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sezioni unite civili; sentenza 25 luglio 1986, n. 4577; Pres. Barba, Est. Colasurdo, P. M. Fabi...

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sezioni unite civili; sentenza 25 luglio 1986, n. 4577; Pres. Barba, Est. Colasurdo, P. M. Fabi (concl. conf.); Sansone ed altri (Avv. Equissi, Rizzo) c. Comune di Palermo (Avv. E. Esposito, Palazzo). Cassa Trib. Palermo 19 settembre 1984 Source: Il Foro Italiano, Vol. 110, No. 6 (GIUGNO 1987), pp. 1827/1828-1829/1830 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23178628 . Accessed: 24/06/2014 21:44 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 91.229.248.152 on Tue, 24 Jun 2014 21:44:58 PM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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sezioni unite civili; sentenza 25 luglio 1986, n. 4577; Pres. Barba, Est. Colasurdo, P. M. Fabi(concl. conf.); Sansone ed altri (Avv. Equissi, Rizzo) c. Comune di Palermo (Avv. E. Esposito,Palazzo). Cassa Trib. Palermo 19 settembre 1984Source: Il Foro Italiano, Vol. 110, No. 6 (GIUGNO 1987), pp. 1827/1828-1829/1830Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23178628 .

Accessed: 24/06/2014 21:44

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1827 PARTE PRIMA 1828

Svolgimento del processo. — Con ricorso notificato il 18 no

vembre 1983 all'amministrazione della pubblica istruzione, le in

segnanti di educazione fisica Maria Pia Girardo e Paola

Crementieri hanno chiesto a questa corte di annullare la sentenza

22 luglio 1983, con cui il Tribunale di Trieste - sez. lavoro, in

accoglimento dell'appello interposto dalla detta amministrazione

avverso la decisione del Pretore di Pordenone, ha escluso che

le ricorrenti potessero pretendere l'accesso alla graduatoria per

l'insegnamento dell'educazione fisica maschile (id est in classi ma

schili), in ragione della loro appartenenza al sesso femminile.

L'amministrazione intimata si è costituita con deposito di con

troricorso.

Motivi della decisione. — (Omissis) 2. - Nel merito, con un

unico mezzo di cassazione, le ricorrenti censurano la sentenza

del tribunale per non aver rilevato l'intervenuta abrogazione (im

plicita) della 1. 7 febbraio 1958 n. 88 (che prevede due distinte

graduatorie per la educazione fisica maschile e femminile, con

accesso rispettivamente dei soli insegnanti uomini e delle sole in

segnanti donne) ad opera della 1. 9 dicembre 1977 n. 903 sulla

«parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro», e per non aver conseguentemente accertato l'illegittimità del prov vedimento con cui, in applicazione appunto della predetta 1. n.

88/58, il provveditore di Pordenone aveva escluso esse docenti

dalla graduatoria per l'insegnamento in classi maschili.

La doglianza non è fondata. L'art. 1 1. 903/77 vieta invero

«qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro».

Ma, come esattamente ha ritenuto il tribunale, non vi è contra

sto (che possa attivare il meccanismo abrogativo) tra detta dispo sizione (che attua, in subiecta materia, il principio costituzionale

dell'eguaglianza, sub art. 3 Cost.) e la precedente 1. n. 88/58,

sull'insegnamento dell'educazione fisica,

Quest'ultima infatti, prevedendo la divisione dei discenti in classi

separate di alunni ed alunne ed istituendo parallelamente un dop

pio ruolo di docenti, in base al requisito attitudinale dell'apparte

tarie ed agli art. 3, 4, 37 e 51 Cost. In relazione al disposto di tali articoli della Costituzione, la sentenza della Corte di cassazione si colloca nel l'ambito di una linea interpretativa segnata dalle decisioni della Corte costituzionale secondo le quali, al fine di valutare la portata del principio di uguaglianza tra i sessi, occorre tener conto non solo del disposto del l'art. 3 Cost., ma anche degli art. 29, 37, 51 e 52, i quali muovono tutti da un presupposto non ispirato ad un'assoluta ed indiscriminata parità livellatrice fra uomini e donne. In particolare l'art. 51 va interpretato nel senso che la diversità di sesso, in se e per se considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, ma il legislatore ben può assumere l'appartenenza all'uno o all'altro sesso come requisito attitudi nario indispensabile per determinati uffici pubblici (Corte cost. 3 ottobre

1958, n. 56, Foro it., 1958, I, 1393, e in Giur. costit., 1958, 861, con note di Crisafulli ed Esposito; 18 maggio 1960, n. 33 Foro it., 1960, I, 705).

Analoghe affermazioni sono state ribadite più di recente in una deci sione del Consiglio di Stato, nella quale è stato affermato che gli art.

3, 51 e 52 Cost., stabilendo l'uguaglianza tra i sessi in relazione all'acces so ai pubblici uffici, non determinano un'automatica e impossibile parifi cazione che astragga dalle caratteristiche naturali dei due sessi e dalle correlative attitudini, come dimostra il fatto che la Costituzione rimette alla legge ordinaria la specificazione dei requisiti di operatività del princi pio di uguaglianza per l'accesso agli uffici pubblici e la considerazione che tale principio non vieta il trattamento differenziato di situazioni og gettivamente diverse (Cons. Stato, sez. IV, 28 luglio 1982, n. 526, id., 1982, III, 393, che ha ritenuto legittima l'esclusione di un'aspirante di sesso femminile dal concorso per l'ammissione all'Accademia navale di

Livorno). Si tratta, peraltro, di una giurisprudenza che tende ad evolversi — e ne è prova lo stesso non larvato invito, rivolto dalla Corte di cassa zione al legislatore, a modificare la 1. n. 88/58 — sulla spinta della dottri na e dei mutamenti sociali e del costume in atto. Ne sono prova alcune recenti sentenze della Corte costituzionale, con le quali è stata dichiarata

l'illegittimità costituzionale dell'art. 12 1. n. 653/34, nella parte in cui vietava il lavoro notturno delle donne nelle aziende industriali (sent. n. 210 del 1986, id., 1986, I, 2676); l'illegittimità costituzionale dell'art. 11 1. n. 604/66, in quanto, in relazione ad altre norme in materia pensioni stica, consentiva il licenziamento senza giusta causa della donna, ponen do in essere un trattamento diverso rispetto a quello previsto per l'uomo al raggiungimento di una determinata età (sent. n. 137 del 1986, ibid., 1750); l'illegittimità costituzionale delle norme delle 1. n. 444 del 1968 e n. 463 del 1978, che prevedevano che il corpo docente delle scuole ma terne fosse composto esclusivamente da donne (sent. n. 173 del 1983, id., 1983, I, 2344). [F. Felicetti]

Il Foro Italiano — 1987.

nenza al medesimo sesso dei destinatari dell'insegnamento, pone una norma organizzatoria che — seppur superata nelle ragioni etico sociali che l'hanno ispirata e sopravanzata, nel costume, dalla nuova filosofia dei rapporti e dei ruoli uomo-donna (il che

sta però al legislatore, nella sua discrezionalità, di rilevare e tra

durre sul piano di nuovi interventi normativi) — certamente non

attua alcuna discriminazione tra gli insegnanti, in ragione del sesso.

Ed invero i docenti — sia uomini che donne — si trovano su

un piano astratto di assoluta parità agli effetti dell'«accesso al

lavoro»: non sussistendo nei confronti né degli uni né degli altri

alcuno sbarramento o preclusione e solo essendo, per entrambi, tale accesso subordinato al possesso di un identico requisito atti

tudinale, in relazione alla composizione delle classi cui l'insegna mento deve essere impartito.

E se, in concreto, l'inclusione nei ruoli può risultare, come nel

la specie, per taluni ostacolata dalla situazione demografica di

un dato comparto territoriale in un determinato momento, trat

tasi all'evidenza di ostacolo assolutamente contingente ed occa

sionale, che colpisce indiscriminatamente gli insegnanti dell'uno

o dell'altro sesso, fuori da una logica di predeterminata penaliz zazione nei confronti degli uni o degli altri.

La sentenza impugnata non merita dunque censura ed il ricor

so va pertanto respinto. (Omissis)

CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite civili; sentenza 25 lu

glio 1S86, n. 4577; Pres. Barba, Est. Colasurdo, P. M. Fabi

(conci, conf.); Sansone ed altri (Avv. Equissi, Rizzo) c. Comu

ne di Palermo (Avv. E. Esposito, Palazzo). Cassa Trib. Paler

mo 19 settembre 1984.

Lavoro e previdenza (controversie in materia di) — Legale ester

no del comune di Palermo — Rapporto di pubblico impiego — Esclusione — Rapporto di para-subordinazione — Compe tenza (Cod. proc. civ., art. 409).

Il rapporto di lavoro intercorrente fra i legali esterni che esplica no attività continuativa di consulenza e assistenza in favore del

comune di Palermo e quest'ultimo, secondo apposita conven

zione, riveste i caratteri della para-subordinazione e non del

rapporto di pubblico impiego, onde la sua cognizione è riserva

ta al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, ai

sensi dell'art. 409, n. 3, c.p.c. (1)

Motivi della decisione. — Con l'unico mezzo si denuncia l'er roneità della qualificazione del rapporto adottata dal giudice d'ap pello, e della conseguente declinatoria della giurisdizione.

I legali assunti in qualità di consulenti, ossia di collaboratori esterni del comune di Palermo, secondo la censura, non sarebbe ro dipendenti dello stesso, sicché il rapporto sarebbe di natura

privatistica, e devoluto come tale alla cognizione dell'autorità giu diziaria ordinaria.

II ricorso è fondato, né possono sorgere dubbi circa la sua am

missibilità, come adombrato dalla difesa del resistente.

Poiché il rapporto di clientela dedotto dagli istanti rientra nella

più ampia previsione di quelli disciplinati dall'art. 409, n. 3, c.p.c.,

dopo che la novella della 1. 11 agosto 1973 n. 533 ha fatto elabo

(1) Giurisprudenza costante, sia per il rapporto di lavoro dei legali esterni sia per quello dei sanitari convenzionati con gli enti pubblici.

Quanto ai legali, v. Cass. 5 novembre 1986, n. 6475, Foro it., Mass., 1106; 29 luglio 1986, n. 4882, ibid., 870; 19 luglio 1986, n. 4673, ibid., 830; 7 luglio 1986, n. 4434, ibid., 782; 18 giugno 1986, n. 4092, ibid., 717; 16 giugno 1986, n. 4010, ibid., 705; 21 febbraio 1986, n. 1061, ibid., 198; 9 marzo 1985, n. 1920, id., Rep. 1985, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 85; 28 giugno 1984, n. 3815, id., 1984, I, 1813, con nota di richiami; cfr. ora Cass. 8 giugno 1987, n. 5017, in questo fascico lo, I, 1713, con nota di richiami di C. M. Barone.

In dottrina v., da ultimo, E. Biamonti, La professione forense — Al cune considerazioni — In particolare sugli uffici legali degli enti pubblici, in Temi romana, 1985, 596.

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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE

rare la figura della para-subordinazione, nessun giudicato interno

si è formato per effetto della concentrazione del gravame sulla

negata configurazione del rapporto suddetto, come più dettaglia tamente si dirà appresso.

Il giudice d'appello, sovvertendo la decisione di primo grado, ha affermato la natura pubblicistica del rapporto sulla base di

una serie di elementi che non giustificano la conclusione raggiun

ta, e convincono piuttosto del contrario.

Giustamente la pronuncia ha negato decisività alla clausola del

provvedimento di assunzione che escludeva la costituzione di un

rapporto di pubblico impiego; contraddittoriamente, però, è ve

nuto a valorizzare il provvedimento per configurarvi l'atto costi

tutivo di un rapporto di tale natura.

La prova al riguardo è stata ritenuta raggiunta in quanto: 1)

le nomine erano state disposte per coprire altrettanti posti nel

l'organico dei legali esterni, non apparendo opportuno servirsi

dell'opera di liberi professionisti, da retribuire secondo le tariffe

forensi; 2) gli avvocati e procuratori cosi nominati erano stati

inseriti nell'organizzazione dell'ufficio legale del comune, che nel

l'attuazione dei compiti di istituto non faceva distinzione fra le

gali interni ed esterni; 3) i legali esterni avevano obbligo di

presenziare alle riunioni del collegio di difesa, giustificando le

eventuali assenze; di rendersi disponibili per ogni chiamata del

sindaco o dell'avvocato capo per affari urgenti; di assumere gra

tuitamente, su richiesta del sindaco, la difesa di dipendenti comu

nali nelle controversie relative allo svolgimento delle loro funzioni,

obblighi tutti riconducibili alla subordinazione; 4) l'attività svolta

in favore del comune era prevalente rispetto a quella di libero

professionista; 5) la predeterminazione dei compensi, corrisposti

in ratei mensili, faceva ricondurre il trattamento economico alle

forme proprie dell'impiego pubblico. Nessuno di questi elementi appare concludente, e anzi sorge

spontaneo il rilievo che una retribuzione inferiore, nel 1983, a

lire 400.000 mensili non consente di configurarla come stipendio,

facendo dubitare anche dell'asserita prevalenza dell'attività cosi

retribuita su quella svolta liberamente.

Su un piano più strettamente giuridico si deve osservare che

i legali esterni, com'è pacifico, conservavano l'iscrizione all'albo

dei liberi professionisti, come non sarebbe stato consentito se fos

sero stati realmente dipendenti pubblici; e infatti gli avvocati in

terni, assunti per pubblico concorso, erano iscritti nell'elenco

speciale dei professionisti con esercizio limitato alla trattazione

degli affari dell'ente di appartenenza, e assoggettati alla discipli

na assicurativa, previdenziale e fiscale dei dipendenti pubblici,

diversamente dai primi.

Questo sarebbe sufficiente a escludere che il rapporto abbia

la natura configurata dal tribunale, ma altri appunti si devono

muovere alla sentenza.

La circostanza che gli avvocati e procuratori c.d. «consulenti»,

perché in effetti prestavano opera anche nel campo giudiziale,

fossero nominati con atto formale, quale la delibera consiliare,

come l'altra che fossero inclusi nell'organico dell'ufficio legale

e negli elenchi del personale retribuito dal comune, non poteva

assumere significato univoco, trattandosi di modalità e adempi

menti imposti dalla natura del preponente e dalle norme che ne

regolano lo svolgimento delle funzioni, i pagamenti in ispecie.

Né appare maggiormente risolutiva la considerazione che il ri

corso a tale forma di collaborazione era dettato dall'intento di

risparmiare maggiori oneri al comune, evitando l'applicazione delle

tariffe professionali forensi, dato che ciò si poneva in contrasto

con la legge, che vieta ogni violazione dei minimi tariffari (1. 13

giugno 1942 n. 749, art. 34), anche se all'epoca era diffuso il

convincimento che il divieto non valesse per degli enti pubblici

che intrattenevano con i professionisti esterni un rapporto stabile

di collaborazione per gli affari correnti.

Il mantenimento della posizione di libero professionista, tutta

via, non è stato mai messo in dubbio, e tale caratteristica non

consente la configurazione di un rapporto di impiego pubblico,

che presuppone l'esclusività delle prestazioni e il vincolo di su

bordinazione.

L'inserimento degli istanti nella struttura dell'ufficio legale e

quindi del comune indubbiamente vi è stato, e in forma non oc

casionale, ma l'attività professionale svolta dagli stessi veniva svolta

— e anche questo è pacifico — sulla base del mandato generale

conferito al singolo, con l'organizzazione di studio di questi e

senza particolare ingerenza dell'ente nella conduzione dell'incari

co affidatogli di volta in volta.

Il Foro Italiano — 1987.

I professionisti esterni, quindi, conservavano la loro autono

mia professionale, sia pure nel quadro delle direttive generali det

tate per la necessaria armonizzazione della loro attività con i fini

e le esigenze dell'amministrazione preponente. In questa prospettiva, il rapporto in esame va ricondotto nel

l'ambito della previsione dell'art. 409, n. 3, c.p.c., nella quale la giurisprudenza di questa corte, a sezioni unite e a sezione sem

plice, ha costantemente inquadrato i rapporti degli avvocati (e

dei professionisti in genere) degli enti pubblici, quando la presta

zione d'opera intellettuale presenti carattere continuativo e coor

dinato, ma difetti del requisito dell'assoggettamento gerar

chico.

Per la configurazione del rapporto d'impiego, infatti, non ba

sta l'inserimento nelle strutture del preponente, pubblico o priva

to che sia, né la dettagliata regolamentazione dei rapporti in

riferimento alle esigenze organizzative e funzionali dello stesso,

come non rileva l'imposizione di direttive, che incidono sull'inte

resse perseguito dal committente, e non sul profilo tecnico del

l'attività professionale e sulle modalità di svolgimento di queste

(sez. un. 28 giugno 1984, n. 3815, Foro it., 1984, I, 1813, per

tutte). Requisito indeclinabile, invece, è quello della subordina

zione, a torto ravvisato dal giudice di appello sulla scorta di ele

menti inidonei a fornirne dimostrazione.

L'obbligo di partecipare alle riunioni settimanali del collegio

di difesa per riferire sulle cause trattate e assicurare unitarietà

agli indirizzi difensivi, e cosi quello di conferire con il sindaco

e l'avvocato capo per affari urgenti, infatti, si riconducono allo

svolgimento del mandato professionale e al necessario coordina

mento con le finalità dell'ente, e sono comuni a qualsiasi rappor

to professionale fiduciario avente carattere continuativo.

L'obbligo di assumere la difesa di dipendenti comunali a ri

chiesta del sindaco e senza compenso per gli onorari, d'altra par

te, va correlato con il munus dell'incarico stabilmente conferito

dal comune, e non altro.

Gli elementi e le argomentazioni posti dalla sentenza a fonda

mento dell'affermazione della natura pubblicistica del rapporto

si rivelano dunque inconsistenti, e tali da convincere piuttosto

della sua riconducibilità allo schema della parasubordianzione,

nel quale rientra la figura del contratto di clientela dedotto dagli

istanti, caratterizzato dal conferimento di un mandato professio

nale per la prestazione continuativa di un'opera intellettuale, estesa

a tutte le controversie da trattare nell'arco di durata dell'incari

co, e da svolgere dal professionista con la propria organizza

zione.

La distinzione fra le due figure operata dal primo giudice, per

tanto, non poggia su basi giuridiche, come non appare pertinente

il richiamo del comune alla sentenza di queste sezioni unite che

è pervenuta al riconoscimento della natura pubblicistica del rap

porto interessante l'avvocato capo (sent. 7 gennaio 1975, n. 16,

id., Rep. 1975, voce Impiegato dello Stato, n. 175) sia perché

riferita a una diversa situazione di fatto, sia perché intervenuta

prima che entrasse in vigore la 1. 11 agosto 1973 n. 533, in forza

della quale è stata elaborata la figura della parasubordinazione,

come tertium genus fra il rapporto d'impiego pubblico e quello

privato. Sulla scorta di quanto fin qui esposto, il rapporto in controver

sia si riconduce nell'ambito dell'art. 409, n. 3, c.p.c., sicché di

esso deve conoscere il magistrato ordinario, contrariamente a quan

to deciso dal Tribunale di Palermo, la cui sentenza deve conse

guentemente essere cassata con rinvio della causa per nuovo esame

allo stesso giudice, nella qualità di giudice del lavoro. (Omissis)

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