sezione lavoro; sentenza 3 gennaio 2000, n. 5; Pres. Trezza, Est. Filadoro, P.M. Cinque (concl.conf.); Inps (Avv. Gigante, Cerioni) c. De Leo (Avv. Gardin, Porcari). Conferma Trib. Lecce 28febbraio 1996Source: Il Foro Italiano, Vol. 123, No. 1 (GENNAIO 2000), pp. 49/50-51/52Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23195299 .
Accessed: 28/06/2014 18:29
Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at .http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp
.JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range ofcontent in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new formsof scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected].
.
Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to IlForo Italiano.
http://www.jstor.org
This content downloaded from 91.238.114.174 on Sat, 28 Jun 2014 18:29:51 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
1999, I, 989) che hanno appunto precisato che con l'entrata
in vigore del nuovo codice di rito penale è venuto meno il prin
cipio della c.d. pregiudiziale penale sancito, in via generale, dal
l'art. 3 dell'abrogato codice di procedura penale, salve le dispo sizioni che nelle specifiche materie ora la prevedano, secondo
quanto disposto dall'art. 211 disp. att. c.p.p. In base a tale giurisprudenza l'impugnata ordinanza del giu
dice istruttore del Tribunale di Roma risulta illegittima nella
parte in cui ha ritenuto che «al fine di accertare la sussistenza
0 meno della responsabilità della società convenuta si rivela pre
giudiziale l'accertamento dell'autore materiale della diffamazio
ne» e che «stante l'avvenuta presentazione delle querele è inibi
to al giudice civile di procedere, sia pure incidenter tantum, all'accertamento di eventuali reati di diffamazione commessi dal
l'on. Sgarbi, dai quali solo potrebbe derivare una responsabilità dell'odierno convenuto». Vertendosi infatti, nella specie, in un'i
potesi di giudizio civile di danno, trova applicazione il disposto dell'art. 75, 3° comma, c.p.p., in base al quale il processo civile
è sospeso fino alla pronuncia di sentenza penale non più sogget ta a impugnazione nei soli casi che l'azione civile sia stata pro
posta nei confronti dell'imputato, ma non anche del responsa bile civile, dopo la costituzione di parte civile nel processo pe nale o dopo la sentenza di primo grado.
Da quanto sopra discende che:
la semplice presentazione della querela non inibisce al giudice
civile, diversamente da quanto affermato nell'impugnata ordi
nanza, l'accertamento dei fatti posti a base della domanda ri
sarcitoria; la sospensione necessaria del processo civile non è prevista
dall'art. 75 c.p.p. nell'ipotesi che l'azione civile sia promossa, come nel caso che ci occupa, nei confronti del solo responsabile civile (l'on. Sgarbi, imputato in sede penale, è intervenuto vo
lontariamente nel processo civile, ma non risulta che nei suoi
confronti parte attrice abbia svolto domanda alcuna). Va altresì rilevato che, indipendentemente dall'applicazione
dell'art. 75 c.p.p., deve escludersi che i processi penali pendenti nei confronti dell'on. Sgarbi abbiano carattere pregiudiziale ri
spetto alla controversia civile promossa dal dott. Cordova nei
confronti della Rti s.p.a., nel senso che la definizione della con
troversia penale costituisce l'indispensabile antecedente logico
giuridico dalla cui soluzione dipenda la decisione della causa
pregiudicata, in relazione, in particolare, all'esigenza di evitare
un conflitto tra il giudicato penale e quello civile (come affer
mato in alcune recenti pronunce della Cassazione: 4179/97, id.,
1997, I, 1757; 1074/98, id., Rep. 1998, voce cit., n. 31; 9440/98, ibid., n. 33) e ciò in quanto, secondo il disposto dell'art. 651
c.p.p., l'eventuale sentenza penale irrevocabile di condanna del
l'on. Sgarbi non avrebbe efficacia di giudicato nel giudizio civi
le promosso contro la Rti, quale responsabile civile, non essen
do stata questa citata nel giudizio penale e non essendovi inter
venuta. Inoltre l'eventuale sentenza penale irrevocabile di
assoluzione dell'on. Sgarbi non potrebbe aver efficacia di giudi
cato, in base al disposto dell'art. 653 c.p.p., nel giudizio civile
di risarcimento danni promosso dal Cordova quale danneggiato nei confronti della sola Rti, quale responsabile civile.
Né, infine, potrebbe trovare nella specie applicazione il di
sposto dell'art. 654 c.p.p. che concerne l'efficacia della senten
za penale di condanna o di assoluzione solo nei giudizi civili
diversi da quelli di danno ed esclude inoltre che tale sentenza
penale possa svolgere effetti nei confronti dei soggetti — come
nel caso in esame la Rti — che non abbiano partecipato al giu dizio penale.
Non ricorrendo pertanto, in base alle svolte considerazioni, 1 presupposti per la sospensione ex art. 295 c.p.c. del giudizio civile il ricorso va accolto e l'impugnata ordinanza di sospen sione annullata.
Il Foro Italiano — 2000.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 3 gennaio
2000, n. 5; Pres. Trezza, Est. Filadoro, P.M. Cinque (conci,
conf.); Inps (Avv. Gigante, Cerioni) c. De Leo (Avv. Gar
din, Porcari). Conferma Trib. Lecce 28 febbraio 1996.
Previdenza e assistenza sociale — Lavoratrici madri — Cessa
zione dell'attività da oltre sessanta giorni prima dell'inizio del
l'astensione obbligatoria — Licenziamento successivo a tale
inizio — Indennità di maternità — Spettanza (L. 30 dicembre
1971 n. 1204, tutela delle lavoratrici madri, art. 17).
Alla lavoratrice licenziata successivamente al momento di inizio
del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per gravi danza e che fino a tale momento ha maturato le retribuzioni
(nella specie, ammesse al passivo del fallimento dell'impresa datrice di lavoro), compete, ai sensi dell'art. 17, 2° comma, l. 30 dicembre 1971 n. 1204, l'indennità economica di mater
nità, a nulla rilevando la circostanza, nella specie comunque non provata, che l'impresa datrice di lavoro medesima avesse
cessato l'attività da più di sessanta giorni prima dell'inizio
del predetto periodo di astensione. (1)
Motivi della decisione. — Con l'unico motivo, il ricorrente
denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 17, 2° comma, 1. n. 1204 del 30 dicembre 1971, nonché erronea e insufficiente
motivazione della sentenza su un punto decisivo della contro
versia in relazione all'art. 360, 3° e 5° comma, c.p.c. L'art. 17, 2° comma, 1. n. 1204 del 1971 prevede che il diritto
a percepire l'indennità economica di maternità possa e debba
essere riconosciuta in favore dei soggetti che, all'inizio del pe riodo di astensione obbligatoria, siano vincolati da un valido
rapporto di lavoro.
Solo eccezionalmente — sottolinea il ricorrente — la predetta
legge riconosce lo stesso diritto alle lavoratrici sospese, assenti
o licenziate purché non siano trascorsi più di sessanta giorni dalla data di sospensione, assenza o licenziamento.
Nel caso di specie, i giudici di appello avevano errato nel
ritenere che il licenziamento non fosse avvenuto al momento
in cui la ditta aveva cessato ogni attività (cioè con il 18 marzo
1989), secondo una decisione di questa corte, la n. 6278 del
3 giugno 1991 (Foro it., Rep. 1991, voce Previdenza sociale,
(1) Unico precedente di legittimità in punto appare essere Cass. 3
giugno 1991, n. 6278, Foro it., Rep. 1991, voce Previdenza sociale, n. 621, che ha escluso il diritto della lavoratrice all'indennità di mater
nità nel caso in cui l'imprenditore, ancorché per decisione unilaterale, abbia cessato definitivamente la propria attività, ma sul presupposto — nella specie decisa da Cass. 5/2000 in epigrafe ritenuto non ricorren te — dell'insussistenza di un diritto della lavoratrice, a norma di legge o di contratto, alla retribuzione. Secondo Cass. 21 agosto 1986, n. 5133, id., Rep. 1987, voce cit., n. 698, la situazione di mancanza di retribu
zione, negli ultimi sessanta giorni precedenti l'inizio del periodo di asten sione obbligatoria dal lavoro, che osta al diritto della lavoratrice al trattamento economico di maternità, va intesa non già quale mera si
tuazione di fatto, ma quale situazione di mancanza di diritto alla retri
buzione; pertanto, in ogni caso in cui nei predetti sessanta giorni la
lavoratrice, pur non avendo percepito di fatto la retribuzione, ha però acquisito il diritto di percepirla (ancorché eventualmente, senza presta zione di attività lavorativa, per sospensione unilaterale da parte del da tore di lavoro o per assenza dal lavoro consentita dallo stesso con dirit to a retribuzione), le è dovuto il trattamento economico di maternità. Per Pret. Milano 7 ottobre 1982, id., Rep. 1983, voce cit., n. 816, la lavoratrice madre licenziata per cessazione dell'attività dell'impresa ha diritto alla corresponsione dell'indennità in questione per il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, qualora tra il licenziamento e l'i
nizio del suddetto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni, com
putati escludendo il periodo di assenza per malattia regolarmente accer
tata e riconosciuta. Corte cost. 29 marzo 1991, n. 132, id., Rep. 1991, voce Lavoro (rapporto), n. 1325, ha dichiarato costituzionalmente ille
gittimo l'art. 17, 2° comma, 1. 30 dicembre 1971 n. 1204, nella parte in cui, per le lavoratrici con contratto di lavoro a tempo parziale di
tipo verticale su base annua, allorquando il periodo di sospensione ab
bia inizio più di sessanta giorni dopo la cessazione della precedente fase di lavoro, esclude il diritto all'indennità giornaliera di maternità
anche in relazione ai previsti successivi periodi di ripresa dell'attività
lavorativa. In tema di licenziamento di lavoratrici madri per cessazione parziale
d'attività, cfr. Cass. 8 settembre 1999, n. 9551, in questo fascicolo,
I, 147, con nota di richiami.
This content downloaded from 91.238.114.174 on Sat, 28 Jun 2014 18:29:51 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions
PARTE PRIMA
n. 621) ma solo quando la lavoratrice aveva ricevuto la lettera
di licenziamento (10 dicembre 1990). II ricorso non è fondato.
Come correttamente hanno ritenuto i giudici di appello, il
rapporto di lavoro della De Leo era ancora in corso a tutti
gli effetti fino al dicembre 1990, poiché solo in data 10 dicem bre 1990 venne intimato il licenziamento e le retribuzioni matu
rate fino a tale data vennero ammesse al passivo del fallimento.
Il richiamo alla disposizione di cui al 2° comma dell'art. 17
appare quindi fuori di luogo, poiché all'inizio del periodo di
astensione obbligatoria dal lavoro la De Leo non era sospesa, né assente senza retribuzione (né disoccupata).
Alla luce di tali considerazioni, anche il richiamo alla prece dente decisione di questa corte appare fuori di luogo, poiché nel caso di specie manca completamente la prova del fatto de
dotto dall'Inps e cioè che la ditta Quarta Maria fosse inattiva
sin dal marzo 1989 o che comunque la stessa De Leo non avesse
prestato attività lavorativa sin da tale data.
Dalla decisione impugnata risulta, infatti, che la De Leo fu
licenziata il 10 dicembre 1990, a distanza di oltre tre mesi dal
parto (avvenuto il 26 agosto 1990), e che al momento di inizio
del periodo di astensione dal lavoro la resistente era ancora re
golarmente in servizio.
In presenza di un valido rapporto di lavoro (confermato dal
la pacifica circostanza dell'ammissione al passivo delle retribu
zioni della De Leo maturate fino alla data del licenziamento), l'istituto non poteva legittimamente negare il diritto alla richie
sta indennità economica di maternità.
Tra l'altro, l'art. 2, 3° comma, lett. b), 1. n. 1204 del 1971
(secondo il quale: «Il divieto di licenziamento non si applica nel caso . . . b) di cessazione dell'attività dell'azienda cui essa
è addetta») esclude chiaramente che la cessazione dell'attività
della azienda possa essere equiparata a licenziamento in man
canza di un atto formale di recesso, come invece l'istituto ricor
rente sembra ritenere nel ricorso per cassazione.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 14 dicem
bre 1999, n. 14065; Pres. Lanni, Est. Castiglione, P.M. Mar
tone (conci, parz. diff.); Soc. Sap (Avv. Magno) c. Accroc
ca; Accrocca (Avv. Falla Trella) c. Soc. Sap. Cassa Trib.
Roma 13 febbraio 1997.
Lavoro (rapporto di) — «Part-time» — Malattia — Periodo
di comporto — Fattispecie (Cod. civ., art. 1464, 2110; d.l.
30 ottobre 1984 n. 726, misure urgenti a sostegno e ad incre
mento dei livelli occupazionali, art. 5; 1. 19 dicembre 1984
n. 863, conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 30
ottobre 1984 n. 726, art. unico). Lavoro (rapporto di) — Malattia — Assenze intermittenti —
Periodo di comporto — Applicabilità — Inidoneità perma nente — Giustificato motivo di recesso (Cod. civ., art. 1464,
2110; 1. 15 luglio 1966 n. 604, norme sui licenziamenti indivi duali, art. 3).
Nel caso di licenziamento per eccessiva morbilità di lavoratore
a tempo parziale, il periodo di comporto applicabile è, in as
senza di regola contrattuale collettiva specifica, quello previ sto dalla disciplina collettiva per i lavoratori a tempo pieno
qualora si tratti di part-time orizzontale, cioè con orario ri
dotto ma uniforme per tutti i giorni, dovendo invece, il perio do stesso, qualora si tratti di part-time verticale e cioè con
orario normale per alcuni mesi dell'anno o per alcune setti
mane al mese, essere determinato dal giudice, eventualmente
con ricorso alle fonti sussidiarie degli usi e dell'equità di cui
all'art. 2110 c.c., diminuendo la durata prevista per i lavora
tori a tempo pieno in proporzione alla quantità della presta
li. Foro Italiano — 2000.
zione, in modo che, avuto riguardo alla particolarità del rap
porto, resti salva la causa del contratto e sia mantenuto co
stante l'equilibrio di scambio tra prestazione e contropresta
zione, con l'osservanza dei limiti derivanti dall'art. 1464 c.c.
(nella specie, si trattava di part-time orizzontale). (1) Anche nell'ipotesi di assenze del dipendente per malattie a ca
rattere intermittente o reiterato, ancorché frequenti e discon
tinue in relazione ad uno stato di salute malfermo, il datore
di lavoro può licenziare il dipendente stesso solo dopo il su
peramento del periodo di conservazione del posto fissato dal
la contrattazione collettiva ovvero, in mancanza, determinato
secondo equità, potendo invece licenziarlo per giustificato mo
tivo oggettivo, ai sensi degli art. 3 l. 15 luglio 1966 n. 604
e 1464 c.c., indipendentemente da tale superamento, quando
l'infermità abbia carattere permanente ed implichi pertanto
definitiva incapacità fisica, e manchi un apprezzabile interes
se del datore di lavoro alle future, ridotte prestazioni lavora
tive del dipendente. (2)
Motivi della decisione. — I due ricorsi — principale ed inci
dentale condizionato — in quanto proposti contro la stessa sen
tenza, vanno, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., riuniti.
Con il primo motivo del ricorso principale, la Sap — nel de
nunciare violazione e falsa applicazione degli art. 2110, 1362
ss., 1174, 1325, 2094, 1464 c.c. e 5 1. 19 dicembre 1984 n. 863, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione cir
ca punti decisivi della controversia (art. 360, nn. 2 e 3, c.p.c.) — censura la sentenza impugnata per avere sostenuto: a) che
l'esame delle fonti collettive e individuali consente di determi
nare il periodo di comporto, senza necessità di ricorrere alle
fonti sussidiarie di cui all'art. 2110 c.c.; b) che la lettura degli art. 52 e 53 ccnl, effettuata dal pretore, non è persuasiva e
che non è dato rinvenire alcuna incompatibilità tra la misura
del comporto per il rapporto a tempo pieno e quella per il rap
porto a tempo parziale. Secondo la società ricorrente, il tribunale, che ha violato al
tresì i criteri di ermeneutica contrattuale, perché — una volta
stabilito che il periodo di comporto doveva essere determinato
in base a quanto stabilito dal ccnl — ha trascurato, tuttavia, di indagare sulla reale intenzione delle parti, si è contraddetto,
(1) Con la sentenza in epigrafe la Corte di cassazione sviluppa —
ed in parte puntualizza — la propria giurisprudenza in argomento: cfr. Cass. 11 aprile 1990, n. 3063, Foro it., Rep. 1990, voce Lavoro (rap porto), n. 526, che non sembra distinguere tra part-time orizzontale e part-time verticale; 11 giugno 1983, n. 4034, id., Rep. 1983, voce
cit., n. 2537, e Giust. civ., 1984, I, 237, con nota di M. Papaleoni, Eccessiva morbilità e lavoro a tempo parziale, che si pronunzia per il «riproporzionamento» appunto in fattispecie di part-time verticale; nella non ricca giurisprudenza di merito, cfr., sempre nella direzione della riduzione proporzionale del comporto, Pret. Roma 29 marzo 1994, Foro it., Rep. 1994, voce cit., n. 1598, che è stata riformata dalla deci sione cassata da Cass. 14065/99 sopra riportata; Pret. Firenze 29 otto bre 1993, ibid., n. 1599; Pret. Siracusa 18 agosto 1993, ibid., n. 1600; Pret. Roma 19 ottobre 1991, id., Rep. 1992, voce cit., n. 616, e, per esteso, Giur. it., 1992, I, 2, 504, con nota di I. Piccinini, Comporto, «part-time» ed equità-, Trib. Lodi 20 novembre 1984, Foro it., Rep. 1985, voce cit., n. 2226; cfr. altresì Pret. Roma 22 settembre 1997, id., Rep. 1998, voce cit., n. 768, in un caso in cui il contratto collettivo
prevedeva che il trattamento di malattia dovesse essere garantito al la voratore part-time in proporzione alla durata della prestazione; in dot
trina, cfr., più di recente, per differente soluzione, G. Pera, Sul com
porto per sommatoria nel «part-time», in Riv. it. dir. lav., 1998, I, 357 ss., cui Cass. 14065/99 sopra riportata è tributaria per la ricostru zione critica del dibattito in argomento, che anche qui si richiama.
(2) Contra, Cass. 14 ottobre 1993, n. 10131, Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n. 1558, e, per esteso, Riv. it. dir. lav., 1994, II, 721, con nota di R. Del Punta, Sulle c.d. clausole di esclusione del comporto per sommatoria, e Riv. critica dir. lav., 1994, 612, con nota di R. Muggia, La parabola dell'equità: quando il giudice si fa parte e legislatore, secondo cui, poiché la disciplina speciale dell'art. 2100 c.c. prevale non solo su quella generale della risoluzione del rap porto di lavoro prevista dall'art. 3 1. n. 604 del 1966, ma anche su
quella generale della risoluzione dei contratti per impossibilità soprav venuta, parziale o temporanea, solo il superamento del periodo di com
porto costituisce per il datore legittima causa di recesso. In tal senso, cfr., tra le altre, Cass. 2 dicembre 1986, n. 7136, Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 2279. Conforme, sulla seconda parte della massima, da
ultimo, Cass. 20 aprile 1998, n. 4012, id., 1999, I, 969.
This content downloaded from 91.238.114.174 on Sat, 28 Jun 2014 18:29:51 PMAll use subject to JSTOR Terms and Conditions