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sezione III civile; sentenza 25 febbraio 1998, n. 2031; Pres. Duva, Est. Segreto, P.M. Iannelli...

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Page 1: sezione III civile; sentenza 25 febbraio 1998, n. 2031; Pres. Duva, Est. Segreto, P.M. Iannelli (concl. conf.); Baldaro (Avv. Corbucci, De Falco) c. Inail (Avv. Britti, Sgherri). Cassa

sezione III civile; sentenza 25 febbraio 1998, n. 2031; Pres. Duva, Est. Segreto, P.M. Iannelli(concl. conf.); Baldaro (Avv. Corbucci, De Falco) c. Inail (Avv. Britti, Sgherri). Cassa App. Napoli18 novembre 1994Source: Il Foro Italiano, Vol. 121, No. 5 (MAGGIO 1998), pp. 1457/1458-1461/1462Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23194442 .

Accessed: 24/06/2014 23:33

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

dentale sul punto e con conseguente rigetto di quello principale, dichiarò non cessato l'usufrutto legale; d) respinse la doglianza

dell'appello incidentale concernente la regolazione delle spese nei confronti delle minori in base al rilievo che sulla carenza

di legittimazione di costoro si era formato il giudicato. Ha proposto ricorso per cassazione il fallimento; ha resistito

con controricorso, nella indicata duplice qualità, la Rotondo, la quale ha proposto, altresì, ricorso incidentale e, successiva

mente, memoria.

Motivi della decisione. — I due ricorsi, in quanto proposti avverso la stessa sentenza, vanno riuniti.

Con l'unico motivo del ricorso principale — deducendosi vio

lazione degli art. 324 e 326 c.c. e 25 1. fall, nonché vizio di motivazione — si assume che l'usufrutto legale si era estinto

con l'acquisizione al fallimento dei beni ai quali esso ineriva perché: tale usufrutto costituisce manifestazione dell'obbligo dei

figli di contribuire al mantenimento della famiglia e, pertanto, concreta non un diritto soggettivo di godimento del genitore ma il diritto-dovere di costui di impiegare i frutti dei beni del minore per il mantenimento della famiglia, rimanendo residuale

il diritto del genitore stesso di far propri quei frutti, in quanto limitato alla parte di essi eccedente detto mantenimento (ipote

si, questa, peraltro, di difficile ricorrenza non avendo il mante

nimento un limite massimo); la correlazione dell'usufrutto con

la sfera patrimoniale del figlio lo rende inseparabile dalla con

dizione di appartenenza a costui del bene al quale esso inerisce;

l'usufrutto — non essendogli correlato il diritto di seguito —

come si estingue per la perdita della potestà genitoriale o per il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio così

deve estinguersi se costui perde la disponibilità del bene al quale esso (usufrutto) inerisce: questo, cioè, postula sia la persistenza della potestà genitoriale che la persistenza della disponibilità del

bene, al quale esso inerisce, in capo al figlio; i frutti del bene

acquisito al fallimento sono destinati al soddisfacimento dei cre

ditori e comunque sono automaticamente trasferiti con l'aliena

zione del bene da parte del fallimento.

Il motivo è fondato. La questione da risolvere consiste nello

stabilire se l'acquisizione al fallimento di minore di un bene

di costui sul quale spettava l'usufrutto legale al genitore deter

mini (automaticamente) la estinzione di tale usufrutto.

Al fine sono irrilevanti le considerazioni, svolte dal giudice

del merito e dalle parti, in base alla disciplina codicistica con

cernente gli effetti dell'usufrutto legale e in base alla disciplina

fallimentare concernente la determinazione delle cose non ac

quisibili al fallimento, e intese ad individuare la natura di tale

usufrutto e conseguentemente la sua acquisibilità al fallimento.

Dette discipline, difatti, concernono la condizione giuridica

dell'usufrutto legale del quale sia accertata la spettanza, laddo

ve il problema da risolvere consiste nello stabilire le condizioni

di spettanza — e quindi, correlativamente, di non spettanza —

dello stesso: le limitazioni e gli specifici effetti previsti in dette

discipline cioè concernono l'usufrutto e non la disponibilità del

bene al quale esso inerisce.

Pertanto, l'essere l'usufrutto legale assoggettato ad un deter

minato regime non potrebbe essere considerato — di per sé e

tanto meno inequivocamente — indice di attribuzione della spet

tanza dell'usufrutto stesso.

Questo, in sostanza, costituisce solamente una peculiare espres

sione dell'amministrazione da parte dei genitori dei beni del mi

nore, in quanto importa l'assoggettamento di tale amministra

zione ad uno speciale regime: esso (usufrutto), quindi — in quan

to concerne unicamente l'ambito dei poteri spettanti al genitore

sui frutti del bene del minore — è determinante del modo di

esplicazione dei poteri dei genitori sui frutti che il bene dà o

è suscettibile di dare e non è, invece, espressione di un partico

lare vincolo che esso venga a costituire sul bene.

Ne costituisce riprova, se fosse necessario, il rilievo che la

locuzione, contenuta nell'art. 324 c.c., «beni dei figli», per il

suo connotato di generalità, non può intendersi come indicativa

solo dei beni immobili, ma deve ritenersi comprensiva di tutti

i beni spettanti al minore suscettibili di dare frutto (tranne quel

li espressamente esclusivi di tale articolo al 3° comma).

I presupposti per l'insorgenza dell'usufrutto legale, invero,

sono previsti nell'art. 324, 1° comma, c.c., il quale dispone che

«i genitori esercenti la potestà hanno in comune l'usufrutto dei

beni del figlio». Essi, pertanto, consistono: a) nella ricorrenza della potestà

Il Foro Italiano — 1998.

genitoriale; b) nell'essere i beni «del figlio» (locuzione, quest'ul

tima, che deve considerarsi indicativa dei beni dei quali il figlio ha la proprietà o, comunque, la disponibilità).

Consegue che l'appartenenza del bene al minore non è in

fluenzata dal fatto che sul bene venga a gravare l'usufrutto le

gale perché tale appartenenza è antecedente all'insorgenza del

l'usufrutto, del quale costituisce, quindi, presupposto, e, per

tanto, rimane disciplinata — in difetto di specifica diversa disposizione, che non si rinviene nella normativa — dal regime ordinario dei beni concernente l'acquisto o la perdita della pro

prietà (o della disponibilità) degli stessi. In definitiva, l'appartenenza del bene al minore e l'usufrutto

legale sul bene stesso spettante al genitore operano su due piani diversi che non interferiscono tra loro: la prima concerne il di

ritto del minore sul bene laddove il secondo concerne il potere del genitore sui frutti di tale bene.

Con la conseguenza che la cessazione dell'appartenenza del

bene al minore determina la estinzione del correlato usufrutto

legale. Da quanto finora rilevato può trarsi il seguente principio:

l'acquisizione, al fallimento di un minore, di un bene apparte nente a costui e sul quale spettava al genitore l'usufrutto legale,

importa la estinzione di tale diritto.

Il ricorso dev'essere, pertanto, accolto e la sentenza impugna ta dev'essere cassata sul punto. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 25 feb

braio 1998, n. 2031; Pres. Dùva, Est. Segreto, P.M. Ian

nelli (conci, conf.); Baldaro (Avv. Corbucci, De Falco) c.

Inail (Aw. Bruti, Sgherri). Cassa App. Napoli 18 novem

bre 1994.

Danni in materia civile — Interessi e svalutazione monetaria — Rilevabilità d'ufficio — Limiti (Cod. proc. civ., art. 336, 345).

Qualora nel giudizio di appello sia mancata una pronunzia sul

l'ulteriore svalutazione verificatasi dopo la sentenza di primo

grado, resta preclusa al danneggiato la possibilità di chiedere

ed ottenere nel giudizio di rinvio la rivalutazione della somma

liquidata a titolo di risarcimento del danno in funzione della

svalutazione verificatasi dopo la sentenza di primo grado. (1)

(1) Il divieto dei nova in appello, con le sue conseguenze nel giudizio di rinvio, continua a mietere vittime: nella specie, quanti sono incorsi

nelle preclusioni derivanti dal giudicato interno.

È principio pacifico che, con riguardo a domanda avente ad oggetto

obbligazione di valore, il giudice dell'impugnazione, nel liquidare la pre stazione (in questo caso risarcitoria), deve tener conto, anche d'ufficio

ed anche se adito in sede di rinvio, dell'ulteriore svalutazione monetaria

successiva alla sentenza impugnata, posto che la rivalutazione non è

che il mezzo di attualizzazione, alla data della decisione, dell'ammonta

re del debito di valore fatto valere (così Cass. 1° dicembre 1992, n.

12839, Foro it., Rep. 1992, voce Danni civili, n. 151, e 19 aprile 1995,

n. 4382, id., Rep. 1995, voce Appello civile, n. 39; per una panoramica sui problemi aperti dal debito di valore, v. Cass. 6 febbraio 1998, n.

1287, id., 1998, I, 1116, con nota di M. Caputi). La rilevabilità d'ufficio soggiace, però, al limite del giudicato interno

e delle sue preclusioni, che riverbera i propri effetti anche in sede di

rinvio: resta, cioè, preclusa al danneggiato la possibilità di chiedere ed

ottenere nel giudizio di rinvio la rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno in funzione della svalutazione verifi

catasi dopo la sentenza di primo grado (così Cass. 22 ottobre 1992,

n. 11552, id., Rep. 1992, voce Danni civili, n. 152). In generale, per quanto attiene al divieto dei nova in appello, con

riguardo ad interessi e svalutazione monetaria, v. Cass., sez. un., 11

marzo 1996, n. 1955, id., 1996, I, 1483: «la domanda, con la quale

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1459 PARTE PRIMA 1460

Svolgimento del processo. — Il 21 dicembre 1976 si verifica

va una collisione tra l'autocarro condotto da Chiafele Antonio

di proprietà di Baldaro Arcangelo, assicurato per la r.c.a. con

la s.p.a. Concordia, e l'autocarro condotto da Iovine Antonio, che decedeva. Il Tribunale di Napoli, adito da Ciccarelli Geno

veffa, vedova dello Iovine e dai figli Iovine Giuseppe, Libera

ed Elena, nonché dall'Inail, in via surrogatoria per il recupero di quanto erogato agli eredi, con sentenza del 13 febbraio 1985, confermata la graduazione delle colpe statuita nel procedimento

penale, per cui si riconosceva a carico dello Iovine il concorso di colpa nella misura del quarantacinque per cento, condannava

Baldaro Arcangelo al pagamento in favore degli eredi Iovine

della complessiva somma di lire 53.184.628, valutata alla data

della decisione, oltre gli interessi legali dal sinistro, nonché il

Baldaro ed il Chiafele in solido al pagamento in favore dell'I nail della somma di lire 99.966.261, oltre interessi, dando atto che l'istituto aveva già recuperto lire 14 milioni versati dalla

s.p.a. La Concordia.

La Corte d'appello di Napoli, a seguito di appello proposto dal Baldaro e di appello incidentale proposto dagli eredi Iovine e dall'Inail, con sentenza del 13 febbraio 1987, confermava l'im

pugnata sentenza, con la sola aggiuntiva condanna per il Balda ro al pagamento di lire 2.657.435 in favore degli eredi Iovine,

quale incremento dei danni maturati in grado di appello. Su ricorso del Baldaro, questa corte, con sentenza del 17 gen

naio 1992, n. 524 (Foro it., Rep. 1992, voce Assicurazione (con tratto), nn. 106, 108, 180), accogliendo solo uno degli otto mo tivi (quello relativo al superamento, per effetto del cumulo delle subite condanne in favore degli eredi Iovine e dell'Inail del limi te massimo del danno risarcibile, avuto riguardo al concorso di colpe), cassava con rinvio la sentenza impugnata affermando il principio che in caso di concorso di colpa fra l'infortunato, che ha usufruito del trattamento assistenziale di un ente previ denziale e del terzo responsabile dell'illecito, l'ente che agisce nei confronti di quest'ultimo in surrogazione dell'assistito ha diritto ad ottenere l'intero ammontare delle prestazioni erogate non decurtato della quota riferibile al concorso di colpa, che

opera solo come limite massimo della rivalsa. La Corte d'appello di Napoli, pronunziando in sede di rin

vio, con sentenza del 18 novembre 1994, in riforma dell'appel lata sentenza, premesso, che per effetto del giudicato formato

si, il quarantacinque per cento del danno, che faceva carico ai convenuti era pari a lire 104.610.000, che rivalutato dal feb braio 1985 all'attualità era pari a lire 172.522.812 e che il credi to dell'Inail era pari a lire 114.366.261, sempre secondo il giudi cato, per cui detratte lire 14.400.000, già percepite dalla s.p.a. La Concordia, residuava la somma di lire 99.966.261, che riva lutata all'attualità ammontava a lire 164.798.389, condannava i convenuti al pagamento di detta somma nei confronti dell'I

nail, nonché il solo Baldaro al pagamento della somma di lire

7.244.222, in favore degli eredi Iovine, costituendo la stessa il residuo di capienza del debito da illecito come sopra determina to dal giudicato formatosi, gravante sul Baldaro, oltre gli inte ressi come indicati nella sentenza impugnata.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Baldaro. Resistono con controricorsi gli eredi Iovine e l'Inali.

Motivi della decisione. — Con un primo motivo di ricorso il Baldaro lamenta la violazione dell'art. 1223 c.c. per avere la sentenza impugnata rivalutato all'attualità sia il suo debito

portandolo da lire 104.610.000 a lire 172.522.812 sia il credito in rivalsa dell'Inail portandolo da lire 99.966.261 (per effetto della deduzione dell'accordo di lire 14.440.000) a lire 164.798.389. Tale rivalutazione, a parere del ricorrente è illegittima essendosi sulle somme fissate dal tribunale formatosi il giudicato.

si chiede per la prima volta in appello l'attribuzione degli interessi e della svalutazione monetaria a far tempo da epoca anteriore alla notifi ca dell'atto di citazione di primo grado, è inammissibile per novità». La deroga al divieto introdotta dall'art. 345 c.p.c., secondo la corte, «condiziona l'ammissibilità della richiesta di interessi maturati e di dan ni sofferti dopo la sentenza di primo grado, alla previa richiesta delle stesse voci in primo grado, consentendo la (ridetta) disposizione dero gatoria non la presentazione di una domanda totalmente nuova, ma soltanto l'aggiornamento o la prosecuzione dopo la sentenza impugnata di interessi o danni, già fatti valere in primo grado» (nello stesso senso, Cass. 4 ottobre 1996, n. 8717, id., Rep. 1996, voce Appello civile, n. 31, e, anche, Cass. 2 maggio 1996, n. 4023, ibid., n. 32).

Il Foro Italiano — 1998.

Sempre nel primo motivo di ricorso lamenta il ricorrente che

non è stata rivalutata anche la somma di lire 14.400.000, corri

sposta dalla sua assicuratrice.

Con un secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione

degli art. 2043, 2056 e 1227 c.c. ed in particolare assume che la sentenza è incorsa in un errore di calcolo, in quanto avrebbe

dovuto dedurre la somma di lire 14.440.000, pagata dalla Con

cordia, dall'ammontare del danno risarcibile residuo, che quin di sarebbe stato pari solo a lire 90.170.000 e solo questa somma

poteva essere oggetto di rivalutazione.

Ritiene questa corte che il ricorso vada accolto per quanto di ragione.

Vanno, anzitutto, riaffermati alcuni principi di diritto.

In linea di principio deve essere ribadito che con riguardo a domanda avente ad oggetto obbligazione di valore, come quella di risarcimento dei danni, il giudice dell'impugnazione, ai fini della liquidazione della prestazione deve tener conto, anche d'uf ficio ed anche se adito in sede di rinvio, dell'ulteriore svaluta

zione monetaria verificatasi successivamente alla sentenza im

pugnata, non esigendosi a tal fine alcuna richiesta della parte

vittoriosa, che sarebbe altresì priva di interesse ad impugnare, in quanto ai fini suddetti la rivalutazione non rappresenta che il mezzo di attualizzazione, alla data della decisione, dell'am

montare del debito di valore fatto valere, il quale in difetto di determinazione pattizia, si converte in debito di valuta, non

suscettibile ex se di rivalutazione, solo per effetto del passaggio in giudicato della sentenza che provvede alla liquidazione (Cass. 1° dicembre 1992, n. 12839, id., Rep. 1992, voce Danni civili, n. 151; 19 aprile 1995, n. 4382, id., Rep. 1995, voce Appello civile, n. 39).

Tale rilevabilità d'ufficio della rivalutazione trova però un

limite nella soggezione della pretesa risarcitoria al rigore delle

preclusioni derivanti dalla formazione del giudicato interno (Cass. 24 marzo 1984, n. 1958, id., Rep. 1984, voce Danni civili, n.

184, e 22 maggio 1987, n. 4637, id., Rep. 1987, voce cit., n.

250), cui si aggiunge per il giudizio di rinvio l'ulteriore limite correlato al divieto delle parti di prendere conclusioni diverse e svolgere attività assertiva e probatoria diverse da quelle già espletate nel giudizio in cui fu pronunziata la sentenza cassata, salve le ipotesi di ius superveniens e di nuove conclusioni rese necessarie dalla sentenza di annullamento.

Quindi, qualora però nel giudizio di appello sia mancata una

pronunzia sull'ulteriore svalutazione verificatasi dopo la senten za di primo grado ed a maggior ragione allorché detta rivaluta zione sia stata espressamente esclusa e la relativa questione non sia stata riproposta in Cassazione, resta preclusa al danneggiato la possibilità di chiedere ed ottenere nel giudizio di rinvio la rivalutazione della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno in funzione della svalutazione verificatasi dopo la sen tenza di primo grado (Cass. 22 ottobre 1992, n. 11552, id., Rep. 1992, voce cit., n. 152).

Infatti, in questo caso, sul punto della mancata rivalutazione successiva al giudizio di primo grado si è formato (per quanto erroneamente) il giudicato interno.

Va, inoltre, premesso che il credito dell'Inail per il rimborso delle prestazioni eseguite a favore dell'infortunato (o degli ere

di) è un credito di valore e non di valuta (Cass. 11 giugno 1994, n. 5638, id., Rep. 1994, voce Assicurazione (contratto di), n.

43), in quanto esso ha la stessa natura dell'originario credito del danneggiato, agendo l'istituto in surrogazione (Cass. 2 feb braio 1992, n. 10087, id., Rep. 1992, voce cit., n. 222).

Infatti, l'assicuratore che agisce in surrogazione dell'assicura to danneggiato al fine di recuperare dal terzo danneggiarne le somme erogate per le prestazioni al danneggiato, è, a norma dell'art. 1916 c.c., un successore a titolo particolare di quest'ul timo nel diritto alla prestazione risarcitoria (Cass. 18 gennaio 1985, n. 130, id., Rep. 1985, voce cit., n. 133).

Nella fattispecie, quindi, avendo la sentenza della Corte di cassazione del 17 gennaio 1992, cit., cassato solo parzialmente la sentenza di appello in relazione non al quantum complessivo dei pregiudizi economici sofferti dalla Ciccarelli e dagli Iovine, per la perdita del relativo marito e padre, e quindi al quantum di detto credito e del corrispettivo debito del Baldaro e del Chia

fele, ma solo per il limite cumulativo entro il quale il responsa bile, che tali pregiudizi aveva cagionato nella misura del cin

quantacinque per cento, era tenuto a risarcire i predetti ed a rilevare l'Inail, che aveva erogato senza decurtazioni le presta

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

zioni, rigettando gli altri motivi di ricorso, devesi ritenere che

in detta data la liquidazione del danno divenne definitiva.

Infatti, il principio dettato dall'art. 336 c.p.c. per il quale la riforma o la cassazione parziale della sentenza ha effetto an

che sui capi della stessa dipendenti dalla parte riformata o cas

sata trova applicazione rispetto ai capi di sentenza non impu

gnati autonomamente, ma necessariamente collegati ad altro capo che sia stato impugnato, ma non con riguardo a quei capi che

abbiano formato oggetto di impugnazione, ove questa sia stata

rigettata, giacché in tal caso su tali capi si forma il giudicato e l'interdipendenza tra essi e le altre statuizioni la cui impugna zione sia stata accolta è esclusa dalla stessa decisione sul grava me (Cass. 28 novembre 1992, n. 12785, id., Rep. 1992, voce

Impugnazioni civili, n. 69). Ne consegue che nella fattispecie il giudicato sulla liquidazio

ne dei danni, nella misura del cinquantacinque per cento (quin di pari lire 104.610.000) si è verificato nella data della suddetta sentenza della Suprema corte, con l'effetto che da quella data

il debito del Baldaro e del Chiafele, già di valore, si è converti

to in debito di valuta, tenuto conto che con la stessa sentenza

venivano rigettati i motivi di ricorso che attenevano al quantum di detto danno.

Per l'effetto è illegittima la sentenza del giudice di rinvio che ha ulteriormente rivalutato detto debito (già rivalutato fino al

febbraio 1985 dal primo giudice) fino alla data della decisione del giudice di rinvio (9 settembre 1994), mentre detta rivaluta

zione andava effettuata fino al 19 marzo 1991 (data della sen

tenza di cassazione).

Inoltre, per quanto il debito originario ammontasse a lire

104.610.000, poiché parte di esso (lire 14.440.000) era stato estinto

dal suo assicuratore, s.p.a. La Concordia, in concomitanza del

la sentenza di primo grado, la suddetta rivalutazione andava

operata solo sulla residua somma, mentre la sentenza impugna ta ha rivalutato l'intera somma e quindi anche quella parte di

debito già estinta.

Ciò nel rispetto del principio di diritto per cui in sede di li

quidazione del danno, qualora risulti che una parte del credito

sia stata in precedenza soddisfatta, ancorché per intervento di

un terzo (nella specie, l'assicuratore r.c.a.) deve essere esclusa

per tale parte, la computabilità della svalutazione monetaria,

a partire dalla data di tale soddisfacimento, atteso che la rivalu

tazione monetaria non può riguardare un debito estinto (Cass.

16 marzo 1984, n. 1813, id., Rep. 1984, voce Danni civili, n.

185; 18 maggio 1985, n. 3059, id., Rep. 1985, voce cit., n. 172). In altri termini, il debito risarcitorio del ricorrente pari a lire

104.610.000, nel febbraio del 1985, essendo stato estinto per

lire 14.440.000, dava luogo alla residua somma di lire 90.170.000,

che andava rivalutata dal febbraio 1985 alla data della sentenza

di cassazione (marzo 1991), oltre agli interessi legali. Il credito dell'Inail, pari a lire 99.966.261 nel residuo (per

effetto dell'incasso della somma di lire 14.440.000), oltre agli

interessi legali nei termini riconosciuti dal giudice di primo gra

do, non poteva essere ulteriormente rivalutato non solo alla da

ta della sentenza del giudice di rinvio, ma neppure fino alla

data della sentenza di cassazione, poiché sul punto della manca

ta rivalutazione da parte del giudice di secondo grado della som

ma determinata dalla sentenza del tribunale in favore dell'Inail

si era formato il giudicato, non essendo stata detta sentenza

impugnata dall'Inail e quindi cassata sul punto.

Anzi, la sentenza della Cassazione sul punto ha espressamen te rilevato che l'Inail non aveva richiesto al giudice di secondo

grado la rivalutazione del suo credito in surrogazione, per cui

andava disattesa la doglianza relativa a detta rivalutazione, avan

zata nel ricorso del Baldaro.

La somma residua del debito risarcitorio del Baldaro, detrat

ta la somma dovuta all'Inaii va, invece, attribuita, agli eredi

I ovine.

Né può ritenersi che il credito di detti eredi, per effetto della

sentenza del giudice di rinvio sia ridotto alla somma di lire

7.724.422, non essendo stata impugnata detta sentenza dai pre

detti eredi. Infatti, il decisum di detta sentenza non era il quantum del

credito da risarcimento del danno di detti eredi, bensì il riparto

di detto credito tra gli eredi e l'istituto che agiva in surrogazione.

Il credito azionato, in altri termini, rimane sempre unico ed

è l'originario credito da risarcimento da fatto illecito, per il quale

l'Inail ha agito in surrogazione del proprio assicurato.

II Foro Italiano — 1998.

Questo debito è pur sempre un debito nei confronti degli ere

di Iovine, in surrogazione dei quali ha agito l'Inail per le pre stazioni effettuate; né la sentenza del giudice di rinvio ha scisso

questo unico debito in due distinti, ma ha solo provveduto a

determinare quanta parte di detto debito dovesse essere pagata

all'Inail, attribuendo il residuo agli eredi.

Lo stesso oggetto del ricorso non è la non attribuzione del

residuo agli eredi Iovine, ma esclusivamente l'erronea determi

nazione della rivalutazione monetaria effettuata sul suo debito

e, specularmente, sul credito originario degli eredi Iovine.

Ne consegue che l'accoglimento del ricorso sul punto estende

i suoi effetti anche sulla parte dipendente della sentenza atti

nente al riparto della somma dovuta tra i creditori originari e quello che agisce in surrogazione ai sensi dell'art. 336, 1° com

ma, c.p.c. La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio ad al

tra sezione della Corte di appello di Napoli, perché, fermo il

principio di diritto già fissato con la precedente sentenza di questa corte del 19 marzo 1991, si uniformi anche ai principi sopra

esposti.

CORTE DI CASSAZIONE; sezione III civile; sentenza 20 feb

braio 1998, n. 1790; Pres. Meriggiola, Est. Sabatini, P.M.

Cinque (conci, conf.); Mereu (Aw. Falchi, Putzolu) c. Soc.

Mediolanum assicurazioni (Aw. Berchicchi). Conferma App.

Cagliari 30 gennaio 1995.

Prova civile in genere — Fatto negativo — Dimostrazione —

Estremi (Cod. civ., art. 2697).

Il fatto negativo, quando sia desumibile da uno specifico e po sitivo fatto contrario, deve essere provato attraverso la dimo

strazione di quest'ultimo. (1)

(1) La massima si allinea alle enunciazioni formulate, con riferimento

alla nota questione dell'ammissibilità della prova del fatto negativo (que stione sulla quale si è soffermato in dottrina Patti, Prove - Disposizioni

generali, in Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli - Foro italiano,

Bologna-Roma, 1987, 52-56; Id., Prova, diritto processuale civile, voce

dell' Enciclopedia giurìdica Treccani, 1991, XXV, 4-5), da diverse prece denti pronunzie della corte, che, sia pure con qualche variazione, hanno affermato principio coincidente con quello ora ribadito (sent. 10 marzo

1986, n. 1614, Foro it., Rep. 1986, voce Agricoltura, n. 125; 15 giugno 1982, n. 3644, id., Rep. 1982, voce Prova civile, n. 5; 28 aprile 1981, n. 2586, ibid., n. 6; nonché le citate Cass. 22 ottobre 1976, n. 3741, id.,

Rep. 1976, voce cit., n. 5; 6 dicembre 1972, n. 3515, id., 1973, I, 2163, con nota di richiami, e 16 luglio 1969, n. 2612, id., Rep. 1969, voce cit., n. 23). Accanto alle sentenze testé ricordate si pongono, tuttavia, altre

decisioni che prospettano della indicata questione impostazioni non del

tutto riconducibili alla tendenza seguita nel caso di specie. A parte le

remote Cass. 6 dicembre 1949, n. 2549, id., Rep. 1949, voce cit., n. 15, e 6 febbraio 1952, n. 285, id., Rep. 1952, voce cit., n. 33 (concordi nel

riconoscere genericamente che non è contraria al sistema processuale vi

gente la prova di un fatto negativo, quando esso sia il fatto costitutivo

dell'azione), vengono, così, in rilievo: a) Cass. 27 giugno 1978, n. 3169,

id., Rep. 1978, voce Comunione e condominio, n. 135, secondo cui il

condomino, che chiede l'accertamento dell'invalidità di una deliberazio

ne dell'assemblea condominiale, deve fornire la prova (negativa) che le

regole circa la formazione della volontà assembleare non sono state ri

spettate; b) Cass. 23 dicembre 1991, n. 13872, id., Rep. 1991, voce Prova

civile, n. 6, per la quale, la deduzione della inesistenza di un fatto (cioè di un fatto negativo) non esonera, per la sola circostanza del particolare contenuto del petitum, dall'onere della prova che sempre incombe a chi

chieda una pronunzia giudiziale; pertanto, il convenuto con azione di dan

no, il quale intenda chiedere l'accertamento dell'inesistenza di ulteriori

danni, oltre a quelli espressamente pretesi dall'attore, ha l'onere di forni

re la prova negativa che questi danni ulteriori non esistono; c) Cass. 17

ottobre 1992, n. 11432, id., Rep. 1992, voce Successione ereditaria, n.

87, ad avviso della quale, il legittimario che propone l'azione di riduzio

ne è tenuto ad allegare e comprovare tutti gli elementi occorrenti per sta

bilire se sia o meno avvenuta ed in quale misura la lesione della quota

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