
Il Foro Italiano — 1996.
e della riserva ordinaria, risultante dall'ultimo bilancio ap
provato».
Neppure tale previsione, tuttavia, è idonea a rendere detta
clausola conforme ai principi dell'ordinamento. È vero che que sta stessa corte ha di recente affermato la legittimità di una
previsione statutaria di gradimento che, quantunque non corre
lata a criteri predeterminati, sia bilanciata dall'obbligo per la
società, in caso di rifiuto del placet, di designare un altro acqui rente gradito (si veda la sentenza n. 7890 del 1995, id., Rep.
1995, voce cit., n. 799). Ma non sembra affatto che la situazio
ne sia in questo caso la medesima. Intanto altro è il prevedere la possibilità di vendere le azioni a persona diversa da quella inizialmente dal socio indicata, ma alle medesime condizioni o
comunque secondo oggettivi parametri di mercato, altro è ipo tizzare un non meglio precisato impegno della società a colloca
re le azioni ad un prezzo corrispondente ai valori nominali (nem meno dell'intero patrimonio netto, bensì solo) del capitale e della
riserva ordinaria iscritti in bilancio. Ma, soprattutto, deve no
tarsi come la clausola inserita nello statuto del Credito emiliano
non ponga alcun collegamento necessario tra l'operatività del
rifiuto del gradimento, da un lato, e la concreta possibilità di
collocare le azioni presso un diverso acquirente designato dalla
società, dall'altro. Non è stabilito, cioè, che il placet possa esse
re rifiutato solo a condizione che la società designi (entro un
ragionevole lasso di tempo) altro compratore delle medesime
azioni, e che, in caso contrario, il socio è libero di cedere le
proprie azioni a chi preferisce, come, invece, sarebbe indispen sabile per evitare effettivamente quel rischio di «imprigionamen to» del socio che si è visto essere a base del divieto delle clauso
le di mero gradimento. Il solo fatto che la società possa (o ma
gari debba) adoperarsi in tal senso riconduce l'individuazione
dell'acquirente alternativo pur sempre nel novero delle semplici
eventualità, mentre solo l'automaticità e la certezza di una tale
evenienza potrebbe giustificare l'esercizio, da parte degli organi
sociali, di un potere totalmente discrezionale ed immotivato con
cui si neghi al socio l'autorizzazione a cedere le proprie azioni
ad un terzo già disposto ad acquistarle. Ciò chiarito, non giova sostenere che, in concreto, gli organi
sociali del Credito emiliano, nel rifiutare il placet richiesto dal
socio Sinigaglia, avrebbero fatto buon uso dei poteri statutari
di cui disponevano. Tale assunto, come meglio si dovrà precisa re in seguito, non trova avallo nella valutazione al riguardo com
piuta dalla corte territoriale, che non può essere rimessa qui in discussione avendo il giudice di merito adeguatamente moti
vato il proprio convincimento al riguardo. Ma, anche a prescin dere da ciò, occorre osservare che la validità e l'invalidità di
una clausola statutaria dev'essere giudicata in base al modello
organizzativo che essa presuppone o consente, indipendentemente dal modo in cui ne sia stata data, in questo o quel caso, concre
ta applicazione, non potendosi certo negare al socio l'interesse
a che una clausola non conforme ai precetti inderogabili del
l'ordinamento giuridico — e perciò stesso idonea a determinare
anche in avvenire il rischio di comportamenti che la legge inve
ce disapprova — venga espunta dall'ordinamento interno della
società.
II.2. - La società ricorrente, come già s'è accennato, mette
in discussione la pronuncia impugnata anche per aver dichiara
to nulla, e non soltanto inefficace, la più volte ricordata clauso
la statutaria di mero gradimento. A tale conclusione la corte d'appello è perventua muovendo
dal presupposto che, ai sensi dell'art. 22 della citata 1. n. 281, una clausola siffatta sarebbe inefficace, e non nulla; ma che, costituendo tale legge un ius superveniens, rispetto alla situazio
ne cui il giudizio doveva riferirsi, e non potendo esserle ricono
sciuta valenza retroattiva, se ne dovesse prescindere e si dovesse
perciò giudicare unicamente in base ai principi elaborati in pre cedenza dalla giurisprudenza.
Tali argomentazioni non appaiono persuasive, e debbono quin di essere rivedute, ai sensi dell'art. 384, 2° comma, c.p.c., an
corché la decisione debba esser tenuta ferma.
L'assunto, secondo cui la disposizione dettata dall'art. 22 della
citata legge del 1985 sarebbe applicabile solo a partire dall'en
trata in vigore della medesima legge, non è idoneo a sorreggere le conclusioni che la corte territoriale ne ha tratto. Quella di
sposizione, infatti, nel definire inefficaci le clausole di mero gra dimento contenute negli statuti delle società azionarie, evidente
mente ha inteso disciplinare, anche per l'avvenire, la situazione
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2699 PARTE PRIMA 2700
esistente al tempo della sua entrata in vigore. Ma tale situazione
era, per l'appunto, quella derivante dagli statuti delle società
costituite e tuttora in vita in quel momento, non certo quella riferibile solo alle società che si sarebbero successivamente co
stituite, perché la norma soltanto implicitamente esprime un co
mando rivolto a chi si accinga a stipulare nuovi contratti di
società, ed è invece esplicitamente volta a stabilire se e quali effetti l'ordinamento possa riconoscere, sin dalla sua entrata
in vigore, alle previsioni statutarie in essere. Le quali previsioni
statutarie, in quanto non esauriscono i propri effetti in un sin
golo momento, ma hanno attitudine a regolamentare nel tempo il funzionamento e l'organizzazione della società, son destinate
a ricadere nell'ambito di applicazione della predetta norma per il solo fatto che la società tuttora esiste e che esse sono quindi ancora operanti quando quella norma è entrata in vigore.
L'attenzione, pertanto, va focalizzata sul significato dell'e
spressione «sono inefficaci», che la legge ha adoperato, in ordi
ne alla quale la dottrina ha manifestato opinioni assai variegate. La medesima dottrina, tuttavia, ha da tempo insegnato a di
stinguere tra la nozione di inefficacia in senso lato e quella di
inefficacia in senso stretto. Nel primo senso, può parlarsi d'i
nefficacia di un atto negoziale in tutti i casi nei quali l'ordina
mento non consente che gli effetti di quell'atto si producano, o ipotizza che essi si producano soltanto in modo effimero o
provvisorio; sicché tale ampia nozione d'efficacia ricomprende anche quella del negozio intrinsecamente viziato, cui per ciò
stesso l'ordinamento non riconosce la capacità di determinare
conseguenze giuridicamente rilevanti, oltre a quella che invece
dipenda da fattori esterni destinati a condizionare la capacità di un atto, in sé valido, di produrre effetti (o di produrne solo
alcuni, ovvero di produrli in modo duraturo anziché effimero).
Situazioni, queste ultime, solo in presenza delle quali si può invece parlare d'inefficacia in senso stretto, contrapposta alla
nozione d'invalidità.
Orbene, per quel che riguarda le clausole di mero gradimen
to, sembra alla corte che occorra anzitutto porre in evidenza
come l'inefficacia di cui parla l'art. 22 della legge citata (dai cui lavori preparatori nulla è dato al riguardo desumere) abbia
certamente carattere assoluto. Il meccanismo stesso della clau
sola di gradimento ed il fatto che essa sia inserita nello statuto
della società — essendo, quindi, destinata ad operare sul piano
dell'organizzazione sociale e, solo in funzione di quella, a riflet
tersi sulle posizioni soggettive del socio alienante e del terzo
acquirente — impediscono d'ipotizzarne un'inefficacia relativa, tale per cui la clausola, benché inefficace verso taluno, potreb be ancora risultare produttiva di effetti nei riguardi di altri.
D'altro canto, merita anche di esser sottolineato come la ra
gione per la quale la clausola in questione è assolutamente ini
donea a produrre effetti non dipende da fattori ad essa estrinse
ci, e tanto meno ha carattere temporaneo o provvisorio. L'inef
ficacia della clausola di mero gradimento deriva, invece, unicamente dal rifiuto dell'ordinamento di riconoscere come me
ritevoli di tutela le finalità cui la clausola siffatta mira e l'asset
to organizzativo della società che da essa consegue: ossia da
ragioni strettamente legate al modo di essere di detta clausola
ed eliminabili solo a condizione di sostituirla con una clausola
(di gradimento non «mero») congegnata in maniera diversa.
Inoltre, pare senz'altro da escludere che il richiamo operato dal legislatore al concetto d'inefficacia, anziché di nullità, possa esser qui dipeso dall'intento di assicurare un qualche margine di sopravvivenza alle clausole di mero gradimento preesistenti, al fine di consentirne la trasformazione in clausole di gradimen to non «mero» mediante una modifica dell'atto costitutivo deli
berata a maggioranza dall'assemblea dei soci. Se si muove dalla
premessa che nessuna clausola di gradimento può essere intro
dotta nello statuto sociale senza l'unanime consenso di tutti gli azionisti, perché la società non è legittimata a disporre di quello che si ritiene essere un vero e proprio diritto individuale del
socio (cfr., in tal senso, da ultimo, Cass. 9 novembre 1993, n. 11057, id., 1994, I, 1456), pare invero evidente che in nessun
caso sarebbe ammissibile, se non con l'adesione di tutti i soci, emendare una clausola di mero gradimento, originariamente inef
ficace, così da renderla produttiva di effetti: perché anche ciò
equivarebbe ad introdurre delle limitazioni alla circolazione azio
naria che prima, a causa della radicale inefficacia di detta clau
sola, non sussistevano.
Pertanto, nella suaccennata dicotomia tra l'uso del termine
Il Foro Italiano — 1996.
«inefficacia» in senso ampio o in senso stretto, sembra di dover
senz'altro propendere per la prima soluzione, perché, per un
verso, non ricorre alcuno dei connotati che caratterizzano l'i
nefficacia come fenomeno contrapposto all'invalidità, e, per al
tro verso, la logica stessa in cui l'art. 22 della citata legge s'i
scrive postula l'esistenza di un inderogabile divieto di clausole
di mero gradimento, che non può non minarne in radice la va
lidità. Se ciò è vero, deve allora ritenersi che il legislatore ha adope
rato l'indicata espressione al solo fine di descrivere le conse
guenze dell'invalidità di quelle clausole, considerando tale inva
lidità come presupposta. Ed il vizio da cui le clausole di mero
gradimento sono affette non può altrimenti qualificarsi che co
me vera e propria nullità (e così, infatti, anche la precedente
giurisprudenza l'aveva qualificata), attesa la radicale ed assolu
ta inidoneità di dette clausole a produrre effetti. Né può tacersi,
d'altronde, che proprio questa radicale ed assoluta inidoneità
a produrre effetti varrebbe comunque a rendere le clausole di
mero gradimento nulle anche sotto il profilo dell'art. 1418, 2°
comma, in relazione all'art. 1346 c.c., trattandosi appunto di
pattuizioni negoziali intrinsecamente incapaci di realizzare lo sco
po cui esse sono dirette e, dunque, aventi un oggetto impossibile. II.3. - Quanto al gradimento relativo alla cessione dei diritti
di opzione, previsto dall'ultimo comma del citato art. 8 dello
statuto del Credito emiliano (comma introdotto con delibera
zione assembleare assunta a maggioranza), il proposto motivo
di gravame contiene una questione di diritto sostanziale ed una — logicamente preliminare — di carattere processuale.
Quella processuale è, però, mal posta, perché la formulazio
ne della domanda subordinata del Sinigaglia era ovviamente da
intendere nel senso che, in via principale, egli chiedeva la nulli
tà dell'art. 8 nella sua interezza, compresa dunque la parte rela
tiva all'opzione, ed in subordine la nullità di questa sola parte, come conseguenza dell'invalidità della deliberazione assemblea
re che l'aveva a suo tempo approvata. Ed allora, può esser vero
che l'esplicita declaratoria di nullità di tale deliberazione era
superflua, dal momento che era già stata accertata la nullità
della clausola nel suo complesso, ma è altrettanto vero che nes
sun concreto interesse ha ora il ricorrente a dolersi di ciò, per ché rimane comunque fermo che anche l'ultimo comma del ci
tato art. 8 dello statuto è nullo, onde discettare della validità
o invalidità della deliberazione che lo ha introdotto si risolve
rebbe in uno sterile esercizio. (Omissis) IV. - Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso del Cre
dito emiliano dev'essere respinto.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 8 lu
glio 1996, n. 6223; Pres. La Torre, Est. Bibolini, P.M. Ami
rante (conci, parz. diff.); Comune di Cagliari (Aw. Piras,
Melis) c. Halen ed altri (Avv. Serpe, Pinna); Halen ed altri
c. Comune di Cagliari. Cassa Trib. sup. acque 22 febbraio 1993, n. 22.
Espropriazione per pubblico interesse — Occupazione di urgen za — Indennità — Determinazione — Criteri (L. 25 giugno 1865 n. 2359, espropriazioni per causa di pubblica utilità, art.
71, 72; 1. 22 ottobre 1971 n. 865, programmi e coordinamen to dell'edilizia residenziale pubblica; norme sull'espropriazio ne per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni delle leggi 17 agosto 1942 n. 1150, 18 aprile 1962 n. 167, 29 settembre
1964 n. 847, ed autorizzazione di spesa per interventi straor
dinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e con
venzionata, art. 20; 1. 8 agosto 1992 n. 359, conversione in
legge, con modificazioni, del d.l. 11 luglio 1992 n. 333, re cante misure urgenti per il risanamento della finanza pubbli
ca, art. 5 bis).
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