sezione lavoro; sentenza 11 febbraio 1995, n. 1509; Pres. Pajardi, Est. Casciaro, P.M. Chirico(concl. conf.); Inail (Avv. Di Benedetto, D'Angelo) c. Scalas (Avv. Caminiti, Atzeri). ConfermaTrib. Cagliari 2 maggio 1992Source: Il Foro Italiano, Vol. 118, No. 6 (GIUGNO 1995), pp. 1839/1840-1845/1846Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23188921 .
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1839 PARTE PRIMA 1840
al giudice civile di immutare i fatti dedotti dalle parti a base
delle proprie pretese e difese, ma non gli impedisce di correg
gerne le giuridiche qualificazioni. Col secondo motivo ii ricorrente denunzia la violazione degli
art. 297 c.p.c., 151, 537 e 472 c.p.c. 1930, sostenendo che il
termine semestrale di riassunzione del processo sospeso decorre
va dalla conoscenza effettiva della cessazione della causa di so
spensione, ossia da un giorno non anteriore a quello del rilascio
di una copia legale della sentenza penale emessa dalla Corte
di cassazione nel procedimento a carico dello stesso datore di
lavoro per fatti commessi in danno di altri lavoratori, e non, come ritenuto dal tribunale, dal precedente deposito della moti
vazione della sentenza stessa. In questo processo, infatti, egli non era parte civile e perciò non poteva acquisire alcuna legale conoscenza delle vicende relative.
Il motivo è fondato. È necessario anzitutto richiamare i tratti
essenziali della complessa fattispecie da cui è nato il presente
giudizio. Come detto in narrativa, avendo l'attuale ricorrente iniziato
un processo civile contro il datore di lavoro per il risarcimento
del danno da malattia professionale, ed essendo stati imputati al medesimo datore di lavoro in sede penale reati colposi analo
ghi, commessi in danno di più lavoratori, il processo civile ven
ne sospeso per la pregiudiziale penale. Il procedimento in cui l'attuale ricorrente si era costituito parte
civile fu definito con sentenza di proscioglimento per mancanza
di querela, onde egli riassunse una prima volta, e ritualmente, il processo civile. Ordinata di nuovo dal pretore la sospensione ex art. 295 c.p.c., in attesa di definizione di un procedimento
penale ancora pendente per i fatti asseritamente commessi a dan
no degli altri lavoratori, l'attuale ricorrente riassunse di nuovo
il giudizio civile, solo dopo avere avuto la conoscenza effettiva
della sentenza penale, quella di cassazione.
È cosi evidente che egli era estraneo al processo penale a cui
partecipavano, quali danneggiati, i suoi colleghi. Ciò premesso, occorre ricordare le norme applicate, o pre
supposte, nella sentenza qui impugnata.
Quanto alla sospensione del processo civile per la pregiudizia lità penale disposta dall'art. 3 c.p.p. 1930, pacificamente appli cabile ratione temporis ai fatti di causa, l'art. 297, 1° comma,
c.p.c. stabilisce: «Se col provvedimento di sospensione non è
stata fissata l'udienza in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione entro il termine perentorio di
sei mesi dalla cessazione della causa di sospensione di cui al
l'art. 3 c.p.p.», ossia dalla definizione del processo penale. La Corte costituzionale con sentenza 4 marzo 1970, n. 34
(Foro it., 1970,1, 681) ha dihiarato illegittimo tale art. 297 «nella
parte in cui dispone la decorrenza del termine utile per la richie sta di fissazione della nuova udienza dalla cessazione della cau
sa di sospensione anziché dalla conoscenza che ne abbiano le
parti del processo sospeso». È affermazione costante di questa corte che l'inosservanza
di questo termine cagiona l'estinzione del processo (Cass. 26
gennaio 1977, n. 391, id., Rep. 1977, voce Procedimento civile, n. 225; 29 maggio 1978, n. 2723, id., Rep. 1978, voce cit., n.
194). Alla conoscenza effettiva deve poi parificarsi la legale cono
scibilità, che è bensì possibile soltanto, e non senza eccezioni,
quando i soggetti del processo pregiudicato partecipino anche
al processo pregiudiziale, ma che, quando possibile, è sufficien te a garantire il diritto di difesa in giudizio di cui all'art. 24 Cost. (Corte cost. 3 marzo 1994, n. 68, id., 1994, I, 1659).
Le disposizioni del previgente codice di procedura penale da
tener presenti sono infatti le seguenti: — art. 472, 3° comma: «La lettura del dispositivo sostituisce
la notificazione della sentenza per tutte le parti che sono state o che debbono considerarsi presenti nel dibattimento, anche se non sono presenti alla lettura»;
— art. 537, 2° comma,: «La sentenza (di cassazione) è pub blicata in udienza subito dopo la deliberazione mediante lettura
del dispositivo...»; — art. 532, 1° comma: «Le parti private possono farsi rap
presentare davanti alla Corte di cassazione dai loro difensori
che siano iscritti nell'albo speciale della corte medesima»; — art. 534, 4° comma: «Il cancelliere fa notificare ai difen
sori l'avviso del giorno stabilito per l'udienza (di cassazione) almeno quindici giorni prima».
Il Foro Italiano — 1995.
Da queste norme risulta che, vigente quel codice e sospeso il processo civile per pregiudizialità penale, la parte di questo
processo, purché fosse costituita parte civile in quello penale, aveva l'onere di nominare un difensore iscritto nell'albo specia le della Corte di cassazione, attraverso il quale avrebbe potuto ricevere conoscenza del dispositivo letto in udienza ed eventual
mente idoneo a definire il giudizio penale. Conoscenza che le
permetteva di osservare il termine semestrale di cui all'art. 297
c.p.c. Ma ciò non si verificava quando, come nel caso di specie;
l'attore del processo pregiudicato fosse rimasto estraneo a quel lo pregiudiziale. In tal caso, infatti, la «conoscenza» di cui alla
citata sentenza 34/70 della Corte costituzionale non poteva es
sere che quella effettiva.
È pertanto errata la sentenza qui impugnata che ha assunto
quale dies a quo del termine semestrale di cui all'art. 297 cit.
quello in cui era stata depositata la motivazione della sentenza
di cassazione, pretendendo che l'interessato avesse acquisito al
lora una (in realtà impossibile) legale conoscenza della cessazio
ne della causa di sospensione del processo civile.
La sentenza impugnata va dunque cassata in accoglimento del secondo motivo di ricorso ed il giudizio va rimesso ad altro
collegio d'appello, che si designa nel Tribunale di Ivrea e che
si pronuncerà uniformandosi al seguente principio di diritto:
«Sospeso il giudizio civile per pregiudizialità penale ex art.
295 c.p.c. e 3 c.p.p. del 1930, il soggetto che partecipi al primo ma non al secondo processo, è onerato, per la riassunzione ex
art. 297 c.p.p., dal termine semestrale decorrente dalla cono
scenza effettiva della cessazione della causa di sospensione, os
sia della definizione del processo penale».
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 11 feb
braio 1995, n. 1509; Pres. Pajardi, Est. Casciaro, P.M. Chi
rico (conci, conf.); Inail (Avv. Di Benedetto, D'Angelo) c. Scalas (Avv. Caminiti, Atzeri). Conferma Trib. Cagliari 2 maggio 1992.
Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Appello —
Prove — Ammissibilità — Limiti (Cod. proc. civ., art. 437). Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Prova —
Deduzione tardiva — Ammissibilità — Fattispecie (Cod. proc.
civ., art. 414, 416, 420, 421).
Nel rito del lavoro, in appello, è esclusa l'ammissibilità di mezzi di prova (nella specie, prova testimoniale) rispetto ai quali le parti siano incorse in decadenza. (1)
(1) Per quanto concerne il divieto di «nuovi mezzi di prova» in ap pello ai sensi dell'art. 437 c.p.c., che la sentenza individua nellt p- ove che non furono dedotte nel processo di primo grado, vedi Cass. 9 aprile 1992, n. 4338, Foro it., 1992, I, 2688, con nota di richiami di V. Far
nararo, ove si individuano gli orientamenti giurisprudenziali che, so stenendo l'ammissibilità di nuovi documenti, ne subordinano tuttavia
l'acquisizione ora al giudizio di indispensabilità da parte del giudice, ora all'indicazione del nuovo documento nell'atto di appello o nella memoria difensiva (vedi da ultimo in tal senso: Cass. 14 marzo 1992, n. 3167, id., Rep. 1992, voce Lavoro e previdenza (controversie), n.
257; 13 ottobre 1990, n. 10039, id., Rep. 1991, voce cit., n. 235). Nella sentenza in epigrafe la Cassazione abbraccia l'orientamento do
minante, che ritiene inammissibile la deduzione in appello di prove co stituende rispetto alle quali le parti siano incorse in decadenza. Quanto invece alle prove documentali, sembra prospettarne cautamente l'am
missibilità, non assumendo però una decisa posizione all'interno della tormentata produzione giuiisprudenziale; sul tema, vedi recentemente, Cass. 10 febbraio 1990, n. 972, id., 1991, I, 1203, con nota critica di R. Frasca, circa l'applicabilità dell'art. 437 c.p.c. al rito locatizio, e
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Nel processo del lavoro non incorre in decadenza la parte che
abbia omesso di dedurre tempestivamente il mezzo di prova
riguardante una circostanza, pur di valore determinante e che
la parte stessa sia onerata di provare, qualora vi fosse una
ragionevole presunzione di non contestazione di tale fatto (nella
specie, la Corte di cassazione, correggendo la motivazione della
sentenza del giudice di merito, ha assegnato tale valore ad
un fatto contestato dal convenuto solo nella memoria difensi va e mai nel lungo corso seguito, in via preliminare, dal pro cedimento in sede amministrativa). (2)
Svolgimento del processo. — Con ricorso del 30 giugno 1989
al Pretore giudice del lavoro di Cagliari, il sig. Lazzaro Scalas,
premesso che in qualità di falegname aveva lavorato, negli anni
dal 1961 al 1989, con l'ausilio di strumenti ad aria compressa e ad asse flessibile, e che per effetto di tale attività lavorativa
aveva contratto un'angioneurosi, richiese l'accertamento del suo
diritto a rendita per inabilità permanente e la conseguente con
danna dell'Inail al pagamento dei ratei maturati con i relativi
interessi.
L'istituto si oppose alla domanda, contestando nella memo
ria difensiva l'esposizione a rischio, in relazione alla quale de
dusse che il ricorrente non aveva offerto alcun supporto pro batorio.
Nell'udienza di discussione lo Scalas produsse copia di una
sua lettera del 28 novembre 1989, con la quale, nel rispondere a lettera dell'Inail in data 10 novembre 1989, aveva chiarito
che l'-uso degli strumenti di lavoro ad aria compressa e ad asse
flessibile non era mai venuto meno nei sei anni precedenti la
data del 26 giugno 1988.
Alla stessa udienza lo Scalas articolò, inoltre, una prova per testi sulle modalità dell'esposizione a rischio.
L'adito pretore non ammise la prova orale, perché non de
dotta nel ricorso (e quindi, a suo avviso, non tempestiva), e
pronunciò sentenza di rigetto della domanda.
La decisione sfavorevole venne appellata dallo Scalas con ri
corso al Tribunale di Cagliari. L'appellante osservò che l'Inail
aveva contestato il requisito dell'esposizione a rischio soltanto
da ulitmo: Cass. 4 febbraio 1993, n. 1359, id., Rep. 1993, voce cit., n. 214, la quale testualmente riferisce che i documenti possono essere
prodotti in appello, senza incorrere nelle preclusioni di cui all'art. 437
c.p.c., applicabili alle sole prove costituende, come quelle testimoniali, nonché Cass. 13 novembre 1992, n. 12233, id., Rep. 1992, voce cit., n. 251; 3 novembre 1992, n. 11909, ibid., n. 252; 27 ottobre 1992, n. 11685, ibid., n. 253; contra, Cass. 23 dicembre 1992, n. 13602, ibid., n. 250; 26 gennaio 1991, n. 773, id., Rep. 1991, voce cit., n. 234, le
quali considerano inammissibili in appello le prove, anche documentali,
per le quali si sia verificata decadenza in primo grado (nonché un orien
tamento che limita la detta inammissibilità a quei documenti rispetto ai quali il giudice adito in primo grado abbia dichiarato tale decadenza
per la parte: Cass. 29 marzo 1993, n. 3759, id., Rep. 1993, voce cit., n. 213; 2 aprile 1992, n. 4013, id., Rep. 1992, voce cit., n. 256).
Infine, sul contenuto ed i limiti del potere istruttorio d'ufficio, eserci
tabile dal giudice d'appello in forza dell'art. 437 c.p.c., confronta re centemente Cass. 3 luglio 1992, n. 8124, id., 1994, I, 1177.
In dottrina, sul divieto di nuovi mezzi di prova in appello, vedi, da
ultimo, F. Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 293 ss.; A. Pro
to Pisani, Controversie individuali di lavoro, Torino, 1993, 114 ss.
Si auspicherebbe, infine, nella tanto controversa materia delle nuove
prove in appello, un intervento chiarificatore delle sezioni unite della
Cassazione, in vista oltretutto dell'applicazione, ai sensi del nuovo testo dell'art. 345, 3° comma, cosi come modificato dalla 1. 353/90, di una
disposizione analoga all'art. 437, 2° comma, c.p.c. anche al processo
d'appello nel rito ordinario.
(2) In materia di processo del lavoro, nel corso del giudizio di primo
grado, per quanto riguarda l'ammissibilità della prova testimoniale e
le relative preclusioni, condizioni e limiti, vedi da ultimo Cass. 1° otto
bre 1991, n. 10206, Foro it., 1993, I, 223, con nota di richiami (in
particolare, la decisione concentra la propria attenzione sulle modalità
e sui termini di deduzione dell'eccezione di inammissibilità della prova
per testi). Sulla indicazione dei testi negli atti introduttivi del giudizio, quale
condizione di ammissibilità della prova testimoniale, vedi inoltre Cass.
3 luglio 1992, n. 8124, id., 1994, I, 1177; 21 gennaio 1993, n. 728,
id., Rep. 1993, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 129; contra, Cass. 9 novembre 1989, n. 4716, id., Rep. 1991, voce cit., n. 175; Pret.
Reggio Calabria 11 febbraio 1989, ibid., n. 176.
Il Foro Italiano — 1995.
con la memoria difensiva, senza aver sollevato alcuna contesta
zione nell'antecedente fase amministrativa, e censurò la valuta
zione del pretore, che aveva rigettato la domanda per carenza
di prova in ordine a quel requisito, senza ammettere la prova testimoniale dedotta dal ricorrente in udienza di discussione (ap
pena dopo la contestazione avversaria) e omettendo altresì di
disporre, se del caso ex officio, i mezzi istruttori eventualmente
necessari.
Il Tribunale di Cagliari, sezione lavoro, ammessa d'ufficio
la prova per testi (ritenuta indispensabile ai fini della decisio
ne), e a seguito di esperita consulenza tecnica, cosi riformando
la decisione pretorile ed accogliendo con sentenza in data 8 gen naio - 2 maggio 1992 il gravame dello Scalas, dichiarò il diritto
dell'assicurato a rendita per inabilità del 18°7o da angioneurosi, con le ulteriori e conseguenti statuizioni, oltre accessori e spese di lite a carico dell'Inail.
Rilevò il collegio che nel corso del procedimento amministra
tivo, introdotto dalla domanda di prestazione del sig. Lazzaro
Scalas, l'Inail non aveva mai posto in dubbio la di lui esposizio ne a rischio, ed anzi si era limitato a chiedere opportuni raggua
gli circa la persistenza di tale situazione durante i sei anni prece denti. Lo Scalas aveva dato positiva risposta con nota del 28
novembre 1989. Solo con la memoria difensiva ex art. 416 c.p.c.
(e, per di più, del tutto genericamente) l'istituto aveva contesta
to la sussistenza del requisito e dedotto che sull'esposizione a
rischio nessuna prova era stata offerta dal ricorrente. Non man
cavano, pertanto, ad avviso del tribunale, fondate ragioni per
disporre d'ufficio la prova testimoniale in ordine all'esposizione a rischio»: prova che in effetti era stata ammessa, con esito
favorevole alla parte appellante. La sentenza resa dai giudici di secondo grado, notificata il
15 giugno 1992, è stata impugnata dall'Inail con ricorso per cassazione sorretto da unico seppure articolato motivo, notifi
cato il 23 luglio 1992 e depositato nella cancelleria della corte
il successivo 7 agosto. Ha resistito il sig. Lazzaro Scalas me
diante controricorso notificato il 31 agosto 1992, depositato il
10 settembre successivo ai sensi dell'art. 134 disp. att. c.p.c. Motivi della decisione. — L'istituto ricorrente muove all'im
Premesso che le parti sono tenute, pena la decadenza prevista dagli art. 414 e 416 c.p.c., a indicare negli atti introduttivi del giudizio i mezzi di prova di cui intendono avvalersi (cfr. Cass. 10 novembre 1990, n. 10849, ibid., n. 153), l'unica possibilità delle parti, successivamente
alla loro costituzione, di far ammettere ulteriori o nuove prove è rimes
sa al potere istruttorio d'ufficio del giudice, disciplinato dal combinato
disposto degli art. 420, 6° comma, e 421, 2° comma, c.p.c. Sull'esten
sione e il contenuto del potere sopra delineato, vedi Cass. 22 luglio
1992, n. 8836, id., Rep. 1993, voce cit., n. 126; 8 novembre 1991, n.
11915, id., Rep. 1992, voce cit., n. 144; 10 ottobre 1991, n. 10628,
id., Rep. 1991, voce cit., n. 171; 1° ottobre 1991, n. 10206, id., 1993,
I, 223; 24 marzo 1993, n. 3537, id., Rep. 1993, voce cit., n. 124; 14
luglio 1992, n. 8503, id., Rep. 1992, voce cit., n. 143; 8 novembre
1991, n. 11915, id., Rep. 1991, voce cit., n. 169, ove non si reputa di ostacolo all'attività istruttoria del giudice l'operatività di preclusioni o decadenze verificatesi in danno alle parti.
Maggiore elasticità si rinviene anche in primo grado rispetto alle pre clusioni maturate nei confronti delle prove documentali, delle quali un
orientamento minoritario ne ammette la deduzione per tutto il corso
dell'udienza di discussione: Cass. 7 maggio 1993, n. 5265, id., Rep.
1993, voce cit., n. 132; 5 dicembre 1991, n. 13077, id., Rep. 1991, voce cit., n. 170.
Premesso tutto questo per fare il necessario punto della situazione, è adesso da rilevare la vera particolarità della sentenza in rassegna; la
Cassazione, correggendo ai sensi dell'art. 384, 2° comma, c.p.c. la mo
tivazione del giudice d'appello, osserva che non si può parlare di deca
denza a carico della parte che abbia omesso di dedurre un mezzo di
prova ritenuto pacificamente superfluo sulla base di una ragionevole
presunzione di non contestazione del fatto. Nel caso di specie, non vi
era interesse da parte dell'attore a dare la prova del fatto poi divenuto
controverso (esposizione a rischio durante l'attività lavorativa), per il
semplice motivo che, mai, nel corso del procedimento in sede ammini
strativa, il convenuto ne aveva contestato l'esistenza.
Sul rilievo del procedimento amministrativo, in riferimento alle con
troversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie, e sulla ne
cessità della sua preventiva sperimentazione ai fini della procedibilità o proponibilità della domanda giudiziale, vedi Cass. 17 settembre 1993, n. 9565, id., Rep. 1993, voce cit., n. 230; 12 gennaio 1993, n. 232,
ibid., n. 231; 2 luglio 1992, n. 8111, id., Rep. 1992, voce cit., n. 265; 18 gennaio 1991, n. 427, id., Rep. 1991, voce cit., n. 250.
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1843 PARTE PRIMA 1844
pugnata sentenza del Tribunale di Cagliari, sezione lavoro, l'ad
debito di «violazione e falsa applicazione degli art. 113, 115,
414, 420 e 437 c.p.c.; omessa, contraddittoria ed insufficiente
motivazione, il tutto in relazione all'art. 360, nn. 3, 4 e 5, c.p.c.». Con riferimento al provvedimento del tribunale, a suo dire
non legittimamente adottato, ammissivo della prova testimonia
le ritenuta (ex art. 437, 2° comma, c.p.c.) indispensabile ai fini
della decisione, sostiene in sintesi la parte ricorrente che i noti
principi dell'oralità e della concentrazione vigenti nel processo del lavoro inducono l'esigenza di una chiara e completa enun
ciazione dei mezzi probatori fin dal ricorso introduttivo (art. 414 c.p.c.) e dalla memoria difensiva di costituzione (art. 416
c.p.c.), essendo consentito alle parti formulare nell'udienza di
discussione esclusivamente quei mezzi probatori che non sia sta
to possibile proporre prima.
Ora, nel caso di specie, sempre a dire del ricorrente istituto, lo Scalas, nel ricorso al pretore in funzione di giudice del lavo
ro, non aveva curato di indicare i mezzi probatori in ordine
al presupposto dell'esposizione a rischio, sicché del tutto corret
tamente l'adito magistrato di prime cure aveva respinto la do
manda, rimasta non provata. Aveva, per contro, errato il Tri
bunale di Cagliari nel deliberare (e per di più con ordinanza
non congruamente motivata) l'ammissione di una prova da cui
l'interessato era ormai decaduto, posto che per autorevole giu risprudenza il potere d'impulso istruttorio, spettante nel rito spe ciale al giudice di secondo grado, non può esercitarsi al fine
di sanare le preclusioni già intervenute.
Replica a tali argomenti il controricorrente. Sostiene (fra l'al
tro) lo Scalas che l'esposizione a rischio non era stata contesta
ta nel corso della procedura amministrativa, in cui anzi quel requisito era stato fatto oggetto di specifico accertamento, di
guisa che lo Scalas «doveva ragionevolmente ritenere che l'Inail
non avrebbe ulteriormente contestato la circostanza»; che del
resto l'istituto, in sede di costituzione in giudizio, aveva mosso
una contestazione oltremodo generica; che solo «ad esuberan
za» lo Scalas aveva articolato prova per testi; che l'istanza di
prova, non accolta dal primo giudice, e da reputare in fin dei
conti superflua (potendo l'esposizione a rischio desumersi aliun
de), era stata comunque ribadita con il ricorso in appello, e
aveva trovato accoglimento «in considerazione della scrupolosi tà della sezione lavoro del Tribunale di Cagliari».
Il ricorso per cassazione dell'Inail risulta privo di fondamento. Ed invero la sentenza impugnata si appalesa conforme a di
ritto. Nondimeno la motivazione data dai giudici sardi, in pun to di legittimità del provvedimento ammissivo della prova ora
le, è suscettibile di correzione (art. 384, 2° comma, c.p.c.).
Nell'impugnata sentenza il Tribunale di Cagliari ha precisato
che, a seguito di generica contestazione sollevata dall'Inail sul
requisito dell'esposizione a rischio, venne dato corso alla prova testimoniale sulle modalità di tale esposizione, «attesa la sua
indispensabilità ai fini della decisione», e ha manifestato il con vincimento che nel processo del lavoro in grado d'appello la
prova ritenuta indispensabile ai fini della decisione «debba esse
re disposta d'ufficio anche in caso di decadenza della parte dal
potere di dedurla», lasciando altresì' intendere che, a suo pare re, la decadenza a carico dello Scalas si era effettivamente
prodotta. Il ritenuto assunto non può condividersi, sotto un duplice
profilo: nel senso che va esclusa, innanzi tutto, nel rito speciale in appello, l'ammissibilità (anche ex officio) di mezzi di prova rispetto ai quai le parti siano incorse in decadenza, e però anche nel senso che va esclusa la decadenza a carico della parte la
quale abbia omesso di dedurre, nel ricorso introduttivo della lite o nella memoria difensiva di costituzione, il mezzo di prova
riguardante ima circostanza, pur di valore determinante e che la parte stessa sia onerata a provare, in ordine alla quale peral tro la deduzione del mezzo di prova fosse da ritenere superflua sulla base della ragionevole presunzione di non contestazione del fatto.
I due profili anzidetti esigono qualche cenno di chiarimento. Sul primo di essi, va ricordato che l'art. 437, 2° comma, c.p.c.
fa divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova (tranne il giu ramento estimatorio) nel processo del lavoro in grado di appel lo, «salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensa bili ai fini della decisione della causa».
Orbene, la latitudine dei poteri istruttori del tribunale in fun zione di giudice del lavoro nell'ammettere i mezzi di prova per
ii Foro Italiano — 1995.
mane tuttora oggetto di vivace dibattito. L'art. 437, 2° comma,
c.p.c. si occupa solamente dell'ammissione dei mezzi di prova nuovi, vale a dire di quelli che non furono dedotti nel giudizio di primo grado; ed invero, per quel che attiene ai mezzi di pro va già ritualmente dedotti nel primo giudizio, ed ivi per qualsia si ragione non ammessi e comunque non acquisiti dal pretore, e per i quali sia stata puntualmente reiterata in appello l'istanza
di ammissione, spetta al tribunale in funzione di giudice del lavoro il potere-dovere di ammetterli, qualora ovviamente li ri
conosca ammissibili e rilevanti, essendo appunto l'ammissibilità
(consistente nella regolarità della deduzione e nell'assenza di pre
clusioni) e la rilevanza (consistente nella potenziale attitudine ad influire sull'esito della lite) il duplice presupposto dell'am missione di ogni mezzo di prova c.d. costituenda (cfr., da ulti
mo, Cass. 29 gennaio 1993, n. 1113, Foro it., Rep. 1993, voce
Appello civile, n. 45; 22 marzo 1994, n. 2716, id., Mass., 233;
diverso, per costante orientamento della giurisprudenza, è il re
gime delle c.d. «prove precostituite»: al riguardo, ex pluribus, Cass. 4 febbraio 1993, n. 1359, id., Rep. 1993, voce Lavoro
e previdenza (controversie), n. 214; 29 marzo 1993, n. 3759,
ibid., n. 213). Relativamente ai mezzi di prova nuovi, di cui tratta dunque
specificamente l'art. 437, 2° comma, cit., l'ammissione, come
si è visto, è invece subordinata alla tassativa condizione che siano ritenuti dal collegio, anche d'ufficio, indispensabili ai fini della decisione della causa.
Sorge allora il problema, se con la locuzione di cui sopra il legislatore abbia inteso ridurre il più possibile l'acquisizione in secondo grado di nuovi mezzi di prova, limitandola a quei mezzi di prova che (fermo restando il requisito dell'ammissibili
tà) fossero ritenuti, anche d'ufficio, non già soltanto «rilevan
ti» ma, appunto, «indispensabili ai fini della decisione» (posto che il requisito dell'indispensabilità, comunque voglia interpre tarsi, non coincide con quello della semplice rilevanza), o se
al contrario abbia voluto aprire un autentico varco all'acquisi zione di ogni mezzo di prova (indipendentemente dalla previa valutazione del requisito dell'ammissibilità), a patto beninteso
che ne sia ravvisata l'indispensabilità ai fini della decisione. In
quest'ultimo senso si è espresso un indirizzo giurisprudenziale, a tenore del quale non sarebbero di ostacolo all'esercizio dei
poteri istruttori del giudice d'appello nel rito del lavoro le pre clusioni o decadenze già maturate in danno delle parti (cfr., da ultimo, Cass. 8 novembre 1991, n. 11915, id., Rep. 1992, voce cit., n. 144; 14 luglio 1992, n. 8503, ibid., n. 143).
Senonché ben più persuasivo e meritevole di piena adesione si deve riconoscere l'opposto indirizzo, che nega la facoltà del
giudice d'appello di porre rimedio, con l'esercizio di poteri d'uf
ficio, alle decadenze maturate (expluribus, Cass. 5 gennaio 1984, n. 50, id., Rep. 1984, voce cit., n. 449; 17 luglio 1986, n. 4619, id., Rep. 1986, voce cit., n. 512; 5 dicembre 1988, n. 6602,
id., Rep. 1988, voce cit., n. 319). Per un verso, infatti, la sup posta attribuzione al tribunale in funzione di giudice del lavoro della facoltà di sorvolare sulle decadenze già intervenute, com
portando un autentico vulnus a principi generali del sistema in
punto di irreversibilità degli effetti e di rilevabilità officiosa del le decadenze in materia sottratta alla disponibilità delle parti, per il suo carattere di vistosa deroga all'ordinamento preesisten te avrebbe dovuto essere disposta con formulazione inequivoca, né sembra potersi ricavare del mero conferimento del potere di ammettere, anche d'ufficio, i mezzi probatori «ritenuti indi
spensabili ai fini della decisione», dictio legis evidentemente ri
volta a sottolineare l'insufficienza, ai fini dell'ammissione, del la «rilevanza» della prova (intesa come idoneità ad influire pro babilmente e/o marginalmente, ma non anche in modo certo e decisivo sull'esito della controversia). Sotto altro aspetto, poi, la supposta attribuzione al tribunale, in funzione di giudice del
lavoro, della facoltà di porre rimedio alle decadenze in cui sia no incorse le parti, non avrebbe potuto logicamente prescindere dalla definizione dei limiti di tale facoltà, giacché, in caso con trario, qualunque mezzo di prova indispensabile ai fini della decisione ma non dedotto a tempo debito nel giudizio pretorile (con inevitabile conseguente decadenza a carico della parte inte
ressata) sarebbe purtuttavia deducibile in secondo grado ed ivi sarebbe da ammettere ex officio (donde lo svuotamento ex post del severo meccanismo di preclusioni fissato dagli art. 414 ss.
c.p.c., che si rivelerebbe carente di ogni razionalità), e salvo beninteso che non si creda il giudice d'appello autorizzato a determinare ad libitum l'esistenza del requisito dell'indispensa bilità ai fini della decisione, ovvero a discriminare fra mezzi
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
di prova (in via d'ipotesi ugualmente indispensabili ai fini della
decisione) da ammettere e da non ammettere, ciò che nondime
no significherebbe ipotizzare margini di valutazione cosi liberi
ed ampi da porre a repentaglio l'essenziale connotato dell'im
parzialità del magistrato. Passando all'ulteriore profilo, vero è che nel processo del la
voro di primo grado — come avverte l'istituto ricorrente —
il regime di ammissione dei mezzi probatori si ispira a criteri di massimo rigore, in quanto le parti sono tenute alla specifica
indicazione dei mezzi di prova, il ricorrente nel ricorso intro
duttivo della lite, e, rispettivamente, il convenuto nella memo
ria difensiva di costituzione, entrambi sotto pena di decadenza
(espressamente disposta dall'art. 416 c.p.c. a carico del conve
nuto, ma implicitamente comminata a carico del ricorrente an
che dall'art. 414 c.p.c.: in tal senso cfr. Corte cost. 14 gennaio
1977, n. 13, id., 1977, I, 259, nonché molteplici decisioni di
questa Suprema corte). Occorre peraltro coordinare il disposto
degli art. 414 e 416 c.p.c. con quello dell'art. 420 c.p.c., il cui
5° comma consente alle parti di proporre in udienza di discus
sione i mezzi di prova «che non abbiano potuto proporre prima». Or dunque, tale ultima disposizione viene a circoscrivere la
sanzione della decadenza, ex art. 414 e 416 c.p.c., ai mezzi di
prova, non dedotti dalle parti con il ricorso e con la memoria
difensiva, e che peraltro le parti stesse avrebbero avuto modo
di dedurre all'epoca del deposito di tali atti. Per i mezzi di pro
va, la cui deducibilità si è invece manifestata solo in epoca po
steriore a quel deposito, l'art. 420, 5° comma, dilaziona il ter
mine perentorio di deduzione all'udienza di discussione (idest
all'udienza fissata con il decreto di cui all'art. 415, 2° comma,
c.p.c.). Sarebbe nondimeno ingiustificatamente riduttivo leggere la di
sposizione dell'art. 420, cit., come riferibile unicamente ai mez
zi di prova che le parti non abbiano potuto materialmente pro
porre con il ricorso o con la memoria difensiva (ad es., alle
prove documentali formate successivamente alla fase introdutti
va della lite; o alla testimonianza non conosciuta e non conosci
bile all'epoca della presentazione del ricorso o della memoria
difensiva, ed emersa soltanto in seguito). Un'interpretazione sif
fatta, da un lato verrebbe a restringere l'applicazione della nor
ma a casi sporadici (data la brevità del tempo di regola inter
corrente fra il momento della costituzione delle parti e l'udien
za di discussione); dall'altro, farebbe gravare sulle parti l'onere
di indicazione specifica nel ricorso e nella memoria difensiva
di tutti indistintamente i mezzi di prova — relativamente ad
ognuno dei molteplici elementi o presupposti della domanda o
dell'eccezione — anche solo ipoteticamente esperibili nel corso
del giudizio, il che spingerebbe le parti a dilungarsi oltre misura
nei rispettivi atti difensivi, onde prevenire qualunque contesta
zione che — seppure imprevedibilmente — fosse mossa ex ad
verso, a scanso di ogni rischio di decadenza, e verrebbe nel con
tempo ad agevolare, se non addirittura a incentivare, le conte
stazioni puramente pretestuose e miranti a strumentalizzare, a
profitto della parte più astuta, i limiti invalicabili posti dalla
legge all'ammissione dei mezzi di prova. Deve allora intendersi la locuzione «mezzi di prova che le
parti non abbiano potuto proporre prima dell'udienza di di
scussione» nel senso che essa vale a designare anche (e si po
trebbe forse dire: soprattutto) i mezzi di prova che le parti avreb
bero potuto bensì materialmente proporre, ma non abbiano ra
gionevolmente proposto in sede di ricorso o di memoria difensiva,
in quanto l'interesse a proporli sia sopravvenuto nelle more del
l'udienza di discussione; laddove, per contro, sulla base di ele
menti oggettivi (come tali apprezzabili dal giudice) e nell'osser
vanza di criteri di lealtà processuale, essendo quei mezzi di pro
va inerenti a circostanze o fatti all'epoca presumibilmente pacifici
(cosi, ad es., trattandosi di fatti esaminati fra le parti e rimasti
non contestati in sede stragiudiziale), il ricorrente o il convenu
to, nel momento del deposito del ricorso o della memoria difen
siva, potevano logicamente sentirsi dispensati dalla deduzione.
Nello stesso ordine di idee questa Suprema corte ha avuto
occasione di rilevare che «nel rito del lavoro la disciplina detta
ta dai nn. 3, 4 e 5 dell'art. 414 c.p.c. non comporta che l'attore
sia tenuto a indicare in ricorso anche i mezzi di prova concer
nenti la sussistenza delle condiciones iuris relative alla causa
petendi, essendo l'attore tenuto a fornire la prova di esse solo
dopo che detta sussistenza sia stata dal convenuto contestata
con apposita e tempestiva eccezione» (principio stabilito da Cass.
Il Foro Italiano — 1995.
24 ottobre 1989, n. 4330, id., Rep. 1989, voce cit., n. 136, in
fattispecie concernente un imprenditore che aveva agito in giu dizio onde conseguire la declaratoria di legittimità della sanzio
ne inflitta al dipendente, e che solo a seguito di specifica conte
stazione da quest'ultimo sollevata in memoria difensiva di co
stituzione, aveva chiesto di provare, all'udienza di discussione,
l'eseguita rituale affissione del codice disciplinare).
Orbene, dall'impugnata sentenza si evince che l'Inail — pur senza ammetterlo mai esplicitamente
— non contestò il requisi to dell'esposizione a rischio durante il procedimento ammini
strativo, nel corso del quale anzi interpellò sul tema lo Scalas
per semplici chiarimenti. Potè dunque lo Scalas ricavare da ciò
un ragionevole affidamento sulla non contestazione del fatto.
Allorché in memoria difensiva di costituzione l'Inail ebbe poi
a sollevare, inopinatamente, la contestazione, lo Scalas si af
frettò a dedurre prova sulla circostanza, prova che, per quanto
accennato, non era intempestiva. Non essendo stata ammessa dal pretore la prova dedotta dal
lo Scalas in udienza di discussione, l'istanza probatoria venne
reiterata in appello (la reiterazione di quell'istanza si trae impli
citaménte ma univocamente dalla censura espressamente formu
lata in ordine alla mancata ammissione della prova in prime
cure: sulle modalità di riproposizione dell'istanza istruttoria in
appello, consentita anche per relationem, cfr. Cass. 9 giugno
1993, n. 6412, id., Rep. 1993, voce cit., n. 184).
In conclusione, legittimamente la prova orale già dedotta dal
lo Scalas nel giudizio di primo grado venne ammessa dal colle
gio, non già perché essa fosse da ritenere indispensabile ai fini
della decisione e conseguentemente resa ammissibile nonostante
l'intervenuta decadenza di parte, ma perché nessuna decadenza
era configurabile, e dunque il mezzo di prova ben poteva trova
re ingresso sulla scorta dei requisiti ordinari dell'ammissibilità
e della rilevanza.
Il ricorso per cassazione va rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione II civile; sentenza 26 gen
naio 1995, n. 948; Pres. Bronzini, Est. Triola, P.M. Leo
(conci, diff.); Gallotta (Aw. Di Lauro) c. Condominio via Petrarca n. 175, Napoli (Aw. Mele, Sosti). Cassa Conc. Na
poli 16 dicembre 1991.
Comunione e condominio — Condominio negli edifici — Rego lamento — Infrazioni — Sanzione pecuniaria — Misura (Cod.
civ., art. 1138; disp. att. cod. civ., art. 70).
Sono nulle, perché contra legem, eventuali disposizioni del re
golamento di condominio che prevedano, per le infrazioni al
lo stesso regolamento, sanzioni pecuniarie di importo supe
riore a quello (lire 100) previsto dall'art. 70 disp. att. c.c. (1)
(1) In senso difforme è l'opinione pressoché univoca sia della (scarsa)
giurisprudenza di merito edita, sia della dottrina, che si sono occupate della questione, le quali ritengono superabile — da parte del regola
mento condominiale — il limite (ormai irrisorio ed anacronistico) di
lire 100 indicato dall'art. 70 disp. att. c.c., essenzialmente in base al
rilievo che il successivo art. 72, nello stabilire espressamente quali sono
le norme inderogabili da parte dei regolamenti di condominio, tralascia
di richiamare quella relativa all'entità della sanzione pecuniaria per l'in
frazione del regolamento: v. Conc. Caserta 22 luglio e 12 giugno 1985,
Foro it., Rep. 1985, voce Comuniome e condominio, nn. 108, 110 (la
prima delle quali osserva, tra l'altro, come il limite di cui all'art. 70
cit. deve ritenersi posto «non... a tutela di un interesse pubblicistico, ma di un interesse unicamente privatistico»); nonché Conc. Napoli 12
luglio 1990, id., Rep. 1992, voce cit., n. 97 (per esteso in Dir. e giur.,
1991, 657), relativa a controversia in tutto analoga a quella esaminata
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