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Steve Jobs

Date post: 21-Nov-2014
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"Stay hungry, stay foolish!"
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Il visionario che ci ha cambiato la vita STEVE JOBS 1955-2011 INSTANT E-BOOK
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Page 1: Steve Jobs

Il visionario che ci ha

cambiato la vita

STEVEJOBS

1955-2011

INSTANT E-BOOK

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PREFAZIONE

Un lutto planetario. Imprenditori e nerd. Autori, artisti, architetti. Fan e fanatici. Leader di mezzo mondo, dal presidente degli Stati Uniti a quello della Russia. Persino i nemici e gli avversari di sempre. Si sono inchinati all’autorità intellettuale del terzo millennio: all’interprete del cambiamento, all’esploratore che ha varcato i confini dell’impresa, all’artista della tecnologia. Centinaia di milioni di persone hanno saputo della notizia, forse toccando una delle sue opere, e hanno lanciato un pensiero verso Palo Alto dove è morto Steve Jobs, l’ispiratore di una nuova dimensione della vita quotidiana. Se n’è parlato al bar e in ufficio, a casa e a scuola. La notizia si è diffusa su tutti i media, digitali e analogici. Con un sentimento che ha superato i confini dell’economia, della tecnologia e della cultura aziendale, di certo inconsueto per un imprenditore. Più adatto a un maestro. Un sentimento che ha superato il rispetto. Che ha contagiato anche chi era contro di lui. Che ha coinvolto anche chi non aveva alcun interesse per la tecnologia. Come è potuto succedere, a un pirata, a un nerd, a un orfano autodidatta e malato, a un uomo d’azienda come Steve Jobs?

Steve Jobs si è preso la responsabilità di interpretare la grande trasformazione del millennio. E le sue opere, una dopo l’altra, hanno cambiato la tecnologia e soprattutto il suo senso, tracciando una prospettiva nell’epoca della conoscenza, di internet, della globalizzazione. Orfani, come lui, delle certezze industriali, gli abitanti del pianeta hanno forse visto nelle sue intuizioni e nelle storie che le raccontavano un’ispirazione per interpretare a loro volta la contemporaneità.

La grande manifestazione mondiale di sentimento per la morte di un imprenditore non è certo un evento normale. L’economia o la tecnologia di solito non muovono i cuori. Perché dunque si sono scossi per la fine di Steve Jobs? Forse perché la sua biografia era quella di un eroe bistrattato dalla sorte che si risolleva con le sue forze. Forse perché l’amore che metteva nelle sue opere era contagioso. Forse perché decideva paternamente che cosa fosse giusto e che cosa sbagliato nella tecnologia. Di certo, perché esplorava prima degli altri il futuro che valeva la pena di costruire.

L’applauso planetarioal grande maestro

di Luca De Biase

L’ULTIMO ISPIRATORE

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LA VITA

Il messaggio«Cercate ciò che amerete fare» di Luca De Biase

La biografiaMi chiamo Steve e cambierò il mondo di Luca Tremolada

Il testimoneCosì nasce il prodotto perfetto di Jay Elliot

L’eventoIn coda con il clan Apple al Javits Center di Marco Magrini

L’immaginarioL’icona di una generazione senza miti di Serena Danna

La politicaIl nuovo sogno americano di Christian Rocca

Copyright Il Sole 24 Ore 2011

A cura di: Riccardo Barlaam,Daniele Bellasio,Serena Danna, Michela Finizio, Antonio Larizza, Mauro Meazza, Fernanda Roggero, Pierangelo Soldavini

Progetto grafico e realizzazione: Adriano Attus, Laura Cattaneo, Giuseppe Centrone

Prefazionedi Luca De Biase

Crediti fotografici:

AP La PresseCorbisMarkaMilestone MediaPhotomovieReutersThe Economist

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IL VISIONARIO CHE CI HA CAMBIATO LA VITA STEVE JOBS 1955 - 2011

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SOMMARIO

L’AZIENDA NEL MONDOLE IDEE

Gli oggettiI prodotti che hanno fatto il brand di Antonio Dini

La storiaLa mia vita con Appledi Marco Magrini

Il cinemaPixar, un sogno animato di Marco Magrini

L’editoriaL’inchiostro del futuro formato iPad di Daniele Lepido

L’industriaIl paradigma del nuovo imprenditore di Giuseppe Berta

La pubblicitàThink different, la forza dello slogan di Giulia Crivelli

L’economiaIn sintonia con il sogno americano di Mario Platero

La finanzaPrimatista in Borsa, più solido delle bolle di Marco Valsania

La squadraiTeam, l’ultima sfida del «capo» di Luca De Biase

Gli eredi/1Quella volta che incontrai Tim Cook di Antonio Dini

Gli eredi/2Jonathan Ive, il design di Apple di Luca Dello Iacovo

La ReteAntologia di Tweet di Luca Dello Iacovo

I concorrentiMicrosoft, Google, Samsung, le sfide di Luca Dello Iacovo

Il confrontoSteve e Bill, eterni rivali (ma con stima) di Mario Platero

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Il discorso di Steve Jobs a Stanford per la laurea ad honorem

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LA VITAL’addio all’università, l’esordio in garage, la costruzione del sogno

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LA VITA

«Cercate quello che amerete fare nella vita. Con pazienza. Lo ri-conoscerete a prima vista. Solo amando quello che fate, farete grandi cose». È un passaggio di quel rarissimo momento di

autobiografia che Steve Jobs ha voluto condividere, la lezione a Stanford nel 2005, divenuta uno dei video più commoventi e importanti che si possono trovare su YouTube.

Jobs racconta alcuni episodi fondamentali della sua vita, dall’abbandono dell’università all’espul-sione dalla Apple e all’esperienza del tumore al pancreas, senza nascondere le proprie debolezze, per evidenziare con sincerità che cosa quelle storie gli avevano insegnato. E alla fine, richiamandosi alle parole di uno dei suoi eroi giovanili, il creatore del Whole Earth Catalog, Stewart Brand, suggeri-sce ai ragazzi di coltivare la passione e l’ingenuità, la fame e la follia. Bello, umile, sincero: anche lui, Jobs, ha cercato quello che avrebbe amato fare della sua vita. L’ha cercato con fiducia. E quello che ha trovato l’ha vissuto con tutta la passione, il dolore, l’entusiasmo, l’ingenuità, la felicità che si dedica a una storia d’amore. È questa la chiave della sua storia. Lo si riconosce facilmente, ora che si è conclusa. Ma mentre si svolgeva, non era così semplice: perché non tutto è stato romantico.

Chi era Steve Jobs? Lo hanno definito un genio, un tiranno, un leader carismatico. Ma più spesso, molto più spesso, lo hanno descritto come un mago. Perché per gli ammiratori è stato un cre-atore di realtà che nessuno aveva visto prima. E per i critici è stato un prestigiatore capace di tirare sempre fuori dal cilindro la sua nuova sorpresa. Già. Un visionario è una persona che pensa diver-samente e che, dunque, suscita reazioni contra-stanti: c’è chi crede che il suo sia stato un potere sovrannaturale e c’è chi non ha mai cessato di tentare di scoprire quale fosse il trucco. C’è chi lo ha applaudito e c’è chi lo ha perseguitato.

Da questo punto di vista, per i maghi e i visio-nari, non è cambiato proprio tutto dai tempi di

Giordano Bruno. Perché, in effetti, ci sono poche biografie di imprenditori segnate come quella di Jobs dalla sperticata affezione dei suoi seguaci e dalla violenta incomprensione degli scettici. Che gli è costata, nel 1985, l’espulsione dalla Apple, l’azienda che aveva fondato con Steve Wozniak e che aveva portato al successo. Visse in esilio una dozzina d’anni, trovando il tempo di fondare altre due aziende come NeXT e Pixar.

E solo quando la Apple arrivò sull’orlo del falli-mento fu chiamato a rifondarla. Nel 1998, quando al MacWorld di San Francisco, dopo la presenta-zione dei nuovi prodotti, facendo simpaticamen-te finta di essersi ricordato all’ultimo momento di avere “ancora una cosa” da dire, annunciò «siamo in utile», fu un trionfo: ma non sarebbe stato lo stesso se per arrivarci non avesse dovuto attraversare un inferno.

La dimostrazione di come un uomo potesse fare la differenza, in un’impresa, non sarebbe stata altrettanto chiara, se il suo amore per la Apple non avesse dovuto superare una prova tanto dura come l’esserne brutalmente respinto e allontanato.

I momenti di trionfo sono stati tanti, da quel 1998, da aver riempito le cronache in ogni parte del mondo. La reinvenzione del business della musica, con l’accoppiata iTunes-iPod. La ridefini-zione del telefono, con l’iPhone. L’apertura di una nuova dimensione della lettura e della fruizione dei contenuti digitali con l’iPad. La conquista dei vertici dell’imprenditorialità globale con il ricono-scimento registrato a Wall Street, quando la Apple ha raggiunto la capitalizzazione di Borsa più alta di tutta l’industria tecnologica.

di Luca De Biase

Per qualcuno aveva poteri sovrannaturali, altri hanno continuato a cercare il trucco

«Cercate ciò che amerete fare»

IL MESSAGGIO

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Nasce il 24 febbraio del 1955 a San Francisco da due studenti, il siria-no Abdulfattah Jandali e l’americana Joanne Schieble. Viene dato in ado-zione a una famiglia in cambio della promessa di mandarlo all’università.

Così non avviene e Jobs interrompe gli studi dopo solo sei mesi.

I genitori adottivi Clara e Paul Jobs sono una famiglia medio borghese che vive alla periferia di Mountain View in California. Si diploma nel 1972 a Cupertino alla Homestead High School dove incontra Wozniak, l’amico e socio grazie al

Mi chiamo Steve e cambierò il mondodi Luca Tremolada

LA BIOGRAFIA quale fonderà poi la Apple. Il ragazzo è inquie-to e ha il pallino dell’elettronica. A soli dodici anni contatta Bill Hewlett, uno dei fondatori di Hewlett-Packard per costruire un contatore di frequenza. Ce la fa. Pare che Hewlett fosse rimasto tanto colpito dalla telefonato da offrirgli un lavoro estivo. Per sei mesi va al college Reed a Portland (Oregon) ma poi decide di abbando-nare. Ricorderà quella scelta nel discorso alla Stanford University del giugno del 2005 come un momento di svolta - la prima - nel quale ha iniziato davvero a occuparsi di quello a cui più teneva.

calligrafia per tastiera In quei sei mesi al Reed College frequenta il

corso di calligrafia che inizialmente non aveva alcuna utilità pratica ma che, dieci anni dopo, avrebbe impresso una svolta decisiva alla sua attività: «Quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh - racconta Jobs - mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. È stato il primo computer dotato di bellissime capacità tipografiche. Se non avessi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E, dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità».

Non me ne accorsi allora ma il fatto di essere stato

licenziato da Apple era stata la miglior cosa

che mi poteva capitare

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LA VITA

dall’india alla apple Nel 1974 viene assunto dall’Atari come tecnico.

Lo ricordano arrogante e schivo. Il suo obiettivo era trovare i soldi per un viaggio in India. Riesce nell’intento, torna negli States vegetariano e de-cide di scoprire qualche cosa di più sui genitori naturali. Le foto lo ritraggono con i capelli lun-ghi e abbigliamento vagamente hippy. All’Atari aveva ritrovato l’amico Steve Wozniak che nel frattempo è passato a Hewlett-Packard. Si ritro-vano proprio ad Hp. Insieme partecipano agli incontri dello Homebrew Computer Club, un gruppo di nerd che si misura sul nuovo personal computing. Insieme sono una coppia, Wozniack è il geek, l’uomo dei chip, il tecnico informatico. Steve Jobs in quella fase è il designer, l’uomo animato da una visione chiara di quello che rappresenterà il computer nella vita delle per-sone. Lo convince a lasciare un posto “sicuro” per iniziare un’avventura imprenditoriale. Nasce così nel 1976 la Apple: il nome è un omaggio al simbolo della casa discografica dei Beatles ma anche un modo per venire prima di Atari in ordi-ne alfabetico. Gli aneddoti sono contrastanti. In quel periodo con Wozniak passa intere giornate per migliorare quello che diventerà Apple I e II, il primo personal computer di successo. Il privato irrompe in questo momento nevralgico. Nel 1978 Steve Jobs diventa padre di Lisa Brennan-

Al collegeSteve Jobs in uno scatto del 1972

Jobs. La relazione con la madre Chrisann Bren-nan è complicata fin dall’inizio. Si riconciliano solo molti anni dopo. Lui è distratto, la sua testa è per la Apple. A 23 anni guadagna il suo primo milione di dollari. Capelli lunghi, giacca: così viene ritratto in foto. La sua Apple va in Borsa, 22 dollari per azione. Oggi ne vale quasi 400.

mac con la regia di ridley scottNel 1983 esce Apple Lisa, il primo computer

commerciale dotato di interfaccia grafica. Il pri-mo Macintosh nel 1984 è una rivoluzione: mou-se e interfaccia grafica a icone. Il lancio affidato a una pubblicità (poi entrata nella storia) duran-te l’ambitissimo intervallo del Super Bowl. Un minuto diretto da Ridley Scott che mostrava il mondo dei pc orwelliano. Apple diventa un’ico-na. Ma con l’uscita dell’Apple III qualcosa va stor-to. Per John Sculley, ex della Pepsi Cola chiamato dallo stesso Jobs ad aiutarlo a guidare la Apple è il pretesto per fare fuori il giovane innovatore. Questo momento viene ricordato come la secon-da svolta fondamentale della sua vita. «Non me ne accorsi allora – dichiarò - ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse capitare. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più cer-tezze su niente. Mi rese libero di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita».

la rivoluzione di cupertinoDurante i cinque anni successivi fonda

un’azienda chiamata NeXT e poi ne acquista un’altra da George Lucas che chiamerà Pixar e si sposa con Laurene Powell al Yosemite National Park. Da Laurene avrà tre figli Reed, Erin ed Eve. Di quel periodo è il lancio di Toy Story il primo film di animazione della Pixar, candidato a tre premi Oscar. Il primo della storia a registrare incassi milionari. Nel frattempo Apple lancia il Machintosh II, nel 1991 firma l’unico prodotto di

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successo di quel periodo, il PowerBook insieme ad altri 19 computer. La strategia di Cupertino fa acqua da tutte le parti. Lo strapotere di Windows e dei pc schiaccia la Mela. Nel 1993 Sculley viene licenziato. Apple rischia la bancarotta e richiama Steve Jobs che torna in qualità di consulente. Siamo nel dicembre del 1996. Dieci anni dopo venderà la Pixar alla Disney per 7,4 miliardi di dollari. Il ritorno di Steve Jobs rivoluziona Cu-pertino. Diciassette mesi dopo aver messo piede alla Apple diventa Ceo. Sono gli anni del Think different. Jobs pare diverso. Chiude i conti con Microsoft, l’eterna rivale, che subito decide di in-vestire 150 milioni. Un anno dopo nasce l’iMac. Il tocco del visionario compie la magia: l’azienda torna alla profittabilità. Chi ha lavorato con lui in quegli anni lo ricorda pignolo e tirannico. Maniacale nella cura del prodotto, attento a ogni minimo dettaglio.

Il suo è un mondo di perfezione, di estetica e funzione. Un mondo chiuso come il suo carattere. Nasce il mito di Steve Jobs. Aprono gli Apple Store e Jobs matura la decisione di uscire dal computing per espandersi nell’elet-tronica di consumo.

ipod eraNell’ottobre del 2001 viene presentato l’iPod

ma solo due anni dopo con iTunes Music Store si percepisce con più chiarezza la portata di que-sta rivoluzione che darà vita al mercato digitale della musica legale. Nel 2004 un fulmine col-pisce Cupertino: Jobs in una mail ai dipendenti rivela problemi di salute. Annuncia che tornerà a settembre per curarsi da una rara forma di cancro al pancreas. Continua a lavorare. Le foto lo ritraggono indebolito e magro ma sempre al posto di comando. Nel 2007 lancia la sua terza rivoluzione, l’iPhone e un anno dopo torna a scherzare sui suoi problemi di salute: «La notizia della mia morte – sorrise citando Marc Twain- è molto esagerata». Ma i mercati non ridono affatto. Anzi, sono terrorizzati dall’eventualità di una scomparsa del leader carismatico. Non è l’azienda ma il genio a scalare Wall Street. Apple si avvia a diventare la società tecnologica a più alta capitalizzazione, superando Microsoft. Nel 2005 il celeberrimo discorso a Stanford: «Il vostro tempo - dice il fondatore della Apple in quell’occasione - è limitato, allora non buttatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non lasciatevi

Album La vita di Steve Jobs per immagini

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fotogallery vita

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LA VITA

intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere con i risultati dei pensieri degli altri. E non lasciate che il rumore delle opinioni degli altri affoghi la vostra voce interiore. E, cosa più importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno già cosa voi volete davvero diventare. Tutto il resto è secondario». Qualcuno legge in queste parole un testamento. In realtà quel discorso è un inno alla vita e passerà alla storia per «Stay hungry, stay foolish!!!» (siate affamati, siate folli) per quella raccomandazione ai neolaureati di non rinunciare ai loro desideri e di essere folli.

l’ultimo sogno: l’ipad La pressione intorno a Steve Jobs sale. I mercati

finanziari analizzano le foto del fondatore, sui giornali si interrogano specialisti e medici. La salute del “mago” diventa un fatto finanziario. Ma Jobs tira dritto. Entra ed esce dagli ospedali. Si sottopone a cure mediche sempre sostituito da Tim Cook che diventerà alla fine il suo suc-cessore. Nel 2009 il trapianto di fegato e poi l’annuncio del suo ritorno che viene salutato con incrementi che arrivano a toccare punte del

L’innovatoreA destra Steve Jobs con una delle sue

creature, 1994

Il garageA sinistra Steve Jobs e Steve Wozniak

al lavoro in un garage di famiglia trasformato in un laboratorio di

informatica

70 per cento. All’inizio del 2010 è la volta dell’iPad ed è sem-

pre lui a presentare quella che passerà alla storia come la sua ultima magia. Il 25 agosto l’an-nuncio delle sue dimissioni. «Ho sempre detto che se fosse mai arrivato il giorno in cui non avrei più potuto rispettare i miei obblighi come amministratore delegato di Apple, sarei stato il primo a dirvelo. Sfortunatamente quel giorno è arrivato. Rassegno le dimissioni da amministra-tore delegato. Alla Apple – prosegue la lettera di dimissioni - ho trovato i miei migliori amici ringrazio tutti per avermi dato l’opportunità di lavorare al vostro fianco». Il 5 ottobre, l’annun-cio della sua morte. A 56 anni da quel 1955.

Jobs e Wozniak sono inseparabili: il primo è il geek,

il secondo è il designer

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Così nasceil prodottoperfetto di Jay Elliot *

LA TESTIMONIANZA

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LA VITA

Ero nella sala d’attesa di un ristoran-te... Un’ambientazione davvero impro-babile, per un incontro destinato a cambiarti la vita. Stavo leggendo sul giornale la triste storia della startup Eagle Computer. Un ragazzo, seduto

accanto a me in sala d’aspetto, stava leggendo lo stesso articolo: ci mettemmo a parlare e gli spiegai cos’avevo a che fare con quella vicen-da. Di recente avevo detto al mio capo, il pre-sidente dell’Intel, Andy Grove, che intendevo dimettermi dalla sua azienda per lavorare con i fondatori della Eagle Computer, che si preparavano a quotare la propria azienda in Borsa. Il giorno del l’offerta pubblica, l’ammi-nistratore delegato divenne multimilionario in poche ore e decise di festeggiare conceden-dosi una bevuta insieme con i co-fondatori. Da lì andò dritto a comprarsi una Ferrari, pre-se un’auto dal concessionario per una prova su strada ed ebbe un grave incidente. Morì, l’azienda morì con lui, e l’impiego per cui ave-vo lasciato Intel si volatilizzò prima ancora che mettessi piede in ufficio.

* Jay Elliot ha collaborato con Steve Jobs allo sviluppo del Macintosh della Apple.

Nel garageUn giovanissimo Steve Jobs (in piedi) con Steve Wozniak, in una foto del 1976. Nasceva il mito della Silicon Valley

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Il ragazzo a cui avevo raccontato questa storia iniziò a fare un mucchio di domande sulla mia esperienza lavorativa. Eravamo molto diversi: lui era un hippie poco sopra i vent’anni, in je-ans e scarpe da ginnastica; io ero un uomo dal fisico atletico, alto due metri, sulla quarantina: un classico uomo d’affari in giacca e cravatta. L’unica cosa in comune fra noi era la barba, che all’epoca portavamo entrambi. Ma presto scoprimmo una passione condivisa: i compu-ter. Quel ragazzo era instancabile, traboccava di energia: si entusiasmò quando gli dissi che ero stato un dirigente di alto livello nel settore tecnologico, ma che avevo lasciato l’Ibm perché la trovavo restia ad accettare le nuove idee. Si presentò come «Steve Jobs, presidente del Cda di Apple Computer». Avevo sentito parla-re in termini vaghi di Apple, ma non riuscivo a figurarmi quel ragazzino come presidente di un’azienda informatica. Poi Steve mi colse completamente alla sprovvista: disse che gli sarebbe piaciuto assumermi. «Non credo pos-siate permettervi il mio stipendio», gli risposi. Al l’epoca Steve aveva 25 anni, e di lì a qualche mese la Apple sarebbe stata quotata in Borsa e quel ragazzo sarebbe valso qualcosa come 250

Il testo qui pubblicato è il prologo del volume:

Steve Jobs. L’uomo che ha inventato il futuro.di Jay Elliot e William L. Simon, Hoepli, 19,90 euro.

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LA VITA

milioni di dollari. Eccome, se la sua azienda poteva permettersi di assumermi.

Nel futuro dei computer. Un venerdì, due settimane dopo, iniziai a lavorare per la Apple, con una retribuzione leggermente più alta e con molte più azioni di quante ne avessi all’Intel. Andy si accomiatò da me dicendomi che stavo commettendo «un grave errore: la Apple non ha futuro». A Steve piace stupire tutti, tenendo segrete le informazioni fino all’ultimo minu-to: forse lo fa per lasciarti sempre un po’ sulle spine, per controllarti meglio. Il primissimo giorno che ero lì, dopo un pomeriggio passato a chiacchierare per conoscerci meglio, mi disse: «Domani andiamo a farci un giro. Ci vediamo qui alle dieci, voglio mostrarti una cosa». Non avevo idea di cosa aspettarmi, o di come pre-pararmi. Il sabato mattina salimmo sulla mac-china di Steve e partimmo. Dagli altoparlanti, i Police e i Beatles rimbombavano a volume fastidiosamente alto. E non sapevo ancora dove stessimo andando.

Steve entrò nel parcheggio del Parc, il centro di ricerca Xerox di Palo Alto; da lì fummo ac-compagnati in una stanza piena di computer:

uno spettacolo che mi mozzò il fiato. Steve era stato lì un mese prima con un gruppo di inge-gneri del software di Apple, ma non era riuscito a persuaderli che quelle meraviglie fossero ap-plicabili anche ai personal computer. Ora Steve era tornato a dare un’altra occhiata e ne era esaltato. Gli cambiò la voce quando vide qual-cosa di «assurdamente bello», e quel giorno ne fui testimone. Vedemmo una versione primitiva di uno strumento che in seguito avremmo chia-mato “mouse”, una stampante, un monitor che non si limitava a mostrare testo e numeri, ma poteva riprodurre disegni, immagini e menu in cui si potevano selezionare le varie voci con il mouse. In seguito Steve definì «apocalittiche» quelle visite al Parc. Era sicuro di aver visto il futuro dei computer.

Il Parc stava sviluppando una macchina per le aziende: un mainframe che avrebbe potuto competere con quello di Ibm e che sarebbe co-stato tra i 10 e i 20mila dollari. Steve, però, ave-va intravisto un’altra possibilità: un computer per tutti. Ma le sue intuizioni non si limitavano alla tecnologia informatica. Come un ragazzo del l’Italia medievale che entrando in monastero scoprisse Gesù, Steve si era convertito alla reli-gione dello user friendly. O forse, aveva soltanto scoperto come appagare un desiderio preesi-stente. Steve – il consumatore per eccellenza, l’uomo capace di immaginare prodotti perfetti – si era imbattuto per caso nel sentiero che conduceva a un futuro glorioso. Certo, la strada era irta di ostacoli. Steve avrebbe commesso molti errori gravi, costosi e quasi disastrosi: spesso per colpa della sua illusione d’infallibi-lità, quella sicurezza testarda che ha dato vita al cliché: «Fà come ti dico, altrimenti quella è la porta». Ma per me, il suo nuovo assistente, era straordinario osservare quanto fosse aperto alle nuove idee, con quanto entusiasmo apprezzas-se, e facesse suo, un nuovo modo di pensare. E il suo entusiasmo è contagioso: Steve comprende la psiche dei consumatori perché è uno di lo-ro. E poiché ragiona come i suoi futuri clienti, è consapevole di intravedere il futuro. Con il tempo sarei giunto a vedere in Steve un uomo di straordinaria intelligenza, ricolmo di energia, motivato da una visione del futuro, ma anche molto giovane e molto impulsivo.

Gli cambiò la voce quando vide qualcosa di «assurdamente bello», e quel giorno ne fui testimone

Apple LisaLanciato nel 1983, è stato il primo computer commerciale dotato di tastiera, mouse e interfaccia grafica

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La lunga coda scorre veloce. Nick Hen-derson, diciannove anni incorniciati in una faccia da adolescente con i brufoli e gli occhiali, freme all’idea di entrare nel Javits Center di New York per il grande spettacolo. Come tutti i coetanei quando

vanno a un concerto rock, ha lo zaino in spalla e si sente una cosa sola con gli ottomila che sono lì, in fila, a condividere la stessa passione.Dentro è tutto nero, poi il palco s’illumina e arriva lui, sommerso dagli applausi. Non è una rockstar, non è un jazzman, e neppure una ce-lebrità televisiva o un predicatore. Lui è Steven

di Marco Magrini

In coda con il clan Apple al Javits Center di New York

L’EVENTO

P. Jobs, il visionario del personal computer, l’eterno giovane che fondò la Apple Computer, dalla quale fu cacciato e che di recente ha sal-vato da prematura morte. Da questo popolo di fan, Jobs è adorato come una rockstar, ammi-rato come un jazzman; ai suoi occhi è celebre come un personaggio della tivù e carismatico come un predicatore. Questi ottomila ragazzi, arrivati di prima mattina ad ascoltarlo, hanno sborsato la bellezza di 300 dollari per uno show di un’ora e un quarto. Uno show carico di applausi, di stupore e dell’orgoglio di esserci. Ma anche un Carosello dove il magistrale Jobs non ha fatto altro che vendere i suoi nuovi prodotti. Come quella volta che incontrò Juan Carlos di Spagna a un party, e gli fatturò sorri-dente un computer.

se vieni alla apple cambierai il mondoLa Apple ha sempre avuto, oltre ai norma-li clienti, vere e proprie schiere di seguaci. Dall’ormai mitico garage della famiglia adotti-va di Jobs, il ventunenne Steve e l’amico Steve Wozniak se ne uscirono nel 1976 con l’Apple I: un computer rudimentale ma geniale, che oggi i collezionisti si contendono a decine di migliaia di dollari. Dall’ufficio di Cupertino fu sfornato nel 1977 l’Apple II, il primo vero perso-nal computer, che costrinse la Ibm a entrare di fretta in un mercato - quello delle famiglie - del quale ignorava l’esistenza. Dal grande campus aziendale, Jobs reclutò John Sculley, numero uno della Pepsi Cola, sentenziandogli: «Se resti dove sei, tra cinque anni avrai venduto un po’ d’acqua zuccherata in più. Se vieni alla Apple, avrai cambiato il mondo». Di lì a poco, nel 1984, la coppia da copertina Jobs-Sculley sfornò il Macintosh, il primo computer che aveva un mouse, che simulava una scrivania con oggetti e un cestino. Che, in poche parole, era facile da usare. La Ibm annaspava nel suo ritardo tecnologico. E i fan della Apple godeva-no come matti per questo Davide tecnologico che sbeffeggiava un imbarazzato Golia.Oggi la Apple ha nel mondo quasi mille user group, piccole comunità di fedelissimi che si

Nell’ottobre del 2000, Ventiquattro, il magazine del Sole 24 Ore pubblicò un reportage su uno dei primi pubblici show di Steve Jobs, poi diventati leggendari. L’iPod ancora non esisteva e ancor meno l’iPhone. Ma Jobs già esercitava un fascino magnetico sui consumatori più affezionati.

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LA VITA

scambiano consigli e s’infiammano ancora quando Jobs tiene il suo abituale sermone, come questa estate a New York, o venti giorni fa a Parigi. C’è un user group in Iran, con il suo bravo website. In California ce ne sono decine, uno dei quali - il Qmug - è il Macintosh user group per lesbiche, gay e bisessuali di Los Angeles. «Il Christian Macintosh user group - recita una presentazione su Internet - aiuta i cristiani di tutto il mondo che usano il Mac nella Gloria di Dio».«È un fatto straordinario e unico al mondo», commenta Dan Niles, della banca d’investi-menti Robertson Stephens. «Avete mai sentito un utente della Compaq o della Dell dire che adora il suo computer?».Nel pianeta, ci sono decine di giornali che parlano di Macintosh e basta. Tre solo in Ita-lia. Il più celebre è «MacWorld», la testata che organizza la fiera al Javits Center. Un altro è «Mac Addict» (Mac-dipendente), il cui nome la dice lunga sui sentimenti dei propri lettori. Gente che si sente parte di un’élite, in qualche modo progressista, così fiera di includere tra le proprie schiere (grazie all’originale vocazione del Mac per la grafica) una gran quantità di designer, fotografi, scrittori, registi, musicisti e artisti in genere. Il guaio è che tutte le élite sono per definizione minoranze. E con le mi-noranze non si fanno le quote di mercato.

il nodo del sistema operativo In fondo, l’avventura della Apple sta tutta

qui: un’azienda che sarebbe potuta diventare globale e tentacolare come la Microsoft, ma che ha poi perso quote di mercato un anno dopo l’altro, fino a sfiorare la quota minima del 3 per cento. All’inizio, i seguaci della Apple vedevano il nemico nella Ibm. Né lo-ro né i vertici di Cupertino si erano accorti che la Apple non era tanto un’azienda di hardware quanto la numero uno nei sistemi operativi, ovvero l’intelligenza di base dei computer. Per qualità, il sistema operativo Mac Os faceva impallidire l’Ms-Dos svilup-pato dalla Microsoft per conto di Ibm. Bill Gates, che scriveva programmi per entrambe le piattaforme, lo ammetteva pubblicamente. L’errore fu quello di credere che bisognava vendere più Mac possibile. Invece occorreva diffondere il sistema operativo, per farlo diventare uno standard. Al contrario del Pc, i Mac non si potevano clonare: solo la Apple poteva produrre un Mac. Così, la concorren-za sui prezzi fece del Pc una prodotto di mas-sa, mentre il Mac se ne stava arroccato nella sua élite di fedelissimi. Una superiorità che durò circa nove anni. Con l’avvento di Win-dows ’95, il vantaggio su Microsoft diventò marginale. Ma non le quote di mercato: nel mondo c’erano diciotto Pc per ogni Mac. Una voragine incolmabile. Il nemico era ormai diventato Bill Gates. L’incubo di tutti i Nick Henderson del mondo è un fatto realmente avvenuto nel luglio di tre anni fa. C’è Steve Jobs sul palco, con i jeans e la maglietta firmata, immerso nelle luci della ribalta. È un ritorno clamoroso: cacciato dalla Apple nel 1985 da quello Sculley che lui stesso aveva ammaliato, Jobs è tornato a casa, assu-mendo da poco la carica di amministratore delegato. Sembra un sogno. Che all’improv-viso si fa cupo: Steve annuncia un collega-mento via satellite, e sul gigantesco monitor appare il faccione di Bill Gates. La Microsoft investirà 150 milioni di dollari nella Apple e svilupperà nuovi programmi per il Mac; in cambio, tutti i computer Apple monteranno l’Internet Explorer prodotto da Gates. È ov-vio che Microsoft - finita nel frattempo nel

Dentro è tutto nero, poi il palco s’illumina e arriva lui. Non è una rockstar, è l’eterno giovane che fondò la Apple Computer

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mirino dell’Antitrust - ha tutto l’interesse a far sopravvivere il concorrente. Gli applausi di un minuto prima diventano fischi e ululati. «Steve, cosa stai facendo?», gridò più d’uno di quei Nick Henderson disperati.«Steve, sei grande!», grida lo stesso popolo riunito tre anni dopo nel Javits Center, men-tre Jobs fa scivolare su un carrello automatico i nuovi iMac, i computer compatti, trasparen-ti e colorati con i quali ha risollevato le vendi-te della Apple. «A dieci anni - racconta il vero Nick - ho messo le mani sul Mac di mio fra-tello, anche lui un Mac-addict. Da allora, non ho fatto che litigare coi miei amici che usano Windows». Una specie di clan, ecco cos’è la famiglia internazionale dei Mac-dipendenti. Jobs ha toccato le corde del loro cuore anche quando ha lanciato - su scala planetaria - la miliardaria campagna pubblicitaria Think different, associando il marchio della mela a personaggi “di rottura” del calibro di Gandhi, Einstein, Hitchcock o Miles Davis.

la sindrome del «not invented here» Semmai, il guaio della Apple è che ha sem-pre pensato di essere troppo different: la superiorità tecnologica aveva generato delle presunzioni. In America la chiamano “Nih”, la sindrome del not invented here: se un’idea non è sbocciata nel campus di Cupertino, non è una buona idea. La buona idea venne a Bill Gates - ai tempi in cui la Apple fatturava 15 volte la Microsoft e lui era soltanto un mi-lionario - ma Sculley e i suoi uomini non la seppero cogliere. In una lettera datata mag-gio 1985, Gates suggerì alla Apple di dare in licenza il sistema operativo «a poche grandi società di tutto il mondo», inclusa la Olivetti, «per guadagnare quote di mercato» necessa-rie a fare del Mac uno standard. Ma l’idea era not invented here e fu rispedita al mittente. Il risultato? Più tardi Gates si ispirò al Mac Os per il suo Windows e con Windows è diven-tato l’uomo più ricco del mondo.Ma nella lista nera non c’è solo Sculley: anche

A dieci anni ho messo le mani

sul Mac di mio fratello. Da allora, non ho fatto

che litigare con i miei amici

che usano WindowsNick

Apple addicted, 19 anni

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LA VITA

i successori Michael Spindler e Gil Amelio fecero molti buchi nell’acqua, a cominciare da Rapsody (il sistema operativo che doveva rivoluzionare il Mac e che mai vide la luce), fino alla decisione di dare in licenza il Mac ad altre case quando era troppo tardi e Win-dows aveva in pugno il mercato. Jobs, invece, ha sempre dato valore alle buone idee. Forse sarà per lo scotto della volta in cui propose alla Hewlett Packard di produrre l’Apple I e si sentì rispondere: «Torna pure quando avrai finito l’Università…». Di sicuro, comunque, si fida moltissimo delle proprie. Fino a scon-finare nella presunzione e nella prepotenza. Ma c’è il rovescio della medaglia: la capacità di sfornare idee a getto continuo e galva-nizzare chi gli sta intorno. Un uomo baciato dalla frenesia, insomma.

la seconda vita di jobs Dopo la cacciata di Sculley, Jobs fonda la Next per fare concorrenza alla Apple: nasce un

computer nero fatto a cubo, talmente all’avan-guardia e talmente caro che non lo compra nessuno. Poi crea la Pixar, studio di anima-zione computerizzata, e realizza Toy Story e A Bug’s Life per Disney. Alla fine, anche il naufragio Next si trasforma in successo: tre anni fa la Apple l’ha comprata per mettere le mani sul suo sistema operativo e si è ripresa Jobs. «Ho più soldi di quanti me ne servano», assicura lui stesso. E per dimostrarlo si per-mette di guadagnare un dollaro l’anno dalla Apple (della quale possiede un’azione sola) e un dollaro l’anno dalla Pixar (di cui ha 19 mi-lioni di dollari in azioni).«Jobs - osserva con ironia Graef Crystal, un consulente di San Diego specializzato in pa-ghe dei top manager - ci ha insegnato due cose: che la retribuzione del manager non ha niente a che fare con i risultati aziendali, e che agli amministratori delegati è meglio dare un’azione sola invece che un sacco di stock option. Quelli che fanno il mio mestiere sono un po’ disorientati». In meno di quattro anni, da quando Jobs è tornato a farla da padrone nel campus di Cupertino, le azioni della Apple sono passate da 13 a un massimo di 118 dollari, dal 1998 i bilanci macinano utili trimestre su trimestre, le quote di mercato sono più che raddoppiate, le attività di e-commerce vanno a gonfie vele e l’azienda è tornata a scandire il ritmo dell’innovazione.«In due anni, da quando è nato - dice Jobs con il sorriso ingigantito dai grandi monitor del Javits Center - abbiamo venduto nel mon-do due milioni di iMac». Gli ottomila non applaudono più. Esultano. E dovreste vedere cosa succede quando Steve tira fuori il G4 Cube, un cubo troppo piccolo per essere un computer, che invece macina bit a tutto spia-no e incorpora il puntuale carico di nuove tecnologie. «Ma io sono un po’ stanco di tutti questi nuovi prodotti», confessa Hugh Tart, che non a caso è dipendente di un negozio di soli Mac in Florida. «Non vedo l’ora che si arrivi al sodo: il Mac Os X».Quell’X sta per dieci. All’inizio dell’anno pros-

Tempio della tecnologiaL’Apple Store di Manhattan

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simo uscirà la decima versione del sistema operativo, con il quale la Apple si gioca una partita cruciale. Non solo perché è la prima riscrittura completa del software che ha reso un culto il Mac. Non solo perché è adattato per i computer più nuovi e veloci, promette fun-zionalità esoteriche come la memoria protetta, o perché - giurano gli adepti che l’hanno visto in anteprima al MacWorld - è “bellissimo”. La vera novità sta nella sua natura open source.Negli ultimi due anni, il monopolio di Win-dows è stato scalfito da Linux, un sistema operativo basato su Unix, scritto dal norvege-se Linus Torvalds e da lui regalato al mondo sull’Internet. Il successo del modello open source è stato travolgente: un po’ perché il programma è gratis, un po’ perché cervelli di tutto il pianeta contribuiscono a perfezionarlo senza posa. L’idea è not invented here, ma Jobs ha appunto deciso di prenderla per buona: la Apple spera che i suoi adepti più esperti e fan-tasiosi - e ce ne sono a migliaia - contribuisca-no a fare del Mac Os X un leader della nuova

generazione. «È arrivato il momento di creare il miglior software possibile», ha arringato Eric Raymond, una specie di profeta dell’open source, durante l’annuale conferenza Mac Hack, che riunisce i programmatori indipen-denti e “clandestini” di fede Apple. Tra questi gira voce che qualcuno sia pronto a tentare il traghettamento di Mac Os X sui Pc nell’ultimo, ostinato arrembaggio alla Microsoft. A Cuper-tino allargano le braccia: quando un software è aperto - dicono - nessuno sa come potrà evol-versi. Un’altra sfida sta per cominciare.«Sapete una cosa?», ammicca Jobs nel conge-darsi dall’auditorio. «Avrei voluto farvi provare quant’è bello questo nuovo mouse. Poi ho deciso di regalarvene uno. A tutti». Dal tri-pudio del Javits Center, a due passi dal fiume Hudson, Nick Henderson esce soddisfatto con due mouse nello zaino. Con uno stratagemma ne ha arraffato uno anche per il fratello e lo esibisce già come una reliquia: «Gli verranno le lacrime agli occhi», dice entusiasta. Poteri arcani del reverendo Jobs.

Il lancio dell’iPhoneAl Macworld di San Francisco, gennaio 2007

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LA VITA

Per quale motivo, nel giorno della mor-te di Steve Jobs, attributi e paragoni impropri - Che Guevara del XXI seco-lo, Cristo della tecnologia, Gandhi dei cavi - hanno occupato la timeline di Twitter, profili Facebook solitamente

riservati a fatti privati, siti di giornali e televi-sioni di tutto il mondo?

Certo Jobs ha trasformato uno scatolone orri-bile in un oggetto di culto, un brand per “fighet-ti” in un’azienda che vale quasi 400 miliardi di dollari, ha inventato un tablet che sta tampo-nando l’agonia delle aziende editoriali e, cosa più importante di tutte, ha fatto di una mela morsicata uno stile di vita.

Tuttavia queste ragioni, sufficienti per con-vincere il marketing e il mercato, non spie-gano come mai la morte di un imprendito-re particolarmente creativo abbia turbato gli animi quanto la scomparsa di una persona cara. Questione di prospettive. E’ nel mondo dei fan di Apple più che nell’impresa di Jobs che si nasconde la chiave: una clientela certo trasversale ma che trova i più aficionados nel-la generazione nata a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta.

L’icona di una generazione senza mitidi Serena Danna

CULTI 2.0

Ai suoi fan Jobs ha dato qualcosa che - a differenza di sogni, buon governo, un lavoro e una vita sentimentale soddisfacenti - è già compiuto: oggetti.

ConsacrazioneLa copertina dedicata

dal principale periodico britannico dopo il lancio

del primo iPad

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Quelli che oggi piangono per Jobs sono com-pagni di scuola dei giovani che hanno creduto, all’inizio del nuovo secolo, che un altro mondo fosse possibile, che si sono infatuati per il no-logo di Naomi Klein e le idee politiche di Noam Chomsky per poi scoprire presto - tra gli errori di Genova e il trionfo del mercato - che avevano sbagliato. Sono gli stessi cittadini che hanno visto in Barack Obama la salvezza della politica americana e nella Rete quella dell’informazione.

Jobs è l’icona di una generazione senza miti che per trovare leader e idee durature deve cercare nelle pagine dei libri di storia e nei do-cumentari su YouTube. Così, anche un po’ suo malgrado, il ragazzo di Cupertino è diventato un punto di riferimento per giovani costretti a innamorarsi e disamorarsi troppo in fretta e per cui l’unica ideologia è quella di non averne una.

A tutti loro Jobs ha dato qualcosa che - a differenza di sogni, buon governo, un lavoro e una vita sentimentale soddisfacenti - è già compiuto: oggetti. Un film di qualche anno fa, tratto dai racconti dell’americana Amy Michael Homes, si chiamava proprio così: «La sicurezza degli oggetti». I mac, come gli iPho-ne e gli iPad della Apple, sembrano regalare a chi li possiede un elisir di eterna “coolness”. Insicuri nel lavoro e nella vita di tutti i giorni, ai proprietari di un Apple basterà guardarlo, sapere di averlo, per sentirsi dalla parte giusta del mondo: quella degli “affamati e dei folli” che credono nel futuro. Anche se non hanno un lavoro e una relazione stabile, anche se i loro scrittori e musicisti preferiti sono gli stessi dei padri, nonostante abbiamo fatto il tifo per il Nobel a Bob Dylan (consapevoli che uno come il menestrello del rock non è ancora arrivato), sarà sufficiente la visione della mela che si illumina sul desktop per sentire che «i puntini un giorno si potranno unire».

Quelli che oggi piangono per Jobs sono compagni di scuola dei giovani che hanno creduto, all’inizio del nuovo secolo, che un altro mondo fosse possibile

Ecco perché fa piangere il discorso pronun-ciato da Jobs ai neolaureati dell’Università di Stanford nel 2005: “Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo” è una frase che, al di là del po-tere universale della retorica, può entusiasmare davvero solo chi non ha prospettive reali, altro che babyboomers pieni di progetti. Fossero stati Gates, Marchionne, Murdoch o Abramovič a pronunciare le stesse parole nessuno avrebbe pianto. In tanti anzi avrebbero sbadigliato e forse si sarebbe alzato anche qualche cartello di protesta. Ma non per Jobs. L’uomo che ha incar-nato il meglio della cultura della Silicon Valley - innovazione, coraggio e pochi soldi per grandi ambizioni- poteva permettersi di spronare gli studenti come fosse un Papa. E quei ragazzi, zombie nella politica e nell’economia del XXI secolo, a un certo punto si sono rianimati per dire con qualche anno di anticipo”yes we can”.

Quanto ci sia di superficiale e drammatico in tutto questo, è dibattito per sociologi e re-sponsabilità di chi è venuto prima. Oggi non ci resta che piangere l’uomo che, con grande stile, ci ha distratto dall’immobilismo e dalla noia dei nostri tempi.

[email protected]@24people

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LA VITA

Barack Obama ha ricordato Steve Jobs come uno dei più grandi innovatori della storia americana, un uomo capa-ce di pensare diversamente e quindi di plasmare il pensiero unico collettivo, un visionario lucidamente convinto di

poter cambiare il mondo e dotato del talento necessario per riuscirci. Steve Jobs, secondo Obama, è la bandiera della genialità ameri-

cana, la quintessenza dello spirito yankee, dell’american dream immaginato da ragazzo in un garage della California e realizzato come d’incanto nell’utilizzo quotidiano e inevitabile di tecnologie scoperte magari da altri, ma che soltanto lui, il Grande Venditore, è riuscito a far diventare mainstream, di uso comune, necessarie e imprescindibili.

jobs come obamaIl fenomeno Jobs è molto simile al feno-

meno Obama, all’Obama iconico della cam-pagna elettorale 2008. Entrambi sono geni del design, del packaging e del marketing, di prodotti nel primo caso, di idee nel secondo. Nessuno dei due vende fumo. Vendono en-trambi sostanza.

Jobs e Obama sono i profeti della nostra epoca, non solo di un nuovo prodotto o di una particolare campagna politica, ma di quella re-ligione laica che è l’american way of life, il so-gno americano, l’eccezionalismo americano.

Ammirati e odiati, geniali predicatori e gran-di affabulatori, sono entrambi americani al mille per mille, proprio perché Jobs è figlio biologico di un immigrato siriano e di una ra-gazza tedesca, poi adottato da una famiglia di

Il nuovo sognoamericanoda Cupertinoa Washingtondi Christian Rocca

LA POLITICA

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American dreamUn carro allegorico

presenta Obama in versione Supermanal Carnevale di NIzza

del 2010

origini armene di Mountain View, California, mentre Obama è il bambino abbandonato dal padre africano, rispedito a casa dalla mamma in trasferta in Indonesia e forgiato alla vita a Honolulu dai nonni del Midwest.

nuova mitologia americanaDi Jobs si dice, con largo uso di maiuscole,

che «He Told Us What We Needed Before We Knew», «ci ha detto di che cosa avevamo bisogno prima ancora che noi lo sapessimo», mentre Obama è l’alfiere del «We Are the Ones We Have Been Waiting For», «noi siamo quelli che stavamo aspettando».

Il tono è profetico, l’aspettativa messianica, le folle oceaniche. Le critiche non sono da meno: iGod, Jobs si crede Dio; Obama inve-ce è l’Anticristo. Su questo crinale difficile e impervio, dove è costruita la mitologica città illuminata sulla collina, quella che secondo la tradizione puritana guida l’America verso la terra promessa e promette un mondo miglio-

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re, corrono le vite parallele dei due eredi born in the Usa dei Padri pellegrini.

Jobs ha preso il respingente mondo della tecnologia e lo ha reso bello e user friendly, così come Obama è riuscito a riscattare il lato nobile della politica e ad avvicinare le nuove generazioni all’esercizio democratico. Jobs è il paradosso dell’uomo della cultura antagoni-sta, hippie e figlia dei fiori che diventa il primo padrone delle ferriere (hardware) d’America, mentre Obama è il simpatizzante del black power che mai si sarebbe immaginato di conquistare davvero tutto questo potere. En-trambi ce l’hanno fatta. Grazie al loro talento. Grazie alle immense opportunità, inimmagi-nabili altrove. Il discorso di Jobs a Stanford, il più cliccato in questi giorni sulla rete, è fonte di ispirazione per una generazione di giovani, ma è soprattutto il manifesto della realizzabi-lità del sogno americano, allo stesso modo dei grandi speech sull’unità nazionale pronuncia-

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LA VITA

ti da Obama nella sua campagna elettorale. Quel «siate affamati, siate folli» di Jobs non è diverso dallo «Yes, we can» declinato in vario modo da Obama.

pubblicità e pubblicoQuando, nel 1984, Jobs introdusse al mondo

il suo rivoluzionario Mac si affidò a uno spot televisivo diretto da Ridley Scott, trasmes-so per la prima volta durante il Superbowl di quell’anno, che dipingeva il monopolista dei computer Ibm come il Grande Fratello di George Orwell. Gli uomini di Obama han-no fatto la stessa scelta per lanciare il loro candidato nel 2007, ripresero lo stesso spot televisivo di Jobs, sostituendo l’Ibm con l’al-lora potentissima Hillary Clinton nei panni del Grande Fratello. «Vote different», era lo slogan finale dello spot elettorale, ancora una volta mutuato dal «Think different» di Jobs.

www.camilloblog.it

Obama e Jobs sono entrambi geni del design, del packaging e del marketing,.Di prodotti nel primo caso, di idee nel secondo. Nessuno dei due vende fumo.

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LE IDEEDall’Apple I all’iPad: una vita scanditadal lancio di prodotti innovativi

Macchine a coloriCon l’iMac il computer esce dal grigio

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Apple ha segnato le stagioni della vita di Ste-ve Jobs. È un ragazzino arrogante e presun-tuoso, ma pieno di talento, quello che vuole vendere personal computer in kit di montag-gio agli altri appassionati di computer nella California degli anni 70. Diventa un giovane uomo che frequenta il jet set della musica e dell’arte l’imprenditore di successo dei primi anni80. Grazie ad Apple Steve Jobs diventa amico di John Lennon e Yoko Ono, si fidanza con Joan Baez, si considera un artista più che un imprenditore. La sua durezza sul posto di lavoro lo porta a scontri frontali con l’ammi-nistratore delegato di Apple, John Sculley, che riuscirà a farlo sbattere fuori dal consiglio di amministrazione nel 1985, un anno dopo aver presentato il Macintosh.

Steve Jobs in esilio non sta con le mani in mano. Anche se medita il suicidio, frutto di una rapida depressione, recupera presto le forze e si rimette in marcia. Fonda Pixar e NeXT, crea nuovi computer, esplora nuove tecnologie, sperimenta l’umiltà di chi deve

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I prodotti che hanno fatto il branddi Antonio Dini

DALL’HARDWARE AL SOFTWARE

ricominciare e soprattutto stringe nuove ami-cizie sia nella Silicon Valley sia a Hollywood. Anni dopo saranno preziose per rilanciare Ap-ple e soprattutto stringere alleanze nel settore della musica e dei film.

Intanto, nel 1997 torna ad Apple e, a parte un passo falso con il Mac Cube, azzecca tutte le mosse: decine di prodotti rivoluzionari che proiettano Apple al di sopra di qualsiasi limi-te. L’azienda diventa gigantesca, Steve Jobs è il suo unico leader e qualsiasi cosa faccia pare funzionare. Fino a che una mail dell’agosto 2004 congela i dipendenti e gli appassionati della Mela: ha avuto un tumore e si è opera-to. Tutto bene, sembra che la crisi sia risolta, ricomincia una corsa all’innovazione sempre più rapida, vertiginosa, fino a che non com-paiono le ricadute.

Steve Jobs si presenta sul palco per mostra-re nuovi prodotti pallido, smagrito, emaciato. Un’influenza, dice all’inizio, ma poi si scopre che è qualcosa di più grave e gli devono trapiantare il fegato. Sopravvive, riparte, si

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LE IDEE

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APPLE I - 1976Quasi uno scherzo, ma geniale. Il primo com-puter di Apple è un’invenzione di Steve Woz-niak, che mette insieme il minor numero di chip possibile per creare un computer personale. È l’epoca degli hobbisti di talento e il prodotto nasce per dimostrare ai colleghi dell’Home-brew Computer Club chi è il più bravo. Ma Steve Jobs vede nel kit da montare un’oppor-tunità di business e si organizza per poterlo replicare in serie e vendere a 666 dollari.Dapprima nella camera da letto dei suoi genitori a Mountain View e poi nel garage, secondo la migliore tradizione dell’imprendi-toria americana, Steve Jobs, Steve Wozniak, Robert Wayne (il terzo fondatore di Apple) e due amici lavorano a questo primo progetto. Renderà un milione di dollari e convincerà Steve Jobs che vale la pena fondare davvero un’azienda, da chiamare come il frutto prefe-rito del giovane imprenditore.

Oggetti del desiderio

ammala di nuovo, rallenta, accelera. Il mondo si era quasi abituato a questi continui ondeg-giamenti di un uomo che pareva aver sconfit-to tutto: avversari, malattie, la morte stessa. Ma qualcosa si sta rompendo definitivamen-te. Steve Jobs lo sa, accelera al massimo la produzione dei suoi apparecchi, spinge Apple più avanti che può: deve darle l’abbrivio per farla andare avanti sulle sue gambe, senza più lui. In due anni presenta di tutto, da telefoni a tablet fino a servizi per acquistare apps, software, persino sistemi operativi dal cloud, e una soluzione di cloud computing per sincronizzare i dati. Viene annunciato in sordina che un noto giornalista americano sta scrivendo la sua biografia autorizzata. In pochi si chiedono come mai e ancora meno sono quelli che notano che la biografia, pre-vista per febbraio, viene anticipata a novem-bre. Invece è un segnale: Steve Jobs sale per l’ultima volta sul palco a luglio, a fine settem-bre si dimette e il 5 ottobre muore. Questi che seguono sono i prodotti principali che sono stati creati sotto la sua guida.

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APPLE II - 1977Il salto di qualità è impressionante. Il secondo com-puter di Apple - un integrato tastiera/pc con moni-tor a parte - è superiore a tutto quello che c’è sul mercato. Il merito è della visione di Steve Jobs, del genio tecnologico di Steve Wozniak ma soprattutto della collaborazione al progetto di Mike Markkula, il trentenne milionario che decide di fare da “angel investor” e finanziare la nascente azienda. Una volta strutturata, Apple prende il via e l’Apple II nelle sue infinite varianti diventerà il cavallo di battaglia per tutti gli anni70 e 80. Tappando anche i “buchi” dei primi prodotti basati su interfaccia grafica.

MACINTOSH 128K - 1984Osteggiato dall’amministratore delegato che lui stesso ha voluto dentro Apple, John Sculley (ex vice-presidente della Pepsi Cola), si ritaglia un angolo in cui lavorare a un solo progetto. “Soffia” a Jef Raskin lo sviluppo del progetto Macintosh e lo porta avanti senza concedersi tregua per tre anni. Alla fine, il Macintosh 128k è pronto. Una macchina chiusa, con poca memoria. Ma dotato di una straordinaria potenza di calcolo, una interfaccia innovativa e un design “all-in-one” che lo rende trasportabile. Vende bene i primi mesi ma poi si ferma. Intanto, Steve Jobs viene estromesso dall’azienda e si occupa d’altro.

LISA - 1983Steve Jobs visita il Palo Alto Research Center di Xerox, paga due milioni di dollari per il privilegio di poter accedere alle tecnologie sviluppate in quella sede e ri-mane impressionato da quanto il suo manager, Jef Ra-skin, gli mostra: l’interfaccia grafica. Ci sono finestre, icone, menu e un puntatore che si muove utilizzando un mouse. Steve Jobs vuole la tecnologia e la porta dal team di Apple che si raduna attorno al nuovo pro-getto: un potente pc professionale da chiamare come la prima figlia di Jobs, Lisa. Sarà un flop formidabile, sia per il costo che per alcuni errori di progettazione. Steve Jobs comunque abbandona subito il progetto al suo destino perché segue un’altra pista.

NEXTSTATION - 1990Nei dodici anni di esilio da Apple Steve Jobs fon-da due società: Pixar (acquistata da George Lu-cas e specializzata in animazione computeriz-zata) e NeXT. Doveva essere la nuova Apple e invece fallisce, venendo acquistata dall’azienda di Cupertino nel 1997 per poter usare il siste-ma operativo OpenStep che diventa Mac OS X. Sarà anche il veicolo attraverso il quale Steve Jobs torna in Apple. Però riesce a produrre alcuni compu-ter. Il più bello di tutti è la NeXTStation. Costosa, po-tente, venduta male e poco, ha un merito. Uno degli apparecchi finisce al Cern di Ginevra, sulla scrivania di Tim Berners-Lee, che la usa come server per far partire il World Wide Web.

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LE IDEE

IMAC - 1998Apple sta per chiudere. Steve Jobs torna in sella, ci sono soldi in cassa per pochi mesi. Chiude tutte le linee di prodotti inutili (compreso il primo palmare della storia, il Newton) e lancia una serie di prodotti semplici e innovativi. Si avvale dei servizi di un gio-vane designer britannico appena arrivato in Apple, Jonathan Ive, che diventerà la matita ufficiale della Mela,. Il primo prodotto si chiama iMac. È un piccolo computer integrato in un monitor Crt da 13 pollici. Non è particolarmente potente. Non ha il floppy disc ma solo la presa Usb, l’Ethernet, il CD e più avanti il Wi-Fi. Diventa un successo immediato e l’iniezione di liquidità salva l’azienda.

MAC CUBE - 2001L’unico flop di Steve Jobs dal suo ritorno alla guida di Apple. Pensato per essere il computer “superpoten-te”, costa troppo, non si può espandere e funziona male a causa di alcuni difetti di progettazione. Ne vendono pochissimi, anche se a posteriori si tratta di un concept di prodotto avveniristico. Oggi, nell’era del wireless e del cloud computing, avrebbe avuto sicuramente successo.

IBOOK I E II GENERAZIONE 1999/2001Steve Jobs divide il suo mercato in quattro settori: due per i consumatori e due per i professionisti e le aziende. A ciascuno, un portatile e un fisso. Questa matrice due per due serve a semplificare l’offerta, il magazzino e la gestione delle componenti. Il primo successo che riporta il Mac in voga nei campus americani è l’iBook. La prima versione del 1999 ha poca potenza e la forma di una strana ciambella colorata con il manico. Jonathan Ive però non è soddisfatto e nel 2001 esce la versione bianca dalle linee compatte e con il monitor da 12 pollici. È un altro successo mondiale.

POWERBOOK - 2001Nella matrice 2 per 2 di Steve Jobs, è il portatile per i professionisti. Il primo è il modello Titanium, fatto tutto con il costoso metallo ultraleggero. Alto due centimetri, diventa uno status symbol per manager che viaggiano. Seguono i PowerBook di alluminio aeronautico.

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IPOD - 2001Scoppia il successo maggiore di Apple. L’azienda in tre anni ha ricominciato a guadagnare mercato, vende Mac come mai prima, ma Steve Jobs ha gran-di ambizioni. Vuole un pezzo di hardware che costi poco, piaccia alla gente e possa attrarre ancora altri clienti. Jobs ama la musica e decide che dovrà essere un lettore di musica digitale basato su hard disk. In un’epoca in cui le chiavette per la musica contengo-no al massimo venti o trenta brani, l’iPod è un mar-ziano che ne contiene centinaia e funziona anche da hard disk esterno. È la nascita di un’icona mondiale.

MAC MINI - 2005Accanto alle generazioni di iMac che si susseguo-no (dopo quelle basate su monitor Crt, quelle con schermo a cristalli liquidi, prima a forma di abat-jour, poi piatti come un televisore di plastica bianca con il computer nascosto dentro, infine l’attuale modello di alluminio supersottile, che ricalca il precedente concept) e ai Mac Pro, arriva anche un terzo compu-ter da casa. È il Mac più economico di tutti, venduto senza monitor, tastiera e mouse. Il piccolo Mac mini conquista le simpatie perché costa poco, è silen-zioso, robusto e durevole. Può funzionare da server casalingo, da primo computer per il figlio, da media center. Addirittura c’è chi lo compra per l’azienda.

ITUNES - 2001 (2003 LA MUSICA)Nessun successo per l’iPod senza un software per guidarlo. Apple acquista una piccola software house che produce un jukebox musicale e lo rivolu-ziona, trasformandolo in iTunes. La pubblicità è “Rip Mix Burn”, e Apple si becca una causa da parte dei produttori di musica, che vedono nell’iPod e nella pubblicità di Apple un incitamento alla pirateria. Nel 2003 però Apple si trasforma nella migliore amica delle case discografiche. Infatti, lancia l’iTu-nes Store da cui vende musica a 99 centesimi a brano. È finora l’unico negozio di musica digitale di successo planetario.

MACBOOK E MACBOOK PRO - 2006I portatili di Apple crescono. Il design di Jonathan Ive diventa sempre più estremo e si capisce che il futuro degli apparecchi è nelle macchine integrate tutto-in-uno come gli iMac e soprattutto nei portatili. Se prima vendevano un decimo dei desktop, adesso i portatili arrivano a metà e poi superano i fratelli maggiori “stanziali”. Sono anche i computer preferiti per la transizione da PowerPC a favore di Intel. Una transizione epocale, che rende ancora più economici i Mac e soprattutto comparabili con gli equivalenti Pc. Senza contare che si può installare come sistema secondario anche Windows o Linux.

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LE IDEE

IPHONE - 2007 (2008 LO STORE DELLE APPS)Apple Computer cambia nome e diventa solo Apple Inc. Perché si occuperà di molto di più che non solo di computer e iPod. Quanto Steve Jobs presenta sul palco la prima generazione dell’apparecchio multitouch, la reazione è di stupore. L’anno dopo, assieme al modello 3G, che offre finalmente velocità di connessione e software più potente, arriva anche una novità: l’App store. Gli sviluppatori realizzano il software che Apple custodisce, distribuisce e ag-giorna per conto loro. In cambio chiede un terzo del prezzo fissato liberamente da chi sviluppa, niente se il software è free.

MACBOOK AIR - 2008/2010Alla prima generazione del MacBook Air, portatile alto meno di un centimetro e dotato di una sola por-ta Usb, nessuno crede. È lento, se non c’è il wireless va da poche parti. Due anni dopo Apple lo rinnova, questa volta il design diventa ancora più filante, il processore è azzeccato, le dimensioni (13 e 11 polli-ci) sono lillipuziane. I tempi sono maturi anche per usare il Wireless ovunque, e il MacBook Air diventa la nuova icona di chi viaggia e non vuole peso inutile. Perché, a differenza di un netbook, è un computer completo sia dal punto di vista delle prestazioni che della tastiera.

APPLE TV - 2007-2010Un mezzo flop, un mezzo successo. I pochi che comprano la prima versione con hard disk e so-prattutto la seconda versione senza disco, tutta nera, sono innamorati del loro prodotto. La maggior parte della gente però non è interessata. Apple la considera un hobby e Steve Jobs è seccato che, sul fronte dei contenuti video, Apple non riesca a du-plicare i successi dell’accoppiata iPod/iTunes store. Il tempo dirà se la sua idea attecchirà. In Italia i pochissimi contenuti video offerti in vendita o in affitto la rendono quasi inutile.

IPAD - 2010Dopo due anni di relativa calma, quando tutti si sono abituati alla rivoluzione dell’iPhone, Steve Jobs prova la sua mossa più azzardata. Spiega che vuole vendere un nuovo concetto di apparecchio che nessuno è riuscito a realizzare. Qualcosa che sta in mezzo tra il computer e lo smartphone, e che non può essere il netbook. Ci pensa, gioca con il pubblico, e alla fine lancia l’iPad. È una tavoletta straordinaria, che riunisce tecnologie già esistenti con altre innovative e costruisce in un attimo uno nuovo genere merceologico.

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Steve Jobs era già una leggenda alla fine degli anni 70. Quantomeno nella mia cameretta, dove campeggiava un Apple II Plus col suo monitor verde e due giganteschi drive per i floppy di-sk, quando erano floppy (pieghevoli)

per davvero. Difatti, la domanda ricorrente degli amici che entravano era: «Ma cosa te ne fai?». Ci facevo poco, è vero. Ma ci vedevo dentro il Futuro.La domanda però, trovò una risposta adeguata pochi anni più tardi. Ovvero nel 1984, quando Steve Jobs partorisce il Macintosh. Io comprai il secondo modello, perché il primo (con appena 128K di memoria Ram) era inutilizzabile. Il Mac Plus che tenevo sulla scrivania aveva un mouse e un’interfaccia grafica; il monitor era final-mente nero su uno sfondo bianco; si poteva disegnare e stampare l’opera, c’erano i caratteri tipografici. E guardavo a Jobs, che aveva solo tre anni più di me, come il capo-ingegnere di quella costruzione così fuori da ranghi, dai binari dell’industria tradizionale. Non solo: il giovane Jobs aveva commissionato a Ridley Scott uno dei più celebri commercial di tutti i tempi, ispirato al 1984 di George Orwell. Una donna rompe il monitor che abbaglia i cittadini tenuti schiavi dal Grande Fratello, e li libera. Il Big Brother orwelliano, nell’immaginario di Jobs, era la Ibm. La quale, tre anni prima del

La mia vitacon Appledi Marco Magrini

UTENTE DELLA PRIMA ORA

Macintosh, aveva debuttato nel mercato dei personal computer senza crederci: invece di scriversi da sola un sistema operativo, lo aveva commissionato alla piccola Microsoft.

come in una settaFatalmente, è lì che è cominciato tutto. Jobs aveva rifiutato di dare in licenza il sistema operativo del Mac: chi lo voleva, doveva com-prare le macchine di Apple. Un grave errore. Perché il prezzo del Mac non poteva compe-tere con i produttori asiatici dei “cloni” del Pc Ibm, ai quali la Microsoft (che raccoglierà una cornucopia di profitti in barba a Ibm) era ben felice di vendere una copia del suo Ms-Dos. Lì è cominciato tutto perché amici e conoscenti sono approdati in massa allo standard Pc, nonostante fosse così palesemente inferiore al Mac. Ed è così che sono finito a far parte di una specie di setta religiosa: i «Mac-head», li chiamavano con sottile disprezzo i possessori di Pc. Eppure, per noi “fedeli”, non si trattava di detenere la verità. Ci chiedevamo soltanto perché così tanta gente usasse un sistema operativo così poco elegante, così instabile, così complicato, solo per risparmiare qualche biglietto da centomila lire. Tutto qua.

licenziato da sculleyPeccato che poi le cose poi peggioreranno,

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di anno in anno. La causa Apple vs. Micro-soft – intentata da Steve Jobs quando spun-ta Windows, largamente “ispirato” al Mac – viene vinta da Bill Gates. Nella versione 3.1, Windows diventa finalmente usabile e la concorrenza si fa seria. Ma la vera doccia fredda arriva con il licenziamento di Steve Jobs, ad opera del “giuda” John Sculley, il Ceo che lo stesso Jobs aveva assoldato per guidare la Apple Computer. Lì, come succederebbe in una setta vera quando il fondatore viene allontanato dalla sua chiesa, i devoti del Mac non poterono che giurare fiducia alla Apple.

In realtà, ci fu anche il tentato scisma. Coi soldi delle stock option incassate e l’investimento di Ross Perot, Steve fonda la NeXT, un’azienda di computer nata per fare meglio della Apple. All’apparenza, non ci riesce: i cubi neri marcati NeXT, pur sempre bellissimi e tecnologicamen-te avanzati, costano troppo. Così, noi fan non abbiamo potuto far altro che restare attaccati alla Apple e alla superiorità del suo sistema operativo. Dopotutto, era ragionevole pensa-re che la magìa dei prodotti Apple risiedesse nell’azienda, e non in una persona sola.

dalla crisi alla rinascitaPer qualche anno, andò così. Poi la ma-gìa cominciò a dissolversi: i prodotti erano

sempre più simili a quelli della concorrenza, Windows sempre più alla pari col sistema del Mac. Nel 1996 la Apple è in ginocchio: gira vo-ce che potrebbe chiedere l’amministrazione controllata. Senonché, nel board di Cuperti-no, a qualcuno viene una bella idea: richia-mare Steve Jobs. Quello nicchia. Ma alla fine, la Apple compra la NeXT (con il suo sistema operativo basato su Unix) e Jobs diventa Ceo ad interim. Un gran bel giorno.

Adesso, col senno di poi, sappiamo tutti che la magìa può davvero risiedere in una persona sola. La Apple, che non era riuscita a scrivere un nuovo sistema operativo, adotta quello di NeXT che, migliorato, diventa l’ormai celebre Mac Os X. L’iMac colorato presentato da Steve nel 1997 – il simbolo della riscossa – «pensa diverso» e rivoluziona un’altra volta il merca-to. L’iPod lanciato sul mercato un mese dopo l’11 settembre sembra un prodotto di nicchia e invece conquista l’orbe terracqueo. L’iTunes Store diventa il primo negozio planetario per l’intrattenimento digitale. L’iPhone trasforma completamente il mondo della telefonia cellu-lare, ribaltando previsioni e quote di mercato. L’iPad rimette in discussione l’intera partita del computing: se si sommano le vendite di Pc e di tablet, la Microsoft non è più quel Grande Fratello che era diventata.

visioni di futuroPer fortuna, nessuno guarda più i possessori di Mac come guardiani di un culto clandesti-no. Oggi, i Mac sono solo un po’ meno ubiqui degli iPhone e degli iPad: la mela del logo Ap-ple ha conquistato il mondo. E sapete perché? Perché quando usa un prodotto uscito dalle attenzioni maniacali di Steve Jobs, la gente ci vede dentro il Futuro.Negli anni, ho letto avidamente tutte le inter-viste di Jobs, le biografie non autorizzate, per non parlare del suo discorso alla Stanford Uni-versity che resterà fra i più bei discorsi pubblici di tutti i tempi. Ma c’è una celebre battuta che considero indimenticabile e, in qualche modo, di lezione. Quando Jobs va da Sculley, allora presidente della Pepsi, per reclutarlo gli dice: «Preferisci vendere acqua zuccherata tutta la vita, o cambiare il mondo?». Sembrava un’iper-bole. Invece, lui c’è riuscito per davvero.

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Ventisei Oscar, sette Golden Globe e tre Grammy. Quando si parla dei successi personali dell’imprenditore Steve Jobs, bisogna mettere in conto anche i principali trofei dell’enter-tainment americano. Non li ha vinti

lui in persona, ma la Pixar, la società di ani-mazione computerizzata alla quale ha infuso lui stesso nuova vita – quasi a testimoniare che i successi con Apple non sono un caso isolato – fino a portarla per mano nell’Olimpo hollywoodiano.E pensare che nel 1986, all’indomani del suo licenziamento da Apple, Jobs aveva rilevato la divisione grafica della Lucasfilm per 5 milioni di dollari, salvo aggiungerne altri cinque per ricapitalizzarla. George Lucas, che a quei tem-pi era in crisi economica per via di un divorzio, avrà modo di mangiarsi le mani.

Pixar, un sogno animatodi Marco Magrini

IL CINEMA

niente di meno che la perfezioneDi casa a Emeryville, ai margini della Silicon Valley, ma soprattutto a 450 miglia a nord di Hollywood, la Pixar ha stupito il pubblico di cinque continenti dalla saga di Toy Story fino all’ultimo Cars2. C’è riuscita perché Jobs (che anche da ritrovato Ceo della Apple ci lavorava due giorni alla settimana) ha spinto l’accelera-tore tecnologico dell’azienda, ma soprattutto ha impresso in tutti quanti la ricerca mania-cale della perfezione, della cura del dettaglio. «Se per una frazione di secondo viene inqua-drato un orologio che segna mezzogiorno – ci raccontava anni fa un disegnatore di Pixar, durante una visita agli studios – due minuti dopo, segnerà mezzogiorno e due. Anche se nessuno potrà mai accorgersene». Ma c’è di più: film dopo film, l’asticella tecnologia do-veva essere puntualmente alzata.

soldi e famaÈ così che, film dopo film, dopo A Bug’s Life, Monsters, Finding Nemo, The Incredibles, Cars e via dicendo, la Pixar è riuscita ad aumentare con impressionante regolarità il fatturato al botteghino. Fin quando, il nodo non è venuto al pettine. La distribuzione

Eroi animatiUna scena del film di animazione “Up” della Pixar

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LE IDEE

inserire galley pixar

dei primi film Pixar era in carico alla Disney Corporation, che marchiava col suo nome le pellicole dove Jobs e il fido John Lasseter non facevano mettere né occhio, né bocca. Quando nel 2005 il contratto fra Disney e Pixar arriva alla scadenza, gli studios di Steve Jobs avevano quasi oscurato la fama della Mouse House. E visto tutte le altre major della cinema-tografia lo corteggiavano per strappare loro un contratto di distribuzione, la Disney non può far altro che comprarsi tutta la Pixar con un’offerta non trascurabile. Valore del-la transazione: 7,4 miliardi di dollari. Come risultato, gli eredi del compianto Steve Jobs sono attualmente i primi azionisti della Walt Disney Corporation.

ogni volta più avantiMa alla Pixar, come alla Apple, gli eredi del testamento imprenditoriale di Steve Jobs so-no tutti quelli che l’hanno conosciuto e che (nonostante la sua leggendaria spigolosità) ci hanno lavorato insieme. Alla Pixar, come alla Apple, sanno sulla loro pelle che c’è sempre un traguardo da superare. «The journey is the re-ward», era solito dire Jobs. Il bello del viaggio, sta nel viaggio stesso.

In passerellaAlcuni protagonisti delle animazioni Pixar

Vent’anni animatiUn’opera in mostra a Londra per i vent’anni di animazione della Pixar

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Eroi animatiUna scena del film di animazione “Up” della Pixar

George Lucas a quei tempi era in crisi economica per via di un divorzio. Si sarà mangiato le mani per la vendita

E il suo viaggio, il suo destino di moderno Mida, è stato quello di cambiare tutto quel toccava. Jobs ha interpretato la Pixar come una casa di software, non come una casa cine-matografica. Il cuore tecnologico dell’azienda era – ed è tutt’ora – RenderMan, un program-ma originalmente sviluppato su NeXT, l’altro computer inventato da Jobs per rivalersi su Apple dopo l’improvvida cacciata. Lui stesso metteva bocca sulle storie, sulle sceneggia-ture, proprio come alla Apple ha contribuito a qualche decina di brevetti, anche di design.«La Apple abita all’incrocio fra la Tecnologia e le Liberal arts», amava ripetere Jobs durante i suoi ultimi discorsi pubblici. In America, le «arti liberali» sono la letteratura, le lingue, la filosofia, la matematica, la scienza. Quindi un bell’incrocio dove abitare. Ma il bello, segno di una coerenza quasi magica e irripetibile, è che quello è stato anche l’indirizzo di casa

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Tra le visioni più spericolate di Steve Jobs c’è n’è una che forse supera le altre: aver immaginato il futuro digitale dell’edito-ria senza partire dai contenuti ma dal contenitore. Ovvero: facendo innamora-re il pubblico di oggetti bellissimi e fun-

zionali – dall’iPhone all’iPad – sui quali leggere (letteralmente intus legere, cioè leggere dentro) news, film, libri e naturalmente l’amatissima musica, visto che l’ascolto può essere considera-to una declinazione della lettura. La profezia di McLuhan si è avverata a Cuper-tino, insieme a quel mantra di cui spesso ci si riempie la bocca: “Il medium è il messaggio”, infatti, significa proprio questo, e cioè che l’iPod m’intriga più dei Coldpay (almeno in una prima fase). Detto in altri termini, è come se qualcuno s’innamorasse della “costina” di un libro rilegato

L’inchiostro del futuro formato iPaddi Daniele Lepido

EDITORIA particolarmente bene, anziché del romanzo con-tenuto in quelle pagine. L’aspetto geniale è stato poi aver costruito intorno a questi oggetti-idolo degli ecosistemi viventi, pensanti e soprattutto monetizzabili, offrendo in cambio sicurezza e comodità d’uso. L’altra cosa strana è che a co-stringere un intero settore industriale, come quello del publishing, a ripensare se stesso sia stato un mago del computer e non un editore. Ma perché stupirsi? Steve Jobs, con i suoi incan-tesimi, è sempre stato bravissimo a strapazzare i luoghi comuni. contenitori e contenutiQuesto non significa che i contenuti non sia-no importanti. Anzi. Perché l’effetto-stupore dell’oggetto sarebbe destinato a sparire senza un flusso di informazioni di qualità. L’iPad da solo sarebbe un bel vassoietto se Jobs non aves-se inventato le App e soprattutto se i produttori terzi di contenuti non sfornassero ogni giorno software e notizie a gogò. E così anche per i gior-nali. Leggere il Sole 24 Ore o un altro quotidiano sul tablet della Mela è come avere in mano una cartolina spedita dal futuro. Intendiamoci: i quo-tidiani di carta non spariranno nell’immediato ma cambieranno la loro fisionomia diventando sempre più simili a libri-dossier, pieni di ap-profondimenti e letture inedite del mondo. Sul tablet ci sarà tutto il resto e anche di più visto che il digitale non ha limiti, almeno non nell’era della “riproducibilità tecnica”.

L’iPad è naturalmente il prodotto della Apple che più fa al caso degli editori, proprio in virtù di uno

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In Italia la maggior parte dei circa 500mila tablet presentisul mercato è Apple Ma sarà difficile convincere gli apocalittici del digitale alla conversione

schermo da quasi 10 pollici che rende la fruizio-ne dei contenuti agevole. Non è un caso se in Italia la maggior parte dei circa 500mila tablet presenti sul mercato siano iPad. Senza nulla to-gliere alla concorrenza, per esempio a Samsung, ma l’intelligenza di Jobs e il suo successo si sono sempre basati su un duplice presupposto: offrire prodotti di grande qualità (a prezzi superiori ai concorrenti) ma anche nel saper comunicare al meglio questa qualità. la concorrenza in ItaliaDalla teoria alla cronaca: proprio la settimana scorsa i libri in lingua italiana sono sbarcati sugli scaffali virtuali dell’iBookstore, il supermercato online dell’editoria targato Apple. Una notizia destinata a cambiare il risiko nostrano dell’edi-toria digitale. Che ha prodotto questo primo, immediato effetto: si potranno leggere libri digi-tali, per ora di Mondadori e Rcs, su iPhone, iPod touch e ovviamente su iPad. Quella di Cupertino è una mossa attesa dai grandi publisher italiani, che negli ultimi due anni si sono già organizzati, non sempre con convinzione, in piattaforme ad hoc, stringendo accordi che in alcuni casi hanno coinvolto le telco (vedi l’alleanza tra Rcs e Telecom su Biblet.it). Ma la discesa in campo di Apple cambierà probabilmente le carte in tavola, dando forse lo sprint a un business ancora mi-nuscolo ma in forte crescita (che si ipotizza da 150 milioni di euro tra tre anni). Ad aprire le danze dei partner sono il Gruppo

Mondadori (con le edizioni Mondadori, Piemme, Einaudi e Sperling & Kupfer) ed Rcs (Rizzoli, Bompiani, Fabbri, Adelphi, Marsilio, Etas, Ar-chinto, Sonzogno e Skira), all’esordio sul market della Mela rispettivamente con 2mila e mille titoli. Mutuata da iTunes la filosofia della di-visione dei ricavi: 70% agli editori e 30% a Cupertino. Sugli ebook in Italia il rischio era quello della frammentazione e in questo Apple potrebbe vincere sugli altri, un po’ come ha fatto con iTunes. Ma quanto costano i libri sull’iBookstore e qual è la differenza con quelli reali? Qualche esem-pio: la Libertà di Jonathan Franzen in versione digitale costa 9,99 euro, mentre su Amazon, scontata, sale a 18,70 euro. E ancora: La ragazza che giocava con il fuoco di Stieg Larsson vince sull’iBookstore a 7,99 euro contro i 12 euro sem-pre di Amazon. Tra i titoli più discount, almeno nel prezzo, ci sono i Promessi Sposi, che costano come una canzone: 99 centesimi. Ora la concorrenza con le altre piattaforme si farà dura e in qualche modo la discesa in campo di Apple servirà a testarne la tenuta. Tra le libre-rie digitali italiane c’è quella di Ibs, forte del suo e-reader: si chiama LeggoIbs ed è molto simile al Kindle, una sorta di “etichetta privata” dei let-tori digitali. Feltrinelli insieme con Messaggerie, Gems e Rcs ha dato vita a Edigita, Mondadori va per la sua strada con Bol.it, mentre i piccoli e medi editori si sono stretti intorno a Bookre-public, il progetto che ha tra i suoi partner più importanti Il Saggiatore di Luca Formenton. E poi ci sono le grandi catene, come Mediaworld, che si è buttata nell’avventura di Net-ebook, un catalogo online di oltre 14mila titoli digitali da scaricarsi sui nuovi tablet.L’altra grande partnership italiana è quella tra Rcs e Telecom. Su biblet.it è possibile trovare 16mila titoli, ma anche sfogliare il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport. Su tanti lettori di-gitali: dall’OliPad, il tablet della Olivetti, al picco-lo e-reader da 6 pollici marchiato Tim, passando per il Samsung Galaxy fino all’iPad. Parlando invece di abitudini, sarà difficile con-vincere gli apocalittici del digitale alla conver-sione. Per i quali l’azione di sfogliare un libro di carta rimarrà sempre un gesto irripetibile che nessun tablet potrà mai rimpiazzare. Forse nep-pure quello della Apple, anche se Jobs, di sicuro, ha saputo guardare lontano.

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La grande ondata tecnologica della fine degli anni 70 e degli anni 80 ha af-fermato un nuovo paradigma dell’im-prenditorialità. Non soltanto ha ripor-tato all’attualità le categorie del primo Schumpeter, con la sua equazione fra

imprenditore e innovatore, ma ha trasformato persino il linguaggio economico, sospingendolo ad adattarsi alla nuova realtà.Se leggiamo i testi su cui si fonda la scuo-la economica di matrice anglosassone, trovia-mo che essi non dànno spazio alla funzione dell’imprenditore, se alla parola si associa la dimensione della creatività a cui oggi spesso la abbiniamo. Nella terminologia dei classici dell’economia politica inglese, l’imprenditore semplicemente non c’è. Si parla di “employer”, intendendo, diremmo oggi, il datore di lavoro, colui che impiega i lavoratori. Qualcosa che non coglie tuttavia la specificità e la peculiarità dell’opera di chi “intraprende”, attingendo a doti di intuizione. Altre volte, nei testi economici ci si imbatte in un’espressione un po’ in disuso come quella di “undertaker”, che si potrebbe tradurre più correttamente con “impresario”. Questo lessico dell’economia mette dunque in evidenza un vuoto, come se l’imprenditore fosse un mero agente delle forze produttive. E di fatto è in questa veste che si presenta nelle pagine di Smith e di Ricardo, attenti alle di-

Il paradigmadel nuovoimprenditoredi Giuseppe Berta

CAPACITÀ CREATIVA namiche generali del processo economico, ma poco propensi a interrogarsi sulla soggettività dell’imprenditore. Nemmeno Alfred Marshall, così preciso, coi suoi Princìpi di economia di fine Ottocento, nel delineare tipologie e figure imprenditoriali, riesce a esprimere i contenuti creativi dell’imprenditorialità.Quando si affacceranno sulla scena degli ultimi decenni del Novecento i protagonisti di una sta-gione nuova dell’innovazione e dello sviluppo, con l’ascesa di personalità così idiosincratiche come quelle di Steve Jobs e Bill Gates, bisognerà ricorrere a una parola francese per sottolineare quell’arte dell’intraprendere che essi incarnano: “entrepreneur”. L’inglese, con la plastica capacità di adattamento che lo contraddistingue, se ne approprierà rapidamente e lo userà in maniera generalizzata per identificare quel quid speciale costituito dall’imprenditorialità, cioè dalla “en-trepreneurship”. Da allora sarà così che verrà designata una funzione in cui predominano i ca-ratteri dell’innovazione e della creatività, secon-do quanto aveva teorizzato Schumpeter all’inizio del Novecento, quando aveva fatto dell’impren-ditore il motore dello sviluppo economico.Non c’è dubbio che se l’economista austriaco si fosse trovato dinanzi a Steve Jobs non avrebbe esitato a indicare in lui l’incarnazione dell’im-prenditore per eccellenza, come innovatore a tutto campo. Per giunta, nella storia di Steve Jobs, gli ambiti dell’innovazione si intrecciano e si so-vrappongono: è stato uno strepitoso innovatore di prodotto (dal Macintosh all’iPod, dall’iPhone all’iPad), ma anche, allo stesso tempo, un inno-vatore di processo. E ha aperto nuovi mercati, che ha penetrato e rimodellato. Ancora: ha rivo-luzionato le filiere di prodotto, collegando ambiti separati in precedenza (pensiamo al consumo della musica dopo l’iPod), spezzando strutture e incrostazioni oligopolistiche.In un certo senso, Steve Jobs ha agito lungo tutte le direttrici dell’imprenditorialità enucleate da Schumpeter. È stato un innovatore globale, che ha fatto leva in primo luogo sulla creatività, rom-pendo gli schemi d’azione precedenti ed esplici-tando nuovi modelli di comportamento. Ha con-tribuito così in maniera determinante a rilanciare l’esperienza dell’imprenditorialità, imponendo l’adozione di nuovi criteri di misura e di giudizio, che non si arrestano ai confini dell’economia e nemmeno della tecnologia.

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Think different. Uno slogan – e una campagna pubblicitaria – eretica fin dalla grammatica. Alla seconda parola, l’avverbio, manca il suffisso “ly”. Una piccola omissione che all’estero passò forse inosservata, ma che in America non sfuggì a nessuno. «Pensa diversamente» suona corretto, persino convincente. Ma vogliamo mettere con «pensa diverso»? Era il 1997 e quella campagna accompagnò il grande ritorno di Apple sulla scena tecnologica, l’inizio della sua seconda vita. Alla guida dell’azienda era tornato Steve Jobs,

Think different, la forza dello slogan di Giulia Crivelli

LA COMUNICAZIONE che era sempre il genio degli inizi, ma che nel tempo lontano dalla sua creatura era diventato più smaliziato e forse più conscio dei suoi mezzi. O almeno di come sfruttarli. Una consapevolezza – non sembri un’anno-tazione frivola – che traspare persino dall’ab-bigliamento: nel 1984, presentando in prima persona il Macintosh, Jobs non era diverso da tanti televenditori: giacca doppiopetto, papillon, capelli appena un po’ lunghi ma perfettamente pettinati, niente occhiali. Una mise così non sarebbe mai passata alla storia. Infatti in pochi la ricordano. L’immagine di Steve Jobs che tutti terremo a mente è quella degli anni della ma-turità: jeans e dolcevita nero, capelli cortissimi, occhialini tondi. Il monaco dell’innovazione che del suo guardaroba, per anni, non ha cambiato assolutamente niente. A differenza di Bill Gates, il rivale di sempre (ma i due personaggi forse non andrebbero neppure confrontati), che da giovane nerd occhialuto e un po’ unticcio si è trasformato in un americano qualunque e pare sempre uscito da una pubblicità di Gap.Comunica diverso

Il successo della Apple è quello dei suoi prodotti.

Think differentGuarda il video del celebre spot

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Ma le scelte di comunicazione non potevano che essere innovative. La campagna Think different (i cui manifesti, su cui campeggiavano Einstein, Ghandhi, Malcom X e molti altri, sono ancora oggi i più appesi alle pareti dei college ameri-cani) non fu certo la prima a lasciare un segno. Però la formula magica è la stessa dall’inizio: un mix di intelligenza, autoironia e sberleffo per i concorrenti. Senza mai cadere nell’autoreferen-zialità, ma rendendo omaggio ad altre icone del presente (si pensi alla campagna per iPod e iTu-nes che per protagonisti aveva gli U2). Nel 1987, dieci anni prima di Think different, a colpire nel segno era stato un video dal titolo Future-shock in cui l’allora amministratore delegato di Apple John Sculley presentava un apparecchio futuribile chiamato Knowledge Navigator. A guardarlo oggi, assomiglia moltissimo all’iPad: ugualmente e perfettamente rettangolare e sot-tile. Allora era l’equivalente di una “concept car”: nel 1987 persino mouse e schermo a colori erano poco diffusi e costosissimi. Il Knowledge Navi-gator era sensibile al tocco e aveva un’interfaccia “intelligente” capace di sostenere una conversa-zione con l’umano di turno. Strabiliante un fat-to: John Sculley aveva ambientato il suo filmato il 16 settembre 2011. Il 4 ottobre scorso Apple ha presentato iPhone 4S con “Siri”, assistente voca-le dotata di intelligenza artificiale che si avvicina moltissimo a quella visione del 1987.

Un’altra campagna memorabile fu quella di bre-vi spot (30 secondi massimo) della serie “I’m a Mac, I’m a Pc”, iniziata nel 2006 e portata avanti, quasi come una sit-com, fino al 2010. Due uomi-ni, a guardar bene della stessa età, interpretano i due universi semi-paralleli della tecnologia. Uno (il Mac) è un ragazzo affatto spocchioso ma chiaramente più spiritoso, carino e aggra-ziato dell’altro (il Pc), che è un giovane vecchio uomo che fa tenerezza. Perché è terrorizzato dai virus e dallo spionaggio industriale e perché ha un’idea di entertainment legata a grafici e tabelle. Una galassia informatica senza colore e fantasia. E nemmeno più tanto efficiente. Il ra-gazzo Mac non è animato da desiderio di rivalsa né vuole infierire sul suo tristo amico. L’uomo Pc non è disperato, né invidioso, né arrabbiato, ma rassegnato e, sotto sotto, ammirato. Quella di Steve Jobs, in fondo, è stata una rivoluzione gentile, come il ragazzo Mac degli spot.

IL TESTO DELLO SPOT «THINK DIFFERENT»

«Here’s to the crazy ones. The misfits. The rebels. The troublemakers. The round pegs in the square holes. The ones who see things differently. They’re not fond of rules. And they have no respect for the status quo. You can quote them, disagree with them, glorify or vilify them. About the only thing you can’t do is ignore them. Because they change things. They invent. They imagine. They heal. They explore. They create. They inspire. They push the human race forward. Maybe they have to be crazy. How else can you stare at an empty canvas and see a work of art? Or sit in silence and hear a song that’s never been written? Or gaze at a red planet and see a laboratory on wheels? We make tools for these kinds of people. While some see them as the crazy ones, we see genius. Because the people who are crazy enough to think they can change the world, are the ones who do» Voce narrante fu Richard Dreyfus (1997)

«Ode ai pazzi. Ai disadattati. Ai ribelli. Ai rompiballe. Agl’irrisolti e irrisolvibili. A coloro che vedono le cose da un punto di vista diverso. No amano le regole. E non rispettanno lo status quo. Potete citarli, essere in disaccordo con loro, glorificarli o deriderli. L’unica cosa che non potete fare è ignorarli. Perché loro cambiano le cose. Inventano. Immaginano. Guariscono. Esplo-rano. Creano. Ispirano. Spingono gli essere umani un passo in avanti. Probabilmente è necessario che siano pazzi. Chi altro, se non un pazzo, potrebbe fissare una tela vuota e vederci un’opera d’arte? O stare seduto nel silenzio più assoluto e sentire una canzone che non è mai stata scritta? Chi altro, se non un pazzo, potrebbe guar-dare al pianeta rosso e vederci un labora-torio su ruote? Noi facciamo strumenti per questo tipo di persone. Mentre alcuni li ve-dono come dei pazzi, noi in loro vediamo il genio. Perché le persone pazze a sufficien-za da pensare di poter cambiare il mondo, sono quelle che ci riescono».

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L’AZIENDAIl passaggio di consegne per rimanere protagonistiin Borsa, primi in design e innovazioneA CupertinoL’entrata del quartier generale della Apple

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In perfetta sintoniacon il sognoamericanodi Mario Platero

IL RUOLO NELL’ECONOMIA

Così come reazione a pelle, potrebbe sembrarvi un errore: Steve Jobs, col-lege dropout, ribelle, predisposto al rischio è un simbolo del Corporate America? Il Corporate America per come lo conosciamo, diciamo nella

tradizione della Ibm, di Big Blue (la nemesi di Apple Computer e di Steve Jobs), era ancora negli anni Novanta (e devo dire molto spesso ancora oggi), una inamidata camicia bianca, completo grigio, atteggiamento statico, cra-vatta in tono magari regimental in ricordo di un vecchio club o della prestigiosa scuola in cui ci si è formati. Steve Jobs è t-shirt, è irre-quieto, è mobile.

Ma la potenza del suo messaggio industriale e aziendale oggi è persino più forte di quello che poteva esprimere il fondatore della Ibm, Thomas J. Watson quando aprì la nuova fron-tiera dell’elettronica. Perché allora, negli anni Cinquanta, quando la Ibm cominciò a decolla-re non si metteva in dubbio il ruolo concreto dell’industriale, ben separato da quello della finanza, non si immaginavano trucchi con-tabili o paradisi fiscali, non si acquistavano aziende per rivenderle sei o sette anni dopo come fanno oggi i private equity funds, riven-dicando anche il merito di svolgere un ruolo di ristrutturazione per la società.

Oggi il mondo è invece fatto di furbizia e finanza opaca, di fortune colossali create so-lo sulla speculazione. Oggi, con il Corporate America alle corde, il messaggio di Steve Jobs è quello della vecchia America, il messaggio di un “industriale” che ha creato qualcosa di nuovo, che ha conquistato il mercato e che, nel

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L’AZIENDA

seguire il suo percorso, si è anche arricchito. Capitalismo classico, insomma. Quello di cui vanno fieri gli americani: nessuno si sogne-rebbe mai di rimproverare a Jobs di averne approfittato.

Gli indignados a Wall Street hanno acceso le fiammelle in suo onore mentre si scambiava-no i messaggi sugli iPhone e sugli Ipad: per loro Jobs resta un eroe indiscusso. L’immagine stessa dell’eroe del mercato. Il suo, ma più in generale quello che viene dalla Silicon Valley, è un messaggio che deve farci riflettere in que-sta era di crescita di un’economia finanziaria lontana dagli impegni industriali di lungo periodo. «Il nostro ambiente in generale è molto sano perché è permeato da giovani che vogliono costruire aziende per tenerle, non per rivenderle subito al migliore offerente», disse una volta Jobs. Nella sua straordinaria carriera, Steve Jobs nasce imprenditore, resta il capo e diventa manager, finanziario, creati-vo e operativo. Una volta, mentre vedeva per la prima volta l’iPod, notò che nel prototipo era stampata una scritta nera. «Non mi piace - disse - la voglio verde».

L’attenzione e la cura per il dettaglio sono assoluti. Non ha avuto bisogno, come succede oggi ai vari fondatori di Google o di Twit-ter, di assumere manager esterni per gestire l’azienda. Anzi, lo fece brevemente nel 1978. Sei troppo giovane gli dicevano, hai appena 23 anni. E chiamò Mike Scott, un esterno, un navigato corporate man cui affidò la carica di amministratore delegato. Non funzionò. E non funzionò con John Sculley, chiamato da Pepsi Cola, di nuovo come Ceo. Due fallimenti, perché l’azienda era lui.

Il passaggio dal garage ai quartieri generali di Cupertino lo conosciamo. La sua storia è leggenda. Il suo rapporto con il mondo im-prenditoriale americano, con i banchieri, con gli investitori è meno evidente. Da grande imprenditore aveva un rapporto più diretto con il marketing, con la comunicazione, con i creativi che con la finanza. E pur restando ai margini per molti anni, alla fine il suo mo-

dello ha avuto successo. Una capitalizzazione di 355 miliardi di dollari alle quotazioni di ieri pone Apple Computer al pari del simbolo del Corporate più tradizionale, La Exxon. Oggi la sua azienda e’ la piu’ grande in America. Con molti passaggi intermedi.

In dieci anni Jobs esplora altri angoli del Cor-porate America. E’ costretto a lasciare la sua amata Apple nel 1985. Il fallimento è un pas-saggio importante e non necessariamente ne-gativo per imprenditore/manager americano. Nel 1985, con 7 milioni di dollari e il sostegno del miliardario, indisciplinato e bizzarro, Ross Perot, Jobs costituisce appunto la NeXT Com-puter. Nel 1986, acquista Pixar Animation Stu-dios, la divisione di grafica computerizzata di Lucasfilm, per 10 milioni di dollari. Dopo anni in rosso, l’azienda torna al profitto dopo che Disney le appalta la creazioni di una serie di lungometraggi animati. Dalla collaborazione Pixar-Disney nascono Toy Story, Nemo, Wall-E e altri cartoni animati di successo. In questo caso è il genio creativo di Jobs che vediamo in azione, coinvolto in ogni decisione importan-te. Il 24 gennaio 2006, Disney acquista Pixar per 7,4 miliardi di dollari. Con l’operazione Jobs diventa, con un pacchetto del 7%, il mag-giore azionista Disney e membro del consiglio di amministrazione.

Nel 1997 il cerchio si chiude. Apple acquista NeXT, reintegrando Jobs come Ceo e consi-gliere. Jobs resta con il suo pacchetto Disney ed è sempre più nella stanza dei bottoni del grande mondo imprenditoriale americano, ma fino a un certo punto. Rifiuta di entrare in consigli di amministrazione, declina inviti a partecipare a operazioni finanziarie. Alla fine trionfano le sue passioni, quella per l’anima-zione e l’intrattenimento – per questo Disney – e quella per la storia della sua vita, la Apple, il veicolo con cui alla guida di un drappello di visionari ha cambiato il mondo. Come Henry Ford con il modello T o Thomas Edison con la lampadina. Non solo imprenditore e “corpora-te man” attaccato all’azienda, ma protagonista della storia economica. Anzi, della storia.

Più forti di ExxonIl 9 agosto 2011 Apple ha superato per capitalizzazione a Wall Street il valore di Exxon Mobil, toccando i 341,5 miliardi di dollari

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Uno dei grandi traguardi materiali e simbolici del suo meteorico suc-cesso, Apple l’ha tagliato il 9 agosto scorso nel tempio della Borsa, a Wall Street. Neppure due mesi prima del-la scomparsa del suo carismatico

e indiscusso co-fondatore e leader, Steve Jobs. Una scomparsa prevedibile, nella lotta contro un tumore pancreatico, quanto a 56 anni prematura. Ma che lascia la Apple ormai consacrata come azienda iconica non solo per la cultura popolare e tecnologica, ma anche per il mondo finanziario. Quel giorno di due mesi or sono, appunto, nel mezzo di una movimentata seduta di Borsa ha cementato definitivamente anche la sua straordinaria posizione tra gli investitori: è diventato, sep-pur temporaneamente, il gruppo con la più alta capitalizzazione di mercato al mondo. Volteggiando sopra un re della vecchia eco-nomia del calibro della compagnia petroli-fera Exxon Mobil. Il “punteggio” d’un attimo rimarrà per sempre iscritto nell’immaginario collettivo: 341,5 miliardi di dollari per Apple, 341,4 miliardi per Exxon. Nonostante Exxon abbia quattro volte il giro d’affari di Apple.

Gli exploit di Apple sul mercato azionario e tra gli investitori sono stati paralleli alle rivoluzioni che ha innescato nella tecnolo-gia e nel suo consumo. Nell’arco di poco più di dieci anni, assieme all’introduzione di successive generazioni di computer iMac e MacBook, di lettori musicali iPod e del nego-zio online iTune, di smart-phone iPhone e di tablet iPad, Apple ha scalato inesorabilmente anche le classifiche di market cap, passando dal 278esimo posto al primo assoluto – o al

più al secondo. Una marcia pari, in media, al 44% l’anno, contro neppure lo 0,5% dello S&P 500. Mercoledì, prima dell’annuncio della scomparsa del suo guru, è stata valutata a Wall Street 350 miliardi, sufficienti per pro-seguire il testa a testa con i 359 miliardi di Exxon. E per rimanere comunque il più “pre-zioso” marchio hi-tech sulle piazze azionarie globali. Un termine di paragone: vale più dei titoli combinati di Microsoft, Hewlett-Packard, Dell, Yahoo e Nokia. Ancora: chi avesse comprato 100 titoli Apple al prez-zo di collocamento di 22 dollari l’uno oltre trent’anni or sono spendendo 2.200 dollari, avrebbe in tasca, considerati gli split azionari, 800 titoli per oltre trecentomila dollari.

Un’eredità, quella lasciata da Jobs, certo molto pesante e ancora tutta da scoprire, sul fronte delle performance tra gli investitori oltre che tra i consumatori, per la nuova squadra di vertice di Apple, capitanata dal luogotenente di lungo corso di Jobs, il 50en-ne Tim Cook. Una squadra che ha convinto finora analisti e azionisti, come evidenziato dalla sostenziale tenuta del titolo nelle im-mediate ore dopo l’annuncio del decesso di Jobs, quando ha ceduto meno dell’1% per tor-nare in seguito anche a salire. Ma che rimarrà orfana delle qualità evocate dai suoi tanti so-prannomi che giravano sui parterre come sui palcoscenici usati per svelare le innovazioni:

Primatistain Borsa,più solidodelle «bolle»di Marco Valsania

AI VERTICI DI WALL STREET

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il Mago, il Guru, il Genio, con la riconoscibile “divisa” fatta di maglioncino nero, jeans e scarpe da ginnastica e la fama di maniaca attenzione al dettaglio, l’identità all’incrocio tra arti liberali e hi-tech, la passione per il rischio e le scommesse visionarie sul futuro. Molte grandi aziende che hanno fatto la sto-ria della Corporate America e di Wall Street, pur quando vi sono riuscite, hanno faticato a emergere dall’ombra di leader carismatici una volta venuti a mancare, da Walt Disney a Ibm e a Wal Mart. E l’informatica e l’elettro-nica di largo consumo, in particolare, sono considerati terreni di frontiera e di conquista, che richiedono veloce innovazione, nuove idee ogni due o tre anni. A Wall Street c’è così chi considera il titolo sottovalutato a multipli prezzi/utili attesi nel 2011 di circa 13, simile alla media dell’insieme del mercato (11,5). E considerando continui pronostici di forti uti-li, in crescita forse di oltre l’80% quest’anno, grazie al suo “magazzino” di prodotti non mancano target di prezzo oltre i 500 dollari (gli analisti di Canaccord Genuity). C’è però anche chi crede che alla lunga l’assenza di Jobs, del suo contributo “intangibile” di vi-sione e passione, si farà sentire sulle stesse quotazioni (gli esperti di Oppenheimer).

La saga borsistica di Apple, nata nel ga-rage di famiglia nel 1976 a Cupertino in Ca-lifornia, è tuttavia già entrata di diritto nella

leggenda. Ha i suoi albori con l’initial public offering del dicembre 1980, sull’onda del pri-mo personal computer di successo. Un collo-camento che vide l’azienda e il suo marchio ispirato alla omonima etichetta discografica dei Beatles immediatamente valutati oltre un miliardo di dollari, un’operazione record dallo sbarco in Borsa di Ford nel 1956. Il titolo si impennò del 31% fin dal primo giorno di contrattazioni e Jobs potè unirsi ai ranghi dei multimilionari istantanei. Due anni dopo, nel 1982, Apple entra nell’indice Standard & Po-or’s 500 che raggruppa le principali aziende americane. E l’anno dopo il titolo è in rialzo del 185% dall’Ipo.

Ma gli anni più bui, per Apple, sono dietro l’angolo. Una crisi generalizzata nel settore e passi falsi su nuovi computer nel 1984 in-deboliscono la leadership autoritaria di Jobs, che viene estromesso. Per Apple è il declino, nel business e in Borsa: l’azienda sfiora la bancarotta e nel 1996, in un tentativo quasi disperato di salvarsi, riapre le porte al co-fondatore. Il riscatto non è automatico: a dicembre del 1997 il titolo langue vicino ai tre dollari. Jobs, reduce dalle avventure di Next e Pixar che lo hanno ricaricato, non tarda però a scuotere e a ridare lustro al gruppo, riorganizzando e innovando drasticamente i prodotti. I primi nuovi computer iMac ar-rivano nel 1998. Nel Duemila Apple risente dell’esplosione della bolla hi-tech, che fa ca-dere le sue azioni, ma sopravvive e nel 2001 arriva l’iPod. La prudenza degli investitori tiene ancora il titolo a 6 dollari nel 2003, poi con il moltiplicarsi dei successi parte definti-vamente la corsa a Wall Street.

L’impero creato da Jobs e sotto gli occhi degli azionisti oggi conta su 317 negozi al mondo, 46.600 dipendenti a tempo pieno, un fatturato annuale da 65,23 miliardi di dollari (contro i circa sette al momento del ritorno di Jobs in azienda e i sei miliardi del 1999). I prezzi azionari, da allora, si sono moltiplicati a ritmi anche più rapidi: dai tre dollari del 1997 ai oltre 380 di adesso. Forse un tributo a modo suo, da parte di una finanza e di borse spesso considerate ciniche per definizione, a chi ha saputo suscitare l’ammirazione anche del rivale di sempre nel business, Bill Gates. «E’ raro _ ha scritto il fondatore di Microsoft _ che il mondo veda qualcuno capace dell’im-patto profondo che Steve ha avuto».

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iTeam, l’ultima sfida del «capo»di Luca De Biase

LA STAFFETTA

E ora? Perché il successo continui, occor-re che l’iTeam – la squadra che prende-rà il posto di Steve Jobs alla guida della Apple – sia stato progettato dal capo in modo che chi gli succede sia grande. Anche senza di lui.

Certo, non sarà facile. Basta guardare i re-centi terremoti nell’industria digitale. Il mer-cato di Borsa ne approfitta per risentirne. Ebbene, tutto quello che è successo, dall’ac-quisto della divisione telefoni cellulari della Motorola da parte di Google al sostanziale abbandono di Palm da parte della Hp, appare come la conseguenza delle innovazioni fonda-mentali prodotte dalla Apple guidata da Jobs. È la sua leadership culturale, più ancora che la sua produzione, ad aver cambiato il desti-no dell’industria musicale, con l’introduzione del sistema iPod-iTunes, della telefonia, con l’iPhone-AppStore, e della fruizione quotidia-na della rete, con l’iPad. Google e Hp sembra-no rispondere, non fare la partita. E pensando

alle condizioni disastrose in cui si trovava la Apple quando Jobs è tornato, come pensando ai successi incredibili che ha ottenuto nei qua-si tre lustri successivi, il mondo da anni si do-manda che cosa sarà della Apple dopo la fatale partenza del suo leader. Ed è per questo che la successione è destinata a essere il capolavoro o il fallimento di Jobs.

Sapendo quanto maniacale sia sempre stato Jobs nella cura dei dettagli, anche l’iTeam che lascia al suo posto deve essere stato prepa-rato con attenzione. Tim Cook è da anni il suo braccio destro. È l’uomo che è riuscito a rendere possibile l’impossibile: fare prodotti di massima qualità con costi ridotti all’osso, senza rinunciare alle componenti più ricche. Cook dice sempre: «Il magazzino è il male». Jobs lo ha spesso ripetuto: è Cook che ha con-sentito alla Apple di essere unica nei prodotti e di rispondere alle esigenze del mercato senza inefficienze, per arrivare a una profittabilità straordinaria: i computer, i telefoni, i lettori di

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Jobs lo ha ripetuto più volte: è Tim Cook che ha consentito ad Apple di essere unica Anche nel cinema Lo staff di Pixar Animation

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musica, alla Apple, non sono commodity. So-no oggetti unici fatti in serie. Prima di Cook, la Apple non riusciva mai a sincronizzarsi con la domanda del mercato. Con Cook ce l’ha fatta perfettamente.

Per questo, l’esigentissimo, essenziale, ele-gante designer Jonathan Ive ha potuto scri-vere pagine decisive nella progettazione degli oggetti digitali. E Ive resta l’altro caposaldo dell’iTeam, cui tutti guardano per la continuità del messaggio identitario fondamentale dei prodotti della Mela. È per questo, probabil-mente, che Philip Shiller resta al suo posto di capo del marketing: «Lo sapete che cosa succede quando un’azienda ha innovato così tanto che è l’unica a fare i prodotti che fa? Che cominciano a comandare i capi delle vendite. Gli uomini di prodotto ne soffrono. Ma questo significa che quando quei prodotti saranno superati l’azienda non avrà più innovatori al suo interno». Così parlò Steve Jobs, nel 2004, quando stava già pensando alla successione.

Shiller aveva preso il posto di Jobs, in passato, quando si trattava di parlare in pubblico dei nuovi prodotti. Ma era Cook a essere nomi-nato per prendere il posto di Jobs durante i suoi periodi di assenza: perché i prodotti della Apple non sono il modo in cui vengono rac-contati. Sono il risultato di un’intera filosofia aziendale. Che interpreta l’esigenza del pub-blico offrendo qualcosa che il pubblico non sapeva di poter desiderare, definendo così il percorso dell’innovazione.

Il prodotto di successo, alla Apple, non è il colpo di genio di un inventore: è il risultato di un metodo. Che diventa identità aziendale.

Quel metodo e quell’identità sono i binari sui quali Jobs lascia la sua squadra. Perché siano grandi, i suoi successori dovranno interpreta-re il loro compito senza timidezza. Ma con la stessa fiducia di poter cambiare il mondo e la stessa maniacale attenzione. Se l’iTeam saprà superare il suo fondatore, il suo fondatore avrà superato se stesso.

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Quella volta che incontrai Tim Cookdi Antonio Dini

L’EREDE

Averlo saputo che sarebbe diventato lui l’erede di Steve Jobs, gli si sarebbero potute chiedere molte più cose. An-che se non avrebbe risposto lo stesso. Infatti, Tim Cook non è solo un sor-prendente outsider arrivato alla gui-

da dell’azienda americana più capitalizzata al mondo, ma soprattutto uno che non si lascia andare a confidenze e, se può, non si farebbe neanche vedere.

Cosa che gli è riuscita molto bene per anni. Infatti, le poche volte negli anni che l’attuale Ceo di Apple è stato raggiungibile a margine di un evento organizzato dall’azienda della Mela morsicata, fosse questo a San Francisco, a Cu-pertino o a Parigi (dove si teneva sino a pochi anni fa l’edizione europea del Macworld) c’è stata solo l’occasione di avvicinarsi, salutarlo e scambiare due frasi di circostanza.

Nessun commento, nessuna apertura, so-lo correttezza, cortesia e tanti no-comment. Questo non basta certo per capire che tipo di manager sia Tim Cook. Per riuscirci, bisogna guardare alla sua vita e alle cariche accumula-te nel corso degli anni: Cook nasce da una fa-miglia umile del sud povero degli Usa, l’Alaba-

ma. Figlio di una casalinga e di un operaio dei cantieri navali di Tillmans Corner, si laurea in ingegneria nel 1982, a 22 anni, e sei anni dopo ottiene il suo Mba in business e management. La sua carriera prima di Apple è dedicata a Ibm (ben 12 anni) e, per un breve periodo, a Compaq, per i quali svolge ruoli operativi: la gestione strategica dei magazzini, il disegno della supply chain, la gestione dei rapporti con i fornitori e i partner. Qui impara a gestire anche un’azienda nelle sue fasi più operative e proprio per questo Steve Jobs lo vuole perso-nalmente: siamo alla fine degli anni Novanta e l’obiettivo è salvare un gigante moribondo.

Apple, sconfitta da Microsoft e dalla concor-renza del Pc, era all’epoca una grande azienda sull’orlo della chiusura, con bilanci in rosso, deficit operativi, debiti e soprattutto con una costante emorragia di denaro che deriva dalle attività produttive in California e dall’enorme magazzino in cui erano fermi 3 miliardi di dollari di apparecchiature.

Cook in due anni, assieme al direttore finan-ziario dell’azienda, riesce a ribaltare la situa-zione: le fabbriche vengono chiuse e spostate in Asia, dove Cook si costruisce una ricca rete

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Nasce in una famiglia umile nel sud povero degli Usa, rimane per anni dietro le quinte, appassionato di fitness e lavoratore anche nei weekend

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Tim CookL’erede del fondatore è salito alla ribalta il 25 agosto 2011

di rapporti personali con i grandi terzisti del mercato, a partire dalla taiwanese Foxconn e dal suo discusso boss, Terry Gou. Riesce a fare il tutto senza bloccare la produzione, e contemporaneamente ricostruisce la rete dei fornitori e il sistema di distribuzione, riuscen-do a ridurre il valore dei beni immobilizzati in magazzino a poche decine di milioni di dollari e a far partire una delle rivoluzioni strategiche per Apple: la produzione just in time, che si sposa anche con uno dei più grandi siti di ecommerce messo in piedi negli Usa alla fine degli anni Novanta, assieme a quello di Dell.

È Tim Cook che insiste per usare come “mo-tore” informatico il software di pianificazione delle risorse aziendali della tedesca Sap (che tutt’ora fa da base software interna a tutte le attività di Apple, compreso l’iTunes store) an-ziché quello della Oracle dell’amico personale e grande alleato di Steve Jobs, Larry Ellison.

Cook rimane dietro le quinte, lavora dura-mente nel suo ruolo decennale di Chief ope-ration officer, e infatti della sua vita personale non si sa niente, solo che è appassionato di fit-ness e che è un lavoratore indefesso, famoso per non fermarsi neanche nei fine settimana

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Il più silenzioso

e serio dei vertici

Apple ha definito la sua vita

«il più improbabile

dei viaggi»

e per organizzare meeting telefonici prestissi-mo la mattina (anche alle 4). Anche lui, come Steve Jobs e Bill Gates, ha rivelato parte della sua personalità durante un discorso inagu-ruale per le lauree degli stutenti universitari. È accaduto nella primavera del 2010 all’uni-versità di Auburn, in Alabama, la sua alma mater. Il suo è un discorso di responsabilità, di sacrifici fatti dai suoi genitori e del fatto che Apple e Steve Jobs hanno avuto fiducia in lui dandogli la possibilità di lavorare duramente per ottenere grandi risultati, definendo la sua vita “il più improbabile dei viaggi”.

Nel 2004 e poi di nuovo nel 2008 e nel 2009 Tim Cook viene scelto dal consiglio di ammi-nistrazione per sostituire Steve Jobs durante i suoi tre congedi per motivi di salute, fino alla lettera dello scorso agosto che annuncia le definitive dimissioni di Jobs e il suo invito al consiglio di amministrazione a seguire il pia-no concordato e dare l’azienda in mano a Tim Cook. Il consiglio è d’accordo, Jobs si ritira a finire assieme al giornalista Walter Isacsson la sua biografia che uscirà il 21 novembre anche in Italia e l’azienda passa a Cook.

In pochi giorni la transizione è fatta e Tim Cook diventa nuovo capo supremo il dirigente più silenzioso e più serio nel vertice dell’azien-da in cui pesano da tempo le forti personalità soprattutto di Phil Schiller (estroverso capo mondiale del marketing e finora front-man sul palco quando Steve Jobs non ha potuto tenere i suoi famosi keynote) e di Scott Forstall (bril-lante giovane pupillo di Jobs, nonché capo delle operazioni relative al futuro dell’azienda, cioè iPhone e iPad). Cook vede così ripagato il suo impegno costante e indefesso, la sua capacità di lavorare a una velocità che alcuni suoi ex colleghi giudicano “quasi sovrumana”.

Con la stampa Cook non ama avere incontri informali e chiacchierare: anche quando l’ho approcciato a Parigi nel 2003 e ancora a San Francisco in altre due occasioni, sempre a margine di eventi organizzati dalla Apple con Steve Jobs come stella, lui ha mantenuto sempre un cortese distacco, scoraggiando con gentilezza ma fermezza qualsiasi do-manda. Fedele al capo, se c’è Steve Jobs ha sempre lasciato che fosse lui a parlare con la stampa e a stare nel centro del palcoscenico. Una fedeltà, unita alle indubbie capacità, che adesso ha pagato Cook più che per chiunque altro dentro Apple.

Gesti digitaliCon l’iPad è nato un nuovo modo di interagire con immagini e testi

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Jonathan IveFigura chiave della rinascita Apple, Cupertino 2008

Jonathan Ive,il design di Appledi Luca Dello Iacovo

IL MOTORE CREATIVO

Jonathan Ive, ecco chi è l’erede visionario di Jobs nel design di Apple «Fare qualco-sa che sembra come se non fosse stata disegnato, perché è inevitabile»: è una riflessione di Jonathan Ive, vicepresi-dente per il design industriale di Apple.

Che raccoglie l’eredità visionaria di Steve Jobs. Hanno lavorato insieme fianco a fianco ne-gli ultimi quindici anni. Ma finora il motore creativo dell’eleganza di iPhone, iPad e altri gioielli non è mai arrivato sul palcoscenico.

Preferisce impegnarsi con discrezione in un piccolo gruppo che sperimenta le idee attra-verso iterazioni continue su pochi progetti. Prova e riprova fino a trovare qualcosa che sia «inevitabile». Segue i dieci principi di Dieter Rams, capo del design alla Braun, ispirato dal funzionalismo mitteleuropeo: l’attenzione ri-cade, per esempio, su semplicità, sostenibilità, capacità di dare spazio all’espressività delle persone senza limitarla.

Jonathan Ive, o “Jony”, è una figura chiave nella rinascita di Apple a partire dalla fine degli anni Novanta con iMac. È un inglese e allievo prodigio fin dall’università quando i suoi amici parlano di “jony-ness”: qualcosa in più capace di esprimere le emozioni in un oggetto. Sarà un talento che emergerà, per esempio, con ipod che per primo introduce una rotellina dove gestire i brani musicali. Conclusi gli studi all’università Northumbria fonda una sua società, la Tangerine. Poi arriva alla Apple nel 1992 dopo una consulenza. Uno dei suoi primi lavori è stato il Newton: non ha successo sul mercato, ma è un prototipo di quello che sarebbe diventato iPad. Quando Steve Jobs ritorna nell’azienda di Cupertino inizia una svolta. Arriva iMac: per assicurarsi che all’esterno appaia brillante il designer inglese visita una fabbrica di caramelle dove analizza gli effetti della lucentezza. Con ipod la scommessa si sposta sulla musica e con iPhone sulla telefonia mobile e sul computing attraverso l’introduzione sul mercato di massa del display sensibile al tatto. E l’innovazione continua alimenta la corsa di Apple nei mer-cati attraverso un ecosistema integrato di sof-tware e hardware inseguito dai rivali.

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NEL MONDOGli amici, i rivali, le vittorie e le sconfitte dell’uomo di Cupertino

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Antologia di Tweeta cura di Luca Dello Iacovo

HANNO DETTO DI LUI

Steve, grazie per essere stato una guida e un amico. Grazie per aver mostrato di poter cambiare il mondo con ciò che costruisci. Mi mancherai.Mark ZuckerbergFacebook

Sembrava sempre essere capace di dire in pochissime parole cosa avresti dovuto pensare prima che lo pensassi. La sua attenzione alla user experience è sempre stata un’ispirazione per me.Larry Page, amministratore delegato di Google

Convinco la famiglia a concludere la cena nonostante le tristi notizie.Steve Wozniakcofondatore di Apple

È stato un onore davvero straordinario per coloro che sono stati abbastanza fortunati da lavorare con Steve. Mi mancherà immensamente.Bill Gates, fondatore di Microsoft

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NEL MONDO

Hai vissuto, hai davvero vissuto.Mike Arrington, blogger di Uncrunched e imprenditore.

Le mie condoglianze alla famiglia di Steve Jobs e agli amici. Abbiamo perso un unico pioniere delle tecnologie e un autore che sapeva come fare prodotti incredibil- mente affasci- nanti.Paul Allen, cofondatore di Microsoft

Oggi abbiamo perso un leader visionario, l’industria tecnologica ha perso una leggenda iconica e io ho perso un amico.Michael Dell, fondatore di Dell

Accade raramente che qualcuno non soltanto sollevi gli standard, ma che crei un modo completamente nuovo di misurare gli standard.Dick Costolo, ad di Twitter

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«Vuoi vendere per il resto della tua vita acqua zuccherata o vuoi cambiare il mondo?»: quando Steve Jobs, fondatore di Apple, pronuncia queste parole ha di fronte l’amministratore delegato

di Pepsi, John Sculley. È il 1983 e Sculley non ha molti dubbi nel rispondere: può varcare la soglia di un gruppo che allora era un astro nascente dei microcomputer entrati per la prima volta in massa negli uffici e nelle abi-tazioni. Ma in poco tempo inizia il braccio di ferro: l’uomo che non vuole vendere acqua zuccherata dirà di non sopportare il caos creativo nell’azienda. E convince il consiglio di amministrazione ad allontanare Jobs. Non si tratta di un’impresa facile: è già una ce-lebrità nella California dell’industria hitech. Nel 1985, però, mette alla porta Jobs con un licenziamento che diventerà leggenda-rio: ritornerà undici anni dopo per salvare Apple sull’orlo della crisi. Di recente Sculley ha criticato la sua decisione di allora e ha confessato una profonda ammirazione per il fondatore dell’azienda di Cupertino.

Vita da antagonistaEppure Steve Jobs ha incontrato più volte

sulla sua strada altri talenti con cui ha co-struito rapporti di antagonismo. Ai confini tra l’amicizia e la rivalità. Come con Bill Gates alla fine degli anni Settanta, quando il fondatore di Microsoft era un talento dell’informatica che aveva iniziato a mettere insieme i tasselli del suo colosso. Gates collabora con Apple sul-lo sviluppo software: è un periodo di intensi scambi e pacche sulle spalle. Ma non dura a lungo. Le relazioni diventano burrascose. Sarà proprio il rivale, però, a sostenere il rilancio del gruppo di Cupertino alla fine degli anni Novanta. E i due si sono ritrovati sul palco un anno fa per una storica intervista insieme. Che sigilla la pace dopo trent’anni.

Larry Page è l’amministratore delegato di Google. Dopo la scomparsa di Jobs ha scrit-to un messaggio di ammirazione: «Era un grande uomo con capacità incredibili e una brillantezza coinvolgente. Sembrava sempre essere capace di dire in pochissime parole cosa avresti dovuto pensare prima che lo pensassi. La sua attenzione alla user expe-

Microsoft,Google e Samsung, le sfide nel nome dell’innovazione

di Luca Dello Iacovo

GLI SCONTRI

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NEL MONDO

Vuoi vendereper il restodella tua vitaacqua zuccherata o vuoi cambiareil mondo? Steve Jobs a John Sculley, ad Pepsi, 1983

rience è sempre stata un’ispirazione per me». Ma la competizione con Apple ha radici lon-

tane. Anche i due fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, vengono dall’università di Stanford che per Jobs è stata un punto di riferimento: nel campus dell’ateneo ha se-guito un corso di calligrafia dove ha trovato intuizioni per unire creatività e tecnologia. Il lancio di iPhone e iPad ha intensificato la gara per inseguire le frontiere dell’innovazio-ne. Google ha un sistema operativo, Android, per cellulari e tablet: è una porta di accesso al suo ecosistema che include motore di ricerca, posta elettronica, video, documenti. Con l’ac-quisizione di Motorola la scorsa estate può colmare il divario con Apple nell’integrazione dell’hardware attraverso la produzione di smartphone, tablet e apparecchi per la te-levisione connessa a internet (set-top-box). Sembra che abbia guadagnato terreno. Ma Apple con l’ultimo iPhone 4S sposta l’asticel-la in avanti, oltre l’hardware: la piattaforma software Siri è in grado di elaborare le do-mande a voce degli utenti e rispondere di conseguenza. Diventa un primo passo verso l’intelligenza artificiale a portata di mano.

scontro legaleL’altro braccio di ferro che ha impegnato

Jobs negli ultimi anni è stato con Samsung: il colosso coreano contribuisce alla fabbri-cazione di iPhone e iPad, ma la rivalità sui mercati è aumentata fino a raggiungere il picco dopo l’ultima primavera. Apple ha de-nunciato il gruppo di Seul per violazione dei suoi brevetti negli Stati Uniti e in Europa: sostiene che il Galaxy Tab 10.1 sia troppo si-mile a iPad. E Samsung ha risposto con una battaglia legale negli Usa per infrazione sulla proprietà intellettuale di alcune tecnologie per le telecomunicazioni. In Germania e in Olanda, invece, il colosso dell’Estremo Orien-te ha subìto la sospensione della vendita del tablet in attesa di una sentenza definitiva. Alla notizia della scomparsa di Jobs è arrivato un messaggio di condoglianze da Seul.

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Amici nemici da sempre, concorrenti, colleghi. Non si può avere un’imma-gine completa di Steve Jobs senza ricordare l’intreccio che ha avuto nella sua vita o almeno in 30 anni della sua vita, con Bill Gates. E’ un intreccio

rocambolesco. Con ruoli invertiti più volte. E con un percorso competitivo che alla fine vede emergere su Gates in modo chiarissimo, dal punto di vista della creatività degli affari, della duttilità, della capacità di diversificazione Ste-ve Jobs. Ieri alla sua morte, la Apple Computer capitalizzava quasi 350 miliardi di dollari. La Microsoft circa 220 miliardi. Ma non molti anni fa, la Microsoft era arrivata addirittura a quasi 600 miliardi di dollari nel periodo in cui la Apple ne valeva forse 5. La forbice nelle due direzioni è pari a quasi 700 miliardi di dollari.

L’ultima volta che visto Steve Jobs e Bill Gates insieme, a parlare, a dibattere, a scherzare è stato quattro anni fa, a Carlsbad in California, poco a Nord di Los Angeles dove Walt Mos-sberg era riuscito a convincerli ad apparire

insieme nel suo straordinario convegno All Things Digital, organizzato dal Wall Street Journal. E’ stato un momento storico per la storia del comparto digitale. Un vero e proprio “heart to heart”. Parto da li’ per raccontare l’intreccio di un rapporto fra due uomini che hanno cambiato il mondo, che sono nati tutti e due nel 1955, a pochi mesi di distanza, tutti e due della West Coast,, tutti e due della nuova frontiera di estrazioni diverse, adottato da una famiglia modesta Steve Jobs, cresciuto in una famiglia benestate Bill Gates. Destini paralleli e incrociati i loro, tutti e due fuggiti dall’univer-sità per seguire il loro sogno americano, tutti e due determinati, tutti e due miliardari. Un con-fronto a distanza che nasce nel 1983 in questo video storico anche lui che vede Steve Jobs già affermato con il Macintosh e Bill Gates ragaz-zino, magrino, in pullover che sta cercando di emergere con la sua Microsoft che, guarda caso realizza una piattaforme utile al computer Ma-cintosh. Quel video comincia cosi’: «Benvenuti al Macintosh Sfotware Dating game». Come fosse un quiz televisivo. Steve Jobs è il presen-

Steve e Bill, eterni rivali (ma con stima)

di Mario Platero

IL CONFRONTO

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NEL MONDO

Tu ed io abbiamo ricordi più lontani di quella strada che si allunga davanti a noi Two of us Beatles, 1970

tatore, è giovanissimo è il 1983 Frank Gibbons della Software Publishing Corporation, Mitch Kapor presidente di Lotus, annuncia un nuo-vo prodotto il “One two three”. Il terzo è Bill Gates: “Hi” sono Bill Gates, il Presidente di Mi-crosoft e nel 1984 ci aspettiamo che il 50% del nostro fatturato verrà da software Macintosh”. Guardate il video perché Gates dimostra 15 anni. E Steve è in charge. E lui il capo, il guru, il protagonista indiscusso del settore.

I CAMBIAMENTIPoi come sempre capita negli affari, le cose

cambiano. Già nel 1985 Jobs lascia anche per un pezzetto il ponte di comando di Apple. Ri-cordo che andai a intervistare il suo successo-re, John Sculley, era un manager preppy. Veni-va dalla Pepsi Cola, dove poteva diventare capo azienda. Jobs messo da parte, fonda la Next. In quell’epoca passava da New York Romano Prodi, che, come sapete, è un grande esperto di politiche industriali: «In genere - mi disse - un imprenditore di grido che deve ricominciare da capo non ripete gli stessi successi del passato. Sono curioso come andrà a finire».

Poi Sculley se ne andò e Jobs tornò alla Apple che vivacchiava. Oggi Romano Prodi, da politi-co industriale, ha la sua risposta. Jobs non solo ha ripetuto, ma ha poi superato i successi del passato. Andiamo al 2000: il titolo Microsoft capitalizza 556 miliardi di dollari. Quello di Ap-ple 15 miliardi di dollari. Il mito è Gates, l’uomo più ricco del mondo. Poi i valori di nuovo si in-vertono. Steve Ballmer scelto come successore da Gates, non ha un buon record. Il sorpasso avviene durante la sua gestione. Ballmer mini-mizza: «Mi importa poco…», dice. Non è vero. Gliene importa eccome. Allora, parliamo del 2006/2007 il percorso per Apple sembrava in discesa. Quello per Microsoft in salita. La diffe-renza? Gates ha cercato diversificazione senza ancora riuscirci. Jobs l’ha trovata nei prodotti al consumo: nel 2007 fa cadere dal marchio Ap-ple “computer”. Resta solo Apple. E Microsoft? La rivalità continua. Ma i soldi e le acquisizioni di Microsoft da sole non bastano per crescere.

Sul palco Steve Jobs e Bill Gates durante la conferenza All Think Digital nel 2007

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INCONTRO SCONTROE’ in questo contesto che avviene l’incontro

scontro fra i due. L’ingresso, l’applauso, i fischi di incoraggiamento, l’isterismo sono di quelli che in genere vanno alle stelle del rock. Invece vanno a Steve e Bill ormai personaggi mitolo-gici dell’era dell’informazione, pronti a dibat-tere sul loro passato, sul futuro del settore, su cosa possono dirsi per risolvere qualche vec-chio rancore. L’eccitazione è reale. Anche per-ché nessuno in sala si ricordava di averli visti insieme su un palco quei due, come è successo ieri. A parte un fugace incontro al Macworld di Boston nel 1997 - i due non si confrontavano in pubblico da 24 anni.

E dunque qui a Carlsbad - dove si tiene il quinto ritiro di “D: All Things Digital” organiz-zato da Walt Mossberg e Kara Swisher, del Wall Street Journal - si è fatta la storia. Se poi ag-giungiamo al duetto George Lucas e la cornice di una ricorrenza, i conti tornano: sono passati trent’anni esatti dal lancio del primo Apple Computer e dal primo episodio di «Star Wars». E per un momento, ma solo per un momento, ripensando ai giovani rivoluzionari del 1977, in sala scende un velo di nostalgia per un’epoca pioneristica irripetibile, quando si muovevano i primi passi verso una rivoluzione tecnologica che avrebbe cambiato il mondo.

E che i giovani Jobs e Gates avessero il piglio dei rivoluzionari, lo dice il filmato di cui vi ho parlato sopra, il concorso a premi di cui Steve è giudice assoluto, deve scegliere il vincitore del quiz, dedicato a chi ha lavorato meglio per la Apple, ma chiude con un nulla di fatto e una battuta: «Apples are red, Ibm is blue I need all of you» («le Mele sono rosse, Ibm è blu, ho bisogno di voi tutti»). E se da allora i

pc della Ibm sono stati venduti ai cinesi e Lo-tus 1,2,3 non esiste più, i vecchi leoni restano superattivi: Kapor, fra le altre cose, ha lanciato Mozilla. Steve Jobs dopo la rinascita dei suoi Mac e il successo epocale dell’Ipod, sta per lanciare l’iPhone, prodotto rivoluzionario «del post-pc», come dice lui stesso, e con tecnolo-gia, «avanti di almeno cinque anni rispetti al concorrente più vicino». Gates invece spazia dall’alto di Microsoft, ormai più preoccupato di contenere Google e Yahoo che i Mac del suo vecchio amico-nemico Jobs: qualche giorno fa ha speso sei miliardi di dollari per acquistare Aquantis, azienda specializzata in pubblicità via internet. L’ipad deve ancora venire. Ed è già chiaro che Gates adesso è piu’ in difficoltà. Dai tempi in cui investi’ 150 milioni di dollari nella Apple quando Steve torno’ sul ponte di coman-do. Le cose sono di nuovo molto cambiate.

LA VERITà DEL BUSINESSL’interazione tra i due è simpatica, a tratti

affettuosa, mai ostile come qualcuno si aspet-tava. «Non siamo più i giovani nella stanza - dice Jobs - ma abbiamo ancora la passione per andare tutte le mattine al lavoro e fare qualcosa di nuovo». Insieme Jobs e Gates fan-no una riflessione: hanno potuto fare quello che hanno fatto anche grazie a un periodo di straordinaria stabilità sul piano politico: «Il settore ha passato e continua a passare un momento d’oro» dice Jobs e Gates aggiunge: «Per il futuro immediato, da qui a 5 anni, il pc resterà centrale: per scrivere, per voce e dati, per l’inchiostro». Ed ecco uno dei messaggi più forti di Gates e Jobs che emerge da questo ritiro californiano, un messaggio che deve farci ri-flettere in questa era di crescita di un’economia finanziaria lontana dagli impegni industriali di lungo periodo. «Il nostro ambiente in generale è molto sano perché è permeato da giovani che vogliono costruire aziende per tenerle, non per rivenderle subito al migliore offerente» dice Jobs. «Per noi conta la continuità della crescita aziendale» aggiunge Gates. Tutti Entrambi dicono una verità universale e assoluta. E sappiamo di poter credere a entrambi: la mo-tivazione non era mai stata nei soldi, ma nella passione del lavoro. «Mi manca l’emozione di quei giorni, mi mancano i viaggi da Seattle a Cupertino» dice ancora Gates.

«Se ho un rimpianto è quello di essere stato più chiuso di Microsoft come mentalità azien-

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NEL MONDO

dale e questo lo abbiamo pagato, ma preferisco solo guardare avanti» dice Jobs. Oggi il quadro è ben diverso. La potenza dei pc è centuplicata. E Jobs e Gates nel 2007 si trovano d’accordo sulle sfide che attendono loro stessi e il settore nei prossimi anni. Ci saranno dei cambiamenti epocali: i nuovi sviluppi saranno trainati dal social networking su internet. Sarà possibile ricostruire l’interazione degli utenti e da lì ricavare modelli di navigazione, di preferen-ze che avranno ricadute immediate sui due elementi chiave per aumentare il fatturato su internet: la pubblicità e la vendita di prodotti mirati, di fatto consegnati al consumatore per soddisfare un suo bisogno magari inconscio. Sul piano operativo, si arriverà a una inte-grazione completa di operatori di software e hardware. Microsoft in particolare non potrà più limitarsi soltanto al software, ma dovrà potenziare la sua presenza nella produzione di “oggetti” per il consumo, uno di questi, che sarà lanciato a settembre è un tavolo con uno schermo piatto su cui è possibile interagire. Il terzo sviluppo riguarderà il conflitto eterno per affermarsi come volano per la gestione delle piattaforme. Vincerà la nuvola - come di-ce Gates riferendosi a internet - o il cliente (il pc)? E che ruolo avranno i nuovi strumenti “da tasca”? Jobs è certo che telefonini, i-Pod, por-tatile, microcomputer cresceranno. Ma anche lui come Gates aggiunge: «Più volte si è scritto il certificato di morte dei pc, ma, alla fine sono straordinariamente resistenti, difficilmente sostituibili». «E migliorabili» aggiunge Gates.

Poi con l’iPad ha sentenziato la fine del PC, almeno come lo conosciamo ora.

IL LEGAMEMa l’appuntamento non è solo di affari. Nel

dialogo, scopriamo il rapporto profondo che lega questi due signori dell’era moderna. Jobs riconosce a Gates il merito storico di aver capi-to l’importanza del software, di essere stato il primo vero creatore di una software company quando tutti pensavano soltanto al hardwa-re: «Se oggi abbiamo vinto la sfida contro i giapponesi nel loro terreno quello della mu-sica - dice Jobs - è perché loro facevano solo hardware, noi facevamo molto più software e alla fine è il software che vince. E gli rivolge parole affettuose ricordando la sua incredibile donazione in beneficenza: «Bill ha fatto una cosa straordinaria, non sarà l’uomo più ricco del cimitero. Ha dimostrato che il lavoro è più importante della ricchezza. Se penso al nostro rapporto mi viene in mente un verso di una canzone dei Beatles, “The two of us”» E lo cita a memoria: «Tu ed io abbiamo ricor-di più lontani di quella strada che si allunga davanti a noi». E la dote più importante di Jobs, secondo Gates? «Quella di aver avuto sempre l’istinto per l’eleganza e per il pro-dotto, anche nello stile di giudizio. Vederlo decidere con naturalezza è uno spettacolo». E poi aggiunge parlando di se: «Io preferisco essere ricordato semplicemente per il sof-tware. Nella mia vita sono stato un uomo di software». Il resto è contorno.

L’interazione tra i due è simpatica, a tratti affettuosa, mai ostile come qualcuno si aspettava

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voglio raccontarvi tre storie.Io non mi sono mai laureato. Perché? Perché

dopo sei mesi al costosissimo Reed College di Stanford non ero ancora riuscito a trovare un’utilità in quel che facevo. Non avevo alcuna idea di cosa volevo fare della vita e nemmeno di come il college avrebbe potuto aiutarmi a scoprirlo. Nel contempo stavo spendendo tutti i soldi che i miei genitori avevano risparmiato nel corso della loro esistenza. Presi quindi la decisione di ritirarmi dagli studi, fiducioso che me la sarei cavata comunque.

Una volta fuori, smisi di frequentare le lezioni obbligatorie, che non mi interessavano, per se-guire invece quelle che mi affascinavano. Non fu affatto facile. Non disponendo di una camera universitaria, dormivo per terra nelle stanze degli amici, raccoglievo le lattine di Coca-Cola vuote per recuperare i 5 centesimi di deposito con cui poi comprarmi da mangiare. E ogni do-menica sera facevo sette miglia a piedi attraver-so la città per raggiungere il tempio degli Hare Khrishna dove consumare almeno un pasto decente alla settimana.

Il messaggioagli studenti:«Stay young,stay foolish» di Steve Jobs

IL DISCORSO DI STANFORD

Nel luglio 2005, la Stanford University di Palo Alto ha conferito la laurea ad honorem al numero uno di Apple e Pixar. Pubblichiamo un ampio estratto dal discorso pronunciato durante la cerimonia, che Jobs ha intitolato «Stay young, stay foolish», rimanete giovani, rimanete folli.

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APPENDICE

Il Reed College, all’epoca, offriva forse la mi-glior formazione di tutto il Paese nell’arte della calligrafia. Poiché, essendomi ritirato dagli studi, non ero obbligato a seguire le lezioni “classiche”, decisi di frequentare un corso di calligrafia per imparare a scrivere bene. Imparai tutto quello che c’era da sapere sui caratteri tipografici, sulle iniziali e sulle terminali, su come debba variare lo spazio che intercorre tra una lettera e l’altra, su tutto quanto rende grande la buona tipografia.

Niente di tutto ciò aveva la benché minima spe-ranza di trovare un’applicazione pratica nella mia vita. Ma dieci anni dopo, mentre stavamo proget-tando il primo computer Macintosh, tutte le cose che avevo imparato seguendo quel corso mi sono tornate in mente. E sono finite nel progetto del Mac. Era il primo computer dotato di bei caratteri tipografici. Se non avessi frequentato quel corso al college, il Macintosh non avrebbe mai avuto tutti quegli ariosi caratteri tipografici. E poiché Windows non ha fatto altro che copiare il Mac, è probabile che nessun altro computer li avrebbe avuti. Se non avessi abbandonato gli studi non avrei mai frequentato il corso di calligrafia, e i personal computer non avrebbero mai avuto i bei caratteri che hanno.

Ancora una volta, quando si guarda avanti non si riescono a vedere le cose in maniera lineare; lo si può fare solo a posteriori. Per questa ragione voi dovete aver fiducia che in qualche modo in fu-turo quello che fate ora avrà un senso. Ma dovete credere in qualcosa: al vostro istinto, al vostro destino, alla vita, al karma, a quello che volete voi. È un’idea, questa, che non mi ha mai tradito e ha fatto tutta la differenza nella mia vita.

La seconda storia ha a che fare con l’amore e con la perdita. Io sono stato fortunato, nel senso che ho scoperto presto cosa mi piaceva fare. Woz, cioè Steve Wozniak, e io creammo la Apple nel garage dei miei genitori quando avevo solo vent’anni. Lavorammo come matti e in dieci anni la Apple passò da noi due che lavoravamo in garage a una società da due miliardi di dollari con oltre 4mila dipendenti. Neanche un anno prima avevamo appena lanciato la nostra migliore creazione - il Macintosh - e io avevo appena compiuto trent’an-ni. A quel punto, fui licenziato.

Come si può essere licenziati da una società che siete stati proprio voi a creare? Ebbene, quando la Apple si ingrandì, assumemmo un tizio che io pensavo avesse i numeri per dirigere la società assieme a me, e nel corso del primo anno o giù

di lì le cose filarono lisce. A un certo punto, però, la nostra visione del futuro iniziò a divergere e finimmo per litigare. Il consiglio si schierò dalla sua parte. Così, a trent’anni, fui sbattuto fuori.

Quel che era stato il centro di tutta la mia vita adulta era sparito. Sono rimasto alcuni mesi sen-za sapere cosa fare. Pensai persino di andarme-ne dalla Silicon Valley. Ma lentamente qualcosa iniziò a farsi strada in me: amavo ancora quello che facevo. Ero stato rifiutato, ma ero ancora in-namorato. E così decisi di ricominciare. All’epoca non me ne resi conto, ma in seguito capii che l’essere stato licenziato dalla Apple è stata la cosa migliore che poteva succedermi.

La pesantezza che si accompagnava al fatto di essere un uomo di successo era stata sostituita dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, molto meno sicuro di tutto. Grazie a ciò entrai in uno dei periodi più creativi della mia vita. Nei cinque anni che seguirono, creai una società chiamata NeXT, e un’altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna stupefacente che sareb-be diventata mia moglie. In seguito ci sono stati un sacco di capovolgimenti: la Apple ha comprato la NeXT, io sono tornato alla Apple, e la tecnolo-gia che avevamo sviluppato alla NeXT è oggi al centro della rinascita di Apple. Sono praticamente certo che niente di tutto ciò sarebbe successo se io non fossi stato licenziato dalla Apple. Non c’è dubbio che la medicina fu amara, ma immagino che il paziente ne avesse bisogno.

Talvolta la vita vi dà delle mattonate sulla testa. Ma non lasciatevi prendere dalla sfiducia. Sono

Talvolta la vitavi dà delle mattonatesulla testa, ma non lasciatevi prendere dalla sfiducia

Ad honoremGuarda il video del discorso di Stanford

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APPENDICE

convinto che l’unica cosa che mi ha permesso di tirare avanti è stato il fatto di amare quel che face-vo. Tocca a voi trovare quello che amate. E questo vale sia per il lavoro sia per le persone. Il lavoro che farete riempirà gran parte della vostra vita, e l’unico modo di sentirvi realizzati è fare quello che voi considerate un buon lavoro. E l’unico mo-do di fare un buon lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato, continuate a cercare.

La terza storia che sto per raccontarvi ha a che fare con la morte. Quando avevo diciassette anni, lessi una citazione che diceva pressappoco così: «Se vivrai ogni giorno come fosse l’ultimo, scoprirai sicuramente che non ti sei sbagliato». La frase mi fece molta impressione, e da allora ogni mattina mi guardo allo specchio e mi chie-do: «Se oggi fosse l’ultimo giorno della mia vita, mi andrebbe di fare quel che farò?». Quando la risposta è “no” per troppi giorni di fila, so che è necessario cambiare qualcosa.

Tenere a mente che morirò presto è il mez-zo migliore che ho trovato per aiutarmi nelle grandi scelte della vita. Perché quasi tutto perde valore davanti alla morte, e solo quello che resta al termine di una severa selezione è davvero importante. Ricordarsi che si muore è il modo migliore di evitare la trappola di pensare che si ha qualcosa da perdere.

Circa un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Alle 7,30 della mattina mi fecero una Tac, dalla quale si vedeva chiaramente che ave-vo un tumore al pancreas. Io, il pancreas, non sapevo nemmeno cosa fosse. I medici mi dissero che quasi sicuramente si trattava di un tipo di cancro incurabile, e che avrei avuto tra i tre e i

L’unico modo di sentirvi realizzati è fare quello che considerate un buon lavoro

sei mesi di vita. Il mio medico mi consigliò di an-dare a casa, di mettere ordine nei miei affari. È così che si comporta un medico quando prepara il paziente a morire. Il che significa cercare di dire in pochi mesi ai propri figli tutto quello che uno pensava di dire loro nei dieci anni a venire. Significa dire addio alle persone care.

Mi sono portato dietro questa diagnosi per tutta la giornata. In serata fui sottoposto a una biopsia. Mia moglie mi ha raccontato che ai medici, quando videro le cellule al microscopio, vennero le lacrime agli occhi poiché avevano scoperto che si trattava di una forma rarissima di tumore, curabile con un intervento chirurgi-co. Mi hanno operato e ora sto bene.

Non sono mai stato così vicino alla morte come quella volta, e spero proprio che sarà anche l’uni-ca per qualche decennio. Avendo vissuto un’espe-rienza del genere, ora sono in grado di parlarvi con più certezze di prima, di quando la morte era un concetto utile ma puramente intellettuale.

Nessuno vuole morire. Anche le persone che credono nel Paradiso non vogliono morire per andarci. E tuttavia la morte è la meta verso la quale ci dirigiamo tutti. Il vostro tempo è limitato, non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non vivete fidandovi dei risultati del pensiero di altri. Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e il vostro intuito. Sono loro che sanno davvero cosa volete diventare. Tutto il resto è secondario.

Quando ero giovane, esisteva una rivista incre-dibile dal titolo «The Whole Earth Catalog», che è stata una delle bibbie della mia generazione. Era stata creata non lontano da qui, a Menlo Park, da un tizio che si chiamava Stewart Brand. Era una sorta di Google di carta: era idealistica e straripa-va di lavoro ben fatto e di grandi idee. Stewart e il suo staff fecero uscire parecchi numeri di «The Whole Earth Catalog», ma poi la cosa fece il suo tempo, e si arrivò all’ultimo numero. Eravamo a metà degli anni Settanta e io avevo la vostra età.

Sul retro dell’ultimo numero c’era la fotografia di una strada di campagna di primo mattino, il genere di strada in cui ti vedi fare l’autostop. Sotto c’era scritto: «Non smettete di desiderare. Non abbiate paura di fare cose insensate». È stato il messaggio d’addio della redazione. Non smettete di desiderare. Non abbiate paura di fare cose in-sensate. È quello che ho sempre fatto io. E adesso, poiché voi siete all’inizio, vorrei che lo faceste voi. Non smettete di desiderare. Non abbiate paura di fare cose insensate.


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