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POLITECNICO DI TORINO Corso di Laurea in Ingegneria Biomedica Monografia di Laurea Artroprotesi totale d’anca, cause di fallimento e reimpianti. Relatori: Prof.ssa Enrica Vernè Dott. Alessandro Bistolfi Candidati: Andrea Ragazzi Antonino Romeo Ottobre 2013
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POLITECNICO DI TORINO

Corso di Laurea in Ingegneria Biomedica

Monografia di Laurea

Artroprotesi totale d’anca, cause di fallimento e reimpianti.

Relatori: Prof.ssa Enrica VernèDott. Alessandro Bistolfi

Candidati: Andrea Ragazzi Antonino Romeo

Ottobre 2013

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Introduzione 4

1. Anatomia e biomeccanica dell’anca 5

2. Patologie dell’articolazione 9

3. Artroprotesi d’anca: caratteristiche 17

4. Artroprotesi d’anca: materiali 22

5. Fallimento di una protesi d’anca 30

5.1 Rottura 35

5.2 Scollamento asettico 36

5.3 Usura 42

5.4 Scollamento settico 43

5.5 Instabilità 45

5.6 Migrazione 47

5.7 Squeaking 48

5.8 Fratture 48

6. I reimpianti 51

6.1 Innesti ossei 51

6.2 Perdite ossee 52

7. Strategie di prevenzione e riduzione dei fallimenti 55

Fonti delle immagini 56

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Introduzione

La presente monografia si configura come naturale conclusione della nostra esperienza di tirocinio, svoltasi presso l’Azienda Ospedaliera “CTO/Maria Adelaide” di Torino. Questa ha avuto come principale finalità quella di affiancare medici e specializzandi del Reparto di Ortopedia nel percorso che conduce un paziente dalla visita di consulto fino all’intervento, imparando a riconoscere non solo le cause che portano alla necessità di intervenire chirurgicamente ma anche le tecniche e gli strumenti utilizzati. Le nostre attenzioni si sono principalmente rivolte agli interventi di artroprotesi totale d’anca, di primo impianto o reimpianto, con la finalità di comprendere, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei materiali, quali fossero gli approcci che avrebbero consentito un miglior risultato sul paziente.Durante il tirocinio, inoltre, abbiamo avuto la possibilità di analizzare i registri di tutti gli interventi in sala operatoria svoltisi dal 1998 al 2012 e compiuti dalle divisioni interne dell’ospedale (1° clinica, 2° clinica e divisione Cartesegna).Dopo aver compiuto un’analisi dettagliata di tutti gli interventi di artroprotesi d’anca eseguiti, abbiamo preso in considerazione i casi di reimpianto.Da tali registri abbiamo estrapolato diverse informazioni come il modello di impianto utilizzato, il materiale di cui era costituito e prestato particolare attenzione a quali fossero state le cause che hanno portato all’intervento dei chirurghi ortopedici, al fine di poter catalogare tutti i vari interventi e poter stilare un serie di statistiche a riguardo.Questo nostro lavoro propone, dunque, uno studio delle cause di fallimento degli impianti di artroprotesi d’anca e, aiutati da dati e statistiche relative all’ospedale CTO, un’analisi di quali siano le strategie proposte per ridurre o prevenire i fallimenti.

4Esempi di protesi del CTO di Torino

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1. Anatomia e biomeccanica dell’anca

Anatomia

L’anca, scheletro osseo del bacino, prende parte a 5 articolazioni divise in tre gruppi: una sinfisi pubica, due articolazioni sacroiliache e due d’anca.L’articolazione dell’anca o coxofemorale è un’enartrosi, articolazione mobile a superfici sferiche che permette ampi movimenti, costituita della testa del femore che si snoda nell’acetabolo.L’acetabolo è un compartimento osseo concavo e a forma di calice facente parte del bacino, mentre la testa femorale, invece, è la componente epifisiaria del femore a forma di cupola che si inserisce quasi perfettamente nell’acetabolo.La giusta sinergia fra i due componenti permette all’arto inferiore di compiere ampi movimenti nello spazio, movimenti che sono il frutto di una combinazione di altri più semplici eseguiti attorno ai tre assi coordinati.

Componenti dell’articolazione

Femore Il femore ha una forma complessa con curvature nei tre piani che alterano la sua forma essenzialmente tubolare. La sua testa, dalla forma non perfettamente sferica, è posta a sbalzo rispetto all’intero osso, in quanto l’asse del collo femorale forma con l’asse diafisiario un angolo che varia fra i 125° e i 130°.La geometria del femore è influenzata da diversi fattori, che possono essere sia genetici che ambientali. Per definirne la morfologia e specificare possibili deformità dell’arto, vengono principalmente utilizzati due termini: valgo e varo. Si parla di femore valgo (o coxa valga) quando

Fig. 1.1 Sezione verticale del bacino.

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l’angolo fra l’asse diafisiario e il collo del femore supera i 130° (arrivando fino a 145°): ciò comporta un aumento del carico risultante sull’articolazione. In presenza di femore varo, al contrario, l’angolo in questione risulta inferiore ai 125°, il braccio di leva muscolare dettato dal collo femorale risulta essere maggiore e ciò allevia il carico sull’articolazione.

AcetaboloL’acetabolo è il componente concavo dell’articolazione ed è il risultato della fusione di ileo, pube ed ischio, le tre componenti ossee costituenti metà bacino (emibacino) e che, prima dell’età adulta, sono separate.Il bacino è costituito da una sottile membrana di osso corticale che ricopre l’osso spongioso: per questo motivo può essere quindi considerato una struttura di materiale composito.L’acetabolo, come la testa del femore, non è una struttura perfettamente sferica; la sua cavità, inoltre, non è orientata direttamente verso l’esterno, ma guarda anche in basso e in avanti. Questo orientamento implica che la parte superiore dell’acetabolo lasci parte della testa femorale scoperta.

Le due strutture, accoppiate e poste nella loro sede, sono circondate da una serie di legamenti di rinforzo e intra-articolari che costituiscono la capsula articolare.La capsula articolare racchiude l’articolazione dell’anca e, assieme ai muscoli, tendini e legamenti circostanti, stabilizza la testa del femore nell’acetabolo quando si muove.Il suo rivestimento interno produce un fluido viscoso, il liquido sinoviale, che nutre la cartilagine articolare e ne assicura l’elasticità, garantendo che rimanga uno spazio fra le due ossa dell’articolazione e che il movimento sia fluido e indolore.

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Fig. 1.2 Articolazione d’anca.

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Cinematica articolare

Il bacino e le relative articolazioni sono poste centralmente rispetto alla catena cinematica del nostro corpo che si estende dal cranio ai piedi. Ciò fa sì che una qualsiasi alterazione della sua struttura abbia conseguenze di natura biomeccanica sia nella parte superiore che in quella inferiore dello scheletro.L’ampiezza di movimento dell’articolazione d’anca durante la deambulazione può essere misurata nei diversi piani di riferimento.Nel piano sagittale la flessione massima viene raggiunta nella fase finale dell’oscillazione, quando l’arto sta per appoggiare il calcagno sul terreno. La massima estensione è raggiunta al momento del distacco del piede.Nel piano frontale vi è l’abduzione dell’articolazione durante la fase di oscillazione e il massimo è raggiunto dopo il distacco della punta del piede; quando si ha nuovamente l’appoggio del calcagno l’abduzione si converte in adduzione, che permane fino all’intero appoggio del piede.Nel piano trasversale l’articolazione è ruotata esternamente durante quasi tutta la durata dell’oscillazione: si ha una rotazione interna durante l’appoggio del calcagno e durante l’intera fase di appoggio per poi ruotare esternamente al suo termine.L’uomo utilizza normalmente movimenti coordinati delle articolazioni d’anca, ginocchio, caviglia e bacino in modo da mantenere il suo centro di gravità su un piano orizzontale; questi movimenti sono noti come “determinanti del passo”.

Le forze esercitate sull’anca hanno la loro espressione biologica non solo nella forma del femore e dell’acetabolo, ma soprattutto nell’orientamento del sistema trabecolare, che consiste nella disposizione all’interno del femore delle trabecole appartenenti all’osso spongioso.

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Fig. 1.4 Composizione dei tre movimenti del bacino: rotazione (RB), abbassamento (AB) e spostamento laterale (SB), visti dall’alto e di fronte.

Fig. 1.3 Movimenti articolari dell’anca

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Nella posizione eretta con appoggio bipodale, il centro di gravità, in cui è ipoteticamente applicata la risultante del peso corporeo, è centrato tra le due articolazioni d’anca e la forza risultante articolare è uguale su entrambe le articolazioni. In questa posizione è richiesta la minima attività muscolare per mantenere la posizione d’equilibrio. Di conseguenza, sapendo che la reazione articolare in appoggio bipodale è pari alla metà del peso che si scarica sulle articolazioni inferiori e sapendo che ciascun arto pesa circa un sesto dell’intero peso corporeo, il carico sull’articolazione dell’anca sarà pari a due terzi del proprio peso corporeo.Nel caso di appoggio monopodale, invece, il centro di gravità si allontana dall’arto portante creando così dei momenti sull’articolazione che fanno aumentare la reazione articolare. L’effetto combinato di peso corporeo e forze muscolari fa sì che la testa femorale, in questo caso, sia soggetta a una forza pari a quattro volte il peso corporeo.Ciò significa che, durante la locomozione normale, l’anca è soggetta ad ampie oscillazioni del carico a seconda che si trovi in appoggio monopodale o bipodale.Un effetto sicuramente deleterio per quanto riguarda l’entità della risultante articolare è ovviamente l’aumento del peso corporeo.La risultante articolare può allora essere ridotta in due modi pratici:- portando il centro di gravità più vicino al centro dell’articolazione, ciò può essere ottenuto zoppicando;- trasferendo il peso corporeo e riducendo il carico, ciò può essere ottenuto con l’ausilio di un bastone.

L’articolazione dell’anca è, inoltre, soggetta ad adattamenti funzionali in relazione al carico.Durante i fenomeni dinamici si possono avere, oltre ad un aumento dei carichi, anche urti. In questi casi è importante l’azione smorzante delle articolazioni che si produce attraverso il cedimento delle cartilagini e l’espulsione del liquido sinoviale.Le articolazioni, specie quelle portanti, devono permettere infatti il movimento reciproco di due parti, riducendo al minimo sia la resistenza d’attrito che l’usura.

I riferimenti bibliografici del presente capitolo sono i seguenti:http://amsdottorato.cib.unibo.it/3413/1/grandi_gianluca_tesi.pdf http://www.profantoniomoroni.com/index.php?option=com_content&view=article&id=10&Itemid=4&lang=ithttp://www.sunhope.it/ClinicaOrtopedica.pdf Biomeccanica dell’articolazione d’anca - P. M. Calderale, C. Bignardi.

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2. Patologie dell’articolazione

Le malattie che interessano l’articolazione dell’anca sono comuni anche alle altre articolazioni e possono essere causa di dolori più o meno intensi fino ad arrivare ad una completa immobilizzazione dell’articolazione.Alcune di queste patologie possono essere curate anche senza effettuare interventi chirurgici, altre invece hanno bisogno unicamente di un’opera di protesizzazione.Distinguiamo così:- l’artrosi;- l’artrite reumatoide e altre patologie reumatiche;- la displasia congenita d’anca (DCA);- l’osteonecrosi;- l’epifisiolisi.

ArtrosiL’artrosi dell’anca, il cui termine medico è “coxartrosi”, è una delle più comuni patologie articolari e consiste nel logorio graduale delle superfici articolari: lo strato cartilagineo che protegge l’articolazione viene distrutto e non riesce più ad ammortizzare le sollecitazioni, le ossa sfregano direttamente l’una contro l’altra all’interno dell’articolazione, consumandosi e anche deformandosi. Il risultato è un forte dolore, che si manifesta inizialmente solo dopo un certo grado di esercizio fisico, ma, con l’avanzare della malattia, sempre più frequentemente, fino ad insorgere anche a riposo. Questa patologia è molto frequente (1% degli adulti) e colpisce maggiormente il sesso femminile; inoltre, non eccezionalmente, è bilaterale.I principali fattori generali che influenzano l’avanzare dell’artrosi nell’articolazione sana possono essere: l’età, fattori ereditari, obesità, alterazioni metaboliche oppure fattori ambientali (clima, condizioni di lavoro o ambiente in cui si trova il soggetto). A questi se ne aggiungono altri che sono, invece, di tipo locale e comprendono la concentrazione o l’alterata distribuzione delle sollecitazioni meccaniche sulla superficie articolare (ad esempio per deviazione dei normali assi di carico come nel ginocchio valgo) ed alterazioni articolari prodotte da affezioni di natura infiammatoria o traumatica.Si distinguono, così, due forme di artrosi: primaria e secondaria.L’artrosi primaria è riferibile solo a fattori generali, insorge senza precedenti patologici a carico dell’articolazione e colpisce in genere soggetti che hanno superato i 50 anni.Si parla, invece, di artrosi secondaria quando è riscontrabile una causa locale e si manifesta precocemente, anche prima dei 40 anni. Insorge generalmente quando precedenti affezioni hanno alterato i rapporti di trofismo dei capi articolari; ciò può essere riconducibile a sublussazione da displasia congenita dell’anca, osteonescrosi, epifisiolisi oppure traumi pregressi.La sintomatologia è esclusivamente locale e tardiva rispetto all’inizio della malattia, evolve in maniera cronica, passando anche attraverso periodi di attenuazione o remissione.I sintomi fondamentali avvertiti sono dolori in sede articolare o inguinale, spesso irradiati sulla coscia e nella zona mediale del ginocchio, e limitazioni funzionali che non interessano comunque

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tutti i piani del movimento articolare. Col passare del tempo e l’incuranza della malattia si può arrivare all’abolizione completa dell’articolarità.Il trattamento della patologia può essere di natura medica, fisioterapica e chirurgica.Ogni metodo, applicato secondo le indicazioni del singolo caso clinico, concorre solo a ritardare l’evoluzione del processo degenerativo poiché non è possibile far regredire le alterazioni della struttura cartilaginea ed ossea.Per la terapia medica si usano principalmente antalgici, decontratturanti e antiflogistici, in particolar modo per dare sollievo al soggetto patologico.Si ricorre a calore, massaggi e ginnastica funzionale nelle forme iniziali e in quelle più avanzate nelle quali non è ancora indicata la terapia chirurgica. Solo nelle situazioni estreme, nel caso in cui tutte le altre terapie si siano rivelate inutili, si ricorre ad interventi chirurgici. Essi possono comprendere: osteotomie, artrodesi, endoprotesi e artroprotesi.

Artrite reumatoide e altre patologie reumatiche L’artrite reumatoide è una malattia cronica che tende a persistere nel tempo e colpisce la membrana sinoviale dell’articolazione. Tale membrana reagisce all’infiammazione aumentando di volume e dando origine al panno sinoviale. Quest’ultimo, invadendo la cartilagine, ne provoca l’erosione e la graduale distruzione. Questo processo proliferativo si estende poi all’osso; l’infiammazione arriva ad interessare tutti i tessuti che circondano l’articolazione provocando in modo graduale la distruzione della stessa e la relativa invalidità di chi ne soffre. Pur non essendo chiaramente dimostrabili modalità di trasmissione ereditaria, l’artrite reumatoide ha la tendenza a colpire più membri della stessa famiglia.L’influenza esercitata dal clima freddo e umido è evidente: la sindrome si manifesta infatti solo nei paesi temperati e nordici, non in quelli equatoriali; sono inoltre frequenti le riaccensioni nelle stagioni di transizione.

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Figg. 2.1 e 2.2 Artrosi dell’anca.

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Un segno distintivo dell’artrite reumatoide sono i noduli reumatoidi: lesioni granulomatose particolari che si riscontrano nel 5-10% dei casi, riguardano soprattutto i tessuti articolari (capsula articolare) o periarticolari (tendini) e si dispongono al di sopra di sporgenze ossee.Le caratteristiche di esordio e di evoluzione dell’artrite reumatoide sono assai diverse tra soggetti colpiti: ogni malato ha la sua malattia. Tuttavia, a prescindere dalle particolarità di ogni singolo individuo, si possono descrivere sintomi e segni comuni. All’esordio della malattia si possono osservare tumefazioni e dolori bilaterali, rigidità, malessere e riduzione della forza muscolare.Nelle fasi più avanzate possono comparire altri sintomi quali contratture in flessione, deformità articolari, noduli reumatoidi e arteriosclerosi.Il trattamento dell’artrite reumatoide consiste essenzialmente nella combinazione di farmaci anti-infiammatori e farmaci anti-reumatici per impedire la progressione delle lesioni articolari, ma un trattamento ottimale necessita obbligatoriamente di ben più di un puro intervento farmacologico.I pazienti con danno articolare tale da limitare seriamente o abolire la funzione, o con un livello inaccettabile di dolore, devono avvalersi di procedure chirurgiche ortopediche. La terapia chirurgica si fonda sulla possibilità sia di interventi profilattici (atti cioè a frenare la tendenza evolutiva e distruttiva della malattia), sia di interventi ricostruttivi (con lo scopo di ridare all’articolazione offesa la maggiore capacità di funzione possibile). Gli interventi profilattici si basano sulla possibilità di asportare chirurgicamente la sinoviale, sede del processo infiammatorio e causa del dolore e di tutti i successivi processi distruttivi a carico della articolazione; l’intervento prende il nome di sinoviectomia. Quelli ricostruttivi agiscono direttamente sulla componente ossea di una articolazione funzionalmente compromessa e consistono in artrodesi e artroplastica.

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Figg. 2.3 e 2.4 Artrite reumatoide

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Displasia congenita dell’ancaLa displasia congenita dell’anca (D.C.A), anche chiamata lussazione congenita dell’anca (L.C.A.), è uno sviluppo anomalo dell’articolazione dell’anca che porta gradualmente la testa del femore a dislocarsi dalla cavità acetabolare. E’ detta congenita poiché si sviluppa in età fetale e, se non trattata, evolve durante i primi anni di vita con esiti permanenti e invalidanti.Questa patologia colpisce di più il sesso femminile (il rapporto è 6:1) e le popolazioni di pelle bianca.E’ spesso bilaterale e può essere associata ad altre deformità congenite come il piede torto.Nel corso dello studio di questa malattie sono state avanzate due ipotesi patogenetiche a riguardo: la teoria della displasia acetabolare e quella della lassità capsulo-legamentosaLa prima sostiene che la cartilagine acetabolare sarebbe più soffice e plastica del normale e quindi facilmente deformabile sotto le sollecitazioni meccaniche della testa femorale così da perdere i suoi normali rapporti con il cotile; per la seconda, invece, la tendenza alla lussazione sarebbe dovuta ad una lassità delle strutture di contenzione dell’anca.I segni e sintomi della displasia dell’anca sono variabili a seconda del grado della malattia e dell’età del paziente. Principalmente si riscontrano limitazioni nei movimenti di abduzione e flessione, zoppia durante la deambulazione (dovuta al fatto che l’anca displasica è più corta di una normale).Un’anca displasica è, inoltre, facilmente riconoscibile in un esame diagnostico in quanto presenta un profilo articolare molto deformato.Il trattamento della displasia dell’anca è strettamente dipendente dal grado di gravità della patologia e l’esito è tanto favorevole quanto più la terapia è precoce.Quando la displasia viene trattata alla nascita o nei primi mesi di vita, evolve in maniera ottimale nella grande maggioranza dei casi. Per questa ragione la diagnosi precoce rappresenta la migliore profilassi: lo screening neonatale dovrebbe essere effettuato sistematicamente in tutti i reparti di ostetricia e neonatologia degli ospedali.Nella fase di displasia propriamente detta, invece, il trattamento consiste nel mantenere l’anca displasica centrata nel cotile, mediante l’uso di un cuscino divaricatore posto in mezzo alle cosce, o di un tutore per pochi mesi.Nei casi più resistenti si ricorre anche ad interventi chirurgici, ma questi rappresentano procedure estremamente delicate, in cui si effettuano osteotomie per cercare di ridare una continenza all’articolazione. Nei casi di lussazione si osserva quasi inesorabilmente una precoce insorgenza di artrosi dell’anca, che porta inevitabilmente ad interventi di artroplastica.Nonostante la disponibilità di alternative non protesiche, spesso i pazienti con displasia preferiscono ricorrere alla protesizzazione. Bisogna comunque ricordare che l’artroplastica totale ha un indice di insuccesso superiore nei casi di displasia, rispetto alla popolazione generale, probabilmente a causa delle anomalie anatomiche dell’anca displasica.

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OsteonecrosiL’osteonecrosi, detta anche necrosi avascolare, è un infarto del midollo e del tessuto osseo.Il processo patologico è caratterizzato da un’insufficiente perfusione ematica e dalla conseguente necrosi del tessuto osseo in un’area delimitata, tali da indurre nella maggioranza dei casi una degenerazione dell’intera articolazione.Nelle necrosi ossee spontanee rientrano anche le forme giovanili, come la Malattia di Perthes (ovvero l’osteocondrosi deformante dell’anca) che porta la testa del femore ad assumere un caratteristico appiattimento e allargamento. Le osteonecrosi secondarie, invece, sono spesso di origine traumatica: una forma particolare è la necrosi della testa del femore, che si presenta soprattutto nei soggetti anziani.I sintomi dipendono dall’estensione e dalla localizzazione della necrosi (o dell’infarto). Tipicamente il dolore è il sintomo d’esordio della patologia, ma questo diventa sempre più costante con l’aumentare delle alterazioni. Gli infarti midollari, al contrario, sono clinicamente silenti tranne quelli particolarmente estesi, che vanno spesso incontro a collasso e possono predisporre ad una grave artrosi secondaria.L’approccio terapeutico può prevedere un trattamento incruento (farmacologico o biofisico) solo nelle fasi iniziali, più frequente risulta invece l’approccio di tipo chirurgico.L’osteonecrosi della testa del femore rappresenta una difficile sfida per il chirurgo ortopedico per diverse ragioni. In primo luogo si tratta di condizioni asintomatiche negli stadi più avanzati della lesione, quando le opzioni di trattamento sono più aggressive e meno efficaci; in secondo luogo, i pazienti sono più frequentemente giovani, con elevate richieste funzionali, in cui la sostituzione protesica dell’anca è a maggior rischio di usura e fallimento.

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Fig. 2.5 Anca displasica

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EpifisiolisiL’epifisiolisi del femore è un’evenienza che rientra nella classificazione delle osteocondropatie dell’accrescimento. E’ caratterizzata dallo scollamento e dal successivo scivolamento e distacco della cartilagine epifisaria femorale tale da costituire la cosiddetta “coxa vara dell’adolescenza”.Istologicamente si osserva un aumento di spessore della cartilagine sino a 2-3 volte quella normale.Lo scivolamento procede nelle diverse fasi della malattia, fino alla sua conclamata manifestazione radiografica e clinica.Colpisce prevalentemente i maschi nell’adolescenza, intorno ai 12-17 anni, e può essere bilaterale. L’affezione si riscontra generalmente in soggetti che, in età puberale, presentano un eccessivo peso corporeo.La sintomatologia normalmente consiste in modesto dolore inguinale, zoppia e limitazione dell’arto ad intrarotare ed abdurre.Previo tentativo di riduzione incruenta dell’eventuale scivolamento epifisario recente, il trattamento è essenzialmente chirurgico e consiste nell’avvitamento dell’epifisi al collo femorale con una o due viti o altri mezzi di sintesi. I mezzi di sintesi verranno poi rimossi quando radiograficamente sarà scomparsa la cartilagine di accrescimento.

Fig. 2.6 A sinistra un’anca sana, a destra una in cui l’osteonecrosi ha portato la testa femorale al collasso.

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Fratture dell’estremità superiore del femoreQuesta tipologia di frattura interessa soprattutto gli anziani, i quali possono riscontrare traumi da urto di modesta entità ma con gravi complicanze.Il fattore che giustifica questa incidenza in età senile e nel sesso femminile è rappresentato dall’osteoporosi, malattia che colpisce selettivamente le ossa a struttura spongiosa diminuendo il numero e il calibro delle trabecole.Non è raro l’insorgere di complicazioni in seguito ad una frattura. Queste si distinguono in generali (o precoci), quando riguardano la condizione complessiva della salute del paziente e sono facilitate dalla prolungata immobilità a letto o in apparecchi gessati, e locali (o tardive), quali la pseudoartrosi del collo del femore, la necrosi asettica della testa femorale e vizi di consolidazione. I trattamenti a riguardo sono diversi al secondo della tipologia, della zona fratturata e anche delle condizioni fisiche del paziente.Le fratture mediali possono più facilmente dar luogo a complicazioni generali o locali, e la consolidazione, se avviene, si verifica in un periodo molto lungo (circa cinque mesi). Si impone quindi in genere un trattamento di osteosintesi, che consiste nella consolidazione dell’osso tramite placche o viti, o l’intervento con protesi, da attuarsi il prima possibile.Nelle fratture laterali la riparazione avviene in 2-3 mesi. L’indicazione al trattamento cruento risulta quindi meno categorica, ma è comunque preferita poiché dà la possibilità di restituire precocemente ai pazienti la mobilità e la deambulazione, evitando pericolose complicazioni generali.

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Fig. 2.7 Epifisiolisi monolaterale

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3. Artroprotesi d’anca: caratteristiche

La storia dell’artroprotesi ha inizio in tempi abbastanza recenti, precisamente nel 1922 con Hey-Groves che fu il primo ad attuare la sostituzione di una testa femorale a causa della frattura del collo del femore.Con l’avanzare del tempo e delle tecnologie, le protesi d’anca hanno conosciuto vari cambiamenti di forma e lunghezza, componenti e materiali differenti. Le ricerche si sono sempre di più orientate verso due indirizzi: la sostituzione della cavità acetabolare e la sostituzione dell’epifisi femorale.Negli ultimi 20 anni, in particolare, le sostituzioni protesiche articolari hanno avuto uno sviluppo enorme, senza dubbio favorito dall’alto livello ormai raggiunto in campo tecnologico, portando sul mercato più di 60 diversi modelli di protesi totale d’anca.

Anche detta artroplastica, l’artroprotesi dell’anca è la sostituzione completa o parziale dell’articolazione.Nel caso di protesizzazione completa sono presenti due componenti, uno sostitutivo dell’acetabolo (detto cotile) e uno sostitutivo del femore (caratterizzato da testa, collo e stelo).La protesizzazione parziale, invece, è detta “endoprotesi” e consta solo della parte femorale.Affinché una protesi abbia successo, questa deve essere completamente in grado di sostituire l’articolazione danneggiata restituendo la normale ampiezza dei movimenti e un’adeguata stabilità.

Fig. 3.1 Struttura di una protesi d’anca.

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Osserviamo di seguito le caratteristiche di ogni singolo componente.

SteloLo stelo della protesi totale di anca è la parte metallica inserita nell’estremità superiore del femore, nel canale midollare, e supporta la testa e il collo della protesi.La forma dello stelo si divide fra steli retti, che non tengono conto delle curve femorali e la cui forma a cuneo permette il bloccaggio nella diafisi femorale, e steli anatomici, che seguono le curve femorali e le utilizzano per fissarsi.A seconda di come vengono inseriti nella loro sede, gli steli ci permettono di distinguere tre tipologie di protesi: cementate, non cementate e avvitate.1. Nelle protesi cementate lo stelo è relativamente corto e liscio, di forma conica, con un colletto

che si poggia sulla parte del femore recisa. Viene stabilizzato in sede mediante l’uso di cemento acrilico o antibiotato (cioè cemento con presenza di antibiotici a lento rilascio che impediscono l’attacco dei batteri alla protesi). Il cemento consente un’adesione con l’osso molto uniforme e solida. Vengono anche dette protesi ad accoppiamento indiretto.

2. In quelle non cementate (o ad accoppiamento diretto) la superficie dello stelo è rugosa, porosa e filettata, con pareti osteoinduttive che stimolano l’osso a crescere sulla protesi stessa. La completa fissazione si ottiene mediante penetrazione dello stelo nelle trabecole ossee. Questa tipologia è al momento la più usata poiché ha permesso di ottenere risultati ottimi e duraturi nel tempo. Fra gli aspetti negativi del loro utilizzo, va ricordato che questo tipo di stelo deve essere ancorato perfettamente perché altrimenti può andare incontro a mobilizzazioni e quindi fallimento della protesi.

3. Nelle protesi avvitate, infine, lo stelo possiede una forma a tronco di cono unico e spire di vite uniformi che iniziano alla base dello stelo per terminare al suo apice. Sono molto più forti delle cementate ma presentano dei problemi riguardanti soprattutto il giusto allineamento cotile-testa femorale. Per questo motivo sono praticamente in disuso.

Fig. 3.2 Esempi di steli protesici.

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ColloIl collo della protesi totale d’anca corrisponde all’estremità superiore dello stelo femorale che porta la testa protesica.È per lo più cilindrico, conico o trapezoidale in modo da consentire una maggior ampiezza di movimento, specie in flessione.Il collo può essere parte integrante dello stelo (è il caso delle protesi dette “standard”) oppure essere separato dallo stesso nel quale sarà inserito (protesi “modulari”).

TestaLa testa protesica corrisponde alla sfera, portata dallo stelo femorale, che si articola all’interno della cupola cotiloidea con il suo inserto.Può essere di metallo, ceramica o polietilene; la sua caratteristica più importante è sicuramente il diametro, in rapporto all’azione di coppia d’attrito che si determina, all’usura e ai detriti che da questa si producono. Nei modelli attualmente in uso esistono pertanto notevolissime differenze: si va da un diametro di 22 mm fino a 41 mm.La testa può essere direttamente fissata allo stelo, formando un unico pezzo, fissata al collo o, addirittura, intercambiabile o mobile.

CotileLa cupola o cotile è la parte superiore della protesi totale di anca che viene impattata nella cavità acetabolare, a livello del bacino.È una coppa emisferica essenzialmente in metallo (anche chiamata “metal back”) provvista di scanalature che servono per far aderire meglio il componente alla sua sede; spesso sono anche presenti viti di fissaggio che garantiscono una fissazione più sicura.Nella sua parte interna, la cupola può essere collegata alla componente femorale. Questo accoppiamento si realizzerà in maniera diretta quando anche la testa protesica femorale è in metallo (in questo caso si parlerà di accoppiamento “metallo-metallo”).Quando, invece, le teste protesiche sono di altro materiale, allora nel cotile è presente un inserto di polietilene o ceramica che permette il collegamento fra le due parti. Questi accoppiamenti migliorano la mobilità dell’articolazione facendo sì che essa sia più simile a quella naturale e, inoltre, limitano l’usura ed evitano l’insorgere di complicazioni dovute al rilascio di agenti chimici (come la metallosi).

Fig. 3.3 Esempi di cotili protesici.

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Come sottolineato in precedenza, l’artroprotesi d’anca non comprende esclusivamente la sostituzione completa dell’articolazione, ma sono presenti anche casistiche in cui l’intervento può essere meno invasivo e la parte operata meno estesa.

Possiamo allora distinguere altre due tipologie di protesi d’anca: protesi di superficie ed endoprotesi.Le prime ricoprono la testa del femore e la superficie interna dell’acetabolo, minimizzando la resezione ossea, soprattutto femorale. Sono composte da due elementi: la coppa acetabolare e la cupola femorale di superficie.Queste protesi consentono di conservare totalmente l’intera porzione prossimale del femore, sia il collo che la testa, mantenendo il diametro originale della testa del femore.La protesi di rivestimento è indicata nei pazienti giovani e/o attivi e comunque con buona qualità del tessuto osseo. Essa non è comunque applicabile a tutte le forme di artrosi dell’anca: queste protesi, infatti, non sono adatte qualora la deformità dei capi articolari o la loro morfologia si allontani troppo dall’anatomia normale.A questa categoria possono anche essere aggiunte le cupole di rivestimento: lavorano solo la parte superficiale e rivestono la zona lesa con una cupola (la testa femorale); esse non vengono adottate più con tanta frequenza poiché lavorano l’osso internamente e, a lungo andare, possono rovinare l’epifisi femorale. Trovano comunque spazio negli interventi in cui c’è bisogno di posticipare la completa sostituzione dell’articolazione.

L’altro gruppo considerato è quello delle endoprotesi. Un’endoprotesi si differenzia dalla protesi totale d’anca poiché viene protesizzata solo la componente femorale ed è utilizzata maggiormente in caso di frattura del femore. Le endoprotesi solitamente utilizzate sono costituite da un lungo stelo femorale e da una testa di grandi dimensioni chiamata “testone” che dà maggiore stabilità. Esistono due tipi di endoprotesi: monoarticolari (a testa fissa) o biarticolari. Il primo tipo è attualmente poco utilizzato a causa dell’elevata usura della cartilagine e dell’osso acetabolare dovuta all’eccessivo

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Figg. 3.4 e 3.5 Esempi di cupole di rivestimento.

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attrito con la testa metallica che porta in molti casi a dover eseguire delle revisioni. L’endoprotesi biarticolare, invece, ha una doppia testa, una più grande per muoversi dentro l’acetabolo e una più piccola che gira all’interno della più grande. In questo modo, durante il movimento, si riduce l’attrito e di conseguenza l’usura della cartilagine articolare.

I riferimenti bibliografici del presente capitolo sono i seguenti:http://amsdottorato.cib.unibo.it/3413/1/grandi_gianluca_tesi.pdfhttp://www.ortopediaetraumatologia.it/pagine/protesidisuperficie.htmlhttp://www.profantoniomoroni.com/index.php?option=com_content&view=article&id=16&Itemid=3&lang=it http://www.protesiginocchio.it/Documenti/ProtesiAnca_ManualePaziente.pdfhttp://www.studioortopedicopytheas.com/interventi/artroprotesi_anca_materiale_collo.phphttp://www.studioortopedicopytheas.com/interventi/artroprotesi_anca_materiale_cotile.php http://www.studioortopedicopytheas.com/interventi/artroprotesi_anca_materiale_stelo.php

Fig. 3.6 Esempio di endoprotesi biarticolare.

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4. Artroprotesi d’anca: materiali

Nella protesi totale d’anca, i movimenti si effettuano essenzialmente tra la testina e la parte interna della coppa acetabolare. Mentre stelo e cotile sono quasi esclusivamente in metallo, gli accoppiamenti tra le due parti dell’articolazione possono essere di vario tipo, per questo rappresentano uno studio ancora vivo e in continuo cambiamento: si cerca di evitare al massimo l’usura dei componenti e l’insorgere di problemi con l’organismo nel quale vengono posti.I materiali principalmente utilizzati per l’articolazione di una protesi di anca sono il polietilene, il metallo e la ceramica. Ognuno di questi ha delle caratteristiche che lo rendono più adatto a svolgere una particolare funzione meglio di altri ma, al contempo, ciascuno presenta anche degli incovenienti.

Polietilene

Il polietilene è un materiale polimerico ottenuto dal monomero etilene, eccellente per l’articolazione dell’anca ed utilizzato ormai da decenni per tutti gli impianti ortopedici. Metodi innovativi di produzione dei componenti in polietilene permettono di migliorare significativamente la durata degli impianti.Esso è caratterizzato da una buona resistenza agli urti ma presenta un difetto importante: il suo deterioramento progressivo, a lungo termine, può produrre frammenti all’interno della capsula articolare. Questi detriti sono all’origine di una reazione macrofagica che può condurre alla mobilizzazione delle componenti della protesi di anca.A seconda della sua densità, il polietilene è classificabile in quattro classi:I. Low Density Polyethylene (LDPE) è il polietilene a bassa densità. La sua densità ricade in un

range che va da 0,910 a 0,930 g/cm³. Non reagisce a temperatura ambiente, può sopportare temperature di 80 °C continuamente e di 95 °C per un breve periodo ed è abbastanza flessibile e resistente. Ha un’ottima impermeabilità all’acqua.

II. Linear Low Density Polyethylene (LLDPE): con una densità di 0,915-0,940 g/cm3 è un tipo di polimero a bassa densità che presenta, però, una struttura diversa dal precedente poiché sono presenti molte meno ramificazioni. È molto flessibile e si allunga sotto trazione, ha anche una buona resistenza agli agenti chimici e buone proprietà elettriche. Tuttavia è meno facile da lavorare dell’LDPE, ha una minore lucentezza e minore trasparenza.

III. High Density Polyethylene (HDPE) è il polietilene ad alta densità, con valori compresi in un intervallo che va da 0,942 fino a 0,965 g/cm3. Le forza intermolecolari e la resistenza alla trazione sono maggiori rispetto alle varietà di polietilene meno dense. Essendo un materiale molto resistente allo sfregamento, più duro e in grado di sopportare temperature più elevate (120 °C per brevi periodi, 110 °C continuamente), trova largo uso nelle protesi d’anca, soprattutto come inserto nell’acetabolo accoppiato a una testa in ceramica o in metallo.

IV. Ultra High Molecular Density Polyethylene (UHMWPE) è un polimero specialistico, non fluido, lavorato con tecniche simili a quelle dei metalli, rappresenta il materiale più leggero e resistente in commercio. I vantaggi dell’UHMWPE sono principalmente la buona resistenza ad

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ambienti che presentano elevate situazioni di stress, alto assorbimento di energia per alti valori di stress, buona resistenza alle forze di impatto, elevata stabilità chimica e soprattutto elevata biocompatibilità. Un vantaggio, prettamente dal punto di vista medico, è che il materiale rimane comunque un po’ più “mordido” degli altri e perciò perdona qualche errore di posizionamento che può essere corretto con maggiore facilità. Gli svantaggi principali sono connessi all’alta degradabilità nel tempo e alla bassa resistenza meccanica. La quasi totalità dei cotili di protesi d’anca di nuova generazione sono fatti in UHWPE.

Per ovviare al problema della formazione dei detriti di usura, la ricerca si sta focalizzando sull’uso del cross-linked UHMWPE. La reticolazione dei polimeri ad altissima densità si ottiene attraverso l’uso di radiazioni ionizzanti. Queste radiazioni rompono sia i legami C-C all’interno della catena che quelli C-H. La rottura di questi ultimi provoca la produzione di radicali liberi che si combinano l’uno con l’altro formando legami forti fra catene polimeriche adiacenti. Alcuni di questi radicali, però, rimangono intrappolati all’interno del materiale, e col tempo possono diffondersi o dissolversi nel materiale ed interagire con qualsiasi specie presente contenente ossigeno. Per tale motivo si procede ad effettuare dei trattamenti termici che hanno lo scopo di ridurre la concentrazione di questi radicali rimasti.Se da un lato questa famiglia di materiali presenta una resistenza ad usura notevolmente maggiore dell’UHMWPE, dall’altro alcuni studi riportano come il cross-linking causi un degrado di proprietà come la resistenza a fatica e la velocità di propagazione delle cricche. Lo scopo della ricerca attuale è quello di trovare un buon compromesso fra queste proprietà.

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Fig. 4.1 Confronto fra HDPE e UHMWPE.

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Ceramici

La ceramica è il materiale che possiede la minor aggressività grazie alla sua superficie quasi perfetta. I progressi dell’industria hanno permesso di arrivare alla realizzazione di un rivestimento della coppa acetabolare e di testine di diametro maggiore. Il suo vantaggio è una grande resistenza all’usura, ma il suo difetto è legato ad un rischio di rottura che risulta, comunque, sempre meno frequente visti i progressi delle tecniche di produzione.I materiali ceramici per la costruzione di parti protesiche sono propriamente detti bioceramici o ceramici speciali, poiché ottenuti con tecniche diverse e non con le solite miscele di ossidi.I vantaggi principali connessi con il loro impiego sono una elevata resistenza meccanica, anche ad alte temperature, densità relativamente modeste, elevatissima durezza, resistenza all’usura e notevole inerzia chimica.I bioceramici principalmente utilizzati per la realizzazione di componenti articolari, ormai da parecchi anni, sono la zirconia (Zr02) e l’allumina (Al203): sono due materiali molto simili dal punto di vista dei costituenti ma sono caratterizzati da proprietà meccaniche diverse.

La zirconia è un ossido ceramico che, grazie alla sua eccellente biocompatibilità e resistenza all’usura viene utilizzato nella realizzazione di componenti articolari protesici. Per queste applicazioni la zirconia non è adoperata come pezzo massivo, cioè come componente principale, ma ne vengono piuttosto usate piccole particelle parzialmente stabilizzate con cerio, omogeneamente distribuite in una matrice d’allumina. In questo modo viene aumentata la resistenza a frattura e la tenacità dell’allumina grazie al meccanismo di tenacizzazione della zirconia. I vantaggi derivanti dall’uso della zirconia, nell’artroprotesi dell’anca, sono la possibilità di costruire teste femorali più piccole, l’elevata tenacità e la resistenza alle sollecitazioni.La zirconia, d’altra parte, presenta alcuni svantaggi quali l’instabilità idrotermica, il fallimento del contatto zirconia-zirconia e l’impossibilità di essere sterilizzata in autoclave.

L’allumina fa parte dei materiali ceramici inerti, cioè che non subiscono nessuna reazione da parte dei fluidi biologici e non ne provocano sui tessuti. L’idea di utilizzare questo materiale per la costruzione di testine e inserti è da identificarsi nelle sue proprietà tribologiche. L’allumina, infatti,

Fig 4.2 Formazione del cross-linked UHMWPE.

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ha una stabilità abbastanza elevata, come anche la sua durezza; essa inoltre presenta l’opportunità di essere risterilizzata in autoclave, procedura molto comoda che offre una buona biocompatibilità ed eccellente resistenza alla corrosione. Si riscontrano principalmente, però, alcuni limiti nella produzione delle protesi in allumina: non si possono fabbricare teste di diametro inferiore a 28mm, sono realizzabili solo tre “taglie” per il collo ed è impossibile realizzare le forme più complesse.Negli ultimi anni sono stati brevettati dei materiali di ultima generazione che sfruttano sia le proprietà dell’allumina che quelle della zirconia. Il più usato di questi è il BIOLOX®delta, una ceramica di ultima generazione progettata per sfruttare l’eccellente stabilità chimica ed idrotermale dell’allumina. Garantisce livelli bassissimi di usura, superiore resistenza meccanica e migliore tenacità alla rottura. Grazie alla matrice ceramica in allumina rinforzata da microcristalli di zirconia e da piastrine di ossido, BIOLOX®delta permette di ridurre lo spessore degli inserti massimizzando i diametri delle teste femorali. Insieme a questo materiale, è altresì molto usato il Il BIOLOX®forte che contiene una piccola percentuale di ossido di magnesio (MgO) per controllare la crescita dei grani durante la sinterizzazione. Il BIOLOX®forte ha grandissima resistenza e proprietà più avanzate rispetto al semplice BIOLOX®delta e all’allumina. BIOLOX®forte e BIOLOX®delta assicurano ridotti livelli di usura grazie alle proprietà di elevata resistenza alla corrosione, biocompatibilità del materiale, grado di durezza, stabilità dimensionale dei componenti ed alla bassissima rugosità superficiale.

Metalli

Il metallo è il materiale più resistente in assoluto. Gli impianti dell’anca in metallo sono i più indicati per uno stile di vita attivo. Si compongono di una sfera metallica che scorre all’interno di una coppa, anch’essa metallica. L’utilizzo di una testa femorale di grande diametro consente anche di eseguire una gamma di movimenti ancora più ampia.

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Fig 4.3 Teste protesiche in Biolox®

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I materiali metallici utilizzati per le protesi d’anca sono generalmente delle leghe metalliche. Una lega metallica è una miscela di uno o più elementi metallici. Queste devono essere biocompatibili, resistenti alla corrosione (sia generalizzata che localizzata), ad elevata resistenza e duttilità.Le tre grandi categorie di materiali metallici che soddisfano questi requisiti sono: gli acciai inossidabili, le leghe a base di cobalto e il titanio con le sue leghe.Gli acciai inossidabili sono delle leghe formate dal mescolamento di ferro e carbonio, quest’ultimo in quantità non superiore all’1,7% in massa, più altri elementi. Gli inossidabili sono, per definizione, acciai legati a Cromo (Cr) o a Cr-Ni: l’aggiunta di tali elementi conferisce al sistema una buona resistenza alla corrosione anche in condizioni particolarmente aggressive.Gli acciai utilizzati in chirurgia ortopedica sono esclusivamente gli austenitici che presentano, otre ai materiali sopraelencati, tracce di ferro e molibdeno. Essi sono ottenuti per forgiatura, cioè lavorazione del materiale per deformazione plastica; gli acciai colati o a getto sono invece inutilizzabili poiché presentano una elevata eterogeneità che provoca scarse qualità meccaniche e bassa resistenza alla corrosione. Agli acciai inossidabili austenitici sono stati affiancati, negli ultimi tempi, nuovi acciai detti “avanzati”: un esempio è l’acciaio inossidabile 22-13-5 contenente più Cr, Mn e N2 e meno Nichel. Ricordiamo infine gli acciai senza Ni, quelli a fase doppia (o duplex stainless steels) e le super leghe.Le leghe a base di cobalto sono note con il nome di stelliti in ragione del loro brillante fulgore metallico. La loro buona resistenza alla corrosione unita alla loro tolleranza da parte dei tessuti, ne hanno permesso l’uso in chirurgia ortopedica.Questi metalli sono abitualmente chiamati leghe cromo-cobalto e sono classificate, in base al loro processo di lavorazione, in leghe di cobalto in getto e leghe di cobalto semilavorate.Spesso le prime non sono molto raccomandate per le superfici portanti di una protesi d’anca, a causa della scarsa resistenza allo sfregamento. La lega semilavorata (Co-Ni-Cr-Mo) presenta una maggior resistenza a fatica e la rende, quindi, più adatta a situazioni che richiedono una lunga durata di servizio. Bisogna infine ricordare che queste leghe, se possiedono uno strato superficiale di ossido di cromo, saranno caratterizzate da una migliore resistenza alla corrosione rispetto all’acciaio inossidabile.Il titanio è un elemento di transizione a bassa densità ed ha un elevato punto di fusione; possiede un insieme unico di proprietà che lo rendono particolarmente adatto alle applicazioni in campo dell’artroprotesi.Il titanio perfettamente puro è molto difficile da ottenere, infatti si trova in commercio legato a quantità variabili di ossigeno e ferro; maggiore è il tenore dell’ossigeno, migliori saranno le proprietà meccaniche del materiale, come la resistenza alla trazione. In base alla presenza di ossigeno si distinguono anche quattro gradi di purezza per il titanio: il grado 1 comprende il titanio più puro ma è anche il più morbido, duttile e fragile; il grado 4, invece, determina il titanio più resistente tra tutti, soprattutto a sforzi di rottura.Per migliorare ancor di più le proprietà del titanio sono state realizzate delle leghe: quelle più utilizzate in campo biomeccanico comprendono la presenza di vanadio e alluminio oppure niobio e alluminio. La prima delle due, conosciuta come lega Ti6Al4V o come F136 è quella commercialmente più conosciuta e utilizzata per la costruzione di protesi d’anca.

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Alcuni studi hanno dimostrato, però, che questa lega rilascia ioni di Al e V e questo potrebbe causare problemi di salute a lungo termine. Per ovviare a questi inconvenienti, negli ultimi quindici anni sono state sintetizzate ed approvate nuove leghe che non contengono più vanadio, bensì alluminio accoppiato a niobio o ferro.Il problema principale provocato dai materiali metallici, soprattutto se usati nell’accoppiamento cotile-testa femorale, e che ha frenato il suo affermarsi come materiale principe delle protesi d’anca è la metallosi, ovvero la produzione di detriti metallici quando i due metalli entrano in contatto. Questi detriti sono stati ipotizzati nocivi per la sinoviale e responsabili di mobilizzazione secondaria; sono, inoltre, in grado di determinare sia un effetto citotossico diretto sia di indurre la formazione di un abbondante tessuto di granulazione reattivo che evolve con difficoltà in tessuto fibroso. I progressi industriali hanno, fortunatamente permesso di risolvere questi problemi.

Cementi

La cementazione consiste nel disporre, prima dell’inserimento dello stelo o della coppa acetabolare nella cavità appositamente preparata, del cemento osseo che, con la successiva introduzione del pezzo, si distende nella cavità medesima riempiendo ogni nicchia presente nel tessuto osseo adiacente ed al contempo aderendo per pressione alla superficie della protesi, garantendo così la tenuta dell’impianto. Dal punto di vista chimico, il cemento appartiene alla categoria delle resine acriliche autoindurenti che subiscono una variazione di fase: in un primo momento si presentano malleabili in modo da poter essere lavorate ed essere in grado di riempire adeguatamente lo spazio tra osso e protesi; in seguito si induriscono e aumentano la loro resistenza e rigidezza, garantendo così stabilità. Tutti i cementi per l’artroplastica ormai possiedono additivi: sostanze opacizzanti in modo da rendere visibile la protesi in radiografia, antibiotici (a discrezione del chirurgo o della situazione del paziente) e fluoruro di sodio che ha una capacità antibatterica.La principale proprietà del cemento osseo è quella di assorbire dalla protesi e ritrasmettere all’osso forze di taglio e compressione, in particolare il suo comportamento meccanico globale è tanto migliore quanto minore sarà il suo spessore tra protesi e osso.Attualmente, uno dei cementi più diffusi è il polimetilmetacrilato (PMMA). È una materia plastica formata da polimeri del metacrilato di metile, estere dell’acido metacrilico. Presenta una densità di 1,19 g/cm3 (circa la metà di quella del vetro) e, oltre a riempire tutti gli interstizi tra stelo e canale (migliorando la distribuzione degli sforzi trasmessi sotto carico), riduce il dolore causato da eventuali micromovimenti relativi. Il PMMA, inoltre, garantisce un contatto iniziale diretto e una stabilità primaria raggiunta molto velocemente (grazie alla velocità di indurimento del PMMA). Per tale motivo le protesi cementate sono utilizzate soprattutto in pazienti anziani che hanno bisogno di una ripresa più veloce per evitare di incorrere in riabilitazioni dai tempi troppo lunghi, che potrebbero causare piaghe da decubito o immobilizzazione completa del paziente. Il PMMA viene commercializzato in forma di polvere da miscelare al momento dell’uso con metacrilato di metile (MMA) liquido per formare una pasta che indurisce gradualmente. Nei pazienti trattati in questo modo, l’odore del metacrilato di metile può essere percepibile nel loro respiro.

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Il cemento osseo viene ormai utilizzato in campo ortopedico da più di cinquant’anni, ma continua a restare una soluzione affidabile e di ottimo comportamento clinico. Nonostante il cemento sembri un’ottima soluzione per il fissaggio di una protesi anch’esso ha dei limiti intrinseci nel suo utilizzo. È un materiale che risulta comunque tossico per il corpo umano, porta ad una assenza di reale osteointegrazione, ad una conseguente formazione di capsula fibrotica all’interfaccia PMMA-osso e, come abbiamo detto prima, è fonte di problemi in sede di reimpianto. Causa, infine, un limite di funzionalità nel lungo periodo poiché la fragilità del materiale porta ad un cedimento per fatica ed alla mobilizzazione della protesi (dopo 15-20 anni la percentuale di revisione inizia ad essere non trascurabile).

Biorivestimenti

Per le protesi che non prevedono la presenza del cemento è consuetudine applicare sulla superficie un rivestimento poroso e bioattivo, solitamente con lo scopo di migliorare l’osteointegrazione fra protesi e tessuto osseo, favorendo quindi la ricrescita ossea sull’impianto al fine di raggiungere un maggiore livello di fissazione e stabilità.Essi costituiscono il sistema di fissazione secondaria e sono dei particolari biomateriali depositati sulla superficie della protesi con la funzione di stimolare la proliferazione cellulare rendendo così più rapido il processo di adesione del tessuto osseo su una superficie. I materiali solitamente utilizzati per realizzare questi rivestimenti sono i fosfati di calcio e l’ossido di titanio.

Biorivestimenti di idrossiapatite (HA). La componente inorganica di tutti i tessuti mineralizzati dell’organismo umano è costituita in grande prevalenza da sali di fosfato di calcio. Le ceramiche di fosfato di calcio, grazie alla loro elevata affinità chimica con l’osso e alla loro assoluta non tossicità, sono i materiali più idonei per essere utilizzati come biorivestimenti: la loro elevata bioattività è dovuta al rilascio di calcio e di ioni fosfato che promuovono la formazione di uno strato di carbonato di calcio-fosfato con l’incorporazione di una matrice di collagene. Studi recenti hanno dimostrato che non esistono ceramiche di fosfato di calcio non riassorbibili, in quanto ciò che varia da una forma all’altra è esclusivamente la velocità di riassorbimento. Quest’ultima gioca un ruolo chiave sul grado di fissazione dell’impianto: velocità troppo elevate portano ad esempio alla disintegrazione del rivestimento con rapida perdita del legame tra osso e impianto, mentre valori più controllati danno la possibilità all’osso di sostituire la porzione di rivestimento riassorbito. Un altro vantaggio del rivestimento in idrossiapatite è dato dalla possibilità di incorporare all’interno del materiale dei fattori di crescita che, grazie a un loro graduale rilascio, promuovono e velocizzano il processo di ricrescita ossea.

Biorivestimenti in titanio. La principale limitazione al loro utilizzo deriva da un costo piuttosto elevato; inoltre la forte tendenza all’ossidazione obbliga all’uso di tecniche speciali per l’ottenimento dello stesso a partire dalle materie prime, principalmente polveri o minerali di TiO2.

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Il rivestimento in titanio poroso è il risultato di uno speciale processo tecnologico che permette di ottenere una struttura porosa ottimale con una migliore interconnessione dei pori; si parla di porosità aperta se gli spazi vuoti sono comunicanti tra loro e con la superficie esterna, mentre la porosità chiusa è costituita da vuoti che non comunicano con la superficie esterna. Grazie a queste caratteristiche è possibile ottenere una superficie rugosa tale da garantire un’elevata stabilità iniziale dell’impianto e una più resistente e solida deposizione di nuovo tessuto osseo.

I riferimenti bibliografici del presente capitolo sono i seguenti:http://www.biometitaly.it/it-patient/anca/anca2 http://books.google.it/books?id=CJLfXRuJJTsC&pg=PA54&dq=materiali+metallici+per+protesi+anca&hl=it&sa=X&ei=NYfhUfDWBJS6hAeQrYD4Dg&ved=0CDwQ6AEwAA#v=onepage&q=materiali%20metallici%20per%20protesi%20anca&f=falsehttp://www.ceramtec.com/biolox/ http://it.wikipedia.org/wiki/Ossido_di_alluminio http://en.wikipedia.org/wiki/Ultra-high-molecular-weight_polyethylene http://www.studioortopedicopytheas.com/uploads/pubblicazioni/Protesi%20di%20anca-%20la%20coppia%20di%20frizione%20def.pdf http://tesi.cab.unipd.it/23548/1/tesi_Miconi_Andrea.pdf (pagg. 17 e 18)

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Fig 4.4 Tabella riassuntiva degli accoppiamenti più utilizzati.

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5. Fallimento di una protesi d’anca

L’efficacia e la durata di una protesi d’anca dipendono dall’evoluzione del processo di interazione fra due entità profondamente diverse: l’anca, che costituisce un ambiente biomeccanicamente complesso, e la protesi, la cui struttura meccanica è notevolmente sollecitata dall’ambiente e dall’entità dei carichi a cui è sottoposta.

Le protesi d’anca possono fallire dopo tempi variabili, da pochi anni a decenni, e talvolta per cause assolutamente sconosciute. Non vi è dubbio che una procedura chirurgica corretta, la scelta accurata della protesi più adatta al tipo di articolazione e alla sua morfologia ossea, oltre che nei riguardi del soggetto da operare, siano requisiti essenziali per una buona riuscita del reimpianto.Si comincia a sospettare il fallimento dell’impianto protesico quando il paziente lamenta una sintomatologia dolorosa, che può localizzarsi principalmente a livello inguinale (1), lateralmente al trocantere (2), a livello della coscia (3) o al ginocchio (4).Le cause che richiedono un impianto secondario sono varie e si differenziano per la zona o il componente protesico colpito e per la presenza o meno di una infezione.

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Fig 5.1 Schema della localizzazione della sintomatologia dolorosa che può indicare il fallimento di una protesi.

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Quando si procede alla sostituzione di un’articolazione con un impianto protesico, il fine dell’intervento è quello di garantire una stabilità duratura dell’impianto che permetta all’operato di riacquisire parte delle funzionalità motorie che gli erano impedite.Con stabilità, dunque, si intende i corretti inserimento e fissaggio della protesi, tali da garantire un’adeguata interfaccia fra protesi ed osso.Parlando di stabilità si è soliti distinguere fra stabilità primaria e stabilità secondaria.La stabilità primaria è quella iniziale, che avviene subito dopo l’intervento e prima dell’accrescimento osseo. Per essere raggiunta devono esistere delle condizioni meccaniche per cui il contatto fra osso e stelo assicuri che le tensioni non portino ad eccessivi movimenti relativi. È infatti necessario che siano possibili micromovimenti di circa 150 micrometri che permettano all’osso di crescere e che garantiscano la stabilità secondaria.Solo se è assicurata la stabilità primaria allora si parla di stabilità secondaria. Questa si raggiunge attraverso l’osteointegrazione, ossia l’accrescimento osseo e il successivo collegamento alla protesi. Il carico potrà essere interamente rilasciato solo dopo aver ottenuto tale stabilità.

Per essere stabile, una protesi deve essere innanzitutto ben progettata. Durante la progettazione bisogna tener conto sia di aspetti meccanici che di aspetti biomeccanici.Progettare meccanicamente una protesi significa progettare una struttura che ristabilisca le condizioni cinematiche e resista a carichi, realizzare un’interfaccia articolare con attrito ed usura minimi e che abbia la capacità di assorbire gli urti in corrispondenza del giunto articolare.Progettarla biomeccanicamente, invece, implica lo studio dei materiali ed in particolare lo studio della loro biocompatibilità e di quella dei prodotti di usura, lo studio della forma dell’impianto, per comprendere come reagirà l’osso alla resezione che subirà durante l’intervento, ed infine lo studio dell’interfaccia osso-protesi, in particolare per quanto riguarda le superfici e i rivestimenti di queste ultime.

Cause di fallimento

La vita di una protesi d’anca è variabile, può durare da pochi anni a diversi decenni e talvolta fallisce per cause sconosciute. Per una buona riuscita della protesizzazione, sono fondamentali alcuni requisiti come un intervento chirurgico corretto, la scelta adeguata della protesi più adatta al tipo di articolazione e alla sua struttura ossea, nonché al tipo di soggetto operato.

Quando una protesi è progettata male o non raggiunge la stabilità nel corpo del paziente, essa è destinata a fallire.Solitamente il fallimento della protesi viene individuato perché il paziente dichiara di provare dolore, che può localizzarsi in particolare nella zona inguinale, lateralmente al trocantere, all’altezza della coscia o al ginocchio.

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Per studiare le principali causa che portano al fallimento delle protesi d’anca, abbiamo raccolto dai registri delle sale operatorie dell’ospedale CTO (Centro Traumatologico Ortopedico) di Torino informazioni sui 2946 interventi di protesi totale d’anca compiuti dal 1998 al 2012.Fra tutti questi interventi abbiamo separato quelli di primo impianto da quelli di reimpianto ed abbiamo compiuto uno studio approfondito su questi ultimi, valutando in primo luogo a cosa fossero dovuti.

Il primo dato che abbiamo potuto valutare è stato la quantità di reimpianti. Su 2946 interventi, 425 sono stati interventi di reimpianto, circa il 17%. Per quanto non ci sia stato possibile raccogliere dati sulla durata degli impianti di questi operati, possiamo subito intuire come i fallimenti delle protesi siano un problema aperto ed importante, in quanto ricoprono quasi un quinto degli interventi di protesi d’anca effettuati. Questo dato assume a maggior ragione una notevole importanza se consideriamo che, come vedremo in seguito, non tutti i pazienti con protesi fallite vengono nuovamente operati.

La prima statistica che abbiamo eseguito è sul tipo di pazienti sottoposti a reimpianto.Tenendo conto che non siamo riusciti a ricavare tutte le informazioni necessarie di un paziente, che di conseguenza abbiamo escluso da questa tabella, abbiamo distinto i soggetti in base al sesso e all’età alla quale hanno subito il reimpianto, ottenendo questi risultati.

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A sinistra, tabella con divisione dei soggetti operati in base al sesso e all’età, a destra grafico con la divisione di genere.

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Come si può dedurre dai dati raccolti, si ha una maggioranza di pazienti di sesso femminile sottoposte a reimpianti. Per quanto riguarda l’età, per entrambi i sessi più della metà dei reimpianti viene compiuta su soggetti con età compresa fra i 60 e gli 80 anni. Da un lato interventi compiuti su pazienti di età inferiore sono generalmente segnali di fallimenti precoci, in quanto si cerca di non protesizzare pazienti eccessivamente giovani; dall’altro interventi su pazienti ultraottantenni sono particolarmente rischiosi e, quando è possibile, si preferisce ricorrere ad altre alternative.

Dopo questa breve disamina sulla tipologia di operati, siamo passati a quelle che sono le cause di fallimento che più comunemente portano al reimpianto.Le diagnosi riportate nei registri si sono rivelate molto varie e talvolta troppo generiche. Per ovviare a tale problema e poter trattare in maniera approfondita le cause più diffuse ed importanti, abbiamo diviso le diagnosi in alcune macro-categorie.

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Grafici con le percentuali, secondo fasce di età, dei soggetti operati.

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Grafico con le cause di reimpianto in percentuale.

Tabella con suddivisione di tutti i reimpianti in base alla loro causa.

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5.1 Rottura

La prima causa di fallimento di cui parliamo è la rottura della protesi.Per quanto questa incida sempre meno, non per questo è meno importante, poiché rappresenta un problema in cui, con i dovuti accorgimenti, nessun paziente dovrebbe incorrere.

Essa si può imputare principalmente a tre fattori.Le rotture più comuni sono dovute a traumi violenti o sforzi eccessivi compiuti dal paziente. Possono verificarsi anche per sforzi a fatica, ovvero nel caso in cui la protesi è sottoposta a sforzi o traumatismi minori ma che si ripetono costantemente nel tempo e a lungo. Ciò si verifica soprattutto nei soggetti più giovani oppure in soggetti protesizzati da oltre un decennio. Per evitare una fine simile è consigliabile seguire le indicazioni del medico ed evitare posizioni e sforzi inopportuni.A causare una rottura possono essere anche protesi mal progettate o non a norma: le protesi utilizzate in territorio europeo, però, devono rispettare la Direttiva Dispositivi Medici 93/42/CEE che impone controlli e verifiche molto dettagliate su tali prodotti. Le protesi, inizialmente inserite nella classe di rischio IIB in quanto dispositivi impiantabili passivi, sono state riclassificate nella classe III tramite la direttiva 2005/50/CE proprio per garantire una valutazione della conformità più rigorosa e un attento controllo del mercato post-vendita.La rottura, infine, può essere imputabile all’imperizia del medico chirurgo durante l’intervento. Qualora lo si sospettasse si può richiedere l’intervento di un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU), consulente del tribunale che effettuerà una perizia su quanto accaduto.

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Fig. 5.2 Rottura di una protesi a livello dello stelo.

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5.2 Scollamento asettico

Lo scollamento asettico, o mobilizzazione, è di gran lunga la causa principale di fallimento delle protesi totali d’anca e consiste nel fallimento meccanico dell’interfaccia protesi-osso, con un conseguente distacco fra i due elementi e avviene come conseguenza dell’osteolisi, processo di riassorbimento osseo locale.

Lo scollamento asettico è dovuto a cause biologiche o a cause meccaniche.

Cause biologicheIl percorso che porta all’osteolisi per via biologica si può dividere sostanzialmente in tre fasi: formazione di particelle di usura, migrazione delle stesse e risposta cellulare alle particelle.

1. Formazione dei prodotti di usuraDa un punto di vista meccanico, la generazione di detriti di usura è imputabile a due fattori: la geometria dell’impianto e le proprietà dei materiali utilizzati. La geometria della protesi è molto importante: influenza infatti il modo in cui le superfici articolari entrano in contatto a seguito degli stress ciclici a cui la protesi è sottoposta.Nei giunti articolari i meccanismi che producono usura sono sostanzialmente l’adesione, l’abrasione e la fatica. Dei tre, l’abrasione è quello che crea maggiori problemi nelle protesi d’anca. La formazione di detriti di usura, inoltre, è uno degli aspetti più importanti nella scelta degli accoppiamenti dei materiali utilizzati. La dimensione di tali prodotti è variabile sia in materiali diversi che all’interno dello stesso materiale. Come abbiamo visto in precedenza i materiali utilizzati sono metallo, polietilene, ceramica. L’uso combinato di questi porta a quelli che sono i quattro principali accoppiamenti: metallo-metallo, metallo-polietilene, ceramica-polietilene, ceramica-ceramica. Pure l’uso di cemento come il polimetilmetacrilato (PMMA) può causare prodotti di usura.

Le protesi metallo-metallo, utilizzate principalmente fino agli anni ‘90, sono quelle potenzialmente più pericolose. Oltre a causare i problemi comuni ai detriti di tutti i materiali, questi detriti consistono in ioni metallo che possono entrare nel flusso sanguigno. La permanenza prolungata di detriti metallici causa metallosi, che consiste in una infiltrazione cronica di detriti metallici accompagnata da un’infiammazione cronica dei tessuti periprotesici. Ioni di metalli pesanti come il cromo e il cobalto, inoltre, possono causare gravi intossicazioni da metallo. Il cobalto può danneggiare il sistema cardiovascolare aumentando la pressione arteriosa e causando cardiomiopatia ed avere effetti neurotossici; il cromo, invece, entra rapidamente nelle cellule ed è responsabile degli effetti tossici del metallo, in particolare di quelli cancerogeni.

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Le protesi metallo-polietilene e quelle ceramica-polietilene, specie le prime, incorrono entrambe nei problemi dovuti alla presenza del polietilene, il materiale protesico che si usura di più. La famiglia di polietilene più usato è quella del polietilene ad altissimo peso molecolare (UHMWPE). Sebbene questo sia più resistente e si usuri meno del polietilene classico, i suoi prodotti di usura rimangono ugualmente molto pericolosi e sono la causa principale di osteolisi. Hanno forma e dimensioni variabili con diametro in gran parte inferiore ai 10 micrometri e che si attesta ad una media di 0,3-0,5 micrometri. Per ovviare a questo problema la ricerca protesica si sta concentrando sul cross-linked UHMWPE la cui usura è notevolmente inferiore.

Gli accoppiamenti ceramica-ceramica, infine, per quanto siano più fragili e cedano prima per affaticamento, sono quelli che hanno in assoluto il minor tasso di usura.

2. MigrazioneUna volta formatesi, le particelle si disperdono nel liquido sinoviale.Per capire come avvenga la migrazione è utile introdurre il concetto di spazio articolare efficace (effective joint space). Questo non include solamente lo spazio all’interno della capsula articolare ma anche l’intera area periprotesica che circonda l’articolazione, accessibile al fluido sinoviale e in cui le particelle di usura possono finire rimanendo ugualmente in contatto con l’osso. Questo è possibile in accordo con la teoria che sostiene che i detriti siano in grado di penetrare l’interfaccia periprotesica e di muoversi su superfici estese.Ciò fa sì che quest’area non sia statica ma sia, a tutti gli effetti, una regione dinamica che può avanzare lungo il piano tissutale con la progressione dell’osteolisi.È stato dimostrato come la presenza di rivestimenti con materiali ceramici come l’idrossiapatite comporti una riduzione del fenomeno migratorio. Riduzione che si verifica anche in presenza di protesi cementate, in quanto il cemento, sigillando la cavità femorale, ritarda l’ingresso delle particelle di usura. La variazione di pressione idrostatica nello spazio articolare durante l’attività fisica, invece, può contribuire ad aumentare la circolazione.

Fig. 5.3 Metallosi: l’immagine mostra una completa perforazione della parte superiore della testa femorale (3A) e dei detriti metallici incorporatisi nel cotile (3B).

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3. Risposta cellulare La presenza di particelle di usura non porta sempre all’osteolisi. Affinché si verifichi, la velocità di produzione dei detriti deve superare la capacità di ogni individuo di rimuoverli. Per questo la risposta biologica del singolo alla presenza di prodotti di usura gioca un ruolo importante nello sviluppo dell’osteolisi. Risposta che, però, è complessa e non del tutto compresa. La risposta iniziale dell’organismo alla presenza di tali prodotti è una risposta antinfiammatoria localizzata che è caratterizzata dalla formazione di tessuto fibroso che circonda l’impianto.Esami istologici eseguiti su questi tessuti hanno dimostrato la presenza di numerosi tipi di cellule fra i quali macrofagi, fibroblasti, osteoclasti e anche prodotti bioattivi come enzimi, citochine e fattori della crescita. Questo indica che i detriti di usura innescano una risposta da corpo estraneo che si conclude con il riassorbimento osseo.La presenza di detriti attiva dei recettori del sistema immunitario innato che riconoscono i profili molecolari (i PRR, Pattern Recognition Receptors), come ad esempio i recettori di tipo Toll (TLR) che causano il rilascio di citochine, molecole proteiche in grado di modificare il comportamento di altre cellule. Le citochine, in particolare, regolano l’attivazione degli osteoblasti, le cellule che producono la matrice organica del tessuto osseo e che interagiscono a stretto contatto con gli osteoclasti, cellule macrofaghe che hanno il compito di fagocitare le particelle di usura che hanno allertato il sistema immunitario. La criticità della loro attività sta nel fatto che, oltre ai detriti, attaccano indistintamente pure l’osso sul quale questi si sono posti e lo mangiano in tre fasi: aderendo ad esso, creando un ambiente acido che solubilizzi la matrice ossea ed infine digerendo la matrice organica dell’osso.È importante sottolineare come la dimensione delle particelle di usura sia un fattore fondamentale nell’analisi della risposta del sistema immunitario. I macrofagi, infatti, fagocitano particelle con un diametro da 0,2 a 10 micrometri. Studi in vitro su delle culture di macrofagi, inoltre, hanno dimostrato come in presenza di particelle di polietilene di diametro inferiore a 20 micrometri il rilascio di citochine sia significativamente maggiore. Questo ci conferma ulteriormente le problematiche dovute all’utilizzo di tale materiale.

Gli esami normalmente utilizzati per verificare e quantificare la presenza di detriti di usura sono le radiografie e le tomografie computerizzate.

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Cause meccanicheLe protesi possono fallire a causa della mobilizzazione anche in seguito ad una errata strutturazione del sistema meccanico tra osso e protesi successivo all’intervento, strutturazione che blocca il processo di osteintegrazione, fondamentale per il successo di una protesi.Il femore, nel suo stato naturale, resiste autonomamente a tutti i carichi a cui è sottoposto. Quando, in seguito ad un intervento di protesizzazione, viene inserito uno stelo intramidollare, la capacità di sopportare il carico viene condivisa con l’impianto. Così facendo l’osso subirà una sollecitazione minore.Se non c’è un buon appoggio sulla parte prossimale dello stelo, però, la protesi lavora attorno al suo inserimento e trasferisce il carico sul fondo. Questo fenomeno prende il nome di stress shielding, in quanto lo stelo "scuda" una parte dell’osso riparandolo dalle sollecitazioni. Ciò causa quello che viene definito "by-pass dei carichi" in quanto le tensioni passano dalla testa alla punta dello stelo saltando la parte intermedia.Quando una porzione di osso non è sottoposta ad alcun carico, avviene una diminuzione percentuale del suo contenuto minerale (BMC) e tende a riassorbirsi, atrofizzandosi.

Fig. 5.4 Schema della risposta biologica ai detriti di usura. Il reclutamento e l’attivazione degli osteoclasti può essere causata dai fibroblasti o, in maniera indiretta, dagli osteoblasti.

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Il progressivo riassorbimento dell’osso intorno alla protesi determina, se non trattato opportunamente e tempestivamente, delle gravi caverne vuote nell’osso attorno allo stelo femorale e alla coppa acetabolare che si mobilizzano avendo perduto il loro ancoraggio all’osso che li ospita.

Fattori influenzantiAbbiamo quindi visto che, sebbene il risultato finale dello scollamento asettico sia il medesimo per tutti i pazienti, ci sono diversi fattori che influenzano il percorso di questo tipo di fallimento e che fanno sì che soggetti sottoposti allo stesso intervento reagiscano in maniera molto diversa.Tali fattori possono ora essere divisi in tre grandi gruppi: quelli legati al paziente, quelli legati alla protesi e quelli legati all’intervento.

Dei tre, gli unici a cui non abbiamo accennato sono stati i fattori legati al paziente, che sono molteplici. Sono più a rischio pazienti sovrappeso, perchè sottopongono l’articolazione ad un carico maggiore e proporzionale al loro peso e sono più soggetti a complicazioni come problemi respiratori e cardiovascolari; pazienti operati a causa di artriti post-traumatiche o osteonecrosi ed infine pazienti che praticano un’attività fisica intensa, in quanto anch’essi caricano maggiormente la protesi.

Fig. 5.5 Il confronto fra la zone cerchiate mostra il fenomeno dello stress shielding.

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Quanto abbiamo descritto finora, sono i processi logici e meccanici che portano all’osteolisi. Dal punto di vista pratico, però, sono necessari degli esami con i quali poterla diagnosticare. Esami come la biopsia, fortemente invasiva, permettono di analizzare il contenuto dei fluidi periprotesici; per quantificare l’estensione e la gravità del problema, invece, si ricorre a biopsie, alle radiografie, a tomografie spirali computerizzate (spiral CT), a risonanze magnetiche (MRI) e tomografie ad emissione di positroni (PET).Gli esami più utilizzati, ad ogni modo, rimangono quelli radiografici. Una volta ottenuta l’immagine della zona protesizzata, infatti, è molto facile diagnosticare la presenza di osteolisi. Il riassorbimento osseo e la conseguente mancanza di contatto fra osso e stelo causa la formazione di linee di radiolucenza nell’immagine radiografica, linee che permettono di quantificare verificare la progressione dello scollamento.

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Fig. 5.6 Schema con i principali fattori di rischio che influenzano lo sviluppo dello scollamento asettico.

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5.3 Usura

Come abbiamo visto pochi paragrafi fa, l’usura è una delle cause principali dell’osteolisi.Affinché si necessiti un reimpianto, però, non è sempre necessario attendere l’insorgenza di quest’ultima. Dei registri delle sale operatorie abbiamo notato un numero importante di operazioni di sostituzione protesica dovuto semplicemente alla presenza dei detriti di usura.Talvolta una loro eccessiva quantità, infatti, basta a rendere la protesi dolorosa o inutilizzabile.I fallimenti dovuti all’usura avvengono principalmente a livello del cotile e in presenza di polietilene. Una volta che questo si è consumato, la protesi comincia a sfregarsi sull’osso, rendendo necessari interventi di reimpianto cotile o di sostituzione polietilenica.

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Fig. 5.7 Radiolucenza radiografica dovuta ad osteolisi.

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5.4 Scollamento settico

Il fallimento settico non si differenzia particolarmente da quello asettico dal punto di vista del comportamento dell’osso attorno alla protesi, ma è molto più grave di quest’ultimo in quanto si aggiunge la presenza di un’infezione, la complicanza post-operativa più pericolosa e difficile da trattare che ci sia.

I meccanismi che portano all’infezione di una protesi totale d’anca sono quattro.Il primo è dovuto ad una contaminazione durante l’intervento chirurgico. Sebbene questa fosse in passato la causa più comune di infezione, la profilassi odierna, che fra le varie procedure comprende l’utilizzo di cementi antibiotati, fa sì che i casi di infezione intraoperatoria siano davvero esigui.L’infezione più comune è dovuta ad una contaminazione ritardata. La protesi, inizialmente sterile, viene contaminata da batteri situati in altre regioni dell’organismo che si muovono attraverso il flusso sanguigno e, talvolta, attraverso le vie linfatiche.Un’infezione, inoltre, può essere scatenata dalla riattivazione di un’altra infezione già presente ma non individuata. Ciò accade in particolar modo i pazienti che sono stati precedentemente sottoposti ad altri interventi all’anca come osteotomie femorali o riduzione e sintesi di fratture acetabolari.Nell’ultimo caso, poco diffuso, l’infezione insorge a seguito di un breve intervento a causa di una frattura periprotesica in pazienti le cui ferite chirurgiche non sono ancora completamente guarite.

Per valutare al meglio le possibili evoluzioni di un’infezione protesica, è stata proposta una classificazione suddivisa in quattro stadi, detta “Classificazione a stadi di Coventry”; quest’ultima è basata sulle cause dell’infezione e su quando i sintomi cominciano a manifestarsi.Lo stadio I è l’infezione acuta post operativa, la classica infezione fulminante con ematoma infetto e infezione superficiale che si propaga in profondità; si osserva entro tre mesi dall’intervento.Lo stadio II consiste in un’infezione profonda ritardata. In questo stadio il paziente, le cui ferite chirurgiche sono ben guarite, accusa un dolore all’anca che si protrae dall’intervento. In questo caso, l’aspirazione dell’anca è un valido metodo diagnostico per comprendere l’infezione; si osserva dopo i tre mesi ed entro i due anni dall’intervento.Lo stadio III, infine, è rappresentato da un’infezione ematologica ritardata che causa nel paziente un’insorgenza acuta di dolore. La diagnosi, che può risultare difficile, viene effettuata attraverso esami del sangue in cui si valutano parametri come la conta dei globuli bianchi e la velocità di eritrosedimentazione.Esiste, infine, il cosiddetto “stadio Zero” che è rappresentato da un’infezione dovuta alla contaminazione in sala operatoria. Perchè si verifichi questo livello dovranno risultare positivi almeno due o tre tamponi intraoperatori.

Per diagnosticare la presenza di un’infezione, l’esame più utilizzato è l’FDG PET, la tomografia ad emissione di positroni con l’uso, come radiotracciante, del fluorodesossiglucosio, un importante indicatore che si accumula nei tessuti infiammati.

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Fig. 5.8 Protesi d’anca sinistra infetta. L’esame FDG PET mostra un aumento di attività periprotesica del radiotracciante all’interfaccia osso-protesi, lungo la parte laterale della componente femorale della protesi.

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5.5 Instabilità

L’instabilità, fra le più comuni cause di fallimento, racchiude al suo interno due condizioni distinte ma correlate tra loro: la lussazione e la sublussazione.Si parla di lussazione, o dislocazione, quando la testa del femore esce dalla sua sede sganciandosi completamente dalla cavità acetabolare e facendo venire meno il contatto fra le due entità, mentre la sublussazione è una dislocazione parziale in cui la testa femorale è solo in parte fuoriuscita dall’acetabolo.

Il rischio di instabilità non è costante: si può verificare poco tempo dopo l’intervento oppure anche dopo diversi anni. Il rischio, inoltre, aumenta col trascorrere del tempo e l’incidenza di lussazioni in impianti di oltre cinque anni, le cosiddette lussazioni tardive (late dislocation), si sta rivelando maggiore di quanto inizialmente si pensasse.

Le lussazioni che più frequentemente portano al reimpianto sono quelle inveterate e quelle recidivanti.Una lussazione si definisce inveterata quando è passato molto tempo dal momento in cui questa si è verificata a quando è stata trattata. Se non viene ridotta in un periodo di tempo sufficientemente prossimo al trauma, infatti, diventa molto più complesso, se non impossibile, eseguire manovre per ridurre la lussazione. Recidivante, invece, è la lussazione che si ripete con frequenza e facilità sempre maggiori e a seguito di traumi di intensità sempre più modesta. Una delle sue principali cause è un fenomeno detto “impingement”, che si verifica quando il collo della protesi tocca col bordo l’esterno dell’acetabolo e, in caso di movimenti bruschi e molto ampi, determina la fuoriuscita della testa protesica dalla cavità acetabolare.

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Figg. 5.9 e 5.10 Confronto fra lussazione (a sinistra) e sublussazione (a destra) della protesi.

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I fattori di rischio associati all’instabilità protesica possono essere legati al paziente o essere di tipo chirurgico.Per quanto riguarda quelli legati paziente, molti studi hanno dimostrato come il genere femminile sia più a rischio, probabilmente in quanto possiede un range di movimenti (ROM) preoperatorio solitamente maggiore di quello maschile. Il peso corporeo, invece, non è direttamente associato all’instabilità. Pare, invece, che sia inversamente collegato alle dislocazioni a causa del ROM minore dovuto al tessuto adiposo.Ci sono molte discussioni sui fattori legati all’intervento. Il più controverso è quello riguardante l’approccio chirurgico: un approccio posterolaterale ha una maggiore incidenza di instabilità rispetto a quelli anteriore e transtrocanterico.È, inoltre, fondamentale un’accurata scelta del tipo di protesi e la valutazione di aspetti come la dimensione della componente acetabolare, il ripristino corretto della lunghezza degli arti e l’offset femorale, ossia la distanza fra l’asse diafisario del femore e il centro di rotazione femorale.

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5.6 Migrazione

La migrazione protesica, specialmente nel primo anno, è un fenomeno inevitabile poiché la protesi deve adattarsi al nuovo ambiente biologico e meccanico.Il rimodellamento osseo e la plasticità del cemento o del tessuto fibroso periprotesico sono fattori che interagiscono con la protesi causando, nei primi mesi successivi all’intervento, un assestamento delle componenti protesiche e di conseguenza una migrazione delle stesse.

La migrazione, quindi, non va considerata di per sé un fattore di rischio per la protesi in quanto dipende dal tipo di forma di protesi usata.La componente protesica maggiormente soggetta migrazione è la cupola acetabolare.Spostamenti eccessivi e prolungati, in particolar modo nei primi anni dopo l’intervento, possono essere sintomo di una mancata stabilità protesica e, a lungo termine, causare la necessità di un reimpianto.

Diversi studi sono stati compiuti su migliaia di componenti acetabolari col fine di trovare una correlazione fra la quantità di spostamento nel tempo e il rischio di fallimento della protesi. Dai risultati ottenuti si è visto come migrazioni prossimali inferiori a 0,2 mm in due anni garantissero una sopravvivenza al 95% in 10 anni per ogni tipo di componente acetabolare analizzata. Una migrazione superiore al millimetro, invece, implicava un tasso di sopravvivenza inferiore al 5% in 10 anni.

Fig. 5.11 Radiografia preoperatoria anteroposteriore dell’anca destra che dimostra una severa osteolisi, scollamento e migrazione della coppa acetabolare, nonché una massiccia usura del polietilene.

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5.7 Squeaking

Lo squeaking, o cigolio, consiste in un suono originato dalla protesi. Diversi sono i motivi che lo originano. Quello principale è il tipo di impianto protesico utilizzato. Le protesi più a rischio sono quelle che utilizzano accoppiamenti ceramica-ceramica e, più raramente, metallo-metallo. Un’altra importante causa è imputabile al posizionamento della protesi durante l’operazione chirurgica: un allineamento impreciso delle componenti può favorire la comparsa del rumore.

L’incidenza dello squeaking è estremamente variabile. In impianti di ceramica viene riportato con tassi che vanno da meno dell’1% fino ad oltre il 20%.La sua insorgenza, però, non causa di per sé la necessità di un reimpianto. Questo è dovuto principalmente all’intensità di rumore generato e dalla sensibilità del singolo paziente. Possono, infatti, essere prodotti dei rumori che vengono solo parzialmente uditi dal soggetto operato. Il reimpianto viene effettuato solo quando il rumore diventa udibile in maniera distinta sia dal soggetto operato che da coloro che lo circondano.

5.8 Fratture

L’osso, sia femorale che acetabolare, se sollecitato da un trauma può fratturarsi. Il trauma non è l’unica causa di frattura ossea in presenza di protesi in sede articolare: infatti, in caso di gravissima osteolisi dell’osso, si può avere una frattura patologica, cioè senza un trauma violento o una caduta, ma dovuta solo alla debolezza dell’osso.

Le fratture periprotesiche, possono essere classificate in base all’eziologia ed in base alla localizzazione delle fratture.La classificazione eziologica distingue 4 tipi di fratture: - le fratture intraoperatorie, le cui cause dipendono da sesso (quello femminile è più soggetto a questo tipo di fratture), cattiva qualità dell’osso (osteoporosi, osteolisi), precedenti interventi, deformità ossee; - le fratture postoperatorie precoci, dovute principalmente a rimozione di mezzi di sintesi, protesi non cementate con crack femorali misconosciuti o stelo non sufficientemente lungo nelle revisioni;- le fratture post-operatorie tardive, soprattutto per gli impianti non cementati rispetto agli impianti cementati, per i quali il mancato alesaggio del canale riduce tale complicanza; - le fratture patologiche, che si realizzano in seguito all’osteolisi conseguente alla localizzazione di una metastasi da carcinoma a livello del femore; queste sono molto rare ma presentano comunque una probabilità di incombenza, soprattutto negli anziani.Per quanto riguarda la classificazione topografica di queste fratture, distinguiamo tre zone: quelle che interessano la regione trocanterica, quelle attorno o subito al di sotto dello stelo e, infine, quelle molto al di sotto dello stelo.

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La terapia nelle fratture periprotesiche di femore prevede un trattamento conservativo ed un trattamento chirurgico.Il trattamento conservativo consiste nel riposo a letto, nella trazione con successiva immobilizzazione in tutore o gesso e divieto di carico, in modo tale da ottenere la consolidazione della frattura e successivamente valutare la stabilità dell’impianto.Il trattamento chirurgico rappresenta la metodica di trattamento d’elezione nelle fratture che sono localizzate a livello dello stelo e risulta differente in base al tipo di frattura: si ricorre all’osteosintesi con cerchiaggi e/o con placche o con la revisione con steli lunghi cementati o non cementati.Le fratture riguardanti la sede cotiloidea rappresentano, invece, una sfida per il chirurgo ortopedico, sia per la zona in cui si trovano che per la presenza di una superficie ossea veramente limitata su cui poter lavorare. Sono infatti ancora in corso molti studi a riguardo che mirano a trovare tipologie di intervento sempre più ottimali, che consentano una aderenza del corpo protesico sempre migliore e che riducano l’invasività del secondo impianto.

I riferimenti bibliografici del presente capitolo sono i seguenti:

IntroduzioneJulia Orlik, Alexei Zhurov, John Middleton. On the secondary stability of coated cementless h i p replacement: parameters that affected interface strength. Medical Engineering & Physics 25 (2003) 825–831.

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Fig. 5.12 Frattura del femore.

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5.1http://www.simg.it/documenti/rivista/2012/03_2012/4.pdf

5.2http://www.drugs.com/cg/osteolysis.htmlhttp://www.fda.gov/MedicalDevices/ProductsandMedicalProcedures/ImplantsandProsthetics/MetalonMetalHipImplants/ucm241604.htmR Dattani. Femoral osteolysis following total hip replacement. Postgrad Med J 2007;83:312–316. doi: 10.1136/pgmj.2006.053215.Scott J. MacInnes, Andrew Gordon and J. Mark Wilkinson. Risk Factors for Aseptic Loosening Following Total Hip Arthroplasty.YH Zhu, KY Chiu and WM Tang. Polyethylene wear and osteolysis in total hip arthroplasty. Journal of Orthopaedic Surgery, Vol. 9 No. 1, June 2001.Yousef Abu-Amer, Isra Darwech and John C Clohisy. Aseptic loosening of total joint replacements: mechanisms underlying osteolysis and potential therapies. Arthritis Research & Therapy 2007, 9(Suppl 1):S6 (doi:10.1186/ar2170).

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6. I reimpianti

L’intervento di protesi totale d’anca è uno degli interventi chirurgici con il maggior tasso di successo e con i migliori risultati sul paziente. Come abbiamo visto, però, possono sussistere diverse complicazioni che rendano necessario un intervento di reimpianto. Considerato che gli interventi di protesizzazione crescono di anno in anno e si interviene anche su pazienti più giovani, è lecito pensare che gli interventi di reimpianto saranno anch’essi in aumento.Gli obiettivi di un intervento di revisione protesica sono molteplici: si vuole innanzitutto creare una struttura stabile in grado di preservare l’osso e i tessuti circostanti, migliorare le funzionalità motorie del paziente, risanare l’anca dal punto di vista biomeccanico e stabilizzare la struttura ossea qualora si rendessero necessari ulteriori interventi.I due scopi principali, però, sono quelli di garantire un immediato fissaggio della protesi ed una stabilità a lungo termine. Gli interventi di reimpianto non comportano sempre la necessità di una sostituzione totale della protesi primaria. A seconda delle cause di fallimento, infatti, può essere possibile che vengano rimosse e sostituite solo alcune delle componenti protesiche.

6.1 Innesti ossei

Quando è necessario sostituire lo stelo o il cotile, ci si trova a dover operare su un femore o un acetabolo in cui erano già presenti delle componenti protesiche. La loro rimozione, quindi, comporta una minore disponibilità di osso primario sul quale poter lavorare. Per questo motivo, quando è necessario un reimpianto totale è frequente l’utilizzo di innesti ossei o di loro sostituti.

L’osso ha tre proprietà uniche che sono essenziali per la guarigione e l’integrazione degli innesti ossei. Queste sono l’osteogenesi, ossia la capacità dell’osso di produrre nuovo osso, l’osteoinduzione, con cui l’osso recluta cellule staminali mesenchimali che poi si differenziano per generare nuovo osso e l’osteoconduzione, processo con cui si genera un’impalcatura (scaffold) temporanea composta da capillari e tessuto perivascolare sulla quale l’osso potrà successivamente crescere.

Gli innesti ossei si distinguono fra autoinnesti e alloinnesti.Gli autoinnesti, consistono in osso preso dallo stesso paziente, solitamente dalla cresta iliaca dalla testa femorale o dal perone. Sono considerati l’opzione migliore in quanto posseggono tutte e tre le proprietà elencate in precedenza. Hanno, però, delle importanti limitazioni. Si può, infatti, contenere solo una piccola quantità di osso sfruttando questa tecnica, quantità di solito insufficiente a riempire larghe aree in cui l’osso si è riassorbito. Il prelievo di osso dal paziente stesso, inoltre, può compromettere l’architettura scheletrica e l’integrità meccanica del donatore, nonché lo stato patologico. Può capitare infatti che si verifichino complicazioni che comportino un aumento del tempo di ricovero del paziente, dolore cronico o disabilità.

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Gli alloinnesti, invece, utilizzano osso proveniente dalle teste femorali di altri pazienti sottoposti a protesizzazione totale d’anca o da cadaveri recenti. Questo annulla le possibili complicazioni per il paziente, ma diminuisce il tasso di fusione in quanto questo tipo di osso possiede solo proprietà osteoconduttive, limitate proprietà osteoinduttive e, per quanto riguarda l’osteogenesi, produce nuovo osso ad una velocità molto inferiore a quella che si avrebbe con un autoinnesto. Quando si effettua un alloinnesto, inoltre, bisogna stare estremamente attenti alla provenienza dell’osso utilizzato. Capita spesso, infatti, che l’osso venga contaminato da batteri che possono trasmettere gravi malattie al paziente. Per tale motivo le ossa sono sottoposte a controlli molto serrati prima di essere immagazzinate.

Ci sono, infine, dei sostituti agli impianti ossei. Si tratta di riempitivi contenenti, per esempio, titanio, collagene, fosfati di calcio, vetri di bioattivi o ceramiche composte di idrossiapatite. È stato dimostrato che questi sostituti suscitano risposte biologiche simili a quelle dell’osso. Sono materiali osteoconduttivi, biocompatibili e facilmente sterilizzabili; inoltre non causano malattie e possono essere utilizzati in mancanza di innesti ossei. I loro difetti principali consistono nella mancanza di proprietà osteoinduttive ed osteogeniche e alla loro incapacità di rappresentare una struttura di supporto immediato.

6.2 Perdite ossee

Il reimpianto è un intervento molto complesso. Rispetto ad un intervento di protesizzazione primaria è molto più a rischio di complicazioni, fra le quali lussazioni, anche in semplici operazioni, infezioni, fratture o perforazioni corticali.Prima di effettuare l’operazione è perciò necessario compiere degli studi approfonditi sulla situazione clinica del paziente e sulla zona su cui si dovrà intervenire.Per aiutare il lavoro dei chirurghi, sono state redatte alcune classificazioni che permettono di valutare quali siano le perdite ossee presenti e, di conseguenza, come sia meglio agire.

Le classificazioni più seguite a livello mondiale sono state create dal Dottor Wayne Paprosky, uno dei primi chirurghi a compiere interventi di protesi totale d’anca senza cemento, e sono due: una utilizzata per l’acetabolo ed una per il femore.

Classificazione Paprosky per le perdite d’osso acetabolare.Si divide in tre tipi, con alcuni sotto-casi, valutando lo stato dell’orlo acetabolare.Nel I Tipo l’orlo è intatto e senza distorsioni significative, sono al massimo presenti piccole migrazioni superiori o mediali. L’ischio e la figura a lacrima di Kohler sono intatti.L’acetabolo mantiene la sua forma emisferica anche in presenza di piccole aree in cui si è riassorbito l’osso. Il 90% dell’osso è ancora disponibile. In questo caso si può operare utilizzando un cotile avvitato senza l’uso di cemento. Si possono effettuare innesti di osso spongioso in presenza di piccoli riassorbimenti.

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Si parla di II Tipo quando l’orlo rimane intatto ma è distorto, la migrazione delle componenti fallite è inferiore ai 2 cm e la superficie di contatto fra osso e cotile è superiore al 70% del totale. Il tipo II si divide in tre sottocategorie: IIA, IIB e IIC.Nel caso IIA la migrazione e la conseguente perdita di osso è avvenuta nella direzione supero-mediale, con l’orlo superiore intatto. Nel IIB la migrazione è di tipo supero-laterale e l’orlo acetabolare superiore è parzialmente distrutto (meno di un terzo della circonferenza totale) mentre nel IIC la migrazione è nella direzione mediale con l’orlo acetabolare conseguentemente intatto.Anche in questi tre casi si possono utilizzare un cotile avvitato senza l’uso di cemento e innesti di osso spongioso.Il III Tipo, infine, indica un danno più consistente. L’orlo acetabolare non è in grado di garantire la stabilità iniziale dei componenti e sono necessari degli alloinnesti per colmare la mancanza di osso. A seconda della gravità il Tipo III si divide in IIIA e IIIB.Nel IIIA si ha una migrazione supero-laterale di oltre 3 cm e la presenza di una quantità di osso variabile tra il 40 e il 60%. Questa permette ugualmente la crescita interna, ma il cotile avvitato ha bisogno di una forma particolare in quanto l’orlo acetabolare non garantisce la stabilità.Nel IIIB la quantità di orlo danneggiato è superiore al 50%, si è verificata una migrazione supero-mediale e c’è meno del 40% di osso disponibile. In questo caso, oltre all’alloinnesto, è consigliato utilizzare una gabbia da appoggiare sull’osso rimasto e su cui cementare il cotile, al fine di garantire una maggiore stabilità.

Fig. 6.1 Classificazione Paprosky per le perdite d’osso acetabolare.

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Classificazione Paprosky per le perdite d’osso femorale.La classificazione femorale, invece, tiene conto delle perdite d’osso a livello metafisario e diafisario.Nel I Tipo la perdita di osso spongioso metafisario è minima, mentre la diafisi è completamente intatta. Il reimpianto dello stelo può avvenire con tecniche pressoché identiche a quelle di un intervento di protesizzazione primaria.Nel II Tipo la diafisi è sempre intatta, mentre a livello metafisario si nota una perdita d’osso moderata. Tale mancanza di osso spongioso fa diffidare da reimpianti con l’utilizzo di cemento e, invece, propendere per quelli non cementati con stabilizzazione diafisaria.Il III Tipo si distingue in IIIA e IIIB a seconda del danno diafisario. In entrambi i casi la perdita metafisaria è consistente; nel IIIA sono presenti più di 4 cm di osso corticale che possano permettere allo stelo di aderire, mentre nel IIIB meno di 4. Ciò fa sì che, oltre agli innesti, nel primo caso si possa utilizzare uno stelo rugoso mentre nel secondo, considerato che la metafisi non può sostenere carichi, sia consigliato usare steli lunghi e modulari, in entrambi i casi non cementati.Nel IV Tipo, infine, il danno è esteso in entrambi i livelli, rendendo pressochè impossibile trovare un istmo che permetta di supportare lo stelo. In questo caso si valutano solamente innesti ossei o l’utilizzo di megaprotesi d’anca.

I riferimenti bibliografici del presente capitolo sono i seguenti:Dispense corso “Bioingegneria Meccanica”, Prof.ssa Bignardi http://www.orthobullets.com/recon/5009/revision-total-hip-arthroplastyhttp://www.stefanoguidotti.it/Osteogenesi_osteoinduzione_osteoconduzione.dochttp://www.wheelessonline.com/ortho/paprosky_classification_of_acetabular_defects

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Fig. 6.2 Classificazione Paprosky per le perdite d’osso femorale.

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7. Strategie di prevenzione e riduzione dei fallimenti

Con l’aumentare degli interventi di protesizzazione totale d’anca, diventa sempre più importante adottare delle strategie efficaci che permettano di allungare la vita dell’impianto, riducendo la quantità di fallimenti. Come abbiamo visto, infatti, i fallimenti non sono esclusivamente imputabili alla protesi: un comportamento corretto del soggetto operato, può evitare o posticipare la necessità di reimpianti.Specialmente nella fase post-operatoria, la prevenzione è fondamentale: ci sono alcune indicazioni sul range di movimenti che si possono compiere e sulle posizioni da evitare.

Varie tecniche e strategie si sono susseguite nel tempo per cercare di arginare i danni e diminuire i rischi che portano al fallimento della struttura protesica.Facendo riferimento ai dati ricavati al CTO e all’esperienza del tirocinio possiamo sostenere che una questione ancora aperta molto attuale riguarda la prevenzione farmacologica delle complicanze: l’osteolisi asettica è ritenuta la principale fra le cause più frequenti di fallimento dell’impianto di artroprotesi; l’ipotesi più accreditata è che un’alta densità minerale ossea fornisca miglior supporto per la fissazione dell’impianto e che, quindi, sia essenziale per contrastare la tendenza al riassorbimento osseo, spostando l’equilibrio metabolico verso un aumento dell’attività osteoblastica.Per questo motivo si è pensato di ricorrere a farmaci contenenti bisfosfonati, una classe di farmaci anti-riassorbitivi ritenuta la più idonea a ridurre la mobilizzazione degli impianti: da uno studio comparativo condotto nel 2007 su questi farmaci anti-riassorbitivi e anti-fratturativi è emerso come questi inibiscano la proliferazione dei macrofagi e ne causino l’apoptosi, ovvero una forma di morte delle cellule programmata.

La qualità metodologica degli studi clinici sulle artroprotesi d’anca sta migliorando, ma si riscontrano ancora delle carenze nella fase di pianificazione, esecuzione e pubblicazione dei risultati dello studio, che spesso compromettono i risultati di anni di lavoro. Risultano ancora pochi, inoltre, gli studi di buona qualità sia sul periodo pre-operatorio che sulle terapie che possono prevenire o ritardare la necessità di una sostituzione protesica. Tutti questi fattori, che potrebbero avere un ruolo determinante nel buon esito dell’intervento, non sono solitamente tenuti in dovuta considerazione tra le variabili da standardizzare negli studi clinici.La prospettiva del paziente è ancora troppo poco considerata negli studi clinici sugli impianti protesici dell’anca. E’ così auspicabile che avvenga una diffusione maggiore di strumenti quali questionari compilabili dal paziente sia perché questi hanno basi metodologiche solide, sia perché rappresentano strumenti validi per la valutazione delle qualità della vita.

I riferimenti bibliografici del presente capitolo sono i seguenti:http://www.globeweb.org/documenti/pdf/PNLG_Protesi_anca.pdf

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Fonti delle immagini

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