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sezione I civile; sentenza 3 settembre 1996, n. 8048; Pres. Cantillo, Est. Rordorf, P.M. Buonajuto...

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sezione I civile; sentenza 3 settembre 1996, n. 8048; Pres. Cantillo, Est. Rordorf, P.M. Buonajuto (concl. conf.); Credito emiliano holding (Avv. Irti, Corradi) c. Sinigaglia. Conferma App. Bologna 4 aprile 1992 Source: Il Foro Italiano, Vol. 119, No. 9 (SETTEMBRE 1996), pp. 2685/2686-2699/2700 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23191576 . Accessed: 28/06/2014 09:57 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 82.146.63.67 on Sat, 28 Jun 2014 09:57:58 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezione I civile; sentenza 3 settembre 1996, n. 8048; Pres. Cantillo, Est. Rordorf, P.M.Buonajuto (concl. conf.); Credito emiliano holding (Avv. Irti, Corradi) c. Sinigaglia. ConfermaApp. Bologna 4 aprile 1992Source: Il Foro Italiano, Vol. 119, No. 9 (SETTEMBRE 1996), pp. 2685/2686-2699/2700Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23191576 .

Accessed: 28/06/2014 09:57

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

Assume il ricorrente che tali disposizioni contrasterebbero con

i principi statutari posti a protezione della minoranza ladina, alla quale si vuole offrire una tutela peculiare attraverso l'art.

56 dello statuto. Le stesse contrasterebbero, altresì, con l'art.

51, 1° comma Cost., in quanto impedirebbero agli appartenenti al gruppo ladino l'accesso alle cariche elettive in condizioni di

parità con tutti gli altri cittadini.

13. - La questione relativa all'art. 2, 5° comma, secondo il

quale «nei comuni con popolazione superiore a 13.000 abitanti

della provincia di Bolzano dove nel consiglio comunale sono

presenti più gruppi linguistici, il vicesindaco deve appartenere al gruppo linguistico maggiore per consistenza escluso quello cui appartiene il sindaco», è infondata.

Il ricorso, infatti, non considera che la disposizione, nell'am

bito del sistema di garanzie sopra illustrato, altro non fa che

tener conto del grado di rappresentatività che è proprio delle

varie componenti etniche. E questo senza escludere, peraltro,

che, nell'elezione del sindaco, possa riuscire eletto, ottenendo

i consensi necessari, anche un esponente del gruppo ladino.

14. - La censura proposta avverso il 6° comma dello stesso

art. 2 è inammissibile. Trattasi della disposizione che, dopo aver previsto — in ciò

rifacendosi all'art. 61, 2° comma, dello statuto — che «nei co

muni della provincia di Bolzano, ciascun gruppo linguistico ha

diritto di essere comunque rappresentato nella giunta, se nel

consiglio comunale vi siano almeno due consiglieri appartenenti al gruppo medesimo», dispone che «il numero dei posti spet tanti a ciascun gruppo linguistico nella giunta viene determinato

includendo nel computo anche il sindaco».

Secondo il ricorrente «qualora l'art. 61, 2° comma, venisse

(peraltro, è da ritenere, illegittimamente) interpretato nel senso

che solo i gruppi linguistici con almeno due consiglieri comuna

li possono essere rappresentati in giunta, il sindaco del gruppo

ladino, eventualmente eletto, si troverebbe in condizione di non

poter far prate della giunta medesima».

La doglianza, invero di non agevole lettura, più che proporre una vera e propria censura nei confronti della disposizione di

cui trattasi, sembra risolversi nella prospettazione, in via mera

mente ipotetica, degli effetti che una delle possibili interpreta zioni dell'art, 61 dello statuto — interpretazione che, peraltro, il ricorrente mostra di non condividere, anzi di ritenere illegitti ma — avrebbe sulla possibilità del sindaco ladino di far parte della giunta.

Per questi motivi, la Corte costituzionale dichiara inammissi

bili le questioni di legittimità costituzionale sollevate con il ri

corso in epigrafe — ai sensi dell'art. 56 dello statuto speciale, in riferimento agli art. 2, 61, 62, 92 e 102 del medesimo statuto

nonché agli art. 2, 3, 6, 48 e 49 Cost. — nei confronti dell'inte

ra legge della regione Trentino-Alto Adige 30 novembre 1994

n. 3 (elezione diretta del sindaco e modifica del sistema di ele

zione dei consigli comunali nonché modifiche alla 1. reg. 4 gen naio 1993, n. 1);

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzio nale sollevata con il ricorso in epigrafe — ai sensi dell'art. 56

dello statuto speciale, in riferimento agli art. 2 e 102 del mede

simo statuto e 2, 3, 6 e 51 Cost. — nei confronti dell'art. 2, 6° comma, della predetta legge regionale;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale

sollevate:con il ricorso in epigrafe — ai sensi dell'art. 56 dello

statuto speciale, in riferimento agli art. 2, 61, 62, 92 e 102 del

medesimo statuto nonché agli art. 2, 3, 6, 48 e 49 Cost. —

nei confronti degli art. 2, 6° comma, 17, 1° comma, 32, 1°

comma, lett. b), 35, 1° comma, lett. h), e 3° comma, lett. c),

36, 1° comma, lett. h) e 3° comma, lett. c), 65, 1° comma,

della predetta legge regionale; dichiara non fondata là questione di legittimità costituzionale

sollevata con il ricorso in epigrafe — ai sensi dell'art. 56 dello

statuto speciale, in riferimento agli art. 2 e 102 del medesimo

statuto e 2, 3, 6 e 51 Cost. — nei confronti dell'art. 2, 5° com

ma, della predetta legge regionale.

Il Foro Italiano — 1996.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 3 settem

bre 1996, n. 8048; Pres. Cantillo, Est. Rordorf, P.M. Buo

najuto (conci, conf.); Credito emiliano holding (Aw. Irti,

Corradi) c. Sinigaglia. Conferma App. Bologna 4 aprile 1992.

CORTE DI CASSAZIONE;

Società — Società di capitali — Bilancio — Violazione dei pre cetti di chiarezza e precisione — Insufficienza delle informa

zioni fornite ai soci — Illiceità del bilancio — Deliberazione assembleare approvativa — Nullità (Cod. civ., art. 2379, 2423;

d.leg. 9 aprile 1991 n. 127, attuazione delle direttive n.

78/660/Cee e n. 83/349/Cee in materia societaria, relative

ai conti annuali e consolidati, ai sensi dell'art. 1,1° comma, 1. 26 marzo 1990 n. 69).

Società — Società di capitali — Deliberazione assembleare ap

provativa del bilancio — Insufficienza delle informazioni for

nite dal bilancio — Legittimazione ed interesse a proporre

l'impugnazione (Cod. civ., art. 1421, 2379; cod. proc. civ., art. 100).

Società — Società di capitali — Bilancio — Azioni proprie —

Iscrizione — Criteri di valutazione per i titoli azionari in ge nere — Applicabilità (Cod. civ., art. 2357 ter 2425; d.leg. 9 aprile 1991 n. 127).

Società — Società di capitali — Bilancio — Azioni — Iscrizione — Criteri di valutazione — Principio di prudenza — Discre

zionalità degli amministratori — Superamento del limite della

ragionevolezza e difetto di motivazione — Illiceità del bilan

cio — Valutazione del giudice di merito — Insindacabilità

in Cassazione (Cod. civ., art. 2423, 2425, 2429 bis, 2432; d.leg. 9 aprile 1991 n. 127).

Società — Società per azioni — Trasferimento delle azioni —

Clausola di gradimento — Discrezionalità degli organi sociali — Assenza di obbligo di motivare il rifiuto — Impegno della

società a curare il collocamento delle azioni — Nullità della

clausola (Cod. civ., art. 2355; 1. 4 giugno 1985 n. 281, dispo sizioni sull'ordinamento della Commissione nazionale per le

società e la borsa; norme per l'identificazione dei soci delle

società con azioni quotate in borsa e delle società per azioni

esercenti il credito; norme di attuazione delle direttive Cee

79/279, 80/390 e 82/121 in materia di mercato dei valori mo

biliari e disposizioni per la tutela del risparmio, art. 22).

Il bilancio d'esercizio di una società di capitali che sia in con

trasto con i precetti di chiarezza e precisione dettati dall'art.

2423, 2° comma, c.c. (nel testo anteriore alle modificazioni

apportate dal d.leg. n. 127 del 9 aprile 1991) è illecito, ed

è quindi nulla la deliberazione assembleare con cui esso sia

stato approvato, non solo quando la violazione dei suaccen

nati precetti abbia determinato una divaricazione tra il risul

tato effettivo dell'esercizio (o il dato destinato alla rappresen tazione complessiva del valore patrimoniale della società) e

quello indicato in bilancio, ma anche in tutti i casi in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile de

sumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole

invece siano fornite per ciascuna delle singole poste di cui

è richiesta l'iscrizione. (1) L'interesse che legittima il socio ad impugnare per nullità la

deliberazione approvativa di un bilancio redatto in violazione

delle prescrizioni legali non dipende solo dalla frustrazione

dell'aspettativa che il medesimo socio possa avere alla perce zione di un dividendo o, comunque, da un immediato van

taggio patrimoniale che una diversa e più corretta formula zione del bilancio possa eventualmente far sperare; l'interesse

a proporre l'impugnazione può derivare, invece, anche dal

solo fatto che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio non consenta aI socio di avere tutte le informazioni — desti

nate a riflettersi anche sul valore della sua quota di partecipa zione — che il bilancio dovrebbe invece offrirgli, ed alle qua

li, attraverso la declaratoria di nullità e la conseguente neces

saria elaborazione di un nuovo bilancio emendato dai vizi

del precedente, il socio impugnante legittimamente aspira. (2)

(1-2) I. - La Suprema corte torna ad occuparsi di alcuni temi ormai classici in materia di bilancio d'esercizio della società di capitali. In

primo luogo, il tema della rilevanza informativa del bilancio e la con nessa questione dei riflessi che provoca, sulla validità del bilancio me

desimo, la violazione del precetto di chiarezza enunciato dall'art. 2423, 2° comma, c.c. In secondo luogo, il tema della natura dell'interesse da cui dipende la legittimazione ad agire in giudizio per far dichiarare

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2687 PARTE PRIMA 2688

Le azioni proprie che la stessa società emittente conserva in por

tafoglio rappresentano un valore che esiste nel patrimonio so

ciale ed è suscettibile di essere monetizzato, sicché esse deb

bono essere iscritte in bilancio secondo i criteri di valutazione

e, in genere, secondo le regole stabilite dalla legge per qual siasi altro titolo azionario. (3)

la nullità di una deliberazione con la quale l'assemblea abbia approvato un bilancio non rispettoso dei precetti legali.

Sul primo aspetto, la sentenza si segnala per la decisa presa di posi zione in favore dell'autonomia del precetto di chiarezza — la cui rile vanza è fatta discendere dalla centralità della funzione informativa del bilancio e dall'impossibilità che tale funzione venga compiutamente as solta ove quel precetto non sia rispettato — e per la conseguente affer mazione secondo la quale anche un bilancio ipoteticamente vero, nell'e

spressione contabile delle sue poste, è da considerare illecito nel caso in cui quelle poste, e le relative spiegazioni che nelle relazioni di ammi nistratori e sindaci debbono essere fornite, manchino di sufficiente chia rezza e determinino quindi un deficit informativo. È da notare, a tal

proposito, che la Cassazione si è pronunciata su un bilancio redatto in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.leg. 9 aprile 1991 n. 127, con cui è stata recepita la IV direttiva comunitaria sui conti annuali delle società di capitali e sono state apportate non poche modificazioni alla corrispondente disciplina nazionale. Tuttavia, la corte non ha man cato di sottolineare espressamente come l'importanza della funzione in formativa del bilancio, con quel che ne consegue in tema d'illiceità dei bilanci non rispettosi del precetto di chiarezza, appaia ancor più eviden te alla luce della suindicata normativa comunitaria e della nuova rego lamentazione nazionale che da quella è derivata, risultando l'autonomia del menzionato precetto di chiarezza, nel nuovo testo dell'art. 2423, 2° comma, forse ancor più marcata che in precedenza. E si tratta, pro babilmente, di qualcosa di più di un mero obiter dictum, perché tra

gli argomenti addotti a sostegno della propria decisione, la corte ha richiamato proprio la normativa comunitaria (benché non ancora rece

pita nell'ordinamento interno al tempo cui il giudizio si riferisce), rifa cendosi al principio secondo cui il giudice, quando applica disposizioni di diritto nazionale tanto precedenti quanto successive alla direttiva, ha sempre l'obbligo di interpretarle quanto più è possibile alla luce del lo scopo e della lettera della direttiva (principio ripetutamente afferma to dalla Corte di giustizia della Comunità europea: si vedano le decisio ni del 13 novembre 1990, nel caso Marleasing, in Foro it., 1992, IV, 173, con nota di L. Daniele, e 14 luglio 1994, nel caso Faccini Dori, id., 1995, IV, 38, con altra nota di L. Daniele; in termini più generali, sul tema dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, si veda

anche, da ultimo, A. Barone, L'efficacia diretta delle direttive tra cer tezze comunitarie e fraintendimenti nazionali, in nota a Corte giust. 7 marzo 1996, causa 192/94, id., 1996, IV, 358).

L'orientamento seguito dalla sentenza in rassegna ha un immediato antecedente in Cass. 30 marzo 1995, n. 3774, id., Rep. 1995, voce So

cietà, n. 836 (per esteso in Giust. civ., 1995, I, 3021, con nota di V.

Salafia, ed in Società, 1995, 1180, con nota di F. Zuconi). Va però segnalato che quanto ora affermato dalla Suprema corte in tema di autonomia del precetto di chiarezza non era affatto pacifico nella giuris prudenza di legittimità formatasi sotto il vigore della normativa prece dente all'emanazione del citato d.leg. n. 127. Anzi, almeno a partire dalla fine degli anni settanta, è stata di gran lunga prevalente la tesi che tendeva ad accreditare una più o meno esplicita supremazia del

principio di verità del bilancio o che comunque, pur quando attribuiva rilevanza ai difetti di chiarezza, avvertiva la necessità di ravvisare nella relativa violazione anche una qualche compromissione del suaccennato

principio di verità (in tal senso, sia pur con varietà di sfumature: Cass. 2 ottobre 1995, n. 10348, Foro it., Rep. 1995, voce cit., n. 816; 25

maggio 1994, n. 5097, ibid., n. 819, ed in Giur. comm., 1994, II, 759, con nota di P. G. Jaeger, Una polemica da seppellire: il principio di chiarezza del bilancio tra «strumentalità» e «autonomia»; 23 marzo 1993, n. 3458, Foro it., 1995, I, 257, con nota di A. Zucco, nonché in Socie

tà, 1993, 1463, con nota di G. Gava, ed in Giur. it., 1994, I, 1, 10, con osservazioni di G. Cottino, Noterelle in tema di diritto di opzione e di invalidità delle delibere assembleari, con una breve appendice sulla

disciplina dei bilanci tra il vecchio e il nuovo regime; 18 marzo 1986, n. 1839, Foro it., 1987, I, 1232; App. Milano 23 luglio 1991, id., Rep. 1992, voce cit., n. 643, e Società, 1992, 49, con nota critica di V. Sala

fia; Trib. Firenze 18 maggio 1993, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n.

683, e Giur. comm., 1993, II, 632, con nota di M. Desario, Il transito

per conto economico dei prelievi dalla riserva «avanzo di fusione»; Trib. Crema 22 gennaio 1993, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 690, e Socie tà, 1993, 1067; e Trib. Napoli 12 gennaio 1989, Foro it., Rep. 1989, voce cit., n. 391, e Giur. comm., 1989, II, 426). Non di rado, peraltro, le affermazioni formulate dalla giurisprudenza, pur nei casi in cui pre stano formale ossequio all'asserita strumentalità del precetto di chiarez za rispetto a quello di verità del bilancio, appaiono dirette soprattutto a sottolineare come la mancanza di chiarezza ed analiticità di singole appostazioni contabili possa incidere sulla validità del bilancio unica

II Foro Italiano — 1996.

La valutazione delle azioni di società ai fini della loro iscrizione

in bilancio, ai sensi dell'art. 2425, 1° comma, n. 4, c.c. (nel testo in vigore prima dell'emanazione del d.leg. n. 127 del

9 aprile 1991), determina l'illiceità del bilancio e la nullità della relativa deliberazione approvativa ogni guai volta gli am

ministratori, nell'esercizio del potere discrezionale loro at

tribuito dalla citata norma, abbiano violato il principio di

mente a condizione che risulti effettivamente messa in dubbio la possi bilità di conoscere la reale situazione patrimoniale ed economica del

l'impresa. In quest'ultimo senso, ed in generale nel senso di una più accentuata rilevanza della funzione informativa del bilancio e del pre cetto di chiarezza che a tale funzione si ricollega, si vedano, oltre a Cass. 3774/95, cit., Cass. 14 marzo 1992, n. 3132, Foro it., Rep. 1992, voce cit., n. 657, e Gìust. civ., 1992, I, 3070, e Giur. it., 1993, I, 1, 108, con nota di G. Mignone; App. Milano 22 ottobre 1993, Foro

it., Rep. 1994, voce cit., n. 763, e Società, 1994, 225, con nota di V.

Salafia; App. Milano 4 dicembre 1992, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 682, e Società, 1993, con nota di P. Balzarini; Trib. Napoli 31 ottobre 1991, Foro it., Rep. 1992, voce cit., n. 612, e Società, 1992, 679, con altra nota di V. Salafia; Trib. Milano 7 marzo 1991, Foro

it., Rep. 1991, voce cit., n. 666, e Società, 1991, 990; Trib. Milano 16 giugno 1988, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 406, e Società, 1988, 1144, con ulteriore nota di V. Salafia; Trib. Genova 5 maggio 1988, Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 634, e Società, 1988, 383, con nota di R. Rordorf; Trib. Napoli 3 giugno 1986, Foro it., Rep. 1986, voce

cit., n. 512, e Società, 1986, 1326, con altra nota di R. Rordorf; Trib. Milano 5 gennaio 1981, Foro it., Rep. 1981, voce cit., n. 275, e Giur.

comm., 1981, II, 458, con nota di S. Pansieri, Interesse ad agire, fun zione informativa del bilancio e principio di «chiarezza».

In dottrina, l'autonoma rilevanza del precetto di chiarezza, con la

conseguente illiceità del bilancio non chiaro (ancorché non necessaria mente falso), è sostenuta, oltre che da Jaeger, op. loc. ult. cit., da G. E. Colombo, Il bilancio d'esercizio, in Trattato delle società per azioni diretto da Colombo e Portale, Torino, 1994, 7, 57 ss.; e da R. Ror

dorf, Impugnazione e controlli giudiziari sul bilancio d'esercizio di so cietà di capitali, in Giur. comm., 1994, I, 854 ss.

II. - La giurisprudenza è saldamente orientata a ritenere che la viola zione dei precetti fondamentali posti dal citato art. 2423 a presidio della chiarezza e precisione (nel nuovo testo: chiarezza, verità e correttezza) del bilancio d'esercizio è causa d'illiceità del bilancio medesimo e, quin di, comporta la radicale nullità della deliberazione assembleare che lo abbia approvato; con l'ovvio corollario che tale nullità, ai sensi del l'art. 1421 c.c., può essere fatta valere in qualunque tempo non solo dai soci, ma da chiunque dimostri di avervi interesse, ed è rilevabile anche d'ufficio da parte del giudice. In tal senso, da ultimo, Cass. n.

3132/92, cit., e Trib. Napoli 23 giugno 1995, Foro it., 1995, I, 3324, con note di G. Vidiri e S. Fortunato, cui si rinvia per altri riferimenti sul punto; contra, ma piuttosto isolatamente, Trib. Bologna 17 gennaio 1995 e 7 gennaio 1995, id., Rep. 1995, voce cit., nn. 821, 822, e Socie

tà, 1995, 944 e 1316, con note entrambe critiche, rispettivamente, di P. Balzarini e G. E. Colombo, cui pure si rinvia per ulteriori richiami anche di dottrina.

L'interesse che legittima il socio ad impugnare di nullità la delibera zione approvativa del bilancio — in coerenza con quanto già sopra s'è accennato in ordine alla centralità della funzione informativa del bilan cio medesimo — non viene peraltro inteso dalla giurisprudenza in senso meramente ed immediatamente patrimoniale, potendo quell'interesse in vece attenere anche soltanto alla corretta informazione in ordine alla situazione dell'impresa, la quale, ovviamente, non manca di riflettersi sul valore delle singole partecipazioni; cfr. Cass. 30 marzo 1995, n. 3774, cit.; 14 marzo 1992, n. 3132, cit.; Trib. Milano 10 ottobre 1991, Foro it., 1991, I, 280, e Società, 1992, 673, con nota di R. Ambrosini; e Trib. Milano 11 aprile 1991, Foro it., 1991, I, 3422, con nota G. Vidiri, Vecchio e nuovo in tema di bilanci d'esercizio, nonché in Giur. it., 1991, I, 2, 885, con nota di G. Mignone, All'avanguardia la giuris prudenza di merito sui principi di redazione del bilancio.

È pure ricorrente in giurisprudenza — e trova qualche eco anche nel la sentenza in rassegna — l'affermazione secondo cui la nullità del bi lancio non correttamente redatto dev'essere tuttavia esclusa ogni qual volta l'indicato vizio possa essere sanato mediante ricorso alle notizie ed ai chiarimenti contenuti nelle relazioni degli amministratori e dei

sindaci, e talvolta persino facendo leva sulle spiegazioni rese dagli am ministratori nel corso dell'assemblea e riportate nel relativo verbale: si vedano Cass. 11 marzo 1993, n. 2959, Foro it., Rep. 1993, voce cit., n. 721, e Società, 1993, 1202, con nota di F. Liconti; 27 febbraio 1985, n. 1699, Foro it., 1985, I, 2661; App. Milano 4 dicembre 1992, cit.; Trib. Napoli 31 ottobre 1991, cit.; e Trib. Milano 21 dicembre 1987, id., Rep. 1989, voce cit., n. 653, e Giur. comm.., 1988, II, 932. La dottrina si mostra però in prevalenza critica verso tale orientamen to, considerato poco compatibile con la necessità di assicurare al lettore del bilancio la possibilità di rinvenire le informazioni che egli intenda ricercare nel luogo ove è presumibile che esse si trovino: cfr. G. Ca stellano, La relazione degli amministratori al bilancio d'esercizio, in Giur. comm., 1983, I, 336 ss.; P. G. Jaeger, Problemi topici del bilan

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

prudenza, operando una valutazione macroscopicamente ir

ragionevole, oppure non abbiano fornito (né vi abbiano prov veduto i sindaci nella loro relazione) un'adeguata spiegazione dei criteri ai quali detta valutazione si è ispirata; la verifica dell'eventuale violazione dei suaccennati limiti di ragionevo

lezza, così come quella concernente la sufficiente enunciazio

ne dei criteri di valutazione, è rimessa al giudice di merito

e, se adeguatamente motivata, non è censurabile in sede di

legittimità. (4) È insanabilmente nulla, in quanto assolutamente inidonea a pro

durre effetti a norma dell'art. 22 l. n. 281 del 4 giugno 1985,

la clausola di «mero gradimento», inserita nell'atto costituti

vo di una società per azioni, con la quale venga rimesso al

giudizio discrezionale del consiglio di amministrazione, o, in via di reclamo, dell'assemblea, il potere di autorizzare l'alie

nazione delle azioni (e dei diritti di opzione) del socio, senza in alcun modo vincolare l'esercizio di tale potere né a criteri

predeterminati né ad obbligo di motivazione, e con la sola

generica previsione, in caso di rifiuto del gradimento, del

l'impegno della società a curare il collocamento delle medesi

me azioni sul mercato ad un prezzo non inferiore a quello

corrispondente al valore desumibile dai dati di bilancio. (5)

ciò d'esercizio, id., 1986, I, 990 ss.; B. Libonati, L'informazione socie

taria e i documenti contabili, in AA.VV., L'informazione societaria,

Milano, 1982, 1020; G. Pellizzi, L'informazione sul bilancio nella re

lazione degli amministratori, ivi, 1148. Rordorf, Impugnazioni e con

trolli, cit., 863 ss., sottolinea la necessità di considerare la questione anche alla luce dei requisiti della concretezza e dell'attualità dell'inte

resse ad agire di chi abbia impugnato la deliberazione.

(3-4) Sui criteri d'iscrizione in bilancio delle azioni proprie — posse dute cioè dalla stessa società emittente — non constano precedenti nella

giurisprudenza di legittimità. Tra i giudici di merito, una soluzione conforme all'orientamento se

guito dalla Suprema corte nella sentenza in rassegna era stata adottata, oltre che da App. Bologna 4 aprile 1992, Foro it., Rep. 1993, voce

Società, n. 569, e Giur. comm., 1993, II, 621 (la cui decisione è stata

ora confermata dalla Cassazione), anche da App. Milano 5 novembre

1993, Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 769, e Società, 1994, 230, con

nota di P. Balzarini, e da Trib. Milano 10 ottobre 1991, cit. Nel senso

che le azioni proprie possano essere iscritte in bilancio al prezzo di co

sto, assimilandole ad immobilizzazioni finanziarie, salvo l'obbligo di

iscrizione al passivo di un'apposita riserva indisponibile, come prescrit to dall'art. 2357 ter, ultimo comma, c.c., Trib. Milano 14 luglio 1983

(Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 538), e Trib. Vicenza 18 ottobre

1984 (id., Rep. 1985, voce cit., n. 538), entrambe in Giur. comm., 1986,

II, 495, con nota di A. Toffoletto, Le azioni proprie e il bilancio

d'esercizio. Le maggiori incertezze, tuttavia, riguardano la natura di tale riserva.

Parte della dottrina, infatti, la considera una posta meramente corretti

va dell'attivo, cioè destinata soltanto ad elidere gli effetti contabili della

corrispondente iscrizione tra le attività delle azioni proprie, alle quali non potrebbe in realtà riconoscersi valore alcuno fin quando esse ri

mangano nella titolarità della stessa società emittente (in tal senso, Co

lombo, Il bilancio d'esercizio, cit., 309 ss.; e L. Cursio, Natura giuridi ca del fondo azioni proprie, in Riserve e fondi nel bilancio d'esercizio,

Milano, 1986, 183 ss.). Secondo altri, invece (cfr. Toffoletto, op. loc. cit.) — ed ora anche

secondo la Cassazione —, si tratterebbe di una vera e propria riserva, facente parte del patrimonio netto della società, come sarebbe ora con

fermato anche dalla disposizione dettata dal nuovo testo dell'art. 2424

c.c. (quale risultante dopo il già ricordato recepimento della quarta di

rettiva) in tema di struttura dello stato patrimoniale.

Quanto all'iscrizione in bilancio delle azioni e delle partecipazioni in genere, dev'essere segnalato come la nuova normativa cui s'è fatto

cenno — ed in specie il nuovo testo dell'art. 2426 (che ha rimpiazzato il vecchio art. 2425) c.c. — abbia apportato rilevanti novità alla disci

plina precedente, che era essenzialmente incentrata quasi solo sul crite

rio di prudenza. Per una diffusa disamina di tale nuova normativa si

veda Colombo, op. ult. cit., 277 ss.

Sul principio di prudenza, ora codificato in termini generali dall'art.

2423 bis, n. 1, vedi, da ultimo, Trib. Napoli 23 giugno 1995, cit.

(5) Sulla complessa problematica delle clausole di gradimento negli statuti della società di capitali, e delle società azionarie in particolare, la Suprema corte aveva già avuto occasione di pronunciarsi piuttosto di recente: si veda, infatti, sent. 20 luglio 1995, n. 7890, Foro it., 1996,

I, 1351, con nota di R. Rordorf, cui si rinvia per ulteriori riferimenti

di giurisprudenza e di dottrina sui vari temi toccati anche dalla sentenza

in rassegna. In quel caso, la Suprema corte aveva manifestato maggiore apertura

che in precedenza verso l'ammissibilità di simili clausole, anche quando

Il Foro Italiano — 1996.

Svolgimento del processo. — Sandro Sinigaglia, socio del Cre

dito emiliano holding s.p.a. (in prosieguo indicata come il Cre

dito emiliano), convenne detta società in giudizio dinanzi al Tri

bunale di Reggio Emilia e chiese che fossero dichiarati nulli

i deliberati con cui l'assemblea aveva approvato il bilancio d'e

sercizio dell'anno 1982 (sopravvalutando la posta dell'attivo pa trimoniale riguardante le azioni proprie), aveva proceduto alla

nomina di quattro amministratori ed aveva determinato il com

penso a costoro spettante. Con lo stesso atto il Sinigaglia chie

se, altresì, che il tribunale dichiarasse la nullità dell'art. 8 dello

statuto sociale, contenente una clausola (cosiddetta «di gradi

mento») volta a subordinare all'immotivata decisione degli or

gani sociali ogni eventuale trasferimento di azioni da parte dei

soci, o, in subordine, che fosse dichiarato nullo l'ultimo com

ma di detto articolo, introdotto con deliberazione assembleare

del 1967, nella parte in cui tale disposizione statutaria assogget ta al medesimo regime anche la possibilità di alienazione dei

diritti di opzione spettanti ai soci in caso di emissione di nuove

azioni. Chiese, infine, che la società convenuta fosse condanna

ta a risarcire il danno (da liquidarsi in separata sede) da lui

subito per non aver potuto cedere a terzi i diritti di opzione di cui era titolare in conseguenza della mancata concessione del

gradimento da parte degli amministratori.

Tali domande, accolte dal tribunale solo nel senso dell'ineffi

cacia dell'art. 8 dello statuto speciale, vennero poi, per effetto

di contrapposte impugnazioni delle parti, portate all'esame del

la Corte d'appello di Bologna, la quale, con sentenza deposita ta il 4 aprile 1992, dichiarò la nullità della deliberazione assem

bleare approvativa del bilancio del Credito emiliano per l'anno

1982, dichiarò altresì la nullità dell'indicata clausola statutaria

di gradimento, con riguardo ai vincoli da essa apposti sia al

trasferimento delle azioni che dei diritti di opzione dei soci, e pronunciò condanna generica della società al risarcimento dei

danni per la mancata concessione del gradimento richiesto a

suo tempo dal Sinigaglia. A fondamento di tale decisione la corte bolognese osservò

che le oltre tremilacinquecento azioni proprie possedute dalla

società erano state iscritte, nell'attivo patrimoniale del bilancio, al valore unitario di lire 144.639; valore da ritenersi però non

corrispondente al reale, come poteva desumersi dal fatto che

nel medesimo anno 1982, in occasione di un'operazione di fu

sione cui la società aveva partecipato, i periti a tal fine nomina

ti avevano attribuito a quelle azioni il valore unitario di sole

lire 94.189, senza che nessun chiarimento gli amministratori o

i sindaci avessero fornito, nelle rispettive relazioni allegate al

in esse non sia prevista alcuna determinazione dei criteri in base ai quali gli amministratori o l'assemblea si riservano di esprimere il placet al

l'ingresso di nuovi soci né sia stabilito l'obbligo di motivare l'eventuale

diniego di gradimento. A rendere la clausola legittima sarebbe infatti

sufficiente, secondo Cass. 7890/95, che al rifiuto del placet faccia da

contrappeso l'obbligo per la società di designare altro acquirente in luo

go di quello non gradito. Ora, invece, sembra che i margini si restringano di nuovo. Questa

volta, infatti, la Cassazione ha stimato insanabilmente nulla una clau sola di «mero gradimento», con cui la possibilità del socio di cedere a terzi le proprie azioni sia rimessa alla totale ed immotivata discrezio nalità degli organi sociali, precisando che la nullità non è esclusa né dalla previsione di un possibile reclamo all'assemblea contro il diniego del placet espresso dagli amministratori (perché l'assemblea si trovereb be in tal caso ad essere investita di un potere discrezionale altrettanto inammissibile ampio ed incontrollato), né dalla previsione di un troppo generico impegno della società di adoperarsi per la collocazione sul mer cato delle azioni che il socio non abbia potuto cedere a causa del rifiuto di gradimento.

Sembra però doversi escludere che la corte abbia inteso smentire il

proprio ancor fresco precedente, ed infatti la stessa sentenza in epigrafe si premura di chiarire che la fattispecie in esame presenta connotati diversi da quelli su cui era pronunciata Cass. 7890/95. In sostanza, la corte non rimette in forse l'affermazione secondo cui la validità della

clausola è salva quando sia previsto un meccanismo che offra comun

que al socio alienante la possibilità di vendere le proprie azioni, anche se ad un acquirente diverso da quello che egli si era all'inizio prefigura to; ma precisa, in chiave assai più rigorosa, i termini entro i quali que sta possibilità deve essere offerta. A rendere legittimo il diniego immo tivato del gradimento non basta, quindi, la previsione di un impegno della società a far vendere le azioni, occorrendo invece che sia concrèta mente reperito un altro acquirente; con la conseguenza che, nel caso in cui non si riesca a rinvenire un tale acquirente alternativo, il socio deve tornare libero di poter vendere le azioni a chi preferisca.

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2691 PARTE PRIMA 2692

bilancio, di un così rilevante divario, neppur giustificabile con

l'andamento del mercato, giacché nell'anno successivo le mede

sime azioni risultavano essere state vendute ad appena lire

35/36.000 ciascuna.

Quanto alla clausola di gradimento, premesso che non poteva trovare applicazione nella specie il disposto dell'art. 22 1. n.

281 del 1985, entrata in vigore in epoca successiva ai fatti di

causa, la corte territoriale rilevò trattarsi di una clausola di gra dimento «mero», come tale implicante un'inammissibile com

pressione del diritto del socio di poter disporre della propria

partecipazione sociale, e quindi nulla (e non solo inefficace), in conformità ai principi enunciati dalla Suprema corte con la

sentenza n. 2365 del 1978 (Foro it., 1978, I, 2781). E del pari

nulla, secondo la corte d'appello, doveva ritenersi l'estensione

del medesimo regime di gradimento anche all'ipotesi di aliena

zione dei diritti di opzione, in quanto introdotta nello statuto

con deliberazione assembleare assunta a maggioranza e non quin di riferibile all'unanime volontà di tutti i soci.

La domanda generica di risarcimento dei danni fu infine rite

nuta meritevole di accoglimento perché il rifiuto della società

di consentire al Sinigaglia la cessione a terzi dei diritti di opzio ne spettantigli era da considerare sostanzialmente immotivato

e l'ostacolo così frapposto a tale cessione appariva potenzial mente dannoso per il Sinigaglia medesimo, in relazione al suc

cessivo andamento negativo del prezzo di dette azioni sul

mercato.

Contro tale sentenza il Credito emiliano ha proposto ricorso

per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrato anche con

successiva memoria. Il Sinigaglia non ha spiegato difese in que sta sede.

Motivi della decisione. — I. - Il primo motivo di ricorso, concernente il capo di sentenza con cui è stata dichiarata nulla

la deliberazione approvativa del bilancio del Credito emiliano

per l'anno 1982, è volto a denunciare la violazione dell'art. 2425

c.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.leg. n.

127 del 1991), nonché il vizio di motivazione da cui sarebbe

affetta l'impugnata sentenza.

La ricorrente si duole che la corte territoriale abbia giudicato

incongruo il valore attribuito in bilancio alle azioni proprie del

la società sulla scorta dià indicazioni desunte da una relazione

di stima che, per esser stata effettuata al diverso fine di deter

minare il rapporto di cambio delle azioni in occasione di una

precedente fusione, non sarebbe invece assolutamente significa tiva. Così come per nulla indicativa della pretesa sopravvaluta zione di dette azioni sarebbe la circostanza che esse erano poi state vendute ad un prezzo minore nell'esercizio successivo, per ché i fatti accaduti dopo la redazione del bilancio non possono essere utilizzati per giudicare ex post della congruità di valuta

zioni compiute in precedenza. Pertanto, secondo il ricorrente,

giacché la disposizione dell'art. 2425, n. 4, c.c. (nel testo all'e

poca vigente) rimetteva al prudente apprezzamento degli ammi

nistratori la valutazione delle azioni in bilancio e poiché nessun

elemento il socio impugnante aveva addotto per dimostrare che

detta valutazione avesse esorbitato dai limiti della ragionevolez

za, sarebbe errata (o, comunque, non adeguatamente motivata) la declaratoria di nullità pronunciata dalla corte bolognese.

Anche il secondo mezzo di gravame, con cui si lamenta la

violazione degli art. 1421, 2357 ter e 2379 c.c., è riferito alla

pronuncia di nullità del deliberato assembleare con cui è stato

approvato il bilancio d'esercizio del Credito emiliano per l'anno

1982. Il ricorrente si duole che la corte territoriale abbia omesso

di considerare che l'asserita sopravvalutazione riguardava azio

ni proprie della società, per le quali l'art. 2357 ter c.c., recepen do una prassi contabile già precedentemente praticata, stabilisce

che dev'essere iscritta al passivo una riserva indisponibile pari al valore delle azioni stesse: di modo che tale duplice iscrizione

(all'attivo tra le partecipazioni ed al passivo tra le riserve), com

portando in ogni caso l'equivalenza delle due poste, renderebbe

irrilevante, ai fini pratici, il criterio adottato per la valutazione

di dette azioni. Perciò, sempre secondo il ricorrente, non poten dosi dichiarare nulla una deliberazione assembleare se non per l'illiceità o l'impossibilità del suo oggetto, e non essendo confi

gurabile alcuna di tali situazioni in presenza di un'iscrizione con

tabile comunque ininfluente sulla verità della rappresentazione

patrimoniale della società, l'eventuale sopravvalutazione della

posta in esame non avrebbe in nessun caso giustificato la deci

II Foro Italiano — 1996.

sione adottata, ed in rapporto ad essa avrebbe fatto difetto l'in

teresse dell'attore ad ottenere l'invocata pronuncia di nullità.

1.1. - Conviene esaminare congiuntamente i due motivi di ri

corso di cui si è appena riferito, essendo evidente la connessio

ne che li lega. Si tratta, a giudizio della corte, di motivi infondati.

È opportuno brevemente premettere che, secondo un orienta

mento ormai da gran tempo consolidato (si vedano, per tutte, Cass. 14 marzo 1992, n. 3132, id., Rep. 1992, voce Società, n. 656; 8 giugno 1988, n. 3881, id., 1989, I, 2925, e 18 marzo 1986, n. 1839, id., 1987, I, 1232), dal quale non si ha qui alcun motivo per discostarsi, la deliberazione assembleare di una so

cietà di capitali con la quale venga approvato un bilancio redat

to in modo non conforme ai fondamentali precetti stabiliti al

riguardo dall'art. 2423 c.c. (o in violazione delle norme dettate

dagli articoli seguenti, in quanto espressione di quei medesimi

precetti) è da ritenersi nulla, per illiceità del suo oggetto, ai

sensi dell'art. 2379 c.c. Quei precetti, infatti, sono fissati dal

legislatore in funzione di interessi che trascendono i limiti della

compagine sociale e riguardano anche i terzi, pur essi destinata

ri delie informazioni sulla situazione patrimoniale, economica

e finanziaria della società che il bilancio deve fornire con chia

rezza e precisione (ovvero, come ora si esprime il 2° comma

del citato art. 2423 — dopo le modificazioni apportatevi dal

d.leg. n. 127 del 1991 — con chiarezza ed in modo veritiero

e corretto), com'è reso evidente dal regime pubblicitario cui tale

documento è soggetto. Donde consegue che un bilancio redatto

in violazione di dette norme è, per ciò stesso, illecito, e, come

tale, costituisce appunto oggetto illecito della deliberazione as

sembleare che, nondimeno, lo abbia approvato. Da tale premessa discendono alcuni importanti corollari.

In primo luogo, va rilevato che il bilancio d'esercizio di una

società di capitali è illecito non solo quando la violazione delle

suaccennate norme determini una divaricazione tra il risultato

effettivo dell'esercizio (o il dato destinato alla rappresentazione

complessiva del valore patrimoniale della società) e quello del

quale il bilancio dà invece contezza, ma anche in tutti i casi

in cui dal bilancio stesso e dai relativi allegati non sia possibile desumere l'intera gamma delle informazioni che la legge vuole

invece siano fornite con riguardo alle singole poste di cui è ri

chiesta l'iscrizione.

Non può dubitarsi che la funzione del bilancio, soprattutto

per l'aspetto che interessa i terzi, non è solo quella di misurare

gli utili e le perdite dell'impresa al termine dell'esercizio, ma

anche quella di fornire ai soci ed al mercato in genere tutte

le informazioni che il legislatore ha ritenuto al riguardo di pre scrivere. E giacché tali informazioni non attengono soltanto ai

dati conclusivi, ma anche alle singole poste (ed al modo della

loro informazione), onde il lettore del bilancio sia messo in gra do di ripercorrere l'iter logico che ha guidato i redattori del

documento nelle scelte e nelle valutazioni che ogni bilancio ne

cessariamente implica, e sia posto in condizione di conoscere

in maniera sufficientemente dettagliata anche la composizione del patrimonio della società ed i singoli elementi che hanno de

terminato un certo risultato economico di periodo, ne consegue che si avrà illiceità del bilancio ogni qual volta la violazione

dei ricordati precetti inderogabili di legge non permetta di per

cepire, con chiarezza sufficiente, le specifiche informazioni che la lettura del documento e dei suoi allegati deve invece offrire

con riguardo a ciascuna delle poste da cui il bilancio è formato.

Non può quindi seguirsi l'orientamento pur talvolta echeggia to nella giurisprudenza di questa stessa corte, che subordina

la rilevanza del precetto di chiarezza al rispetto di un sovraordi

nato principio di verità del bilancio, quasi che un bilancio non

idoneo a fornire informazioni sufficientemente leggibili possa esser considerato valido sol perché, in ultima analisi, i dati in

esso riportati non risultino, nella loro espressione contabile, con

trari al vero. Una siffatta opinione sarebbe manifestamente in

sostenibile dopo che sono stati formalmente recepiti nel nostro

ordinamento (con l'emanazione del citato d.leg. n. 127) i detta mi della quarta direttiva comunitaria in materia di società, pa lesemente ispirati alla massima valorizzazione del cosiddetto prin

cipio di trasparenza del bilancio. Essa, però, non appare condi

visibile neppure alla stregua della normativa pregressa (in vigore

all'epoca di redazione del bilancio qui in esame), alla cui inter

pretazione, del resto, non possono restare estranei i principi già da tempo enunciati dalla surrichiamata quarta direttiva, la cui

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

emanazione risale al luglio del 1978: perché, se è vero che le

direttive comunitarie, prima del loro formale recepimento, non

sono suscettibili di diretta applicazione nei rapporti tra privati, è altresì vero che — come anche la Corte di giustizia europea ha avuto modo di affermare nella sentenza resa il 14 luglio 1994, in causa n. 91/94 (id., 1995, IV, 38) — il giudice «quando apli ca disposizioni di diritto nazionale, tanto precedenti quanto suc

cessive alla direttiva, ha l'obbligo di interpretarle quanto più è possibile alla luce dello scopo e della lettera della direttiva».

D'altronde, seguendo l'opinione qui contestata, da un lato

si trascura senza alcuna reale giustificazione il dettato espresso dal citato art. 2423, che (nel testo allora vigente) pone il precet to di chiarezza sullo stesso piano di quello di precisione, senza

suggerire alcuna graduatoria d'importanza e senza in alcun mo

do subordinare il rispetto del primo a quello del secondo o di

qualsiasi altro precetto; d'altro lato, non si tien conto di ulte

riori e non meno importanti disposizioni, quali ad esempio quelle

dettagliatamente volte a disciplinare il contenuto della relazione

degli amministratori, che invece testimoniano della massima im

portanza attribuita dal legislatore alla chiarezza delle singole in

formazioni che debbono essere garantite ai destinatari del bilan

cio. E si rischia perciò di tradire, in ultima analisi, la stessa

ragion d'essere delle norme in esame, essendo di tutta evidenza

che la mancanza di chiarezza nelle singole poste in cui il biancio

si articola fatalmente compromette quella funzione informativa

(anche all'esterno della compagine sociale) che si è già visto

essere uno degli scopi principali perseguiti dal legislatore nel

disciplinare il profilo contabile del diritto societario.

Coerentemente con tali rilievi, dev'essere quindi ribadito che,

proprio per la già rilevata funzione informativa del bilancio, l'interesse del socio ad impugnare per nullità la deliberazione

approvativa di un bilancio redatto in violazione delle prescrizio ni legali non dipende solo dalla frustrazione dell'aspettativa che

il medesimo socio possa avere la percezione di un dividendo

o, comunque, da un immediato vantaggio patrimoniale che una

diversa e più corretta formulazione del bilancio possa eventual

mente far balenare. Quell'interesse, invece, ben può nascere dal

fatto stesso che la poca chiarezza o la scorrettezza del bilancio

non permette al socio di avere tutte le informazioni — destinate

ovviamente a riflettersi anche sul valore della singola quota di

partecipazione — che il bilancio dovrebbe invece offrirgli, ed

alle quali, attraverso la declaratoria di nullità e la conseguente necessaria elaborazione di un nuovo bilancio emendato dai vizi

del precedente, il socio impugnante legittimamente aspira (cfr.

anche, in tal senso, la recente pronuncia di questa corte in data

30 marzo 1995, n. 3774, id., Rep. 1995, voce cit., n. 826). Si dovrà poi ancora brevemente tornare sulle considerazioni

difensive con cui la società ricorrente sostiene che, ove pure in concreto ravvisabile, la violazione delle norme in tema di

appostazione nel bilancio di azioni proprie non sarebbe idonea

a determinare la nullità del bilancio medesimo e della conse guente deliberazione approvativa, e non giustificherebbe l'inte

resse del socio all'impugnazione. Quanto sopra detto vale però sin d'ora a chiarire che tali considerazioni difensive muovono da premesse d'ordine generale non condivisibili.

1.2. - Il bilancio d'esercizio del Credito emiliano, come già s'è accennato, è stato giudicato illecito dalla corte d'appello a

causa della sopravvalutazione delle azioni proprie iscritte all'at

tivo della situazione patrimoniale. Secondo la difesa della società ricorrente, di tale sopravvalu

tazione non sarebbe stata offerta prova adeguata e, comunque,

essa sarebbe irrilevante.

Conviene cominciare da questo secondo rilievo, che mette in

questione il modo stesso in cui, a termini di legge, debbono

essere iscritte in bilancio le azioni proprie. È noto che, a tal riguardo, la dottrina ha proposto nel tempo

soluzioni diverse. Talvolta, in epoca più remota, si è sostenuto

che le azioni di cui sia titolare la stessa società emittente, in

quanto già rappresentative di una quota del patrimonio di quel

la medesima società, non sarebbero in grado d'incrementare ul

teriormente detto patrimonio e dovrebbero, perciò, essere regi

strate in bilancio come semplici poste di memoria (nummo uno).

Ma tale soluzione (oltre ad essere ora non facilmente conciliabi

li con il disposto dell'art. 2357 ter, ultimo comma, c.c.) è poco

plausibile, perché si rivela incapace di dar conto dell'utilizzo

di ricchezza impiegato dalla società nell'acquisto delle proprie

azioni. E, però, pur dando atto della necessità d'iscrivere nel

II Foro Italiano — 1996.

l'attivo del bilancio una posta patrimoniale corrispondente al

valore di dette azioni (o comunque dell'importo di utili impie

gato nel relativo acquisto), una parte della più moderna dottri

na, ricollegandosi per certi versi ai presupposti argomentativi di quella più antica tesi, tuttora sostiene che detta iscrizione

possa prescindere da un'effettiva valutazione delle azioni di cui

si tratta, in quanto la posta attiva sarebbe comunque destinata

a trovare contropartita contabile in una posta passiva di uguale

importo (come prescrive la citata disposizione dell'art. 2357 ter,

introdotta, peraltro, in epoca successiva ai fatti cui si riferisce

la presente causa). Il corollario di tale tesi sarebbe, secondo

alcuni, la totale irrilevanza del valore attribuito alle azioni pro

prie in bilancio, la cui validità non potrebbe quindi essere giam mai messa in discussione per un preteso eccesso o difetto di

valutazione, dovendosi dette azioni iscrivere sempre e comun

que per un importo pari alla somma degli utili impiegati per il loro acquisto.

Quest'opinione, come altra parte della dottrina non ha man

cato di rilevare, non è però condivisibile, e le conclusioni cui

essa conduce non sono accettabili. Essa presuppone che la po sta passiva cui s'è fatto cenno abbia una mera funzione rettifi

cativa dell'attivo, serva cioè unicamente ad elidere, nella som

ma algebrica le due colonne contrapposte dello stato patrimo

niale, l'effetto dell'iscrizione in attivo delle azioni proprie. Se

anche così fosse, probabilmente non ne deriverebbe l'irrilevan

za della valutazione attribuita a quelle azioni, perché il solo

fatto che una posta venga iscritta in bilancio postula, logica

mente, che essa debba poter fornire un'indicazione significativa e riferibile alla data di chiusura del bilancio. Vero è, comun

que, che la posta passiva di cui si è parlato non ha affatto

funzione meramente rettificativa dell'attivo, ma costituisce in

vece una vera e propria riserva, destinata ad esprimere valori

facenti parte del patrimonio netto della società. E ciò si desume

con assoluta evidenza non solo dal già citato ultimo comma

dell'art. 2357 ter, che appunto parla di «riserva indisponibile», ma anche, e soprattutto, dal tenore del vigente art. 2424, che

appunto include la «riserva per azioni proprie in portafoglio» tra le poste del passivo destinate a rappresentare il patrimonio netto della società (ed impone di iscrivere le azioni proprie al

l'attivo, distinguendo tra quelle che costituiscono immobilizza

zioni finanziarie e quelle che fanno parte dell'attivo circolante). E se volesse obiettarsi che la norma da ultimo citata è stata

introdotta nell'ordinamento nazionale in epoca successiva alla

redazione del bilancio di cui qui si sta discutendo, occorrerebbe

replicare che quella norma ha recepito un precetto comunitario

(espresso nell'art. 9 della già richiamata quarta direttiva) ema

nato sin dagli anni settanta: onde, per le ragioni già dianzi illu

strate, è doveroso optare anche nel caso di specie per un'inter

pretazione che sia conforme ai presupposti da cui l'accennata

normativa comunitaria muove. Tanto più che tali presupposti

paiono del tutto coerenti con la realtà di un fenomeno che pur

sempre implica un impiego (non certo la neutralizzazione) dei

valori monetari utilizzati per l'acquisto delle azioni proprie, le

quali non cessano di costituire un valore esistente nel portafo

glio della stessa società e possono, occorrendo, essere ricondot

te ad espressione monetaria o trasformate in investimento di

altro tipo per effetto di successiva alienazione.

Ed allora, anche ammesso che debba esservi una rigorosa e

biunivoca corrispondenza tra l'entità della posta iscritta in atti

vo per indicare il valore delle azioni proprie in portafoglio e

quella del passivo riguardante la suaccennata riserva di patri monio netto, nulla permette di affermare l'irrilevanza dell'indi

cata valutazione ai fini della corretta redazione del bilancio,

non foss'altro perché quella valutazione, in quanto destinata

ad influenzare l'entità del patrimonio netto della società, si ri

flette in modo tutt'altro che marginale su una delle informazio

ni di maggiore importanza che un bilancio di società deve forni

re ai propri destinatari.

Deve perciò concludersi, sul punto, nel senso che le azioni

proprie in portafoglio, siccome rappresentano un valore che esi

ste nel patrimonio della società emittente ed è suscettibile di

essere monetizzato, debbono essere iscritte in bilancio secondo

i criteri di valutazione e, in genere, secondo le regole stabilite

dalla legge per qualsiasi altro titolo azionario. E deve aggiun

gersi che, per le già indicate funzioni informative del bilancio,

se l'iscrizione di tali azioni sia avvenuta, invece, in violazione

di detti criteri e di dette regole, il socio ha interesse a far dichia

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2695 . PARTE PRIMA 2696

rare la nullità della deliberazione approvativa del bilancio anche

per il solo fatto che, in tal modo, egli non è stato posto in

condizione di avere una informazione corretta sulla situazione

patrimoniale della società.

1.3. - Con riguardo all'iscrizione in bilancio delle partecipa zioni azionarie, l'art. 2435, n. 4, c.c., nella formulazione in

vigore al tempo della redazione del bilancio in esame, si limita

va a stabilire che le azioni dovessero essere appostate ad un

valore determinato dagli amministratori secondo il loro pruden te apprezzamento (salvo tener conto, per i titoli quotati in bor

sa, dell'andamento delle quotazioni). Prudente apprezzamento, però, come da tempo dottrina e giu

risprudenza hanno chiarito, non significa incensurabile arbitrio, bensì uso di discrezionalità tecnica, correlato all'obbligo di mo

tivazione delle scelte operate, come prescritto dallo (allora vi

gente) art. 2429 bis, 1° comma, n. 1, c.c. Con la conseguanza che una valutazione esorbitante dai limiti della ragionevolezza, o non chiara nelle sue motivazioni, è da considerarsi illegittima e tale da inficiare la validità del bilancio.

Quindi, se in linea di principio anche prima del recepimento in Italia della quarta direttiva comunitaria non poteva escluder

si la correttezza dell'iscrizione delle azioni (anche proprie) ad

un valore corrispondente al costo di acquisto, specie quando dette azioni avessero il carattere di una vera e propria immobi

lizzazione finanziaria (cfr., in proposito, Cass. 4 febbraio 1992,

n. 1211, id., 1992, I, 1781, e 18 marzo 1986, n. 1839, id., Rep.

1986, voce cit., n. 504), ciò tuttavia non costituiva in nessun

caso un criterio automatico, ma restava pur sempre soltanto

uno dei possibili modi di esplicazione del prudente apprezza mento degli amministratori, soggetto ai limiti di ragionevolezza e di motivazione cui s'è appena fatto cenno. E non occorre

aggiungere che, quanto più in concreto una valutazione discre

zionale si avvicini ai margini della ragionevolezza, tanto più bi

sogna che di essa venga data una motivazione puntuale ed esau

riente.

Orbene, la corte d'appello ha appunto escluso che la valuta

zione delle azioni proprie operata nel caso di specie dagli ammi

nistratori del Credito emiliano, e poi trasfusa nel bilancio im

pugnato dal socio Sinigaglia, fosse ragionevole. Ed a tale con

clusione è pervenuta sulla base del rilievo che, in occasione di

un'operazione di fusione cui la società aveva partecipato nel

corso del medesimo esercizio, a quelle azioni era stato attribui

to un valore inferiore di quasi un terzo rispetto a quello indica

to in bilancio; aggiungendo poi che tale diversa valutazione non

avrebbe potuto giustificarsi neppure nella prospettiva di un for

te rialzo delle quotazioni, smentito dal fatto che, nell'esercizio

successivo, le medesime azioni erano state invece collocate sul

mercato ad un prezzo pari addirittura alla metà del valore ipo tizzato in sede di fusione.

Trattasi, con ogni evidenza, di un giudizio di merito congrua mente motivato, cui non giova obiettare che la stima della con

gruità del rapporto di cambio nella fusione è altra cosa rispetto alle valutazioni di bilancio, o che il corso cedente dei titoli nel

l'esercizio successivo non è indicativo del loro valore al termine

dell'esercizio cui il bilancio si riferiva.

Al primo argomento può replicarsi che il ragionamento svol

to dalla corte bolognese non postula una coincidenza necessaria

ed assoluta tra le diverse valutazioni del titolo azionario, ai fini

del rapporto di cambio in sede di fusione ed ai fini dell'iscrizio

ne in bilancio delle azioni della società, ma vale a porre in luce

come tra dette valutazioni, riferite al medesimo arco di tempo, non sia plausibile una divaricazione così clamorosa, se non in

presenza di ben precise cause che la giustifichino e delle quali,

viceversa, nella specie non emergeva traccia. È certamente vero,

infatti, che la stima operata per determinare il rapporto di valo

re tra azioni di società diverse, destinate a fondersi tra loro, ha carattere essenzialmente comparativo e può essere influenza

ta da fattori (anche di ordine soggettivo, e comunque rilevanti

solo nel contesto negoziale in cui si attua il cambio tra azioni

della società incorporata e dell'incorporante) estranei alla cor

retta determinazione di valore di quelle medesime azioni in sede

di redazione del bilancio d'esercizio. Tuttavia, ciò non può in

durre a dimenticare che si tratta pur sempre di valutazioni aventi, in definitiva, il medesimo oggetto, e che la discrezionalità rico

nosciuta agli amministratori nell'iscrizione delle azioni in bilan

cio deve esercitarsi nel rispetto del principio di prudenza, espres samente richiamato dalla citata disposizione dell'art. 2425 (nel

Il Foro Italiano — 1996.

testo all'epoca vigente); e la prudenza impone che i redattori

di un bilancio tengano conto di un dato così rilevante e così

prossimo nel tempo, quale quello che possa ricavarsi dalla sti

ma delle azioni compiuta nell'ambito di un'operazione di fusio

ne effettuata nel medesimo esercizio, e non azzardino una valu

tazione tanto più elevata senza che ve ne siano oggettive e ben

dimostrabili ragioni. Quanto al secondo rilievo, si deve osservare che l'andamento

dei titoli nell'anno 1983 è stato richiamato dalla corte d'appello solo in guisa di argomento aggiuntivo e per sottolineare come

neppure sotto il profilo del prezzo di mercato potesse giustifi carsi una così macroscopica sopravvalutazione delle azioni in

discorso. E se certo è vero che il valore di un determinato cespi te al momento della chiusura del bilancio non può essere giudi cato ex post, sulla base di eventi di mercato verificabili solo

in epoca successiva, è vero anche, nondimeno, che il raffronto

tra la stima delle azioni del Credito emiliano operata in sede

di fusione nell'anno 1982 ed il prezzo di vendita delle stesse

azioni registrato nel 1983 offriva l'evidenza di un andamento

assai negativo delle quotazioni nell'arco di tempo considerato, rendendo perciò ancor più evidente l'incongruità di una valuta

zione di bilancio che, collocandosi nel mezzo dell'indicato pe

riodo, aveva assegnato invece a quelle azioni un valore così ma

croscopicamente più elevato rispetto ad entrambi i suindicati

estremi temporali di riferimento.

S'è già dianzi accennato, del resto, all'obbligo di motivazione

delle scelte operate dagli amministratori, ed al fatto che quanto

più una determinata scelta di bilancio si manifesti apparente mente non sorretta da una giustificazione evidente, tanto mag

giore è la necessità di una adeguata spiegazione del criterio di

valutazione seguito. Le considerazioni appena svolte rendono

quindi superfluo sottolineare ulteriormente come il rispetto di

quest'obbligo di motivazione fosse particolarmente necessario

in un caso come quello in esame; e, viceversa, la corte territo

riale ha accertato che di spiegazioni, al riguardo, non ne è stata

fornita alcuna, perché né i sindaci né gli amministratori hanno

dato ragione, nelle rispettive relazioni, della valutazione in bi

lancio delle azioni proprie e, soprattutto, dei motivi che giusti ficavano una valutazione così divaricata rispetto agli indicatori

di valore cui sopra s'è fatto cenno.

In conclusione, deve perciò affermarsi che la valutazione del

le azioni di società ai fini della loro iscrizione in bilancio, ai

sensi dell'art. 2425, 1° comma, n. 4, c.c. (nel testo in vigore

prima dell'emanazione del d.leg. n. 127 del 1991), determina

l'illiceità del bilancio e la nullità della relativa deliberazione ap

provativa ogni qual volta gli amministratori, nell'esercizio del

potere discrezionale loro attribuito dalla norma, abbiano viola

to il principio di prudenza, operando una valutazione macro

scopicamente irragionevole, oppure non abbiano fornito (né vi

abbiano provveduto i sindaci nella loro relazione) un'adeguata

spiegazione dei criteri cui detta valutazione si è ispirata. Con

la precisazione che la verifica dell'eventuale violazione dei suac

cennati limiti di ragionevolezza, così come quella concernente

la sufficiente enunciazione dei criteri di valutazione, è rimessa

al giudice di merito e, se adeguatamente motivata, non è censu

rabile in sede di legittimità. II. - Il terzo motivo di ricorso sposta l'attenzione sulla decla

ratoria di nullità dell'art. 8 dello statuto del Credito emiliano

e della deliberazione assembleare che, introducendo un ulteriore

comma in detto articolo, ha esteso anche all'ipotesi di aliena

zione dei diritti di opzione la clausola di gradimento originaria mente prevista solo per il caso di trasferimento delle azioni.

Il Credito emiliano, denunciando la violazione e la falsa ap

plicazione degli art. 2355 e 2379 c.c., nonché dell'art. 112 c.p.c.,

prospetta in realtà due ben distinti profili di doglianza. In primo luogo, la società ricorrente osserva che l'indicata

clausola statutaria non si limita a subordinare il trasferimento

delle partecipazioni azionarie al gradimento degli organi sociali, ma contempla altresì l'onere per la stessa società di curare il

collocamento delle azioni presso altri possibili acquirenti, così

assicurando in ogni caso al socio la possibilità di uscire dalla

compagine sociale: il che basterebbe ad escludere il dedotto pro filo d'invalidità della clausola, la cui concreta attuazione nel

caso di specie, del resto, neppure giustificherebbe la pronuncia di nullità emessa dalla corte bolognese, essendo stato adeguata mente motivato il rifiuto del placet al trasferimento dei diritti

di opzione richiesto dal socio Sinigaglia ed essendosi la società

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

offerta di agevolare comunque detto trasferimento ad altri soci.

E comunque, poiché l'art. 22 1. n. 281 del 1985 non qualifica le clausole di mero gradimento nulle, bensì inefficaci, e poiché detta norma ha valore interpretativo, non potrebbe parlarsi di

nullità, ma semmai d'inefficacia della clausola in esame, come

aveva correttamente ritenuto il tribunale.

In secondo luogo, il Credito emiliano rileva che la domanda

del Sinigaglia volta a far dichiarare la nullità anche dell'ultimo

comma del citato art. 8 dello statuto, relativo al trasferimento

dei diritti di opzione, era stata formulata solo in via subordina

ta, cioè per il caso in cui il giudice non avesse ritenuto fondata

la precedente domanda in tema di nullità della clausola di gra dimento riguardante i trasferimenti azionari. Poiché, però, que st'ultima domanda era stata invece accolta dalla corte d'appel

lo, nessuna pronuncia avrebbe dovuto essere emessa sulla do

manda subordinata. La quale domanda subordinata, in ogni

caso, avrebbe dovuto esser respinta, in quanto la deliberazione

assembleare con cui era stato a suo tempo approvato il menzio

nato ultimo comma dell'art. 8 dello statuto, lungi dall'implicare l'introduzione ex novo di un'ulteriore clausola di gradimento, aveva inteso semplicemente chiarire la portata della clausola già esistente e non richiedeva, perciò, l'unanime consenso dei soci.

II. 1. - Neppure le doglianze dianzi riassunte appaiono fondate.

Quanto al fatto che la clausola riportata nell'art. 8 dello sta

tuto del Credito emiliano sia da qualificare come di «mero gra dimento» — secondo la nozione prima elaborata dalla giuris

prudenza, a partire dalla nota sentenza di questa corte 2365/78, e poi ripresa dal legislatore nell'art. 22 1. n. 281 del 1985 —,

è sufficiente osservare che il giudice di merito ha accertato (né v'è contestazione al riguardo, in punto di fatto) che detta clau

sola rimette al giudizio discrezionale del consiglio di ammini

strazione, o, in via di reclamo, dell'assemblea, un potere del

tutto discrezionale di autorizzare o meno l'alienazione delle azioni

(e dei diritti di opzione) del socio, senza in alcun modo vincola

re l'esercizio di tale potere né a criteri predeterminati né, co

munque, ad un connesso obbligo di motivazione. Il che giustifi ca la definizione di detta clausola come di «mero gradimento», dovendosi con quest'espressione appunto intendere un potere di gradimento del tutto incondizionato e perciò tale da sconfi

nare in arbitrio.

Non vale a spostare i termini della questione la circostanza

che, nella clausola in esame, sia anche prevista la possibilità di reclamo all'assemblea avverso il diniego di placet del consi

glio di amministrazione. Che da tale possibilità di reclamo pos sa dedursi, per implicito, l'esistenza di un obbligo di motivazio

ne del diniego del placet da parte dell'organo amministrativo

è affermazione inaccettabile, per la sua evidente assiomaticità.

Per il resto, è noto che le ragioni del disfavore dell'ordinamen

to verso l'introduzione di clausole siffatte negli statuti delle so

cietà azionarie risiedono, da un canto, nella naturale destinazio

ne alla circolazione delle azioni, la cui alienazione può essere

quindi, a norma dell'ultimo comma dell'art. 2355 c.c., sottopo sta dall'atto costitutivo a particolari condizioni, ma non del tut

to impedita, come invece ben potrebbe accadere ove ogni scelta

al riguardo fosse rimessa all'arbitrio degli organi sociali; e, d'altro

canto, nella necessità d'impedire che il socio — privo com'è, in questo tipo di società, di un diritto di recesso generalizzato, fuor dei casi tassativamente indicati dall'art. 2437 c.c. — resti

«prigioniero della società», per effetto di un meccanismo che

finirebbe per subordinare completamente ogni suo diritto di di

sposizione sull'azione a determinazioni del tutto insindacabili

degli organi sociali. Inconvenienti, questi, che evidentemente non

dipendono dall'essere il gradimento rimesso alla discrezionalità

dell'organo assembleare o di quello amministrativo della socie

tà, oppure di entrambi, l'uno in veste di revisore dell'operato

dell'altro, finché resti insito in tale meccanismo il connotato

della potenziale arbitrarietà della decisione, in quanto non cor

relata a criteri oggettivi e predeterminati né ad un obbligo di

motivazione che consenta di verificare la correttezza e la ragio nevolezza del bilanciamento compiuto tra gli interessi sociali e

quelli del socio alienante.

La ricorrente sottolinea, però, che la clausola di gradimento inserita nello statuto del Credito emiliano contiene anche un'ul

teriore previsione, che sembrerebbe in certo senso attenuarne

il rigore, giacché stabilisce che, su richiesta dell'azionista, la

società potrà «curare il collocamento delle azioni a prezzo non

inferiore al valore corrispondente pro quota del capitale sociale

Il Foro Italiano — 1996.

e della riserva ordinaria, risultante dall'ultimo bilancio ap

provato».

Neppure tale previsione, tuttavia, è idonea a rendere detta

clausola conforme ai principi dell'ordinamento. È vero che que sta stessa corte ha di recente affermato la legittimità di una

previsione statutaria di gradimento che, quantunque non corre

lata a criteri predeterminati, sia bilanciata dall'obbligo per la

società, in caso di rifiuto del placet, di designare un altro acqui rente gradito (si veda la sentenza n. 7890 del 1995, id., Rep.

1995, voce cit., n. 799). Ma non sembra affatto che la situazio

ne sia in questo caso la medesima. Intanto altro è il prevedere la possibilità di vendere le azioni a persona diversa da quella inizialmente dal socio indicata, ma alle medesime condizioni o

comunque secondo oggettivi parametri di mercato, altro è ipo tizzare un non meglio precisato impegno della società a colloca

re le azioni ad un prezzo corrispondente ai valori nominali (nem meno dell'intero patrimonio netto, bensì solo) del capitale e della

riserva ordinaria iscritti in bilancio. Ma, soprattutto, deve no

tarsi come la clausola inserita nello statuto del Credito emiliano

non ponga alcun collegamento necessario tra l'operatività del

rifiuto del gradimento, da un lato, e la concreta possibilità di

collocare le azioni presso un diverso acquirente designato dalla

società, dall'altro. Non è stabilito, cioè, che il placet possa esse

re rifiutato solo a condizione che la società designi (entro un

ragionevole lasso di tempo) altro compratore delle medesime

azioni, e che, in caso contrario, il socio è libero di cedere le

proprie azioni a chi preferisce, come, invece, sarebbe indispen sabile per evitare effettivamente quel rischio di «imprigionamen to» del socio che si è visto essere a base del divieto delle clauso

le di mero gradimento. Il solo fatto che la società possa (o ma

gari debba) adoperarsi in tal senso riconduce l'individuazione

dell'acquirente alternativo pur sempre nel novero delle semplici

eventualità, mentre solo l'automaticità e la certezza di una tale

evenienza potrebbe giustificare l'esercizio, da parte degli organi

sociali, di un potere totalmente discrezionale ed immotivato con

cui si neghi al socio l'autorizzazione a cedere le proprie azioni

ad un terzo già disposto ad acquistarle. Ciò chiarito, non giova sostenere che, in concreto, gli organi

sociali del Credito emiliano, nel rifiutare il placet richiesto dal

socio Sinigaglia, avrebbero fatto buon uso dei poteri statutari

di cui disponevano. Tale assunto, come meglio si dovrà precisa re in seguito, non trova avallo nella valutazione al riguardo com

piuta dalla corte territoriale, che non può essere rimessa qui in discussione avendo il giudice di merito adeguatamente moti

vato il proprio convincimento al riguardo. Ma, anche a prescin dere da ciò, occorre osservare che la validità e l'invalidità di

una clausola statutaria dev'essere giudicata in base al modello

organizzativo che essa presuppone o consente, indipendentemente dal modo in cui ne sia stata data, in questo o quel caso, concre

ta applicazione, non potendosi certo negare al socio l'interesse

a che una clausola non conforme ai precetti inderogabili del

l'ordinamento giuridico — e perciò stesso idonea a determinare

anche in avvenire il rischio di comportamenti che la legge inve

ce disapprova — venga espunta dall'ordinamento interno della

società.

II.2. - La società ricorrente, come già s'è accennato, mette

in discussione la pronuncia impugnata anche per aver dichiara

to nulla, e non soltanto inefficace, la più volte ricordata clauso

la statutaria di mero gradimento. A tale conclusione la corte d'appello è perventua muovendo

dal presupposto che, ai sensi dell'art. 22 della citata 1. n. 281, una clausola siffatta sarebbe inefficace, e non nulla; ma che, costituendo tale legge un ius superveniens, rispetto alla situazio

ne cui il giudizio doveva riferirsi, e non potendo esserle ricono

sciuta valenza retroattiva, se ne dovesse prescindere e si dovesse

perciò giudicare unicamente in base ai principi elaborati in pre cedenza dalla giurisprudenza.

Tali argomentazioni non appaiono persuasive, e debbono quin di essere rivedute, ai sensi dell'art. 384, 2° comma, c.p.c., an

corché la decisione debba esser tenuta ferma.

L'assunto, secondo cui la disposizione dettata dall'art. 22 della

citata legge del 1985 sarebbe applicabile solo a partire dall'en

trata in vigore della medesima legge, non è idoneo a sorreggere le conclusioni che la corte territoriale ne ha tratto. Quella di

sposizione, infatti, nel definire inefficaci le clausole di mero gra dimento contenute negli statuti delle società azionarie, evidente

mente ha inteso disciplinare, anche per l'avvenire, la situazione

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2699 PARTE PRIMA 2700

esistente al tempo della sua entrata in vigore. Ma tale situazione

era, per l'appunto, quella derivante dagli statuti delle società

costituite e tuttora in vita in quel momento, non certo quella riferibile solo alle società che si sarebbero successivamente co

stituite, perché la norma soltanto implicitamente esprime un co

mando rivolto a chi si accinga a stipulare nuovi contratti di

società, ed è invece esplicitamente volta a stabilire se e quali effetti l'ordinamento possa riconoscere, sin dalla sua entrata

in vigore, alle previsioni statutarie in essere. Le quali previsioni

statutarie, in quanto non esauriscono i propri effetti in un sin

golo momento, ma hanno attitudine a regolamentare nel tempo il funzionamento e l'organizzazione della società, son destinate

a ricadere nell'ambito di applicazione della predetta norma per il solo fatto che la società tuttora esiste e che esse sono quindi ancora operanti quando quella norma è entrata in vigore.

L'attenzione, pertanto, va focalizzata sul significato dell'e

spressione «sono inefficaci», che la legge ha adoperato, in ordi

ne alla quale la dottrina ha manifestato opinioni assai variegate. La medesima dottrina, tuttavia, ha da tempo insegnato a di

stinguere tra la nozione di inefficacia in senso lato e quella di

inefficacia in senso stretto. Nel primo senso, può parlarsi d'i

nefficacia di un atto negoziale in tutti i casi nei quali l'ordina

mento non consente che gli effetti di quell'atto si producano, o ipotizza che essi si producano soltanto in modo effimero o

provvisorio; sicché tale ampia nozione d'efficacia ricomprende anche quella del negozio intrinsecamente viziato, cui per ciò

stesso l'ordinamento non riconosce la capacità di determinare

conseguenze giuridicamente rilevanti, oltre a quella che invece

dipenda da fattori esterni destinati a condizionare la capacità di un atto, in sé valido, di produrre effetti (o di produrne solo

alcuni, ovvero di produrli in modo duraturo anziché effimero).

Situazioni, queste ultime, solo in presenza delle quali si può invece parlare d'inefficacia in senso stretto, contrapposta alla

nozione d'invalidità.

Orbene, per quel che riguarda le clausole di mero gradimen

to, sembra alla corte che occorra anzitutto porre in evidenza

come l'inefficacia di cui parla l'art. 22 della legge citata (dai cui lavori preparatori nulla è dato al riguardo desumere) abbia

certamente carattere assoluto. Il meccanismo stesso della clau

sola di gradimento ed il fatto che essa sia inserita nello statuto

della società — essendo, quindi, destinata ad operare sul piano

dell'organizzazione sociale e, solo in funzione di quella, a riflet

tersi sulle posizioni soggettive del socio alienante e del terzo

acquirente — impediscono d'ipotizzarne un'inefficacia relativa, tale per cui la clausola, benché inefficace verso taluno, potreb be ancora risultare produttiva di effetti nei riguardi di altri.

D'altro canto, merita anche di esser sottolineato come la ra

gione per la quale la clausola in questione è assolutamente ini

donea a produrre effetti non dipende da fattori ad essa estrinse

ci, e tanto meno ha carattere temporaneo o provvisorio. L'inef

ficacia della clausola di mero gradimento deriva, invece, unicamente dal rifiuto dell'ordinamento di riconoscere come me

ritevoli di tutela le finalità cui la clausola siffatta mira e l'asset

to organizzativo della società che da essa consegue: ossia da

ragioni strettamente legate al modo di essere di detta clausola

ed eliminabili solo a condizione di sostituirla con una clausola

(di gradimento non «mero») congegnata in maniera diversa.

Inoltre, pare senz'altro da escludere che il richiamo operato dal legislatore al concetto d'inefficacia, anziché di nullità, possa esser qui dipeso dall'intento di assicurare un qualche margine di sopravvivenza alle clausole di mero gradimento preesistenti, al fine di consentirne la trasformazione in clausole di gradimen to non «mero» mediante una modifica dell'atto costitutivo deli

berata a maggioranza dall'assemblea dei soci. Se si muove dalla

premessa che nessuna clausola di gradimento può essere intro

dotta nello statuto sociale senza l'unanime consenso di tutti gli azionisti, perché la società non è legittimata a disporre di quello che si ritiene essere un vero e proprio diritto individuale del

socio (cfr., in tal senso, da ultimo, Cass. 9 novembre 1993, n. 11057, id., 1994, I, 1456), pare invero evidente che in nessun

caso sarebbe ammissibile, se non con l'adesione di tutti i soci, emendare una clausola di mero gradimento, originariamente inef

ficace, così da renderla produttiva di effetti: perché anche ciò

equivarebbe ad introdurre delle limitazioni alla circolazione azio

naria che prima, a causa della radicale inefficacia di detta clau

sola, non sussistevano.

Pertanto, nella suaccennata dicotomia tra l'uso del termine

Il Foro Italiano — 1996.

«inefficacia» in senso ampio o in senso stretto, sembra di dover

senz'altro propendere per la prima soluzione, perché, per un

verso, non ricorre alcuno dei connotati che caratterizzano l'i

nefficacia come fenomeno contrapposto all'invalidità, e, per al

tro verso, la logica stessa in cui l'art. 22 della citata legge s'i

scrive postula l'esistenza di un inderogabile divieto di clausole

di mero gradimento, che non può non minarne in radice la va

lidità. Se ciò è vero, deve allora ritenersi che il legislatore ha adope

rato l'indicata espressione al solo fine di descrivere le conse

guenze dell'invalidità di quelle clausole, considerando tale inva

lidità come presupposta. Ed il vizio da cui le clausole di mero

gradimento sono affette non può altrimenti qualificarsi che co

me vera e propria nullità (e così, infatti, anche la precedente

giurisprudenza l'aveva qualificata), attesa la radicale ed assolu

ta inidoneità di dette clausole a produrre effetti. Né può tacersi,

d'altronde, che proprio questa radicale ed assoluta inidoneità

a produrre effetti varrebbe comunque a rendere le clausole di

mero gradimento nulle anche sotto il profilo dell'art. 1418, 2°

comma, in relazione all'art. 1346 c.c., trattandosi appunto di

pattuizioni negoziali intrinsecamente incapaci di realizzare lo sco

po cui esse sono dirette e, dunque, aventi un oggetto impossibile. II.3. - Quanto al gradimento relativo alla cessione dei diritti

di opzione, previsto dall'ultimo comma del citato art. 8 dello

statuto del Credito emiliano (comma introdotto con delibera

zione assembleare assunta a maggioranza), il proposto motivo

di gravame contiene una questione di diritto sostanziale ed una — logicamente preliminare — di carattere processuale.

Quella processuale è, però, mal posta, perché la formulazio

ne della domanda subordinata del Sinigaglia era ovviamente da

intendere nel senso che, in via principale, egli chiedeva la nulli

tà dell'art. 8 nella sua interezza, compresa dunque la parte rela

tiva all'opzione, ed in subordine la nullità di questa sola parte, come conseguenza dell'invalidità della deliberazione assemblea

re che l'aveva a suo tempo approvata. Ed allora, può esser vero

che l'esplicita declaratoria di nullità di tale deliberazione era

superflua, dal momento che era già stata accertata la nullità

della clausola nel suo complesso, ma è altrettanto vero che nes

sun concreto interesse ha ora il ricorrente a dolersi di ciò, per ché rimane comunque fermo che anche l'ultimo comma del ci

tato art. 8 dello statuto è nullo, onde discettare della validità

o invalidità della deliberazione che lo ha introdotto si risolve

rebbe in uno sterile esercizio. (Omissis) IV. - Alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso del Cre

dito emiliano dev'essere respinto.

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 8 lu

glio 1996, n. 6223; Pres. La Torre, Est. Bibolini, P.M. Ami

rante (conci, parz. diff.); Comune di Cagliari (Aw. Piras,

Melis) c. Halen ed altri (Avv. Serpe, Pinna); Halen ed altri

c. Comune di Cagliari. Cassa Trib. sup. acque 22 febbraio 1993, n. 22.

Espropriazione per pubblico interesse — Occupazione di urgen za — Indennità — Determinazione — Criteri (L. 25 giugno 1865 n. 2359, espropriazioni per causa di pubblica utilità, art.

71, 72; 1. 22 ottobre 1971 n. 865, programmi e coordinamen to dell'edilizia residenziale pubblica; norme sull'espropriazio ne per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni delle leggi 17 agosto 1942 n. 1150, 18 aprile 1962 n. 167, 29 settembre

1964 n. 847, ed autorizzazione di spesa per interventi straor

dinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e con

venzionata, art. 20; 1. 8 agosto 1992 n. 359, conversione in

legge, con modificazioni, del d.l. 11 luglio 1992 n. 333, re cante misure urgenti per il risanamento della finanza pubbli

ca, art. 5 bis).

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