sezioni unite penali; sentenza 21 aprile 1995; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. D'Urso, P.M.Aponte (concl. conf.); Zoccoli ed altri. Conferma App. Messina 14 marzo 1994Source: Il Foro Italiano, Vol. 119, No. 2 (FEBBRAIO 1996), pp. 67/68-69/70Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23190203 .
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PARTE SECONDA
1. 689/81 rappresenta una disposizione di rinvio a norme (art. 135 e 133 bis c.p.) di contenuto chiaramente sostanziale perché incidenti sul trattamento sanzionatorio applicabile in concreto.
Trattasi, in pratica, di un sistema sanzionatorio parallelo a
quello ordinario composto da norme che stabiliscono modalità
e criteri fissati per determinare la sanzione sostitutiva; sicché si viene a creare uno stretto collegamento tra sanzione sostituti
va e fattispecie penale in modo tale da farne derivare la natura
dell'originaria sanzione penale. Tali considerazioni valgono altresì ad escludere che la sanzio
ne sostitutiva di cui alla 1. 689/81 rappresenti una semplice mo
dalità esecutiva della pena detentiva breve; anche perché la nor ma incriminatrice si compone di precetto e sanzione ed ogni norma che comunque integri o completi la sanzione deve rite
nersi norma di tipo sanzionatorio e, quindi, avere natura essen
zialmente sostanziale e, come tale, detta disposizione è sogget
ta, in caso di successione della legge nel tempo, al principio di cui all'art. 2 c.p.
Con l'ulteriore precisazione, però, che allorché si parla di nor
ma avente natura sostanziale o processuale, il riferimento deve
intendersi all'art. 53 1. 689/81 e non già all'art. 135 c.p. Ade
rendo alla prevalente dottrina, ritengono infatti queste sezioni
unite che detta ultima norma non è suscettibile di qualificazione
giacché si tratta di una disposizione strumentale ad altro effetto
giuridico consistente nella operazione di ragguaglio tra pena de
tentiva e pena pecuniaria. È solo la disposizione che regola tale
effetto che deve ritenersi di natura sostanziale attenendo l'ap
plicazione della pena sostitutiva (cosi come della sospensione condizionale della pena) al diritto penale sostanziale siccome
istituti che definiscono l'ambito del trattamento punitivo. Non senza rilevare, infine che le sporadiche tesi contrarie so
no rappresentate da affermazioni apodittiche sostenenti la natu
ra processuale della norma senza apportare significativi contri
buti alla soluzione del quesito e che la tesi prospettata dal ricor
rente condurrebbe alla inaccettabile conclusione secondo cui, effettuato il ragguaglio secondo la vigente norma, l'imputato verrebbe a scontare una sanzione più onerosa di quella prevista al momento di fatto, producendosi, in tal modo, una non con
sentita retroattività della norma penale più gravosa, per di più condizionata dalla variabile durata del processo.
S'impone, allora, l'applicabilità dell'art. 2 c.p. che rappre senta una specificazione del generalissimo principio del favor rei, nel senso che la norma risponde ad una duplice esigenza: si evita, da un lato, una valutazione del fatto più severa di quel la del tempo in cui fu commesso il reato (sostituzione della pe
na) e, dall'altro, si impedisce l'applicabilità della disposizione anteriore il cui maggior rigore non risponde più ai nuovi para metri di valutazione sociale e morale del fatto (sospensione con
dizionale). E non è valido il rilievo secondo cui, aderendo alla tesi preva
lente si verrebbero simultaneamente ad applicare elementi della vecchia ed altri della nuova legge, comodamente combinati, in
una non vigente tertia lex (applicazione in tema di sostituzione
della pena e di sospensione condizionale della stessa). Perché, nell'ipotesi in cui una legge abbia modificato più istituti, cia scuno deve trovare concreta ed autonoma applicazione con rife
rimento ai criteri del maggior favore per l'imputato, attingendo
l'interprete le disposizioni più favorevoli con riguardo ai singoli istituti complessivamente considerati.
È opportuno precisare, infine, che identica questione è stata decisa da queste sezioni unite alla udienza del 27 settembre 1995, su ricorso Forina, con soluzione analoga a quella innanzi esposta.
Il Foro Italiano — 1996.
CORTE DI CASSAZIONE; sezioni unite penali; sentenza 21
aprile 1995; Pres. Zucconi Galli Fonseca, Est. D'Urso, P.M.
Aponte (conci, conf.); Zoccoli ed altri. Conferma App. Mes
sina 14 marzo 1994.
Giudizio abbreviato — Dissenso del pubblico ministero — Rito
ordinario — Riconoscimento della diminuente — Appello —
Disciplina (Cod. proc. pen., art. 443).
La diminuzione della pena nella misura di un terzo, applicata dal giudice dibattimentale che abbia, al termine del dibatti mento, ritenuto ingiustificato il dissenso del pubblico ministe
ro espresso in ordine alla richiesta di giudizio abbreviato, ha
meri effetti sostanziali e non anche processuali; ne consegue
che, ove venga proposto appello avverso detta pronuncia, il
relativo giudizio va celebrato nelle forme ordinarie, e dunque in pubblica udienza, essendo in tale ipotesi inapplicabile il disposto dell'art. 443, 4° comma, c.p.p. (1)
Motivi della decisione. — 1. - Dando priorità — per ovvie
ragioni di metodo — all'esame della prima delle accennate que stioni di profilo procedimentale, sottomesse dal ricorrente Fer
rara, deve darsi atto che, in effetti, se ne riscontra varietà di
soluzioni, nelle sentenze di questa corte, che si sono sinora oc
cupate dell'argomento. Secondo le pronunce nn. 1989, 2401, 2035, 7987 del 1993
(massime nn. 193266, 193786, 195957, 194914) il disposto del l'art. 443, 4° comma, c.p.p., per il quale — in caso di giudizio abbreviato — l'appello segue le forme previste dall'art. 599, cioè quelle del rito camerale, trova applicazione anche nel caso
in cui, celebratosi il giudizio di primo grado nelle forme ordina rie, a seguito del mancato consenso del p.m. alla richiesta di
giudizio abbreviato, il giudice di primo grado abbia ritenuto ingiustificato tale dissenso ed abbia, quindi, applicato la ridu zione di pena prevista dall'art. 442. Di contro, secondo le sen
tenze nn. 5532/91, 2847/92 e 7015/93 (rispettivamente massime
rv. nn. 197594, 189490, 195504) il giudizio di appello, nell'ac cennata ipotesi, deve svolgersi nelle forme ordinarie, non essen
do applicabile l'art, (cit.) 443, 4° comma, in quanto la diminu zione di pena, accordata dal giudice, che ritenga ingiustificato il dissenso del p.m., ha effetti solo sostanziali e non pure pro
cessuali, che possano comportare un virtuale — e dalla legge non previsto — regresso dalle forme ordinarie, con le quali il
processo si sia validamente svolto, a quelle del rito speciale, ritenute {a posteriori) praticabili dal primo giudice, e, tuttavia, non praticate.
Cosi evocati i termini della questione, reputa il collegio delle
sezioni unite dover propendere per la correttezza tecnico-giuridica di quest'ultima soluzione. Né sembra, in realtà, insuperabile il dato fondante, rappresentato da ciò, che l'esito normativo, de
rivato dalla cosiddetta «costituzionalizzazione» dei disposti del
codice di rito, sui quali ha inciso l'accennata pronuncia della
Corte costituzionale (sent. 15 febbraio 1991, n. 81, Foro it.,
1991, I, 2322), non immuta minimamente l'originario schema
positivo procedimentale del giudizio abbreviato, nel quale il con senso del p.m. rappresentava — e contiua a rappresentare —
un fattore, giustamente definito (dalle pronunce, sopra accen
nate, che hanno adottato la soluzione in discorso) indefettibile,
per legittimare l'introduzione del giudizio speciale. Non può non
seguirne che — ove tale consenso sia mancato, discendendone
(1) Il principio adesso accolto dalle sezioni unite era stato in prece denza sostenuto da Cass. 27 novembre 1991, Spagnolo, Foro it., Rep. 1992, voce Giudizio abbreviato, n. 146, e 21 maggio 1993, La Rocca, id., Rep. 1994, voce cit., n. 79; per l'opposto indirizzo, cfr., invece, Cass. 4 dicembre 1992, Baldi, id., Rep. 1993, voce cit., n. 116; 21 di cembre 1992, Tornese, ibid., n. 115; 3 febbraio 1993, La Maestra, ibid., n. 113; 31 maggio 1993, Di Franco, id., Rep. 1994, voce cit., n. 77. Non appare superfluo segnalare che, secondo Cass. 11 ottobre 1993, Lattisi, ibid., voce Pena (applicazione su richiesta), n. 164, e 28 feb braio 1994, Superbo, ibid., n. 163, la sentenza che, a norma dell'art.
448, 1° comma, ultimo inciso, c.p.p., in esito al dibattimento, applica la pena originariamente chiesta dall'imputato, ritenendo ingiustificato il dissenso espresso dal pubblico ministero, mantiene natura di pronun cia di 'patteggiamento', sicché sarà ad essa applicabile l'intero 'statuto'
proprio della decisione emessa ex art. 444 ss. c.p.p.
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GIURISPRUDENZA PENALE
la necessità di procedere al dibattimento — se il giudice, all'esi
to di quest'ultimo, fruendo del potere decisorio accennato, ac
cordi egualmente al giudicabile la riduzione di pena, nella rite nuta esistenza delle condizioni, giustificanti l'esercizio di tal po
tere, la pronuncia dibattimentale, pur caratterizzata da un tal
contenuto, non potrà, evidentemente, omologarsi — nel suo es
senziale profilo tecnico-giuridico — a quella che, ai termini del
l'art. 442, segue allo svolgimento del giudizio abbreviato, se
condo le altre disposizioni che precedono il disposto, di cui si
è appena fatto cenno. È, infatti, evidente come la pronuncia, iscrivibile nella prima di tali tipologie, debba — per contro —
esclusivamente ricondursi alle previsioni degli art. 525 ss., posti nel titolo III del VII libro del codice, che tratta del giudizio e del dibattimento. E, appunto, dal dato, essenziale e qualifi
cante, della celebrazione di quest'ultimo, nella forma ordinaria, non può non rivenire l'elisione di alcuna valenza — strumentale
all'assimilazione d'una pronuncia del genere alle disposizioni sul
procedimento speciale in discorso — nel fatto che il trattamen
to sanziona torio, riservato al giudicabile con tale sentenza, sia
condizionato dall'esito della verifica, compiuta dal giudice, nel
senso della non giustificazione del dissenso del p.m. sull'istanza
proposta ai sensi dell'art. 438. Il rilievo, di apparenza unifican
te, desumibile dalla concessione all'imputato, in entrambi i ca
si, d'una riduzione di pena, non può — invero — essere assun
to a fattore idoneo, per l'omologazione delle due ipotesi, quan
to al relativo trattamento processuale, posto che il procedimento di produzione del beneficio «premiale» in discorso mantiene, nei due casi, un'irreversibile diversità di presupposti, di razio
nalità giustificativa e di modalità di avveramento. E se la pro nuncia — per tale insuperabile ragione — non è omologabile a quella prevista dall'art. 442, è ovvia l'osservazione dell'inap
plicabilità ad essa del regime, cui fa luogo — in tema di senten
ze pronunciate nel giudizio abbreviato — l'art. 443 c.p.p., che,
tra l'altro, contiene — nel suo ultimo comma — la previsione
delle forme, nelle quali deve svolgersi il giudizio di appello. L'operatività d'un siffatto regime, correlativamente alla pro
nuncia dibattimentale, una delle cui statuizioni si avveri nella
direzione anzidetta, non potrebbe essere giustificata da alcuno
dei criteri, vigenti nell'ermeneusi della legge processuale, non
potendo superarsi il dato della netta divaricazione degli itinerari
procedimentali — e dei correlativi effetti — conducenti, rispet
tivamente, alla decisione, che intervenga nel giudizio abbrevia
to, o a quella del giudizio ordinario.
Detto ciò, non possono rivelarsi convincenti le ragioni, che
fanno da supporto all'enunciazione dell'opposto, accennato cri
terio esegetico. Vengono, invero, individuate in ciò, che non
sarebbe razionale differenziare la posizione di chi abbia fruito
del giudizio abbreviato ab initio, da quella dell'imputato, nei
cui confronti il giudice del dibattimento ravvisi, al termine di
un giudizio ordinario, l'esistenza di uguali condizioni per l'ac
cesso al rito speciale, dacché la decisione, di concedere ugual
mente la riduzione di pena suddetta, viene a determinare la pa
rificazione dei detti soggetti processuali, non solo ai fini sostan
ziali della quantificazione della pena ma pure quanto al
riconoscimento dell'identità — nelle due rispettive posizioni —
dei presupposti legittimanti, per entrambe, lo svolgimento del
giudizio speciale; ragion per cui non potrebbe scorgersi perché, avendo l'imputato — sottoposto al rito ordinario — fruito in
esito al dibattimento della riduzione premiale, come se il rito
speciale fosse stato svolto, egli dovrebbe versare — in sede di
appello — in posizione potiore (il rito ordinario) rispetto a chi
ha fruito del rito abbreviato, e del connesso premio, sin dall'u
dienza preliminare. Ma non sembra potersi riconoscere, ad un
tale argomentare, plausibilità dimostrativa, apparendone invali
data la vista articolazione dall'erroneo presupposto che sia pos
sibile istituire una qual sorta di equiparazione tra le pronunce,
appartenenti alle diverse tipologie, sopra considerate, quando,
invece, vi si oppongono i criteri esegetico-sistematici, già lumeg
giati, che pongono la considerazione dei due tipi di procedi mento, strumentali alla pronuncia delle sentenze, rispettivamen
te previste dall'art. 442 e dagli art. 525 ss., su piani totalmente
diversi, ancorché, nel secondo di tali procedimenti, possano ve
nire in considerazione ed avverarsi fattori di giudizio e correla
tivi esiti, peculiari all'altro. Talché, va — di sicuro — riconosciuta prevalenza al contesto
Il Foro Italiano — 1996.
argomentativo, fondante l'opposta ermeneusi, nel senso che la
diminuzione di pena, accordata all'imputato, in esito al dibatti mento, nelle condizioni accennate, abbia solo effetti di profilo
sostanziale; e ciò, in quanto il consenso del p.m., anche dopo l'accennata dichiarazione di illegittimità costituzionale, inciden
te sulla materia, rimane sempre un dato indefettibile per legitti mare l'introduzione del rito abbreviato, tanto che, se deve pur
concorrere, a tal fine, la positiva valutazione del giudice, essa,
senza il detto consenso, sarebbe irrilevante sin dall'udienza pre
liminare; onde, non potrebbe rilevare successivamente, all'esito
del dibattimento, se non ai soli fini della diminuzione della pe na. La rigorosa consequenzialità sillogistica del ragionamento non sembra utilmente contrastata né dai ben labili dubbi di ra
zionalità, né dalle ulteriori considerazioni, sopra evocate, che, oltre a segnare un'arbitraria cesura da non eludibili criteri siste
matici, attengono a riflessi del tutto irrilevanti e, peraltro, nep
pure in se stessi congruenti, essendo ovvia l'osservazione della
diversità, che connota la posizione dell'imputato, nei cui con
fronti si faccia luogo al giudizio abbreviato, rispetto all'imputa
to, al quale, invece, tale possibilità sia stata originariamente
preclusa, solo successivamente — a seguito dell'ordinario dibat
timento — riconoscendoglisi una riduzione «premiale» di pena, in base ad una valutazione a posteriori dell'accoglibilità della
sua istanza. D'altronde, le pronunce, che propendono per l'op zione esegetica, verso la quale qui si mostra ripulsa, non risulta
che l'abbian ponderata, su d'un piano di verifica, che dovrebbe
palesare un ancor più pregnante rigore sistematico-istituzionale, in quanto incidente sul diritto d'impugnazione, riconosciuto al
le parti processuali, e cioè in confronto con la valutazione di
ciò che conseguirebbe, coerentemente all'accoglimento d'un tal
criterio, quanto all'applicazione dell'intero disposto dell'art. 443,
e, quindi, anche con riferimento ai limiti all'appello, ivi fissati: sarebbe evidente, in particolare (cfr. il 2° comma), che dovreb
bero ritenersi inapplicabili — dal lato dell'imputato — la con
danna alla sola pena pecuniaria, e — dal lato del p.m. — ogni condanna (salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo
del reato), ove tali condanne fossero contenute in una sentenza,
resa a seguito di dibattimento, che concedesse la riduzione pre miale in discorso. Ma un risultato ermeneutico, in tal guisa in
cidente, non è ragionevolmente ipotizzabile, ostandovi i dispo sti degli art. 593 e 594 c.p.p. e l'indubitabile, grave vulnus,
che ne soffrirebbero, per l'inesistenza d'alcuna congruente ra
gione tecnico-giuridica di possibile deroga. E, in effetti, per quan to riguarda la parte pubblica, è stato già correttamente ritenuto
da questa corte — con palese, ancorché implicita adesione al
criterio, fondato sull'impossibilità di applicare alla sentenza in
discorso le norme sul rito speciale — che il divieto per il p.m. di proporre appello, sancito dal 3° comma dell'art. 443, è posto con riferimento all'ipotesi di sentenza emessa all'esito di un giu dizio che si sia svolto col rito abbreviato e non per quello che
sia stato condotto nelle forme ordinarie (cfr. la sentenza sez.
VI 26 febbraio 1993 n. 1869) mentre è evidente che alle stesse
conclusioni debba esattamente pervenirsi, quanto all'appellabi
lità, dalla parte dell'imputato, della sentenza di condanna alla sola pena pecuniaria, non potendo vigere, in relazione al giudi zio ordinario, l'inappellabilità prevista dal 2° comma dello stes
so disposto citato. (Omissis)
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