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TRADE WAR USA-CINA: Effetti macroeconomici e ......UE ai dazi USA su acciaio e alluminio, che...

Date post: 11-Jul-2020
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TRADE WAR USA-CINA: Effetti macroeconomici e implicazioni sugli scambi mondiali di merci Giugno 2019
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TRADE WAR USA-CINA: Effetti macroeconomici e implicazioni sugli scambi

mondiali di merci

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Executive Summary Con l’acuirsi dello scontro USA-Cina, le analisi internazionali si fanno più accurate e vertono sugli interrogativi principali: quali saranno gli effetti per i contendenti, per i partner e per il sistema economico e commerciale globale nel suo insieme? Tutte pronosticano perdite secche in termini di Pil sia per gli Stati Uniti che per la Cina ed un impatto ancor più significativo sui flussi commerciali bilaterali e sul commercio mondiale. Tuttavia, si prospetta anche la possibilità che l’effetto “sostituzione” dovuto ai dazi possa offrire ai partner mondiali la possibilità di incrementare le proprie esportazioni sia negli USA che, in misura minore, in Cina. In termini assoluti, la UE risulterebbe essere l’area che trae il maggiore vantaggio. Tale primato, stimato in termini “assoluti”, non rispecchia però le grandezze reali: i 70 miliardi di USD di export aggiuntivo che la UE potrebbe conseguire in caso di total trade war fra USA e Cina, equivalgono a meno dell’1% del suo export mondiale, laddove i 27 del Messico, o i 23 del Giappone, rispettivamente il 5,9% ed il 2,3%. Inoltre, queste analisi non considerano l’impatto del versante transatlantico: dalle contromisure UE ai dazi USA su acciaio e alluminio, che potrebbero aumentare nei prossimi 18 mesi, ai dazi che potrebbero essere adottati da entrambi UE e USA fra l’estate e la fine dell’anno nel quadro della disputa Boeing-Airbus, nonché quelle – che porrebbero fine alle trattative in corso per un accordo tariffario – conseguenti a possibili dazi USA sull’import di auto. Un aspetto sul quale tutti gli analisti concordano è che le frizioni USA-Cina non si esauriranno nel breve periodo, anche nell’eventualità che al G20 di Osaka di fine giugno Trump e Xi Jinping trovino un accordo. Tale prospettiva appare condivisibile e pone un interrogativo sempre più pressante: la sensazione diffusa è che quando gli Stati Uniti avranno risolto (anche temporaneamente) la vexata quaestio con la Cina, si concentreranno sulla UE dove, oltre alla manifattura e le auto in particolare, il fronte più delicato sarà il dossier agricolo, principale interesse USA nel quale gli interessi italiani sono rilevanti, gli orientamenti del governo sono tradizionalmente conservativi e l’opinione pubblica, italiana ed europea, è particolarmente sensibile. Infine, tra le preoccupazioni che Confindustria segnala da tempo, ora anche al centro dell’attenzione dei governi, assume concretezza il timore di un collasso del WTO, le cui conseguenze per l’intera comunità economica internazionale, ed in particolare per le economie esportatrici come la nostra, sarebbero incalcolabili.

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Inquadramento. All’acuirsi delle tensioni commerciali fra USA e Cina e alle minacce di ulteriori misure ritorsive, si è accompagnata un’analisi più attenta delle possibili conseguenze. In particolare sugli effetti nel breve periodo per i due protagonisti, sui costi di una guerra a tutto campo per l’economia mondiale e per i principali partner commerciali, tra cui la UE. Nonostante la difficoltà a formulare previsioni attendibili, alcuni recenti studi forniscono degli scenari. Stato dell’arte e sviluppi recenti - USA vs. Cina. A partire dal 10 maggio gli USA hanno applicato un dazio del 25% su 250 miliardi

di USD di beni importati dalla Cina (50 in precedenza + 200), cifra che rappresenta oltre il 47% degli acquisti totali degli USA dal mercato cinese1. Scomponendo questo valore per categorie di prodotto, oggi sono sottoposti a dazi aggiuntivi USA oltre l’86% dei beni intermedi acquistati dalla Cina, il 40% di quelli strumentali ed il 33% di quelli finali. Come evidenziato dal Peterson Insititute2, tali ritorsioni sono inedite nella storia delle relazioni fra i due paesi. Il record precedente risaliva al 1986 e riguardava il 39% dell’import USA dalla Cina. A quell’epoca, tuttavia, la sua incidenza sulle importazioni totali USA era di appena l’1,4% (0,1% del PIL nazionale); nel 2018 ha rappresentato il 21,2% del totale, per oltre il 2,6% del PIL.

- Cina vs. USA. La risposta cinese si è manifestata il 14 maggio, con un aumento dei dazi fra il 5%

e il 25% su 60 miliardi di USD di import dagli USA in vigore dal 1 giugno, che si aggiunge ai 50 miliardi già sottoposti a dazio del 25% come ritorsione alle prime fasi dell’offensiva americana fra luglio e agosto 2018. A partire da giugno, dunque, oltre il 70% dell’import cinese dagli USA è sottoposto a restrizioni. Da notare che saranno colpiti in larga parte settori tradizionalmente sensibili per l’elettorato repubblicano, come quelli agricolo, minerario e tessile, per i quali i dazi cinesi incideranno sul 100% delle linee tariffarie.

Sulle trattative pende la minaccia USA di ulteriori dazi del 25% sui rimanenti 325 miliardi di USD di import dalla Cina, che di fatto esaurirebbe l’intero flusso in entrata. Sembra chiaro, tuttavia, che la situazione rimarrà invariata almeno fino al G20 di Osaka (28-29 giugno), quanto Trump e XI Jinping si incontreranno per tentare di raggiungere una tregua. Asimmetrie fra le misure. Un aspetto di rilievo è che le differenze non riguardano solo l’ammontare di beni sottoposti a maggiori tariffe (250 mld di USD da parte USA vs 110 da parte cinese), giustificato dall’entità dei flussi bilaterali, ma anche l’incremento daziario. Fino al 2017 il dazio medio applicato dagli USA sui beni importati dalla Cina era pari al 3,1%3; a fine 2018 era salito al 12,4% (+400%). Per la Cina, da un applicato medio 2017 dell’8%, si è saliti al 19,6% (+245%). Questa circostanza illustra le situazioni di partenza: la protezione media tariffaria cinese è ancora relativamente alta, comunque maggiore di quella USA (ed UE) grazie allo status di Paese in via di sviluppo di cui ancora la Cina gode presso il WTO, nodo centrale nelle ipotesi di riforma dell’Organizzazione di Ginevra che si stanno profilando in questi mesi.

1 Fonte: Elaborazione dati UN-Comtrade relativi al 2018.

2 PIIE: Will a US-China deal remove the massive 2018 tariffs? (Aprile 2019).

3 Fonte: Elaborazione dati WTO.

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Effetti sull’economia e sul commercio globale. E’ opinione diffusa che le tensioni si protrarranno per anni fra tregue e accelerazioni ed, anche con un accordo, difficilmente il livello dei dazi verrà riportato presto ai livelli pre-crisi. Pertanto gli ultimi scenari di previsione incorporano l’ipotesi che dazi del 25% colpiscano la totalità degli scambi fra i due Paesi. - L‘OCSE4 ha stimato un impatto al 2021 sul PIL di USA e Cina rispettivamente del -0,8% e -1,0%.

Se ad un aumento dei dazi si aggiungesse un irrigidimento delle condizioni di finanziamento, l’impatto potrebbe giungere all’1% per gli USA e all’1,3% per la Cina. Ben più gravi sarebbero gli effetti sul commercio globale, che nella simulazione peggiore potrebbe contrarsi dell’1,9%, sostanzialmente dimezzando le sue performance attuali.

- Il Fondo Monetario Internazionale5, pur con diverse simulazioni basate su differenti modelli,

giunge a conclusioni analoghe confermando che sarebbero i due protagonisti dello scontro a subire le conseguenze peggiori. Nel caso di tensioni prolungate, con una flessione del commercio bilaterale del 25-30% nel breve periodo, e fino al 70% nel lungo, la contrazione annuale del PIL USA sarebbe fra il -0,3% e il -0,6% e di quello cinese fra lo -0,5% e l’-1,5%.

- Oxford Economics6 ipotizza che le recenti restrizioni comporterebbero, nel 2020, un -0,3% del

PIL USA e del -0,8% per la Cina. Con dazi al 25% sull’intero import da Pechino, l’impatto negativo, sempre al 2020, si innalzerebbe rispettivamente al -0,5% per gli USA e di oltre -1% per la Cina.

- La Banca Centrale Europea7 si concentra sul medio periodo e ritiene che l’eventuale escalation

potrebbe determinare fino al -1,5% per il Pil USA, mentre le conseguenze per la Cina potrebbero risultare positive (+0,6%). Ampiamente negative sarebbero invece le performance dell’economia e del commercio mondiale, che si ridurrebbero rispettivamente del -1% e del -2,5%.

Conseguenze per gli altri partner. Indipendentemente dai modelli utilizzati, la guerra commerciale USA-Cina è prevista produrre conseguenze negative sull’intero commercio globale. Un interessante tentativo di quantificare l’effetto spillover è stato condotto recentemente da FMI e Unctad. Utilizzando tre diverse proiezioni, il FMI8 stima che a fronte di una contrazione dell’export cinese negli USA fra il 25% e il 71% nel medio periodo le più importanti economie asiatiche aumenterebbero le proprie vendite negli USA fra l’1,8% e il 10,6%, con brillanti performance di Vietnam (fino al 13,9%), Thailandia e Malesia (10,8%), Corea (fino al 10,7%) e Giappone (fino al 10,6%).

4 OECD: Global growth is slowing amid rising trade and financial risks (Novembre 2018).

5 IMF: The drivers of bilateral trade and the spillover from tariffs (Aprile 2019).

6 Oxford Economics: Higher tariffs weigh on growth outlook (Maggio 2019).

7 ECB: The economic implications of rising protectionism: a euro area and global perspective (Aprile 2019).

8 IMF: The drivers of bilateral trade and the spillover from tariffs (Aprile 2019).

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L’Area Euro aumenterebbe l’export negli USA fra l’1,7% e l’8,4% (con la Germania a trarre i vantaggi maggiori), mentre Canada e Messico ne beneficerebbero rispettivamente fra il 2,5% e il 7,5% e fra il 2,8% e 4,3%. Di segno opposto sarebbero invece le conseguenze sul mercato cinese: a fronte di un calo degli acquisti dagli USA fra il 36% e il 77%, tutti i più importanti partner cinesi vedrebbero ridurre le proprie esportazioni verso Pechino. L’area Euro fra il -1,6% e il -4,3%, l’Asia fra -0,8% e -4,9%, il Nafta fra -2,9% e -4,4%. Caso esemplare è quello dell’elettronica USA, che sperimenterebbe una significativa rimodulazione dei fornitori. Da primo (22,1% del mercato) la Cina passerebbe al 4° posto (11,5%), scavalcata dall’Est Asia (che passerebbe dal 15,6% al 17,7%), dal Messico (14,6%) e dal Canada (12,3%). L’Unctad9 concentra l’analisi sull’effetto sostituzione che interesserebbe i prodotti manifatturieri divenuti più cari a causa dei dazi. Per ciascuno dei principali settori si distingue fra Trade diversion (acquisto dello stesso bene da altri fornitori), Retention (acquisto continuato, ma ad un prezzo maggiorato) e Trade Loss (sostituzione con uguale prodotto reperito sul mercato domestico). La conclusione generale è che larga parte dei prodotti gravati da dazi aggiuntivi negli USA e in Cina verrebbero acquistati da paesi terzi per percentuali comprese fra l’80% e il 90%. Soltanto una quota residuale sarebbe rilevata da produttori domestici o acquistata a prezzi maggiorati dagli stessi fornitori. Alcuni esempi: per i macchinari, a fronte di acquisti USA dalla Cina per 33 miliardi di USD, 27 sarebbero dirottati verso altri paesi, 4 rimarrebbero appannaggio di imprese cinesi e solo 2 verrebbero sostituiti con fornitori locali. Percentuali simili riguarderebbero le macchine elettriche (25 miliardi su 32), mezzi di comunicazione (19 su 25) e veicoli da trasporto (10 su 14). I settori coinvolti nell’esercizio sono diversi, ma le conclusioni non differiscono nel caso degli acquisti da parte della Cina. Su 14 miliardi di import di prodotti chimici dagli USA, 12 verrebbero importati da altri paesi e appena 2 continuerebbero ad essere acquisiti da imprese USA. Nel caso dei prodotti vegetali, su 13 miliardi di import dagli USA la quasi totalità verrebbe riacquistata da altri produttori, così come per i veicoli a motore (11 miliardi su 12) e i prodotti della meccanica (6 miliardi su 8). In termini geografici (non di peso relativo), la UE trarrebbe i vantaggi maggiori, con 70 miliardi di ulteriore export (50 negli USA e 20 in Cina); seguirebbe il Messico (27 miliardi, di cui 19 negli USA), il Giappone (23 miliardi), Canada (21) e Corea (16). Effetti sulle catene regionali del valore. Oltre che sui flussi commerciali, il protrarsi dello scontro tariffario produrrebbe effetti significativi in termini di allocazione delle risorse e degli investimenti manifatturieri. Le stime dell’Unctad indicano, ad esempio, che le Value Chains dell’Est Asia e del Nord America sarebbero quelle colpite più negativamente dal calo degli scambi all’interno delle filiere. Nell’East Asia tali flussi si ridurrebbero per circa 160 miliardi di USD, mentre nell’area USMCA per circa 10 (nel Nord America - USA-Messico-Canada - gli effetti dei dazi cinesi sarebbero quindi quasi compensati). A beneficiare di maggiori flussi sarebbero in primis le filiere europee, per circa 90 miliardi di USD, seguite da quelle del resto dell’Asia (40) e del Sud America (30).

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UNCTAD: Key Statistic and trends in trade policy (Febbraio 2019).

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Conclusioni. Al di là dei valori delle previsioni, appare condivisibile l’opinione secondo cui l’efficacia dei dazi (USA e Cinesi) non si dispiegherebbe nel proteggere le imprese nazionali, ma nel limitare l’export del rivale. Analogamente, è assai probabile che nel medio periodo le quote di mercato liberate dai dazi verrebbero occupate da produttori terzi. Soprattutto negli USA, poiché la Cina, prima potenza manifatturiera mondiale e – soprattutto - economia pianificata, avrebbe maggior successo nel ricorso a produzioni domestiche. Appare ugualmente ragionevole stimare che, date le dimensioni del suo mercato e del suo commercio mondiale, l’UE trarrebbe dalla trade diversion i vantaggi maggiori in termini assoluti, specie dagli USA, ma gli effetti in termini relativi risulterebbero più premianti per altri attori. Basti pensare che i 70 miliardi di export aggiuntivi stimati per la UE equivalgono a meno dell’1% del suo export mondiale, laddove i 27 del Messico, o i 23 del Giappone, “valgono” rispettivamente il 5,9% ed il 2,3% delle loro esportazioni globali. Anche sommati all’aumento degli scambi interni alle filiere produttive europee, stimati in 90 miliardi di USD, tuttavia, i costi di un avvitamento protezionistico eccedono ancora largamente i vantaggi “collaterali”. Gli scenari analizzati non considerano infatti l’altro fronte aperto dagli USA, che ci riguarda più da vicino, ossia quello transatlantico. Nell’eventualità, ad esempio, di dazi USA erga omnes del 20-25% sulle auto (che darebbero luogo a ritorsioni UE per quasi 60 miliardi di USD di import dagli USA)10, molti dei presupposti alla base dei benefici da “sostituzione” sopra descritti decadrebbero, si interromperebbero irrimediabilmente i negoziati in corso per l’accordo sui dazi industriali UE-USA e svanirebbe la possibilità di rimuovere i dazi USA sui prodotti siderurgici. Impatto ugualmente negativo si avrebbe con l’adozione di dazi compensativi da ambo le parti a seguito delle sentenze finali del WTO (tra luglio-agosto e fine anno) sui sussidi a Boeing ed Airbus, per le quali gli USA hanno stimato di poter colpire 11 miliardi di USD di import dalla UE e la UE 12 di quello dagli USA. Le stesse previsioni, infine, non considerano le esternalità negative sulla fiducia delle imprese, sul panorama finanziario globale e sulle già traballanti istituzioni di governance economica e commerciale globale, il cui tracollo (soprattutto della stessa WTO) causerebbe un black out sistemico dalle conseguenze incalcolabili.

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Il termine per la decisione sui dazi auto era il 18 maggio. E’ di questi giorni la notizia che l’Amministrazione americana avrebbe deciso di procrastinarla di ulteriori sei mesi, ventilando però anche un’ipotesi succedanea. Come nel caso dei dazi acciaio e alluminio, gli USA offrirebbero ai principali produttori mondiali (UE e Giappone) la possibilità di essere esentati dagli eventuali dazi adottando una auto-limitazione, ossia soggiacendo ad un sistema di contingenti (quote). Come per la siderurgia, la Commissione UE si è affrettata a dichiarare l’impercorribilità di tale soluzione.


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