UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DEL MOLISE
DIPARTIMENTO DI ECONOMIA, GESTIONE,
SOCIETÀ E ISTITUZIONI
Corso di Laurea Magistrale in
Scienze Politiche e delle Istituzioni Europee
Tesi in: Diritto privato comparato
“MATRIMONIO E DIRITTO DI FAMIGLIA NEGLI
ORDINAMENTI DEI PAESI MUSULMANI”
RELATORE Chiar.mo Prof.
Federico Pernazza
CORRELATRICE Chiar.ma Prof.ssa
Maria Beatrice Deli
CANDIDATA
Ilaria Salvatore
matr. 145977
Anno Accademico 2012/2013
INTRODUZIONE
SOMMARIO: 1) Percorso storico/culturale dell’Islam; 2) Fonti del diritto, rami del diritto e scuole
giuridiche; 3) Modernizzazione della giurisprudenza.
1) PERCORSO STORICO/CULTURALE DELL’ISLAM
L’era islamica ha inizio nel 622 d.c., quando Maometto e i suoi fedeli compirono l’“egira”
abbandonando la Mecca per i contrasti sorti con gli abitanti della città. Il mondo musulmano,
quindi, segue una datazione diversa da quella utilizzata nel mondo occidentale.
Maometto non era altro che un profeta, uno dei tanti apparsi sulla terra nel corso della storia. Su
questo elemento si basa la vicinanza, molto sentita dalle istituzioni musulmane, alle altre
confessioni monistiche fondate sulla parola dei profeti riconosciuti dall’Islam.
Maometto, però, era l’ultimo dei profeti e da questo dato di fatto si fa discendere la superiorità dei
musulmani, gli unici in grado di poter conoscere l’intera Rivelazione.
L’Islam, infatti, riconosce piena dignità alla “Gente del libro” (cristiani ed ebrei), ritenendo che la
sua origine sia comune a quest’altre confessioni; ma, questo riconoscimento, non implica
l’uguaglianza tra i vari fedeli: solo i musulmani sono in grado di vivere rettamente grazie alla
conoscenza della Rivelazione completa.
Ad ogni modo, questo riconoscimento, produce dei rilevanti effetti giuridici: ebrei e cristiani
godono della “dhimma” (un patto di protezione illimitato), non sono considerati miscredenti e la
loro religiosità è pienamente riconosciuta, tant’è vero che i gruppi fondamentalisti non rivolgono
mai la loro azione (spesso violenta) contro i fedeli di queste confessioni; quando si verificano
episodi del genere, la motivazione originaria non è mai la religione, che viene strumentalizzata per
il perseguimento di interessi di altra natura.
Dopo la morte di Maometto si procedette a consolidare la parola del Profeta. Era l’ “età dell’oro”,
cioè il periodo in cui si sarebbe realizzata una perfetta società islamica. Ciò segnò profondamente il
modo di pensare e di agire dei musulmani; infatti, il modello ideale di società si è concretizzato
sulla terra (a differenza di quanto ritengono i cristiani) e quindi quell’esperienza storica rappresenta
il punto di riferimento da cui partire e il traguardo verso cui tendere: è a quel modello che bisogna
tornare. Ecco perché, l’Islam, viene rappresentata da più parti come una religione naturalmente
conservatrice o, per meglio dire, inevitabilmente rivolta al passato e non al futuro, come invece
accade ad altre religioni1.
Ma, con la morte del Profeta, l’unità dell’Islam si ruppe, proprio a causa delle discordanze sulla sua
successione. Da quel momento, si crearono due grandi ramificazioni all’interno della comunità
islamica, che persistono ancora oggi: i sunniti e gli sciiti. Nel corso del tempo, i sunniti sono sempre
stati in maggioranza, mentre gli sciiti hanno avuto un ruolo politico e religioso minoritario. Ancora
oggi, circa il novanta per cento dei musulmani sono sunniti, mentre gli sciiti sono circa il dieci per
cento e si trovano soprattutto in Iran, in Iraq e nel sud del Libano.
La differenza fondamentale tra sunniti e sciiti, tra Sunna e Sci’a, riguarda il problema
dell’individuazione del capo della comunità, sorto subito dopo la morte di Maometto (avvenuta nel
632 d.C.). Si può dire, quindi, che questa scissione e la successiva nascita delle due scuole, ha
origine con la fine della vita terrena del Profeta.
Subito dopo questo avvenimento, la maggior parte dei credenti riteneva che Maometto non avesse
designato il suo successore e che quindi, fosse compito della comunità islamica eleggerlo, mentre
una minoranza sosteneva che egli avesse già designato il suo successore nella persona di Alì, suo
cugino e genero. Il primo gruppo di fedeli, affidò l’elezione di una figura così importante per la
comunità ad un’assemblea di saggi che designò, con il titolo di “primo califfo”, Abu Bakr. Il
secondo gruppo, quello minoritario, continuò a sostenere Alì, ritenendo illegittima l’elezione del
nuovo Califfo e considerando quest’ultimo un usurpatore dei diritti del loro prediletto. Coloro che
avevano considerato giusta e corretta l’elezione di Abu Bakr, furono denominati “sunniti”, per la
grande importanza da loro attribuita alla Sunna, la tradizione del Profeta. I loro oppositori, avversi a
quelle ‘strane’ elezioni e seguaci del genero di Maometto, vennero riconosciuti con il termine
“sciiti”: quest’appellativo deriva dalla parola “sci’a”, che significa fazione o partito, e, fu utilizzato
proprio per denominare il gruppo che sosteneva e spalleggiava Alì, il cosiddetto “Shi’atul Alì” (il
partito di Alì).
Un’altra differenza preponderante tra questi due mondi, risiede nella determinazione dei poteri da
attribuire al successore del Profeta: secondo l’Islam sunnita, il califfo è il capo e il difensore della
comunità; egli viene considerato il guardiano della Shari’a ma, il suo compito, non è quello
d’interpretare la legge divina e di definire le questioni religiose in generale, bensì, quello di
1 Sull’argomento, si veda “Dispense di diritto islamico” di Nicola fiorito e “Due sistemi a confronto: la famiglia
nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 5-9.
amministrare la legge ed esercitare le funzioni di giudice. Di conseguenza, egli non ha lo status di
autorità religiosa; egli gode del potere temporale e non, anche, di quello spirituale. Non è
considerato né impeccabile, né infallibile e, la sua parola, non è dogma di fede. Per gli sciiti, invece,
il capo della comunità islamica (in quanto successore del Profeta), non è il califfo, ma l’Imam.
Secondo la tradizione di questo gruppo di credenti il governo, fondato sulla religione, è tenuto a
preservare il vero ordine islamico nell’ambito della comunità, in modo che l’uomo non adori altri
che Allah, fruisca di libertà (individuali e sociali) e goda della giustizia, in ambito sia individuale
che sociale. Tali finalità possono essere perseguite e conseguite soltanto da un individuo infallibile
e protetto da Allah contro la possibilità di errare: questo soggetto, viene individuato dagli sciiti nella
figura dell’Imam. Generalmente, con questo termine, s’intende la persona che “sta davanti” ossia
che dirige la preghiera pubblica e collettiva; ma, tale espressione, viene utilizzata anche per indicare
il vero capo della comunità e, più in particolare, l’erede degli insegnamenti del Profeta. Egli è il
difensore e l’interprete per eccellenza della rivelazione; deve governare la comunità musulmana,
interpretare i testi religiosi e la legge (cogliendone soprattutto il significato interiore) e, infine, deve
guidare la vita spirituale degli uomini. In altri termini, l’Imam, è colui che guida la comunità
islamica negli affari sociali, politici, materiali e spirituali secondo l’ordine divino; è una guida
saggia e suprema per tutti i musulmani. Per questo l’Imam deve godere dell’ “isma” (immunità
dall’errore), che gli viene concessa soltanto per volontà divina. L’istituto dell’imamato, infatti,
viene considerato di origine divina, in quanto continuazione della missione del profeta. Tale
istituzione ha avuto inizio con la figura di Alì, il primo Imam per gli sciiti. Il suo diritto ad essere
considerato tale, sarebbe comprovato dal fatto di essere consanguineo del Profeta e dal fatto di aver
sposato la figlia prediletta dello stesso, Fatemeh. L’imamato viene trasmesso per via ereditaria, di
padre in figlio, e prevede il diritto alla guida temporale ed anche spirituale di tutto l’Islam. Secondo
la dottrina sciita, gli Imam si succedono come portatori della luce eterna di Dio, in una catena
ininterrotta che sostiene il mondo, che crollerebbe se uno soltanto degli Imam venisse a mancare
senza aver trasferito la funzione di guida al suo successore: la terra non può mai restare priva della
presenza di un Imam, sia pure nascosto o ignoto.
L’imamato è sicuramente uno dei fondamenti dottrinali dello sciismo, insieme a: monoteismo,
profezia, resurrezione e giustizia di Dio.
Un’ulteriore differenza tra le due dottrine, deriva dalla concezione che esse hanno della Sunna.
Quest’ultima, viene seguita sia dagli uni che dagli altri ma, la differenza, sta nelle catene di
trasmettitori, ovvero nelle fonti della Sunna stessa: i sunniti ne privilegiano alcune e gli sciiti ne
prediligono altre, i trasmettitori usati dagli uni, sono considerati inaffidabili e mentitori dagli altri e
viceversa. Inoltre, i sunniti considerano parte integrante della Sunna anche le integrazioni apportate
dai primi califfi mentre gli sciiti prendono in considerazione le integrazioni apportate dai primi
dodici Imam.
Il mondo sciita è articolato in tre grandi filoni: ismaìlita, zaydita, duodecimano (o imamita).
Quest’ultimo, è sicuramente il nucleo fondamentale della sci’a, sia per numero dei fedeli e sia per la
posizione centrale che occupa in ambito religioso e politico2.
Sono state numerose anche le articolazioni dell’universo sunnita, che attualmente contempla
maggiormente quattro scuole giuridiche: l’hanafita, la malikita, l’hanbalita e la šāfi ‘ita. Di certo,
quest’ultime, sono quelle che hanno il peso politico maggiore all’interno della società islamica e
che, quindi, riescono ad influenzare maggiormente le fonti ed il diritto stesso.
2) FONTI DEL DIRITTO, RAMI DEL DIRITTO E SCUOLE GIURIDICHE
Oggi, l’Islam, rappresenta un sistema religioso, politico ed anche giuridico. Al giurista occidentale
risulta particolarmente difficile distinguere la norma religiosa da quella giuridica in senso stretto
perché, la ripartizione dell’Islam in vari tipi di sistema, è un adattamento in base a criteri laico-
occidentali di una realtà interna che invece è unitaria, dal momento che sia la sfera religiosa, sia
quella politica, sono disciplinate dalla shari’a.
Il termine shari’a indica la “via diritta” palesata da Dio, ma presenta diverse accezioni: da un punto
di vista generale indica la via religiosa rivelata ad ebrei, cristiani e musulmani; in senso lato indica
la via rivelata solo ai musulmani e riguardante sia il foro interno, sia quello esterno; in senso stretto,
infine, designa la via rivelata solo ai musulmani e riguardante esclusivamente il foro esterno.
Quest’ultima accezione si sovrappone alla definizione minuziosa data dai dotti nell’opera di fiqh,
cioè a quella parte della shari’a che regola l’attività esterna del credente verso Dio, se stesso e gli
altri.
In particolare, la funzione principale del fiqh consiste nell’estrarre dalle radici del diritto le norme
relative alla qualificazione degli atti umani, effettuando una suddivisione degli stessi in base a
gradazioni diverse: atto obbligatorio, consigliato, lecito, sconsigliato e proibito.
La scienza giuridica, poi, si divide nello studio delle fonti del diritto (usùl al-fiqh) e dei rami del
diritto (furù al-fiqh).
2 Sull’argomento si veda “Un’introduzione al mondo islamico sciita” di Pejman Abdolmohammadi e “Frattura islamica:
alle radici dell’eterno conflitto tra sciiti e sunniti” di David Pinault.
FURÙ AL-FIQH3 – I rami del diritto sono ripartiti in ‘ibadàt, regole culturali, di rito (norme di
comportamento a carattere extra-giuridico) e mu’ àmalàt, norme che regolano i rapporti tra gli
uomini e che sono articolate nelle diverse categorie del diritto.
Le ‘ibadàt, le più studiate e dibattute, sono rappresentate essenzialmente da cinque Pilastri, ovvero
dai cinque atti di culto4 fondamentali nella religiosità musulmana. Questi atti trovano la loro fonte
diretta nel Corano, che li istituisce e ne disciplina l’esecuzione.
1. Il primo pilastro è costituito dalla “professione di fede islamica” con la quale l’individuo
rende testimonianza della unicità del Creatore e della verità proclamata dal profeta
Maometto. Da questa dichiarazione discendono in capo al fedele musulmano, non solo degli
obblighi nei confronti di Dio, ma anche una nuova situazione sociale: egli diviene membro
effettivo della comunità musulmana e prende parte alla netta suddivisione fra ciò e chi
appartiene all’Islam e ciò e chi non vi appartiene. Sul piano pratico, la coerenza a questa
testimonianza comporta l’obbligo per il fedele di conformare la sua vita alle regole di
condotta stabilite dal Corano e dalla Sunna. La testimonianza è un atto personale e
volontario e nessuno ne può mettere in discussione la sincerità, se non tramite una solenne
dichiarazione di abiura.
2. L’ “adorazione quotidiana” rappresenta il secondo atto di culto fondamentale per l’Islam.
Essa viene menzionata dal Corano in numerosi versetti. Tale adorazione rituale presenta
delle peculiarità rispetto alla preghiera del mondo cristiano, in quanto soggetta a precise
modalità di esecuzione. In primo luogo, essa dev’essere eseguita dal fedele in momenti
determinati e per ben cinque volte al giorno; in secondo luogo, la sua valida esecuzione
richiede come condizioni la purezza rituale5, il vestiario appropriato, l’orientamento in
direzione della Mecca e l’idoneità del luogo. L’unica preghiera che si svolge in maniera
comunitaria è quella del venerdì alle ore 12:00.
3. L’ “imposta coranica” costituisce il terzo pilastro dell’Islam. La shari‘a impone ad ogni
musulmano con capacità contributiva di pagare un’imposta a titolo di assistenza pubblica.
L’elemosina obbligatoria rappresenta la manifestazione religiosa del rapporto tra il credente
e i suoi simili, che si esprime attraverso la condivisione dei beni. Anche l’elemosina, come
la preghiera rituale, viene menzionata dal Corano in numerosi versetti; uno dei più
3 Sull’argomento, si veda: “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, p. 4;
“Dispense di diritto islamico” di Nicola Fiorita; “Diritto islamico” di Valentina M. Donini. 4 Va osservato, tuttavia, che l’Islam non riconosce il “culto” propriamente detto. Infatti, ciò che noi chiamiamo culto,
nell’Islam è parte dei doveri prescritti da Dio nella shari’a e definiti in maniera minuziosa dai dotti nelle opere del fiqh.
Di conseguenza, mentre in altre religioni lo scopo del rituale è quello di avvicinare il credente alla divinità, nell’Islam si
tratta semplicemente di adempiere ad una precisa volontà divina. 5 Lo stato di purezza rituale è ottenuto mediante una serie di lavaggi denominati “abluzioni”.
significativi è quello che elenca le otto categorie di beneficiari della stessa6. Accanto
all’elemosina obbligatoria esiste una forma di carità privata, assolutamente libera, che il
Testo Sacro giudica con maggior favore.
4. Il quarto pilastro, il “digiuno nel mese di Ramadan”, è l’atto di culto più osservato nel
mondo islamico. Esso è disciplinato nelle sue linee essenziali dal Corano, che in un versetto
recita:
“È il mese di Ramadan, nel quale venne fatto scendere il Corano, codice di vita per gli
uomini, esposizione chiara delle direttive, criterio per distinguere il bene dal male. Chi di
voi vede (l’inizio) del mese, digiuni”7.
Hanno l’obbligo di digiunare tutti i musulmani puberi, sani di mente e in condizioni fisiche
che permettano di farlo senza danni per la loro integrità fisica. Il digiuno consiste nel non
assumere né cibo né bevande, nel non fumare, nel non avere rapporti coniugali, nel non
ingerire alcuna sostanza e nessun medicinale. Esso comincia circa un quarto d’ora prima
dell’inizio dell’adorazione rituale all’alba e si conclude al calar del sole.
5. Il quinto pilastro è costituito dal “pellegrinaggio”. Ogni musulmano che ne ha le possibilità
è tenuto, almeno una volta nella vita, a recarsi nei luoghi santi dell’Islam. Il pellegrinaggio
che assolve all’obbligo rituale è quello compiuto in un determinato periodo dell’anno e che
prevede l’osservanza di un insieme di riti8. Il Corano menziona anche un altro tipo di
pellegrinaggio breve, denominato “visita”, che può essere compiuto in qualsiasi periodo
dell’anno ma che, se svolto nel mese di Ramadan, ha la stessa valenza del lungo
pellegrinaggio.
Di considerevole importanza nel sistema islamico, per quel che riguarda le attività religiose, è la
mancanza di un’autorità centrale e l’assenza di soggetti che svolgono il ruolo normalmente
attribuito al clero. La logica conseguenza della prima mancanza, è l’inesistenza di un soggetto in
grado di fornire un’interpretazione assoluta della verità; ciò, naturalmente, favorisce la nascita di
una pluralità di posizioni dottrinali e teologiche dotate di pari dignità e in contrasto tra di loro. In 6 Il versetto IX, 60 stabilisce: “Le elemosina sono per i bisognosi, per i poveri, per quelli incaricati di raccoglierle, per
quelli di cui bisogna conquistarsi i cuori, per il riscatto degli schiavi, per quelli pesantemente indebitati, per le lotte sul
sentiero di Allah e per il viandante”. Secondo l’interpretazione prevalente, i bisognosi sono i musulmani e i poveri i
cittadini non musulmani. “Quelli incaricati” sono i funzionari dell’amministrazione statale. “Quelli di cui bisogna
conquistarsi i cuori” si riferisce a diverse categorie di persone, come i neo-convertiti o i non musulmani utili alla causa
islamica per la loro posizione politico-sociale o professionale. 7 Corano II, 185.
8 Il periodo in cui si svolge il pellegrinaggio maggiore inizia l’ottavo giorno del dodicesimo mese lunare e termina il
giorno tredici dello stesso mese. I riti del pellegrinaggio sono: la preghiera alla stazione di Abramo, la corsa tra le
montagne di Safa e quella di Marwa, la sosta nella piana di ‘Arafah, la lapidazione di Satana, il sacrificio della vittima
consacrata e la Nobile Ka’bah.
secondo luogo, l’assenza di figure riconducibili ai “ministri del culto”, non toglie che operino nel
mondo musulmano diversi soggetti con il compito di portare a termine una serie di delicate
funzioni, come quella di guidare la preghiera (imam) o fornire precetti regolatori della vita
comunitaria dei credenti (ulama). È vero, semmai, che la possibilità di far riferimento alla nozione
tradizionale di “ministro del culto” è resa difficoltosa dalla mancanza di un qualsiasi organismo
ecclesiastico che possa attribuire, negare o riconoscere, lo status a questo dirigente religioso, carica
sancita e legittimata unicamente dalla comunità dei credenti e che, per tale motivo, è ipoteticamente
soggetta a mutamenti continui ed improvvisi. La mancanza di soggetti riuniti in un unico corpo ed
in grado di dedicare tutta la loro esistenza al servizio della comunità religiosa, assumendo un ruolo
stabile ed ufficiale all’interno di questa, può sicuramente derivare dal consolidato atteggiamento di
sfavore nei confronti del celibato che l’Islam ha sempre avuto e mantenuto.
USÙL AL-FIQH9 – Le fonti del diritto sono quattro:
1. Il Corano è la prima fonte del diritto islamico e contiene le rivelazioni che Maometto
ritenne di aver ricevuto direttamente da Dio tramite l’Arcangelo Gabriele, nell’arco
temporale che va dal 610 d.c. al 632 d.c., anno della sua morte. I capitoli (in arabo sura)
sono 114 e sono catalogati in ordine decrescente di lunghezza, ad eccezione della prima sura
(la cosiddetta fàtiha, “aprente il libro”), l’unica ad avere la forma di preghiera e non di
discorso diretto tra Dio e Maometto. Profondamente diversificate sono le materie che
vengono prese in considerazione: esse spaziano dal diritto di famiglia all’usura, dalla
compravendita al prestito, dalle disposizioni che regolano il diritto di guerra alle norme sulla
situazione giuridica di Ebrei e Cristiani. Talvolta s’incontrano norme in contraddizione tra di
loro: un’anomalia, questa, che il Corano giustifica stabilendo la prevalenza di una
rivelazione successiva rispetto ad una rivelazione precedente, ritenendo che Dio avesse il
potere di abrogare precedenti disposizioni per sostituirle con nuove prescrizioni. Da qui,
l’esigenza di conoscere quale sia il versetto cronologicamente anteriore che viene abrogato e
sostituito da quello posteriore; esigenza di difficile soddisfazione in quanto la collocazione
dei versetti nel libro non è ritenuta un criterio sufficiente per dirimere l’eventuale contrasto.
Le disposizioni coraniche, inoltre, sono di diverso tipo e solo il 3 per cento di esse hanno un
vero e proprio contenuto giuridico; infine, molte di queste norme, disciplinano settori
specifici (come il diritto di famiglia e le successioni) o sono accompagnate da prescrizioni di
carattere religioso. In sostanza, quindi, i versetti del Corano (che vengono considerati il
cuore del diritto islamico perché rivelati e, di conseguenza, non modificabili), coprono solo
9 Sull’argomento, si veda: “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, p. 4;
“Dispense di diritto islamico” di Nicola Fiorita; “Diritto islamico” di Valentina M. Donini.
una minima parte di tutte le relazioni umane; per la maggior parte dei fatti la volontà di Dio
non si evince dal libro sacro. Ecco perché i musulmani, se partono dal Corano nella
costruzione del loro sistema giuridico, hanno poi l’esigenza principale di andare oltre lo
stesso.
2. Per integrare i comandi del Corano, la principale direttiva utilizzata è stata la “tradizione”,
intesa come tutto ciò che ha riguardato la vita di Maometto e dei suoi primi seguaci. Il suo
comportamento, i suoi taciti assensi, le sue azioni, i suoi silenzi e le sue parole hanno
composto la Sunna e sono diventati “norma”, giacché la sua vita (pur essendo la vita di un
uomo) è stata considerata ispirata da Dio. Le sue fonti di cognizione sono i racconti o le
tradizioni (hadìt), a loro volta comprensive di due parti: l’isnad (la catena di trasmettitori e,
cioè, l’enumerazione in ordine ascendente delle persone che successivamente si sono
trasmesse il racconto fino a giungere a quella che lo riferì per la prima volta) e il matn (il
racconto vero e proprio, il testo della narrazione). In base all’autorevolezza del trasmettitore,
la tradizione si classifica come sahìh (sana, esente da vizi e senza alcun anello mancante
nella catena dei trasmettitori), hasan (bella, con leggere imperfezioni ma sempre valida dal
punto di vista normativo), da’ìf (debole, adottabile solo a scopo persuasivo ma senza alcun
carattere normativo). Le raccolte (sei) di hadìt vennero fissate definitivamente solo tra l’870
e il 915.
3. Oltre alle due fonti scritte, il diritto islamico prevede due fonti orali. Con il termine Igma si
individua il consenso della comunità in merito a questioni religiose e a questioni di etica.
Essa trova la sua legittimazione come fonte del diritto in un detto attribuito a Maometto: “la
mia comunità non si troverà mai d’accordo sopra un errore”. In realtà, per le materie
giuridiche l’accordo della comunità è circoscritto all’accordo dei dottori della legge, in
quanto rappresentanti qualificati su determinati argomenti che rientrano nell’ambito della
shari’a. Le caratteristiche principali dell’Igma sono l’automatismo, la spontaneità e,
soprattutto, la lentezza della sua elaborazione, dato che non si costituisce per accordi di
assemblee o concili. Recentemente si è cercato di ampliare il significato di Igma in modo da
poter attribuire la funzione creatrice del diritto anche all’opinione pubblica; un’operazione
che avrebbe aperto le porte ad una moderna evoluzione del diritto islamico, facendo giocare
un ruolo decisivo all’esigenze delle singole comunità ma, che, non ha avuto successo per
l’opposizione della dottrina tradizionalista. Tuttavia, va detto che non tutte le scuole
giuridiche islamiche riconoscono valore giuridico a questo strumento.
4. Con il termine Qiyas s’intende la possibilità di creare una regola giuridica attraverso il
ricorso al procedimento analogico, per cui, da un caso disciplinato espressamente si trae il
principio che serve a regolamentare un caso simile ma non previsto. Questa, è sicuramente
la fonte più controversa, in quanto vi è divergenza d’opinione tra le varie scuole giuridiche
sulla sua legittimità.
Anche se non compresa tra le fonti del diritto, la consuetudine (‘urf) può essere considerata una
fonte sussidiaria. Si distingue in consuetudine generale (fondata su un interesse generale e
permanente) e particolare (riferita a un luogo determinato e, quindi, non estendibile ad altri luoghi).
Ovviamente essa non può essere in contrasto con le altre fonti del diritto anche se, in alcune parti
del mondo islamico, la consuetudine ha prevalso sulla shari’a.
Diversa dalla consuetudine è la prassi forense (‘amal): si tratta di opere giuridiche che riassumono
la prassi prevalente attraverso raccolte di pareri, responsi e formulari. Essa può essere considerata
un prodotto giudiziario e allo stesso tempo dottrinario, che ha permesso d’innovare le regole
cristallizzate del fiqh.
L’igtihàd è l’interpretazione, lo sforzo ermeneutico compiuto dal giurista (mugthahid) che opera
direttamente sulle fonti del diritto. In questa fase d’interpretazione “creativa” sulle fonti, i dottori
della legge si sono riuniti in diverse scuole o indirizzi giuridici; tra le scuole sunnite10
, sono
sopravissute quella hanafita, malikita, hanbalita e šāfi ‘ita (la loro sopravvivenza è d’attribuirsi al
valore intrinseco delle dottrine professate, ma anche a circostanze esterne, come il favore dei
sovrani o l’influenza dei rispettivi fondatori).
- La scuola hanafita, la più diffusa, prende il nome da Abù Hanìfa (m. 150/767), la cui
metodologia giuridica era caratterizzata dal ricorso al ra’y (ragionamento personale), al
ragionamento analogico e al criterio ermeneutico sussidiario dell’istihsàn (criterio di equità).
- La scuola malikita prende il nome da Malik b. Anas (m. 179/795), autore della prima opera
di diritto, il Kitab al-Muwatta. Questa scuola si basa principalmente sulla Sunna e sul rilievo
dato alle intenzioni di ogni singola azione.
- La terza scuola giuridica sunnita, in ordine cronologico, è quella šāfi ‘ita, da Muhammad al-
Saf’i (m. 204/820), già discepolo di Malik. A lui si deve la prima elaborazione teorica della
dottrina delle “fonti del diritto” (usùal al-fiqh).
- Infine c’è la scuola hanbalita, da Ahmad b. Hanbal (m. 241/855), in origine discepolo di al-
Safi’i. La sua opera fondamentale è il Musnad, una tra le più importanti raccolte di
tradizioni, mentre non ha lasciato alcuna opera sistematica di diritto. L’elaborazione di un
sistema giuridico hanbalita compiuto, però, si deve ai suoi seguaci.
10
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 3-4.
3) MODERNIZZAZIONE DELLA GIURISPRUDENZA
Nel processo di modernizzazione del diritto arabo, il diritto di famiglia ha seguito un percorso più
lento e graduale rispetto al diritto dei contratti e rispetto ad altri ambiti, in considerazione del
maggior radicamento nella coscienza religiosa e nella società di tali principi ma, anche perché, a
differenza di altri settori non si è mai optato per l’abbandono del diritto tradizionale a favore di
modelli esterni. Di conseguenza, tutte le leggi oggi in vigore, hanno in comune la stessa matrice ma
i vari legislatori sono giunti a risultati molto diversificati nello stile e nei contenuti.
Per quanto riguarda la shari’a, il suo carattere rivelato, extra-statuale e immutabile, non ha impedito
ad autorità come califfi o sultani di dar vita ad una produzione giuridica, detta qanùn, necessaria per
l’amministrazione della cosa pubblica. Originariamente, il quanùn era di rango inferiore rispetto
alla shari’a, in quanto i califfi furono tenuti al rispetto formale della seconda nella stesura del primo.
Questa fase di subordinazione è durata per tutto il periodo di formazione del sistema giuridico
islamico, concomitante con il nascere e l’affermarsi della scienza giuridica (indicativamente, nei
primi tre secoli dell’Islam). In seguito, però, il potere così costituito cominciò a valicare i confini
della shari’a, conferendo un ruolo sempre maggiore al diritto consuetudinario, e a porsi in
contrapposizione con il diritto rivelato, producendo un diritto “autoritativo” che sottrae ambiti di
applicazione alla shari’a. Nel XIX secolo, poi, la capacità di resistenza del diritto originario venne
ulteriormente minata dal processo di acculturazione giuridica, che vide innestare nella società nuove
concezioni giuridiche attraverso la ricezione di modelli normativi stranieri11
.
11
Sull’argomento, si veda “Diritto islamico” di Valentina M. Donini.
PRIMA PARTE
SOMMARIO: 1) Concezione islamica del matrimonio; 2) Rapporti sessuali illeciti; 3) Categorie di
azioni applicate al matrimonio; 4) Matrimonio come contratto; 4.1) Soggetti del matrimonio; 4.1.1) Curatore
matrimoniale; 4.2) Impedimenti matrimoniali; 4.2.1) Impedimento da parentela; 4.2.2) Impedimento da
affinità; 4.2.3) Impedimento da allattamento; 4.2.4) Impedimento da terzo ripudio; 4.2.5) Impedimento da
precedenti matrimoni; 4.2.6) Impedimento da differenza di culto; 4.2.7) Conseguenze del matrimonio
concluso nonostante l’impedimento; 4.3) Consenso; 4.4) Manifestazione della volontà; 4.5) Oggetto del
contratto; 4.5.1) Dono nuziale; 4.5.2) Mantenimento; 4.5.3) Custodia; 5) Prova del matrimonio; 6)
Autonomia in materia matrimoniale: clausole e termine; 7) Pratiche matrimoniali consuetudinarie; 8) Lo
sposo e la sposa; 8.1) Rapporti padre-figlio; 8.2) Rapporti madre-figlio; 9) Vocazione ereditaria tra i coniugi.
1) CONCEZIONE ISLAMICA DEL MATRIMONIO
Dei vari tipi di unioni sessuali lecite in epoca pagana, l’Islam ha conservato solo quella basata sul
contratto di matrimonio, come attesta la tradizione, secondo la quale, quando Maometto “fu inviato
con la verità”, abolì tutti i tipi di unioni in uso fino a quel momento tranne il contratto di
matrimonio.
Alla base di questo tipo di matrimonio, ci sono particolari concezioni e convinzioni. Innanzitutto,
l’uomo è stato creato con la volontà di sopravvivere ed egli, quindi, impiega tutte le sue forze per
assolvere a questo compito. Il miglior modo per raggiungere questo obiettivo è quello di riprodursi,
poiché il bambino costituisce una parte e la continuazione stessa dell’esistenza dell’individuo.
Questo bisogno innato, può essere soddisfatto solo assumendosi delle responsabilità familiari; la
parte più importante delle attività e degli sforzi economici, infatti, deve avere come fine la
sussistenza e il benessere della famiglia.
Tuttavia, i pareri sono suddivisi su ciò che concerne le origini e gli scopi della famiglia. Per alcuni,
la formazione di una famiglia è il mezzo per soddisfare i bisogni sessuali; altri, le attribuiscono un
aspetto economico: pensano che il matrimonio sia una sorta di commercio e di scambio tra due
famiglie. Questi punti di vista, sono ben lontani dall’opinione dominante, che pensa alla vita
coniugale come ad una necessità sociale, avente per scopo la sopravvivenza della specie. I
sentimenti spirituali tra moglie e marito, secondo la maggior parte dei musulmani, rigettano
l’ipotesi del fattore economico come impulso principale al matrimonio e come causa esclusiva del
bisogno della donna nell’uomo, ritenendo tali illazioni, il più grande insulto alla natura dell’uomo.
Dal punto di vista economico, l’uomo non ha alcun bisogno della donna ma, senza la sua presenza,
egli mancherebbe di gioia e felicità. Sebbene all’interno di un matrimonio propensioni sessuali e
questioni materiali siano elementi importanti, i più, sostengono che lo scopo principale della
creazione dei due sessi rimanga tutt’altro.
L’Islam, incoraggiando le persone a sposarsi e a formare delle famiglie, risponde affermativamente
all’appello della natura e riconosce nella vita coniugale l’unica possibilità per impedire il degrado
dei costumi e per dar vita a bambini sani e belli capaci di conservare la specie.
Al fine d’impedire ogni tipo di devianza sessuale giovanile e per cercare di domare la pressione che
l’istinto sessuale può esercitare sui giovani, l’Islam consiglia ai responsabili delle famiglie di
considerare e favorire il matrimonio per coloro che hanno raggiunto la maturità. La vita familiare e
l’applicazione delle regole matrimoniali sono gli unici mezzi utili per impedire la corruzione e
l’eccesso sessuale: gli unici mezzi per far in modo che la società viva in pace. A tal proposito, il
Profeta dichiarò: “Oh, musulmani! Le vostre figlie sono come un frutto maturo sull’albero che, se
non viene colto in tempo, marcirà. Così, se non sposerete le vostre figlie e i loro istinti non
verranno soddisfatti, non potrete mai impedire loro di cadere nella deviazione e nella corruzione,
poiché sono esseri umani con de bisogni naturali”. Secondo altre testimonianze, l’Iman rispose ad
un uomo che chiedeva: “Non trovo alcun giovane uomo degno delle mie figlie, che devo fare?”, con
le seguenti parole: “Non aspettare di trovare dei giovani che ti convengano interamente, poiché il
Profeta ha detto – “Se dei giovani ragazzi chiedono la mano delle vostre figlie e se sono, a livello
religioso e morale, soddisfacenti, donatele loro, altrimenti son sarete a riparo dalla devianza, dalla
corruzione e dalla ribellione dei vostri ragazzi” – ”.
L’Islam, dunque, non pone alcun ostacolo al matrimonio; anzi, sfrutta questa forza naturale
nell’interesse della società e della vita individuale. Oltre ad accordare un’attenzione particolare alla
salute fisica dell’uomo, con la vita coniugale si può salvaguardare la serenità spirituale, morale e
mentale dell’essere umano. Colui che ha lo spirito nella confusione, non comprenderà mai il vero
senso della vita e non assaporerà mai la felicità. Il legame umano è consacrato dai cuori ed è un
fattore di stabilità e di calma. Questo legame mira a favorire l’amicizia, la bontà e la misericordia
tra gli uomini.
Per rinforzare le relazioni e la convivenza tra i membri della famiglia, esistono delle leggi generali e
un ordine minuziosamente stabilito da rispettare. Le disposizioni naturali, così come la natura
dell’uomo e della donna, vengono presi in considerazione nel campo del lavoro e della professione.
L’uomo deve provvedere al mantenimento della famiglia, mentre la donna deve occuparsi di suo
marito e dei bambini. Questa netta divisione dei compiti deriverebbe dal fatto che la donna viene
influenzata facilmente da i suoi sentimenti e, dalla convinzione che la donna sia stata creata
psicologicamente più debole ed in maniera tale da permettere ai sentimenti di travolgere ogni sorta
di logica. Essa è entusiasta e sentimentale, mentre l’uomo ha più dimestichezza con la ragione. È
per questi motivi che l’Islam ha scelto l’uomo come “capo famiglia”; un dato di fatto che non
sarebbe in contrapposizione con la collaborazione, la cooperazione e l’intesa all’interno della
coppia. Inoltre, sebbene sia riservato all’uomo la carica di garante familiare, egli non deve abusare
del suo potere nei confronti della moglie. Come dichiarato dal Profeta: “L’uomo è il guardiano
della famiglia. La donna è responsabile della casa, di suo marito e dei bambini”.
L’islam non assegna alcuna importanza alla ricchezza, alla reputazione, alle apparenze e alle
questioni materiali; il matrimonio dev’essere basato sulla fede, la virtù e la misericordia. Maometto
dichiarò: “Se qualcuno sposa una donna per la sua ricchezza, Dio lo abbandonerà. Bisogna,
dunque, scegliere una sposa credente e virtuosa”.
Non c’è niente di più prezioso del matrimonio nella tradizione islamica: essa biasima vivamente
coloro che rifiutano di formare una famiglia e condanna ogni pretesto che conduce alla
depravazione e alla deviazione dell’energia sessuale. Allo stesso modo, ogni legame coniugale con
persone sprovvedute della misericordia e della virtù d’animo, viene rigettato.
Anche i legami con famiglie prive di virtù e d’insegnamenti morali/religiosi sono fortemente
sconsigliati, a prescindere dalla fanciulla appartenente alla famiglia. Il Profeta disse: “Astenetevi dal
sposarvi con i ‘fiori’ che crescono attorno alle paludi sporche e inquinate” e, quando gli fu chiesto
in cosa consistevano quei ‘fiori’, rispose: “Una bella donna che è stata cresciuta in una famiglia
contaminata e libertina”. Quelle spose, che non hanno ricevuto nessun tipo di principio
morale/religioso (e pertanto non vi sono legate) non potranno assicurare la felicità della famiglia. I
frutti di un tale matrimonio, non potrebbero essere altro che bambini capricciosi, miserabili,
sprovveduti di calma e sicurezza.
L’Islam mira ad impedire totalmente la nascita di una generazione corrotta e depravata. Se i
giovani, nello scegliere le loro spose, agissero secondo i principi dell’Islam, prendendo in
considerazione la realtà a discapito delle apparenze, sarebbero a riparo dai malumori che rendono la
vita dura alle persone capricciose. Ai giorni nostri, molti giovani pensano che il miglior modo per
scegliere la donna ideale sia la frequentazione e l’accoppiamento sperimentale mentre, secondo
l’ideologia islamica, tale metodo non permette di conoscere le particolarità del congiunto, finendo
per provocare danni irreparabili. La conoscenza ha bisogno di un lungo periodo e di una
frequentazione a lungo termine. Non si può conoscere la vera natura di una persona frequentandola
per un limitato periodo di tempo; la qualità e la personalità di un individuo si manifestano negli
avvenimenti e nei diversi momenti della vita. Come ci si può rendere conto delle peculiarità di una
persona nei periodi sereni, di divertimento e di svago?! Incontri nei cinema o nei parchi per i primi
appuntamenti possono essere considerati criteri per la conoscenza reciproca (proprio mentre
entrambi si sforzano di nascondere i propri difetti e di comportarsi artificiosamente secondo le
buone maniere?)? Possono, giovani che si trovano in periodi di reazioni istintive e di crisi, ad un’età
in cui si pensa solo a soddisfare i bisogni sessuali e a realizzare sogni, tramite la frequentazione,
rendersi conto se vi siano o meno punti deboli fra di loro? Per l’Islam, certamente no! I giovani che
scelgono i loro congiunti attraverso questi metodi e sotterfugi non saranno, fino alla fine dei loro
giorni, a riparo da questioni e controversie; non potranno gioire di un rapporto e di una vita felice,
confortevole e lontana da frustrazioni. Non è che nelle angosce e nelle situazioni di pressione che si
manifesta il carattere di una persona, la sua pazienza, la sua fermezza e la sua tolleranza. Tutti i
giovani, poi, devono sapere che l’adattamento spirituale tra due persone è molto difficile e la
similitudine psicologica poco probabile. I sentimenti diversi a cui la donna è soggetta la separano e
la differenziano da ciò che l’uomo pensa e intraprende.
Tenuto conto dell’importanza che l’Islam accorda al matrimonio, è permesso ad ogni individuo di
vedere, prima delle nozze, l’apparenza fisica del futuro congiunto e di ragguagliarsi, nella misura
possibile, del suo carattere e della sua moralità presso persone che ne sono a conoscenza.
La vera felicità si raggiunge attraverso i sacrifici dell’uomo e della donna e si basa sulle qualità
morali di entrambi. Questi elementi, proteggono le basi della famiglia dai turbamenti e dalla
dissoluzione. In ambiente familiare, quindi, l’Islam prevede diritti, doveri e responsabilità dei
coniugi; grazie ad una serie d’insegnamenti, poi, guida a livello morale le famiglie verso la vera e
tanto acclamata felicità12
.
L’istituto familiare, così delineato, è ricevuto e regolamentato dalla rivelazione divina, il Corano, e
dalla tradizione profetica (Sunna). Le norme sulla costituzione della famiglia e sul regime familiare
hanno, dunque, uno stretto legame con la religione, anche se il matrimonio rimane un contratto di
diritto civile. Questa concezione di famiglia è esplicitata nella definizione che ne da, per esempio, il
giurista hanafita al-Sarahsï, secondo il quale nel matrimonio ciascuno dei coniugi si unisce all’altro
12
Sull’argomento, si veda l’articolo “La situazione della famiglia dal punto di vista dell’Islam”, in L’Islam e la
civilizzazione occidentale: la risposta dell’Islam ai problemi del mondo.
per formare una “corpo” solo, al fine di occuparsi del bene e della vita comune. La donna è affidata
da Dio alla custodia di un uomo, che dovrà trattarla con cura ed equità rispetto alle eventuali altre
mogli. La connotazione religiosa del contratto di matrimonio è messa ben in evidenza anche da un
passo della nota esplicativa al d.l. egiziano n. 44 del 1979, concernente l’emendamento di alcune
leggi relative allo statuto personale13
:
“Il matrimonio è un impegno e un patto che l’Islam ha distinto dagli altri contratti; infatti, non si
procede allo stesso modo di questi, né c’è analogia con essi, ma viene considerato dal Corano un
patto solenne… che Dio ha incluso tra le pratiche di culto. /…/ Dopo aver descritto il matrimonio
come ‘patto solenne’ tra i coniugi, Dio ha raffigurato la comunione tra le due parti dicendo: “Esse
sono una veste per voi e voi una veste per loro14
”.”.
Il Corano dedica numerosi versetti alla famiglia (che riformano la normativa precedente ad esso)
ma, lo fa con regole non coordinate e non esaustive; si tratta, però, di dettami significativi di uno
spirito nuovo nei rapporti uomo-donna. Esso, elimina innanzitutto una certa promiscuità ed il
libertinaggio sessuale, prescrivendo tassativamente di rimanere casti fino al matrimonio15
e, qualora
non si avessero mezzi sufficienti per poter sposare una donna libera, esorta a sposare una schiava16
.
Il Corano, poi, prevede diversi impedimenti al matrimonio e alcuni obblighi per i coniugi. Contiene
anche delle prescrizioni sessuali, tra le quali, la proibizione di rapporti sessuali durante le ore diurne
nel mese di digiuno del Ramadan17
e la proibizione di rapporti coniugali durante le mestruazioni18
.
Il Libro Sacro insiste molto anche sui doveri dei figli verso i genitori19
ma, allo stesso tempo,
prevede la ribellione nei confronti d’imposizioni contrarie alla fede20
che discendono dalla madre e
13
Cfr. la traduzione della Nota esplicativa, in A.Cilardo (1985). 14
Corano II, 187. Cfr. anche Corano II, 223: “Le vostre donne sono come un campo per voi; venite dunque al vostro
campo a vostro piacere…”. 15
Corano XXIII, 5-6, XXIV, 33. 16
“Chi di voi non avrà mezzi sufficienti per sposare libere e credenti, sposi, scegliendole fra le ancelle, delle fanciulle
credenti…” (Cor. IV, 25). 17
“V’è permesso, nelle notti del mese del digiuno, d’accostarvi alle vostre donne… giacetevi pure con loro e desiderate
liberamente quel che Dio vi ha concesso… fino a quell’ora dell’alba in cui potete distinguere un filo bianco da un filo
nero, poi compite il digiuno fino alla notte e non giacetevi con le vostre donne…” (Cor. II, 187). 18
“Ti domanderanno ancora delle mestruazioni. Rispondi:“È cosa immonda. Pertanto astenetevi dalle donne durante le
mestruazioni e non avvicinatevi loro finché non si siano purificate, e quando si saranno purificate accostatevi a loro
dalle parte che Dio v’ha comandato…” (Cor. II, 222). 19
“Il tuo Signore ha decretato che non adoriate altro che Lui, e che trattiate bene i vostri genitori. Se uno di essi, o
ambedue, raggiungono presso di te la vecchiaia, non dir loro: ‘Uff!’, non li rimproverare, ma di loro parole di dolcezza.
Inclina davanti a loro, mansueto, l’ala della sottomissione e dì:‘Signore, abbi pietà di loro, come essi han fatto con me,
allevandomi quand’ero piccino!’ (Cor. XVII, 23-24); ‘Noi abbiamo prescritto all’uomo bontà verso i suoi genitori…’
(Cor. XLVI, 15; cfr. anche vv. 16-18). 20
Noi prescrivemmo all’uomo d’esser buono verso i propri genitori; ma se essi insisteranno perché tu associ a Me esseri
di cui non hai scienza alcuna, allora non obbedir loro…” (Cor. XXIX, 8); Noi abbiamo raccomandato all’uomo, a
proposito dei suoi genitori (la madre che lo portò fra mille stenti in seno e lo svezzò quando aveva due anni…):”Sii
grato a Me e ai tuoi genitori. A Me voi tutti tornerete! Ma se tuo padre e tua madre s’industrieranno a che tu associ a Me
quel che non conosci, tu non obbedir loro, fa loro dolce compagnia in questo mondo terreno, ma tu segui la Via di chi si
è volto a Me..” (Cor. XXXI, 14-15).
dal padre. Qualche versetto riguarda il ritiro di vedovanza e la condizione della donna durante
questo periodo21
. I rapporti tra marito e moglie sono improntati alla collaborazione reciproca.
Tuttavia, il Corano precisa: “Esse agiscano con i mariti come i mariti agiscono con loro, con
gentilezza; tuttavia, gli uomini si trovano un gradino più in alto…22
”, per via della loro specifica
funzione all’interno della famiglia e della società23
. I musulmani devono custodire la castità, tranne
che con le proprie mogli e le proprie schiave24
; quindi, i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio
e del concubinaggio sono severamente puniti, sia quelli tra un uomo e una donna che non siano
marito e moglie25
, sia quelli tra due uomini26
.
Il musulmano è incoraggiato a sposarsi anche dal Corano: questo è, allo stesso tempo, un suo
dovere religioso e civile, soprattutto quando ha mezzi sufficienti per farlo e teme di cadere
nell’incontinenza27
. L’obbligo di sposarsi quando si verificano determinate condizioni, è rafforzato
da un hadìt di carattere normativo, secondo il quale, il Profeta stabilì una regola generale per
risolvere una situazione che si andava creando all’interno della primitiva comunità islamica, dove in
alcuni ambienti “misticheggianti” serpeggiava la tendenza a mantenere il celibato. Ad un uomo che
voleva astenersi dalle donne e vivere da celibe per tutta la vita, Maometto disse: “Io mi sono
sposato. Chi non segue la mia sunna non è dei miei”. Questa norma, basata sulla pratica del Profeta,
ha assunto la forma definitiva di una massima, che fissa un principio generale, secondo il quale
“non vi è celibato nell’Islam”.
Secondo un altro hadìt, la moglie ha un importante diritto sul marito, che deve ottemperare al
proprio dovere coniugale; pertanto, l’uomo deve evitare di condurre una vita troppo ascetica (un
digiuno prolungato o una preghiera continua) che violerebbe il diritto della donna.
21
“Se qualcuno di voi muore e lascia delle mogli, queste attenderanno per quattro mesi e dieci giorni; trascorso questo
periodo non avrete, o tutori, non avrete alcuna responsabilità di quello ch’esse vorran fare di se stesse onestamente…
Non v’è nulla di male se farete in questo periodo proposte di matrimonio a queste donne, o se celerete questa intenzione
nei vostri cuori, Dio sa infatti che vi ricorderete poi di esse. Ma non impegnatevi in promesse segrete, bensì dite solo
parole oneste, e non decidete di unirvi con loro in matrimonio finché la prescrizione non sia giunta al suo termine…”
(Cor. II, 234-235); “Quelli di voi che moriranno lasciando delle mogli, assegnino per testamento alle mogli, beni
sufficienti per vivere ancora un anno dopo la loro morte, sì da non costringerle ad essere cacciate di casa. Se poi esse
stesse se ne andranno, voi non avrete alcuna colpa delle decisioni che esse prenderanno per sé, con onestà… (Cor. II,
240). 22
Cor. II, 228. 23
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 11-
14. 24
“I credenti devono custodire la castità, eccetto che con le proprie mogli e con quelle che le loro destre posseggono”
(Cor. XXIII, 5-6); “E quelli che non trovan moglie, si mantengano casti finché Dio li arricchisca della sua grazia” (Cor.
XXIV, 33); “E non accostatevi alla fornicazione: è una turpitudine e una ben triste via!” (Cor. XVII, 32). 25
“Se alcune delle vostre donne avran commesso atti indecenti, portate quattro vostri testimoni contro di loro, e se
questi porteranno testimonianza del fatto, chiudetele in casa finché le coglierà la morte o fin quando Dio apra loro una
via” (Cor. IV, 15). 26
“E se due di voi commettono atto indecente, puniteli; ma se si pentono e migliorano la loro condotta lasciateli stare,
perché Dio è perdonante benigno” (Cor. IV, 16). 27
“E unite in matrimonio quelli fra voi che sono celibi e gli onesti fra i vostri servi e le vostre serve; e se saran poveri,
certo Dio li arricchirà della Sua grazia…” (Cor. XXIV, 32).
La tendenza predominante dell’Islam ad essere istituzione e a presentarsi come una “religione della
legge” emerge, dunque, da molti fattori28
.
2) RAPPORTI SESSUALI ILLECITI
Si definisce lecito il rapporto sessuale avuto con una donna legittimamente sposata o con la propria
schiava sulla base del titolo di proprietà; il termine “milk” indica il diritto dell’uomo ad avere tali
rapporti29
.
Tutti gli altri rapporti, di qualsiasi tipo, sono considerati illeciti (zinä) e definiti unioni senza milk,
puniti con pena “hadd” o pena coranica. La pena hadd si fa coincidere con la lapidazione sia per
l’adultero che per l’adultera quando siano muhsan e muhsana30
, cioè persone sposate, e in cento
frustrate per coloro, maschi o femmine, che non sono sposati 31
.
In alcuni casi, tuttavia, pur in presenza di un atto sessuale illecito, il fatto non viene punito con pena
hadd ma tramite il pagamento di un dono nuziale o di un risarcimento. Si tratta di quei casi in cui il
rapporto è illecito ma non volontario, perché si presume nei soggetti la buona fede (šubha). Tali
rapporti si verificano quando un uomo crede di stare legittimamente con la propria moglie o la
propria schiava, mentre quella donna non è più sua moglie o la sua schiava. Si tratta di quei rapporti
avuti con šubhat milk, cioè presumendo di averne diritto. In relazione alla moglie, si presuppone
nell’uomo la buona fede in due casi: quando il contratto di matrimonio è rescindibile (fäsid) ma il
marito lo reputa valido; e quando il marito ha un rapporto sessuale con la sua ex-moglie, da lui
ripudiata in modo definitivo, durante il periodo legale che segue tale ripudio, ritenendo questo ritiro
simile a quello che segue un ripudio revocabile, durante il quale gli è lecito annullare il ripudio
avvicinandosi alla moglie ed avendo un rapporto con lei. In questi due casi, l’uomo deve dare alla
donna un mahr almit, cioè un dono nuziale equivalente alla condizione sociale della stessa. In
riferimento ad una schiava, si verificano i casi di šubhat milk quando: il padrone ha forzato la
schiava che gli ha dato un figlio e che non ha ancora mandato via di casa; il padrone ha venduto la
propria schiava, ma non l’ha ancora consegnata; la schiava appartiene ad uno degli ascendenti, dei
discendenti o alla moglie dell’uomo che commette il fatto; l’uomo è comproprietario di una schiava.
28
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 14-
16. 29
Def. di A. Cilardo in “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico”, p. 16. 30
L’uomo di condizione libera che ha consumato il matrimonio è definito muhsan; parimenti, la donna di condizione
libera, sposata e che ha consumato il matrimonio, è definita muhsana. 31
“L’adultero e l’adultera siano puniti con cento colpi di frusta ciascuno, né vi trattenga la compassione che provate per
loro dall’eseguire la sentenza di Dio, se credete in Lui e nell’ultimo giorno; e un gruppo di credenti sia presente al
castigo. L’adultero non potrà sposare che l’adultera o una pagana, e l’adultera non potrà esser sposata che da un
adultero o da un pagano: il connubbio con loro è proibito ai credenti” (Cor. XXIV, 2-3).
In questi casi il rapporto sessuale crea un’ “obbligazione finanziaria” che impone il pagamento di
un compenso per il risarcimento del rapporto sessuale.
Se un uomo, senza saperlo, sposa una donna che si trova nel periodo di ritiro legale, i due si devono
separare e, se il matrimonio è stato consumato, l’uomo deve consegnare alla donna il dono nuziale.
La donna deve completare il ritiro legale del primo marito e deve iniziare quello per il secondo. Se
la donna resta incinta, il parto mette termine al ritiro legale del secondo marito e, solo
successivamente, ella dovrà completare il ritiro del precedente marito. Se invece, il matrimonio non
è stato consumato, il secondo marito non deve dare alcun dono nuziale e la moglie non è obbligata
al ritiro legale32
.
3) CATEGORIE DI AZIONI APPLICATE AL MATRIMONIO
L’obbligo religioso e civile di sposarsi è, per il musulmano, un precetto generico valido solo come
regola generale. In realtà, in qualche caso, sposarsi diventa addirittura proibito. Le scuole
giuridiche, pur conservando notevoli divergenze tra di loro, hanno applicato anche al matrimonio la
quintuplice suddivisione delle azioni umane: atto obbligatorio, raccomandato, lecito, biasimevole o
proibito.
Gli hanafiti distinguono l’atto imperativo in due categorie: atto obbligatorio (fard) e atto doveroso
(wäğib). Il matrimonio è obbligatorio quando si verificano quattro condizioni: l’uomo dev’essere
certo, non sposandosi, di compiere un atto sessuale illecito (non basta il semplice timore di
commetterlo); l’uomo non è in grado di affrontare un digiuno che lo distolga dalla tentazione di
commettere un atto sessuale illecito; l’uomo non ha i mezzi per comprare una schiava; l’uomo è in
grado di pagare il dono nuziale e la pensione alimentare usufruendo di un guadagno lecito. Il
matrimonio è invece doveroso quando l’uomo ha il desiderio profondo di sposarsi, che gli fa solo
temere di cadere nell’incontinenza. Il matrimonio è una pratica raccomandata certa (sunna mu
‘akkada) quando un uomo ha il desiderio di sposarsi, ma è incerto se cadrà certamente
nell’incontinenza oppure lo teme solamente. Alcuni giuristi hanafiti, però, equiparano la pratica
raccomandata certa all’atto doveroso quando l’uomo ha una passione violenta, ma è incerto
sull’esito di questa passione. Il matrimonio è atto indifferente, come qualificazione giuridica,
quando l’uomo ha un semplice desiderio di sposarsi e si sposa per appagarlo, ma non è certo né
teme di cadere nell’incontinenza. Il matrimonio è invece atto biasimevole quando si teme di
32
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 16-
17.
provocare, con esso, un atto d’ingiustizia. Il matrimonio, infine, è proibito quando c’è la certezza
che gli oneri economici gravanti sul marito verranno soddisfatti da proventi illeciti.
Secondo i malikiti, il matrimonio è obbligatorio quando l’uomo ha il desiderio e teme, non
sposandosi, di commettere un atto di zinā. È obbligatorio anche quando il maschio non è in grado di
fare un digiuno che lo possa distogliere dal commettere l’atto sessuale illecito oppure non ha la
possibilità di comprare una schiava. Il matrimonio è raccomandato quando l’uomo non ha il
desiderio di sposarsi, ma vuole una discendenza; in questo caso, però, dev’essere anche in grado di
far fronte ai propri obblighi (come quello di guadagnare lecitamente e quello di consumare il
matrimonio). Il matrimonio è raccomandato anche quando l’uomo desidera sposarsi, pur non
temendo di commettere un atto sessuale illecito, ed è in grado di provvedere al mantenimento, speri
o meno in una discendenza. Il matrimonio è atto giuridicamente indifferente quando un uomo non
ha il desiderio di sposarsi, non spera in una discendenza, ma è in grado di averla. Il matrimonio è
poi biasimevole quando l’individuo non ha il desiderio di sposarsi e teme di non poter ottemperare a
qualcuno dei suoi obblighi. È infine proibito quando l’uomo non teme di commettere un atto
sessuale illecito, quando non è in grado di provvedere alla pensione alimentare guadagnando
lecitamente e quando non è in grado di avere rapporti sessuali. In quest’ultimo caso, però, se la
moglie ne è a conoscenza e vi acconsente, il matrimonio può aver luogo e sarà valido; inoltre, se la
donna (giuridicamente capace) è a conoscenza dell’incapacità del marito nel provvedere alla
pensione alimentare e vi acconsente lo stesso, il matrimonio sarà valido ugualmente. Infine, se essa
è a conoscenza che l’uomo vive di guadagni illeciti e, ciononostante lo sposa, il matrimonio non
sarà valido.
Per gli šāfi ‘iti il matrimonio è, per principio, atto lecito (giuridicamente indifferente). Ad ogni
modo, è obbligatorio se destinato a prevenire qualcosa di illecito (come nel caso in cui una donna
teme per la sua onorabilità, a causa di un uomo dissoluto e insistente che non riesce a trattenersi; in
una tal ipotesi, essa si deve sposare). Il matrimonio è invece raccomandato se un uomo ha il
desiderio di sposarsi ed è capace di provvedere al mantenimento. È, infine, riprovevole quando un
individuo teme di non poter far fronte agli obblighi matrimoniali.
In conclusione, per gli hanbaliti, il matrimonio è doveroso quando sia l’uomo che la donna temono
(o suppongono) di cadere nell’incontinenza, sia o meno l’uomo in grado di provvedere al
mantenimento. È invece raccomandabile quando sia l’uomo che la donna hanno il desiderio di
sposarsi, ma non temono di cadere nell’incontinenza, mentre è indifferente quando non c’è questo
desiderio. È infine proibito il matrimonio stipulato in territorio nemico (tranne che per necessità);
inoltre, nelle condizioni di prigioniero, non è mai consentito sposarsi33
.
4) MATRIMONIO COME CONTRATTO
Quando un uomo vuole sposare una donna, la chiede in moglie ai suoi genitori, ai tutori o a lei
direttamente. Dal momento della proposta di matrimonio (hitba), nessun’altro uomo può avanzare
un’analoga richiesta se la donna è disponibile ad accettare la prima proposta, i promessi sposi hanno
concordato il dono nuziale e la donna ha fissato eventuali condizioni; viceversa, è possibile
avanzare una nuova proposta di matrimonio se la prima è stata rigettata.
Generalmente è l’uomo che fa la richiesta; tuttavia, anche una donna può avanzare una proposta di
matrimonio ad un uomo e, un uomo, può proporre ad un altro uomo il matrimonio con la propria
figlia o sorella. Il promesso sposo può vedere la donna prima della conclusione del contratto: in
particolare, può vederne la faccia e le mani. Una volta che la proposta viene accettata, le parti
s’impegnano a concludere il contratto di matrimonio; ma, se il patto viene rotto non nasce alcuna
obbligazione per la parte responsabile: è solo con il matrimonio, infatti, che si creano reciproci
diritti e doveri.
Il matrimonio è un mero contratto civile teso a regolare rapporti tra i sessi34
; il termine che lo
designa è “nikah” e significa “unione sessuale dell’uomo con la donna”, o meglio, del marito con la
moglie: scopo principale del matrimonio, infatti, è il possesso sessuale lecito della donna da parte
dell’uomo35
. Esso è un vincolo consensuale che si perfeziona mediante la lettura pubblica degli
elementi di un accordo esplicito36
. È un’unione di due vite, ma anche un’alleanza tra due famiglie.
La sua validità dipende dalla presenza degli elementi necessari per l’esistenza di un qualsiasi
negozio consensuale: soggetti, formazione del consenso, espressione del consenso, oggetto. A
questi quattro elementi, se ne aggiungono due peculiari del contratto di matrimonio, l’intervento di
un curatore matrimoniale (walī) e la fissazione nel contratto di un dono nuziale (mahr). I giuristi
musulmani, più schematicamente, affermano che i principi cardine del contratto di matrimonio
sono l’offerta e l’accettazione. Per gli hanafiti, i malikiti e gli šāfi ‘iti (ma non per gli hanabaliti),
33
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 17-
19.
34 Def. di A. Cilardo in “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico”, p. 20. 35
Def. di Rosa Anna Pelliccia in “Il diritto di famiglia islamico”, p. 13. 36
Def. di Rosa Anna Pelliccia in “Il diritto di famiglia islamico”, p. 11.
l’accettazione può procedere l’offerta. Inoltre, per hanafiti, malikiti e hanbaliti, per esprimere
l’accettazione basta pronunciare una frase generica; come: “ho accettato” o “sono d’accordo”; per
gli šāfi ‘iti, invece, è necessario fare esplicito riferimento al matrimonio. Le scuole concordano sulla
necessità dell’“unitarietà della seduta del contratto”, vale a dire, che l’offerta e l’accettazione
avvengano in un’unica sessione. Divergono, invece, sull’immediatezza senza alcuna interruzione
temporale tra l’offerta e l’accettazione: hanafiti e hanbaliti ritengono che l’immediatezza non sia
una condizione necessaria; gli altri ritengono che l’immediatezza sia una condizione
imprescindibile, ma ritengono scusabile un minimo intervallo.
Per i musulmani il matrimonio è una realtà naturale, voluta dal Creatore e regolata dalla legge
divina, anche se non appartiene alle ibadàt37
. Il matrimonio musulmano non ha nulla di analogo alla
nozione di sacramento professata dalla religione cattolica, e ciò incide su un altro profilo del
matrimonio, quello dell’indissolubilità. Infatti, la natura sacramentale dell’unione tra un uomo una e
donna prevede la non dissolubilità del vincolo matrimoniale mentre il matrimonio islamico è per
sua natura dissolubile, tanto che è stato creato l’istituto del ripudio38
.
4.1) SOGGETTI DEL MATRIMONIO
I soggetti del contratto matrimoniale sono i futuri sposi e il curatore matrimoniale. Lo sposo
dev’essere musulmano, pubere, sano di mente ed idoneo a consumare il matrimonio; la donna deve
possedere le stesse qualità, ma può essere anche una non musulmana appartenente alla Gente del
Libro39
e cioè, ad una delle religioni rivelate: ebrea, cristiana e per analogia anche mazdea o indù.
Essa, però, dev’essere di condizione libera e dev’essere trattata come una moglie musulmana. È
ammesso il matrimonio tra impuberi ma, questo, può essere consumato solo al raggiungimento della
pubertà di entrambi40
. Il maschio minore non può sciogliere il matrimonio fino alla pubertà; ma se
muore, o muore la moglie, c’è comunque reciproca vocazione ereditaria tra i due. La figlia minore
può essere data in matrimonio solo dal padre; se ha raggiunto i nove anni di età e il padre è assente,
anche altri curatori matrimoniali (che ne hanno diritto) possono darla in matrimonio, chiedendo
sempre il consenso al capofamiglia.
37
Le ibadàt sono le cinque obbligazioni religiose previste dall’Islam. 38
Sull’argomento, si veda “Il diritto di famiglia islamico”, di R. A. Pelliccia, p. 12. 39
“…e vi sono permesse, come mogli, le donne oneste fra le credenti, come anche le donne oneste fra coloro cui fu dato
il Libro prima di voi, purché diate loro le doti, vivendo castamente, senza fornicare e prendervi amanti…” (Cor. V, 5). 40
Questo principio si rifà ad un hadit di ‘A’iša, sposata da Maometto quando era ancora impubere. Il matrimonio dei
due, si testimonia, fu consumato solo al raggiungimento della pubertà da parte della giovane.
Molto dibattuta è la questione dell’uguaglianza tra i promessi sposi ed i loro familiari (kafa’a).
Secondo alcuni, una donna viene sposata per quattro ragioni e qualità: la ricchezza, lo status
familiare, la bellezza e la religione. L’equivalenza nella ricchezza non è indispensabile, purché
l’uomo dia alla donna il dono nuziale completo cui ha diritto. Secondo gli hanafiti, i criteri per
determinare la kafa’a includono il lignaggio, l’appartenenza all’Islam, la professione, lo status
libertatis, la pratica della religione e la proprietà. I malikiti limitano la kafa’a alla pietà religiosa e
all’assenza di difetti, mentre gli šāfi ‘iti prendono in considerazione il lignaggio, la pietà religiosa,
lo status libertatis e la professione41
.
4.1.1) Curatore matrimoniale
Le scuole giuridiche divergono sulla presenza e sul ruolo del curatore matrimoniale (walì)
all’interno del contratto di matrimonio. Malikiti e šāfi ‘iti considerano la sua presenza un elemento
fondamentale del contratto, mentre hanafiti e hanbaliti la considerano una condizione, limitando gli
elementi essenziali all’offerta e all’accettazione degli sposi. In ogni caso, ai fini della validità del
contratto, malikiti, šāfi ‘iti e hanbaliti ritengono che la presenza del curatore matrimoniale sia
necessaria e, pertanto, senza di lui o di una persona che ne fa le veci, il matrimonio è nullo, a
prescindere dal fatto che la donna sia pubere o impubere, sana o malata di mente; ma se la donna
(anche impubere) è già stata deflorata, il matrimonio non è valido senza l’autorizzazione e il
consenso della stessa. Viceversa, secondo gli hanafiti, la presenza del curatore matrimoniale è
condizione per la validità del matrimonio solo delle femmine e dei maschi impuberi e delle
femmine e dei maschi malati di mente (anche se impuberi). Nessuno, invece, ha il potere di curatore
matrimoniale sulla donna pubere e sana di mente, che può personalmente contrarre matrimonio se il
futuro marito ha la sua stessa condizione sociale (altrimenti il curatore può opporsi e rescindere dal
contratto).
Il curatore matrimoniale dev’essere musulmano, pubere, sano di mente, di buona reputazione ed in
possesso delle attitudini idonee a svolgere questa funzione. Vi sono due categorie di walì, quelli che
hanno potere di coercizione e quelli che ne sono privi. Solo i primi, hanno il diritto di dare in
matrimonio persone sotto la loro tutela senza chiedere loro il consenso. Per gli hanafiti esiste solo il
curatore con potere di coercizione, che può esercitare la sua forza sia sulle femmine e i maschi
impuberi, sia sulle femmine e i maschi malati di mente (anche se puberi). Al contrario, per le altre
41
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 21-
22.
scuole, il diritto di coercizione può essere esercitato solo sulla figlia demente (anche se non più
vergine per un precedente matrimonio) e sulla figlia non più vergine a causa di un evento
accidentale o a causa di uno stupro.
Tuttavia, le scuole divergono anche sull’individuazione del curatore con potere di coercizione. Per i
malikiti è il padre; poi, dopo la sua morte, è il curatore nominato da lui a questo scopo; poi il
governante. Per gli šāfi ‘iti, è il padre, poi l’avo (anche se remoto) e il sovrano. Gli hanbaliti
divergono poco dai malikiti. Essi ritengono che il curatore sia il padre, poi la persona nominata dal
padre (anche se non gli è stato affidato questo specifico incarico) ed infine il governante, a
condizione che ci sia uno stato di necessità tale, da richiedere il matrimonio. Il diritto di coercizione
cessa: quando la donna non è più vergine a causa della consumazione di un matrimonio (anche se
successivamente sarà dichiarato nullo, perché il matrimonio causa l’emancipazione della donna);
quando la donna ha vissuto con il marito nella casa coniugale, anche se il matrimonio non è stato
consumato; se la donna è stata emancipata dal padre; quando la donna è orfana di padre e non ha,
quindi, un curatore che possa costringerla a sposarsi.
Il curatore matrimoniale è, ovviamente, il parente maschio più prossimo della donna. Le scuole,
però, divergono anche sull’ordine degli agnati. Secondo gli hanafiti, più aderenti all’antica
consuetudine pagana preislamica, i curatori matrimoniali sono innanzitutto gli agnati jure proprio
secondo l’ordine stabilito nel diritto ereditario; poi il patrono ed i suoi agnati in ordine di
prossimità. In assenza degli agnati subentrano quelli che, tra i parenti in linea femminile, hanno il
diritto di ereditare secondo l’ordine di prossimità; seguono il sultān42
e il qadì. Al contrario i
malikiti ritengono che, nell’ordine di precedenza, viene il curatore matrimoniale che ha il diritto di
coazione (vale a dire il padre), il tutore testamentario e il governante; successivamente, i figli della
donna (anche se illegittimi) ed i loro discendenti maschi; segue il padre che non può esercitare il
diritto di coercizione (a condizione che sia il padre legittimo), il fratello germano, il fratello
consanguineo ed i loro discendenti maschi; poi l’avo paterno e gli altri agnati in ordine di
prossimità. Secondo gli šāfi ‘iti, la gerarchia dei curatori matrimoniali ha inizio con il padre, poi
l’ascendente più prossimo in linea paterna, il fratello germano, il fratello consanguineo, i loro
discenti maschi e gli altri agnati in ordine di prossimità. Infine, gli hanbaliti concordano con i
malikiti nel dare la precedenza al padre, poi al mandatario di quest’ultimo (dopo la sua morte) ed al
governante in caso di necessità. Successivamente, il diritto passa all’agnato più prossimo, secondo
42
Chi governa ed esercita il potere, è considerato il curatore matrimoniale della donna che non ha parenti in grado di
svolgere questa funzione.
l’ordine della successione: l’avo (anche se remoto), il discendente maschio (anche se remoto), il
fratello germano, il fratello consanguineo, gli altri agnati in ordine di prossimità43
.
4.2) IMPEDIMENTI MATRIMONIALI
Affinché il contratto di matrimonio sia valido, occorre che fra gli sposi non vi siano impedimenti.
L’Islam stabilisce alcuni impedimenti “di natura”, non ammettendo alcun altro tipo di matrimonio
se non quello tra un uomo e una donna; pertanto, un uomo non può sposare un altro uomo o un
ermafrodita ambiguo, né può avere rapporti con chi non appartiene alla specie umana. Equiparata ad
un impedimento di natura, è anche la radicale diversità tra un musulmano ed una donna idolatra44
.
Oltre a questi casi di totale incompatibilità naturale, il Corano annulla una consuetudine pagana con
una specifica disposizione: “E non sposate le mogli già sposate ai vostri padri, salvo quanto già è
avvenuto, ché questa è una turpitudine, un abominio, un abietto costume”45
.
In aggiunta alle situazioni precedenti, gli impedimenti matrimoniali si distinguono in permanenti e
temporanei. Sono impedimenti perpetui la parentela, l’affinità e l’allattamento. I principali
impedimenti temporanei, invece, sorgono dal terzo ripudio, dalla sussistenza di precedenti
matrimoni e dalla differenza di culto46
.
4.2.1) Impedimento da parentela
L’impedimento per parentela è disciplinato dal Corano, secondo il quale:
“V’è proibito di prendere in spose le vostre madri, le vostre figlie, le vostre sorelle, le vostre zie
paterne e materne, le figlie del fratello e le figlie della sorella…”47
.
Gli interpreti danno dei termini “madri” e “figlie” un’interpretazione ampia: “Non è consentito
all’uomo sposare la propria madre, le proprie ascendenti per via maschile o femminile, la propria
figlia, la figlia del suo discendente (di qualsiasi grado), la sorella, le figlie di sua sorella o di suo
fratello, la zia paterna o materna”. Analogamente, sono proibite le discendenti (di qualsiasi grado) 43
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 27-
30, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 184-
191. 44
Cor. II, 221. 45
Cor. IV, 22. 46
Sull’argomento, si veda: “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 22-
23, “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, p. 191 e “Il
diritto di famiglia islamico” di Rosa Anna Pelliccia pp. 13-16. 47
Cor. IV, 22.
delle sorelle e dei fratelli, le zie paterne e quelle materne: dunque, le cugine (materne e paterne,
parallele o incrociate) non sono tra le donne proibite per parentela. Infatti, proprio con le cugine
parallele paterne, cioè le figlie del fratello del padre, si stringono i matrimoni preferenziali nell’area
islamica. Inoltre, è lecito che il figlio dello zio paterno si sposi da sé (qualora svolga le funzioni di
walì) con la figlia del suo zio paterno48
.
4.2.2) L’impedimento da affinità
Numerosi sono i passi coranici in materia di affinità. In aggiunta al versetto che vieta il matrimonio
con le donne già sposate dai propri padri c’è, ad esempio, quello che proibisce il matrimonio con le
mogli dei discendenti (di qualsiasi grado):
“V’è proibito prendere in spose… le legittime mogli dei vostri figli, i quali sono vostri lombi…”49
.
I termini coranici “padri” e “figli” sono comprensivi degli ascendenti e dei discendenti tutti. Anche
le ascendenti e le discendenti della moglie (di qualsiasi grado) sono proibite:
“V’è proibito prendere in spose… le madri delle vostre mogli, le figliastre che son sotto la vostra
tutela, le figlie di vostre mogli con le quali abbiate avuto rapporti maritali (ma, se non avrete avuto
con loro rapporti, non sarà peccato)…”50
.
Dunque, solo nel caso delle discendenti della moglie, è richiesto che il matrimonio su cui si fonda
l’affinità sia stato consumato.
L’impedimento da affinità può sorgere, per hanafiti e hanbaliti, anche dal rapporto sessuale illecito
o semplicemente dall’intimità: l’uomo non può sposare le donne con cui i suoi ascendenti e
discendenti hanno avuto un rapporto sessuale illecito, né le discendenti e le ascendenti della donna
con cui egli stesso ha avuto tali rapporti; a chi ha commesso fornicazione con una donna, sono
proibite la madre e la figlia della stessa.
Diversa è la dottrina malikita: “Le figlie di una donna divengono proibite all’uomo solo dopo che
egli ha avuto con lei un rapporto sessuale o ha goduto in qualche modo di lei nel quadro del
matrimonio… o di un matrimonio putativo. La fornicazione non rende proibito ciò che in origine
era lecito”.
48
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 23-
27, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, p. 191-192. 49
Cor. IV, 23. 50
Cor. IV, 23.
Non è proibita, invece, la donna con cui l’uomo ha avuto un rapporto fuori dal matrimonio. Inoltre,
se una donna ha commesso fornicazione, chi ne è a conoscenza può sposarla solo a due condizioni:
che sia trascorso il periodo di ritiro legale e, nel caso sia incinta a seguito della fornicazione, che il
periodo di ritiro legale sia giunto a termine con il parto; e che ella abbia fatto penitenza per la
fornicazione. Se sussistono entrambe le condizioni, è lecito il suo matrimonio, sia con il
“compagno” di fornicazione, sia con altri diversi da lui51
.
4.2.3) Impedimento da allattamento
L’allattamento, così come stabilito dal Corano, è motivo d’impedimento al matrimonio:
“V’è proibito prendere in spose… le nutrici che vi hanno allattato e le vostre sorelle di latte…”52
.
Più precisamente, è proibito a causa dell’allattamento ciò che è proibito a causa della parentela. La
parentela di latte lega il lattante e i suoi discendenti alla balia e ai suoi discendenti e ascendenti. Ma
l’impedimento si estende anche al marito della balia, considerato causa del latte: il figlio di latte,
non può sposare il figlio del padre di latte. Il ragazzo che una donna allatta, infatti, diventa figlio
della stessa e dell’uomo che è causa dell’allattamento, avendo avuto con essa rapporti sessuali. Il
ragazzo è proibito come se fosse un loro figlio.
Qualunque latte raggiunga la gola del bambino è causa d’impedimento, che l’abbia preso al seno,
per bocca, attraverso il naso, che sia puro o mescolato (a condizione che non abbia perso la qualità
di latte). Occorre, inoltre, che siano rispettate le seguenti condizioni: che il latte sia di donna, viva o
morta. Il latte di un animale, di un uomo o di un ermafrodita di cui non si può determinare il sesso,
non produce impedimento; e poi che l’allattamento abbia luogo durante i primi due anni: il Profeta
ha detto: “Solo il latte assunto prima dello svezzamento è causa d’impedimento; …e che il lattante
abbia assunto almeno cinque sorsi”.
L’allattamento produce, quindi, una parentela artificiale che ha gli stessi effetti della parentela di
sangue53
.
51
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 23-
27, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, p. 192-193. 52
Cor. IV, 23. 53
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 23-
27, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, p. 193-195.
4.2.4) Impedimento da terzo ripudio
L’uomo non può sposare nuovamente una donna che ha già ripudiato tre volte. Se il marito ripudia
la moglie tre volte, questa non sarà lecita per lui né come schiava concubina né come moglie, fino a
quando ella stessa non sposerà un uomo diverso da lui.
L’impedimento è dunque di natura temporanea, ed è rimosso quando la donna conclude il periodo
di ritiro legale che segue la fine del matrimonio con l’uomo che la rende nuovamente lecita. Dice
infatti il Corano:
“Il ripudio vi è concesso due volte: poi dovete o riprenderla con dolcezza presso di voi, o
rimandarla con dolcezza […] – Dunque se uno ripudia per la terza volta la moglie, essa non potrà
più lecitamente tornare da lui se non sposa prima un altro marito; se a sua volta, quest’ultimo la
divorzia, non sarà peccato se i due coniugi si ricongiungono, se pensano di poter osservare le leggi
di Dio […]”54
.
4.2.5) Impedimento da precedenti matrimoni
Il Corano proibisce all’uomo il matrimonio con una donna sposata:
“Tutte le donne maritate vi sono interdette […]”55
.
L’impedimento sussiste fino al termine del periodo di ritiro legale che segue il verificarsi dello
scioglimento del matrimonio e che dura, rispettivamente, tre mesi per la divorziata56
e quattro mesi
e dieci giorni per la vedova57
. Il matrimonio concluso da una donna durante il periodo di ritiro
legale è nullo.
L’esistenza di un precedente matrimonio è, però, d’impedimento soltanto al matrimonio della
donna, che non potrà sposarsi fino a quando rimane nella potestà del marito precedente; non è,
dunque, d’impedimento al matrimonio dell’uomo, che può riunire in suo potere fino a quattro donne
contemporaneamente. Dice infatti il Corano:
54
Cor. II, 229-230.
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 23-27,
e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, p. 195-196. 55
Cor. IV, 24. 56
“Quanto alle divorziate attendano, per rimaritarsi, tre periodi mestruali…”. – Cor. II, 228. 57
“Se qualcuno di voi muore e lascia delle mogli, queste attenderanno per quattro mesi e dieci giorni; trascorso questo
periodo non avrete, o tutori, alcuna responsabilità di quello che esse vorran fare di se stesse onestamente…”. – Cor. II,
234.
“Se temete di non essere equi con gli orfani, sposate tra le donne che vi piacciono, due o tre o
quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso; questo
sarà più atto a non farvi deviare”58
.
Gli interpreti contemporanei, richiamando l’attenzione sull’obbligo che è dato all’uomo di trattare
le mogli con giustizia, mettono questo versetto in connessione con un altro versetto, secondo il
quale:
“Anche se lo desiderate, non potrete agire con equità con le vostre mogli…59
”.
Per cui, l’esercizio della poligamia è sottoposto ad una condizione che Dio stesso dichiara non
realizzabile; si deduce che il matrimonio poligamico è, nella normalità dei casi, virtualmente
proibito. Su questa interpretazione del testo coranico fanno leva i diversi legislatori statali per
introdurre misure di dissuasione e di controllo (più o meno penetranti) della poligamia, come la
necessità dell’autorizzazione giudiziaria per il matrimonio poligamico o la possibilità per la prima
moglie di divorziare, in virtù di una disposizione di legge o come conseguenza della violazione
della clausola di monogamia apposta al contratto di matrimonio. Finora, tra i Paesi arabi, soltanto la
Tunisia ha proibito la poligamia, che viene considerata reato.
Il divieto di sposare la quinta donna, non riguarda il matrimonio a termine: l’uomo, soprattutto in
viaggio, non è tenuto a rispettare quella prescrizione nello stipulare un contratto di matrimonio
temporaneo.
Nel praticare la poligamia, è comunque necessario che l’uomo rispetti un particolare impedimento
relativo alla combinazione delle donne che si trovano riunite nella sua potestà. L’impedimento è
fondato sul seguente versetto coranico:
“V’è proibito di prendere in moglie due sorelle insieme, salvo quanto sia già avvenuto…”60
.
Il divieto è ulteriormente specificato da un hadit, secondo il quale:
“Non vi può essere matrimonio allo stesso tempo con una donna e sua zia materna o paterna, con
una donna e la figlia di suo fratello o di sua sorella”.
58
Cor. IV, 3. 59
Cor. IV, 129. – Ai commentatori della tradizione non sfuggiva il ricorrere, in entrambi i versetti, dei verbi “essere
giusti” e “trattare con equità”. Tuttavia, essi sostenevano che nel IV, 3 ci si riferisse alla giustizia nel trattamento
materiale delle mogli, cosa possibile e realizzabile; mentre nel IV, 129 la giustizia era quella degli affetti, che invece
non era affatto realizzabile. 60
Cor. IV, 23.
In base ad un’interpretazione estensiva dei passi citati, l’uomo non può allo stesso tempo avere
come mogli due donne che, se una di loro fosse maschio, non potrebbero sposarsi per l’esistenza di
un qualsiasi impedimento perpetuo. Quando un uomo sposa con un solo contratto due donne che
non può sposare contemporaneamente, il contratto è nullo; se le sposa con due contratti, è nullo il
secondo61
.
4.2.6) Impedimento da differenza di culto
L’impedimento matrimoniale per differenza di culto è formulato in maniera diversa per la donna e
per l’uomo.
La donna musulmana, per regola indiscussa, non può sposare un non musulmano, come prescrivono
i seguenti versetti coranici:
“…e non date in spose donne credenti a idolatri finché essi non abbian creduto, perché lo schiavo
credente è meglio di un uomo idolatra, anche se questi vi piaccia”62
.
“O voi che credete! Quando vengono a voi delle credenti emigrate, esaminatele: Dio meglio
conosce la fede loro. E se le conoscerete credenti, non rinviatele ai Negatori della fede, poiché
costoro non son leciti ad esse, né esse lecite a loro...”63
.
Anche l’uomo musulmano non può sposare la non musulmana:
“Non sposate donne idolatre finché non abbian creduto…”64
;
salvo che si tratti di una donna appartenente alle religioni del Libro:
“Oggi… vi son permesse, come mogli, le donne oneste fra le credenti, come anche le donne oneste
fra coloro cui fu dato il Libro prima di voi, purché diate loro le doti, vivendo castamente, senza
fornicare e prendervi amanti…”65
.
Il divieto inderogabile di matrimonio tra musulmana e non musulmano, si spiega sulla base di
alcuni caratteri del matrimonio islamico, che sono assunti come essenziali. La proibizione è
motivata dal fatto che il cristiano e l’ebreo non credono alla santità di Maometto Profeta dell’Islam,
61
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 23-
27, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, p. 196-198. 62
Cor. II, 221. 63
Cor. LX, 10. 64
Cor. II, 221. 65
Cor. V, 5.
inviato di Dio. La sposa musulmana, quindi, sarebbe portata a provare repulsione per il marito e,
ciò, metterebbe in pericolo l’avvenire della famiglia: per questo l’Islam vieta tale matrimonio.
La donna, poi, è nella potestà del marito e gli deve obbedienza: il matrimonio misto porterebbe un
non musulmano ad esercitare la sua autorità sulla donna musulmana. Inoltre, mentre il marito
musulmano rispetta la religione della moglie non musulmana, alla base della quale riconosce una
rivelazione precedente all’Islam, l’uomo non musulmano non porterebbe lo stesso rispetto alla
religione della moglie musulmana. La donna, secondo l’Islam, è per natura influenzabile: quindi se
la non musulmana, sotto l’influsso del marito, si converte all’Islam, non si crea una situazione che
nuoce all’interesse della famiglia ma, al contrario, si crea una situazione che corrisponde
all’interesse della donna stessa. Se, viceversa, la donna musulmana per seguire il marito nella sua
fede lascia l’Islam, commette apostasia. Va infine considerato che i figli seguono il padre nella
religione: i figli partoriti dalla musulmana al marito non musulmano, non entrerebbero nell’Islam,
ma apparterrebbero alla religione paterna.
L’impedimento da differenza di culto è sicuramente temporaneo, superabile con la conversione
dell’uomo all’Islam o della donna idolatra a una delle religioni celesti. La differenza di fede è
rilevante anche se sopraggiunge dopo il matrimonio: se, nel matrimonio tra due non musulmani la
donna si converte all’Islam, l’uomo è invitato a seguirla; qualora non lo faccia, il matrimonio
dev’essere sciolto. La conversione, sia del marito che della moglie dall’Islam a qualsiasi altra
religione, costituisce apostasia e comporta lo scioglimento del matrimonio66
.
4.2.7) Conseguenze del matrimonio concluso nonostante l’impedimento
Il matrimonio concluso nonostante l’esistenza di un impedimento, non produce effetti matrimoniali.
Il giudice pronuncia il fash67
e ordina all’uomo e alla donna di separarsi. Lo stesso avviene quando
l’impedimento sopraggiunge dopo che la vita matrimoniale si è validamente costituita.
È difficile comprendere in quali casi, l’uomo e la donna costretti a separarsi per aver concluso il
matrimonio nonostante l’impedimento temporaneo, possono risposarsi. Le diverse scuole, infatti,
divergono sulle varie ipotesi.
Ad ogni modo, qualora l’impedimento temporaneo sia sopravvenuto dopo la conclusione del
matrimonio, come può accadere in caso di apostasia e, qualora lo stesso scompaia con la
66
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 23-
27, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, p. 199-202. 67
L’annullamento.
riconversione all’Islam, secondo alcuni un nuovo matrimonio non è neppure necessario, perché
rivive quello originario68
.
4.3) CONSENSO
La volontà delle parti, che mira a creare un vincolo di vita permanente tra un uomo e una donna,
non dev’essere viziata da errori inerenti ai promessi sposi e alle loro qualità, né vi dev’essere
violenza fisica o morale sui soggetti del contratto. Pertanto, se si accertano l’errore o la costrizione,
il contratto può essere rescisso.
Il curatore matrimoniale, inoltre, non è tenuto a dichiarare le mancanze morali della donna, come
per esempio un atto di fornicazione, che possano commetterne la reputazione.
Le scuole divergono sul caso specifico della violenza esercitata sui soggetti. Secondo malikiti, šāfi
‘iti e hanbaliti, il contratto di matrimonio è nullo quando c’è stata violenza. Al contrario, per gli
hanafiti, il matrimonio si considera contratto solo se non è la donna a costringere un uomo a
sposarla; in quest’ultima ipotesi, essa non ha diritto al dono nuziale quando il matrimonio non viene
consumato, mentre ha diritto al dono nuziale di equivalenza nel caso opposto69
.
4.4) MANIFESTAZIONE DELLA VOLONTÀ
In generale, il diritto islamico non fissa forme speciali per esprimere il consenso. Sia il curatore
matrimoniale, sia i promessi sposi, devono usare espressioni non ambigue, in grado d’indicare
chiaramente la loro volontà. Per il contratto di matrimonio anche le donne devono esprimere il loro
consenso, altrimenti è nullo.
Le scuole giuridiche concordano sul fatto che il matrimonio, come pure il ripudio, si considera dato
e contratto anche se si pronunciano frasi per scherzo. Sul tipo di espressioni da usare, però, non tutte
le scuole la pensano allo stesso modo. Al contrario degli hanafiti, per malikiti, šāfi ‘iti e hanbaliti il
matrimonio non è valido se vengono pronunciate espressioni che si usano generalmente quando si
acquista un bene o si fa un atto di liberalità. Inoltre, per šāfi ‘iti e hanbaliti, il matrimonio si
considera valido solo se l’espressione della volontà fa esplicito riferimento al matrimonio; per i
68
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, p. 203. 69
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 30-
31.
malikiti, invece, è lecito riferirsi alla “donazione”, purché tale espressione sia connessa alla
menzione del dono nuziale70
.
4.5) OGGETTO DEL CONTRATTO
Il contratto di matrimonio ha due distinti oggetti.
Per il marito, oggetto del contratto sono i diritti che egli acquisisce in virtù del matrimonio,
sintetizzati nell’espressione “potestà maritale”, vale a dire l’autorità maritale e il diritto permanente
di godimento, in virtù della superiorità di grado di un sesso sull’altro.
Per la moglie, oggetto del matrimonio è il corrispettivo dovuto dal marito sotto forma di dono
nuziale, dato direttamente a lei e non più ai suoi parenti (com’era nell’età preislamica), oltre al
diritto al mantenimento e alla custodia dei figli71
.
4.5.1) Dono nuziale
Il dono nuziale (mahr) è un’attribuzione patrimoniale dovuta dall’uomo alla donna quando ha avuto
un rapporto sessuale con lei e quindi: in presenza di un valido contratto di matrimonio, in seguito a
un matrimonio invalido, per il fatto che i due coniugi si siano lecitamente appartati e coabitino, per
la morte di uno dei coniugi. La fonte dell’obbligo è riconosciuta in alcuni versetti coranici:
“Date spontaneamente alle donne la dote…”72
.
“…e vi sono permesse, come mogli, le donne oneste… purché diate loro le doti”73
.
“…né sarà peccato per voi se le sposerete, pagando loro la dote prescritta..”74
.
Il dono nuziale è il tratto distintivo di una relazione lecita, rispetto ad un atto sessuale libero e
illegale. Dal momento che si tratta di un elemento costitutivo del contratto, il pagamento del mahr
incombe sempre sul marito (quale corrispettivo per i diritti che acquisisce con il matrimonio) in
base alle sue possibilità economiche ed anche, se risulta essere estremamente povero; in
70
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, p. 31. 71
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 31-
32. 72
Cor. IV, 4. 73
Cor. V, 5. 74
Cor. LX, 10.
quest’ultimo caso, però, i beni materiali possono essere sostituiti dalla conoscenza a memoria delle
sure del Corano. Infatti, secondo un hadit, il Profeta disse a un uomo che voleva sposare una donna:
“Offrile anche solo un anello di ferro”.
E a un uomo che non aveva neppure un sigillo in ferro da dare in mahr:
“ ‘Che cosa sai veramente del Corano?’. ‘So questa sura e questa sura ancora (e disse tutti i nomi
delle sure che conosceva)’. ‘E le puoi recitare a memoria?’. ‘Si’. ‘E allora, va!’. ‘Ella è tua per il
Corano che conosci’.”.
In generale, quindi, il dono nuziale corrisponde alla condizione economica dei coniugi; tuttavia, la
moglie può accettare un dono nuziale di minore entità rispetto a quando potrebbe pretendere. Ma, se
il marito omette di darlo, il mahr si trasforma in debito gravante su di lui.
L’uomo deve dare alla donna il dono nuziale completo determinato nel contratto o, se non
determinato, il mahr al-mit o mahr di equivalenza. Quest’ultimo, è il dono nuziale che verrebbe
pagato per le donne equivalenti alla sposa tra le sue parenti agnate, pari a lei per età, patrimonio,
bellezza, condizione75
e verginità; se non ci sono sue parenti per via maschile, si considera il mahr
dovuto per le altre sue parenti; se mancano anche queste, si ha riguardo alle donne del suo paese.
Tuttavia, l’obbligo del marito può decadere, in tutto o in parte. Il primo caso si verifica quando la
moglie compie un’azione che impone la separazione dei coniugi, come l’apostasia dall’Islam prima
della consumazione; il secondo ha luogo quando la separazione avviene per colpa del marito, nel
caso egli apostati dall’Islam o compia un atto di zina con la madre o la figlia della moglie: in questi
ultimi casi, se egli compie l’atto prima di appartarsi con la moglie o prima della consumazione del
matrimonio, le deve la metà del dono nuziale. Un altro caso in cui il marito deve dare alla moglie la
metà del dono nuziale fissato nel contratto, si verifica quando egli ripudia la stessa prima della
consumazione o prima di rimanere lecitamente appartato con lei. Se invece il dono nuziale non è
stato fissato, la moglie ha diritto al mahr a-mit a titolo di dono consolatorio (mut’a), secondo la
consuetudine76
.
Il dono nuziale dev’essere un bene con un valore minimo: dieci dirham77
per gli hanafiti, tre dirham
di argento per i malikiti. Esso, inoltre, dev’essere un bene puro con una lecita funzione per il
musulmano; pertanto, è proibito dare vino, maiale, sangue o animale morto, in quanto beni privi di
valore economico per la legge religiosa islamica. Il mahr non dev’essere un bene acquistato 75
Essa si riferisce all’essere già sposata e ripudiata, o vedova. 76
Cor. II, 229, 236-237. 77
È l’unità di argento del sistema monetario arabo e pesa 1/7 dell’unita monetario d’oro (dinar). Il valore di un dirham
equivale a 1/10-1/12 del valore di un dinar.
illegalmente; in un’ipotesi del genere, infatti, risulterebbe illecito e il marito dovrebbe versare alla
moglie un mahr al-mit, in quanto il matrimonio resterebbe comunque valido.
Il dono nuziale non deve consistere necessariamente in oro o argento, ma può essere costituito
anche da beni commerciali come la terra, gli animali, la casa, ecc., purché abbiano un valore
economico. Esso può consistere anche in beni da cui è lecito trarre profitto, come l’usufrutto di una
casa, degli animali, ecc.
Il dono nuziale è pagato alla moglie nell’ambito di un valido contratto e diventa proprietà esclusiva
della stessa; per questo ne può disporre liberamente, mediante un atto di compravendita, di
donazione o impiegandolo come pegno.
Se la moglie è una minore, una vergine o un’interdetta, il dono nuziale viene dato al padre, al tutore
o a un curatore. Se la moglie è schiava, il dono nuziale è rimesso al suo padrone.
Il marito non può avere rapporti sessuali con la moglie se non le ha dato il dono nuziale; egli, può
decidere di darle anche solo una parte prima e di fissare una data per il versamento del dono
restante. Ma, se il marito non è in grado di pagare la parte iniziale del dono nuziale, la moglie ha il
diritto di chiedere lo scioglimento del contratto. Se, però, la donna si rifiuta di consumare il
matrimonio o di appartarsi con il marito, questi può impedire che essa entri in possesso della parte
iniziale del dono; allo stesso tempo, l’uomo non può costringere la donna ad ottemperare ai suoi
doveri coniugali.
Nell’Islam vige il principio della completa separazione dei beni tra i due coniugi; di conseguenza,
donazioni e compra-vendite tra marito e moglie sono permesse.
È controverso stabilire di chi sia la titolarità del dono nuziale quando, ad esempio, la moglie ne
dispone prima della consumazione, oppure quando essa lo dona al marito e poi lui la ripudia prima
della consumazione; le scuole, anche in questo caso, divergono tra di loro. Secondo gli hanafiti, se
il marito la ripudia prima della consumazione, se non si sono appartati e la moglie ha già ricevuto il
dono nuziale, la metà ritorna nella disponibilità del marito all’atto del ripudio, senza bisogno di una
sentenza di un giudice o del consenso di lei; ma, se la separazione è avvenuta per colpa della
moglie, tutto il dono nuziale va restituito al marito. Per i malikiti, la moglie ha diritto solo alla metà
del dono nuziale. Per gli šāfi ‘iti, se la moglie non è entrata in possesso del dono nuziale, non ne
può disporre. Infine, per gli hanbaliti, se la moglie dispone del dono nuziale con la vendita, la
donazione, il pegno o altro, l’atto di disponibilità è valido se fatto dopo che è entrata in possesso del
dono nuziale. Se il marito la ripudia prima della consumazione, egli deve darle la metà del dono
nuziale; se invece la ripudia prima che essa ne entri in possesso e il dono nuziale è determinato, la
donna ne può disporre; ma se non è determinato, essa non può disporne.
Il dono nuziale dev’essere determinato nel contratto. Pertanto, tutto ciò che comporta incertezza
nella sua valutazione rende il contratto nullo. Tuttavia, le parti possono trasferire al marito, alla
moglie o ad una terza persona la sua determinazione e, la normativa da applicare in questi casi,
varia in base alle varie scuole giuridiche. Mentre gli hanafiti ritengono che una donna possa
affidarne al curatore matrimoniale la determinazione, o anche che il curatore matrimoniale possa
affidarlo al marito, gli šāfi ‘iti distinguono la situazione in cui la moglie affida al curatore
matrimoniale di fissare l’ammontare del dono nuziale, da quella in cui la moglie concede al suo
curatore matrimoniale di organizzare il matrimonio senza dono nuziale. Infine, per gli hanbaliti si
possono verificare tre situazioni: innanzitutto, il padre che ha potere di coercizione, può far sposare
la donna che è sotto la sua potestà senza dono nuziale; una donna può autorizzare il suo curatore
matrimoniale a farla sposare senza dono nuziale; infine, il marito può autorizzare la moglie o altra
persona a fissare il dono nuziale che desidera. Le scuole sunnite divergono anche sugli effetti
derivanti dalla consumazione o meno del matrimonio per quel che riguarda il dono nuziale.
Secondo gli hanafiti, in caso di consumazione la moglie ha diritto al mahr al-mitl. Se, invece, il
marito la ripudia prima della consumazione, le deve dare un dono consolatorio. I malikiti sono più
dettagliati. Concordano con gli hanafiti sul fatto che la donna ha diritto al mahr al-mitl dopo la
consumazione, ma aggiungono due ulteriori condizioni: i coniugi devono essere maggiorenni e la
donna dev’essere idonea a consumare il matrimonio, altrimenti non ha diritto al dono nuziale dopo
la consumazione (perché è come se non ci fosse stata). Ma i malikiti divergono dagli hanafiti anche
per quel che riguarda un matrimonio non consumato. Infatti, se la donna è ripudiata o uno dei
coniugi muore prima della consumazione e il dono nuziale non è stato fissato, essa non ne ha diritto;
ma se è stato determinato, essa ne ha diritto. Per gli šāfi ‘iti, se il curatore matrimoniale da in sposa
la donna fissando un mahr al-mitl, questo è confermato; ma se egli non ha fissato alcun dono
nuziale, il matrimonio sussiste ed essa ha diritto al mahr al-mitl dopo la consumazione o la morte
del marito. Tuttavia, a differenza dei malikiti, se il marito è morto prima che sia stato fissato il dono
nuziale, essa ha diritto al mahr al-mitl e al dono consolatorio, in quanto la morte viene paragonata
alla consumazione in riferimento all’obbligo di pagare quanto spettante alla donna. Infine, se essa è
ripudiata prima di fissare il dono e prima della consumazione, essa ha diritto solo al dono
consolatorio. Per gli hanbaliti, la moglie ha diritto al mahr al-mitl al momento del contratto, ma
questo dono è dovuto solo in considerazione della consumazione. Infatti, se il marito la ripudia
prima della consumazione, prima che il giudice fissi il dono o prima che essi si accordino sullo
stesso, essa ha diritto solo al dono consolatorio, fissato sulla base delle condizioni economiche del
marito.
Da taluni, l’istituto del mahr è vivacemente criticato perché letto essenzialmente come il prezzo che
l’uomo paga per ottenere la disponibilità della donna; altri, invece, sottolineano la funzione di
protezione che questo istituto può avere per la stessa, in quanto, il pagamento della somma stabilita
all’atto del matrimonio è rinviato (in tutto o in parte) quasi sempre al momento del ripudio, della
morte del marito o dello scioglimento del vincolo coniugale78
. Il mahr, quindi, avrebbe la funzione
di tutelare la donna al verificarsi di tali ipotesi e una funzione deterrente nei confronti di ripudi
troppo avventati da parte del marito; ma, avrebbe anche la funzione di garantire un minimo di
sostentamento alla donna in caso di morte del coniuge79
.
4.5.2) Mantenimento
I titoli che danno diritto al mantenimento sono il vincolo matrimoniale, la parentela e il possesso;
infatti, oltre alla moglie, ne hanno diritto anche alcuni parenti e gli schiavi.
Il mantenimento comprende gli alimenti, il vestiario e l’abitazione; non tutte le scuole, invece,
concordano sulle spese mediche.
L’obbligo principale del marito è il mantenimento della moglie e della famiglia80
in modo
conveniente. Questo dovere è considerato preminente rispetto agli altri obblighi di mantenimento.
Se il marito è assente, la moglie può utilizzare (con equità) i beni dello stesso per i propri figli;
inoltre, se l’uomo non provvede al mantenimento della moglie e dei figli, la donna può prelevare dai
suoi beni quanto è necessario, rivalendosi poi sul marito.
Le scuole giuridiche hanno fissato regole alquanto dettagliate per calcolare il mantenimento della
moglie. Quando i coniugi non hanno la stessa situazione economica e sociale, alcuni hanafiti ed i
malikiti ritengono che si debba prendere in considerazione la condizione di entrambi, calcolando
così una sorta di mantenimento media; secondo altri hanafiti, si deve prendere in considerazione
solo la condizione del marito. Per gli šāfi ‘iti, invece, gli alimenti e il vestiario si calcolano secondo
la condizione economica del marito, sia egli povero o ricco, mentre l’abitazione va valutata e
78
Spiegazione di Silvio Ferrari in “L’Islam e il diritto di famiglia” all’Interno di “Islam: una realtà da conoscere”. 79
Sull’argomento, si veda: “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 32-
36; “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 205-208;
“L’Islam e il diritto di famiglia” di Silvio Ferrari, all’Interno di “Islam: una realtà da conoscere”. 80
Cor. II, 210-220.
calcolata in base alle condizioni della moglie. Infine, per gli hanbaliti, si considera la condizione di
entrambi al momento del contenzioso, non al momento del contratto.
Vi sono notevoli divergenze tra le scuole anche per quanto riguarda le condizioni che rendono
obbligatorio il mantenimento.
- Per gli hanafiti: il contratto di matrimonio dev’essere valido (se risulterà rescindibile o nullo,
la moglie dovrà restituire il mantenimento già ottenuto); la moglie dev’essere idonea ad
avere rapporti sessuali; si deve concedere al marito, altrimenti viene considerata ribelle; non
dev’essere apostata; non deve compiere atti illeciti derivanti dall’impedimento per affinità;
non dev’essere nel periodo di ritiro legale per la morte del marito; se è schiava, deve vivere
in un alloggio autonomo, o meglio, se un uomo sposa una schiava in possesso di un altro, il
mantenimento è dovuto dal marito solo se il padrone ha procurato un alloggio autonomo per
lei e il marito; in caso di ripudio, poi, il padrone riacquista la potestà sulla schiava e il marito
non ha l’obbligo di darle il mantenimento durante il periodo di ritiro legale. In definitiva, per
gli hanafiti, non sussiste l’obbligo di provvedere al mantenimento se si verifica uno dei
seguenti casi: la moglie è ribelle, apostata, ha avuto rapporti con maschi proibiti per vai
dell’affinità, è vedova e sta nel periodo di ritiro legale per vedovanza, è stata sposata con un
contratto di matrimonio rescindibile ed ha avuto rapporti sessuali, la moglie impubere non è
idonea ad avere rapporti sessuali, la moglie è detenuta, la moglie si ammala dopo essersi
sposata e senza aver consumato il matrimonio (il caso si verifica quando una donna si
ammala di una malattia tale da non permetterle di essere condotta nel domicilio del marito;
se invece si ammala in casa del marito, egli le deve comunque il mantenimento); è costretta
da un altro uomo ad avere rapporti sessuali con lui, la mogli esce per fare il pellegrinaggio
obbligatorio con un parente di grado proibito, la schiava non ha un alloggio autonomo per
lei e per il marito.
- I malikiti fanno due distinte ipotesi in riferimento al dovere del marito di provvedere al
mantenimento. Prima della consumazione, l’obbligo nasce nei seguenti casi: la moglie (o
l’uomo che può esercitare su di lei il diritto di coazione al matrimonio) invita il marito a
consumare il matrimonio, ma lui non lo fa (se però essa non l’ha invitato a consumare il
matrimonio, non ha diritto al mantenimento); la donna è in grado di avere rapporti sessuali;
la moglie o il marito non sono gravemente malati; il marito pubere (se è impubere, non è
tenuto a pagare il mantenimento anche se è in grado di avere rapporti sessuali). Quando,
invece, c’è stata consumazione, il marito è tenuto a provvedere al mantenimento in ogni
caso.
- Gli šāfi ‘iti seguono un ragionamento più semplice, in quanto sintetizzano le situazioni che
obbligano il marito a provvedere al mantenimento in tre punti: la moglie ne ha diritto
quando è disponibile a concedersi al marito, ma, se essa non può concedersi di giorno
perché lavora, il marito non le deve in mantenimento perché, in conseguenza del
matrimonio, la donna ha diritto al dono nuziale e poi al mantenimento; la donna dev’essere
in grado di avere rapporti sessuali; la donna non dev’essere ribelle (se per esempio, si rifiuta
di avere rapporti sessuali, il mantenimento decade dal giorno in cui si rifiuta).
- Infine, secondo gli hanbaliti, per far nascere l’obbligo di provvedere al mantenimento: la
donna si deve concedere al marito, deve avere un’età tale da poter avere rapporti sessuali,
non dev’essere ribelle, la donna non è obbligata a trascorrere un periodo di ritiro legale in
seguito a rapporti sessuali avuti da lei in buona fede con un estraneo, non ci sono situazioni
tali da rendere impossibili i rapporti sessuali tra i coniugi81
.
4.5.3) Custodia
La custodia riguarda la persona del figlio/figlia e consiste nell’alimentazione e nella cura personale.
Secondo gli hanafiti, la madre ha il diritto preminente e, nello stesso tempo, il dovere, di custodire il
figlio, sia quando persiste il matrimonio sia quando viene ripudiata. Seguono, nell’ordine, la madre
di lei e tutte le ascendenti in linea materna, secondo il principio di prossimità. Seguono poi la
sorella germana, la sorella consanguinea e le atre parenti in linea femminile, sempre secondo il
principio di prossimità. La regola generale è che le parenti dal lato materno hanno la precedenza su
quelle del lato paterno; le figlie dello zio paterno, le figlie dello zio materno, le figlie della zia
paterna e le figlie della zia materna non hanno diritto alla custodia.
Se il minore maschio non ha nessuna delle parenti sopra citate, il diritto di custodia si trasferisce ai
suoi agnati, secondo l’ordine di prossimità. Se invece il minore è femmina, essa non può esser data
in custodia ai discendenti dello zio paterno, in quanto non sono suoi parenti di grado proibito; se poi
non ci sono altri che i discendenti dello zio paterno, il giudice vaglierà se affidarla a loro, altrimenti
la darà in custodia ad una donna fidata.
Se la madre si rifiuta di assumere la custodia del minore e, il minore, ha qualche altro parente di
grado proibito idoneo ad esercitarla, la madre non vi è costretta; in caso contrario, si può esercitare
81
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 36-
39.
coazione sulla madre. Quanto al padre, egli è obbligato a tenerlo con sé dopo che è terminata la
durata della custodia.
Per i malikiti, hanno diritto alla custodia i parenti del minore, siano essi maschi o femmine, secondo
il seguente ordine: la madre, la madre della madre, l’ascendente materna (anche se remota), la zia
materna sorella germana della madre, la zia materna sorella uterina della madre, la zia materna della
madre, la zia paterna della madre, la madre del padre, la madre della madre del padre, la madre del
padre del padre. Quest’ordine si basa sia sul principio di prossimità, sia sul principio secondo il
quale la parente che è del lato materno ha la precedenza su quella che è del lato paterno. In
mancanza di un’ascendente di parte paterna la custodia spetta, nell’ordine: al padre, alla sorella, poi
alla zia paterna del minore (sorella del padre di lui), alla zia paterna del padre di lui (cioè la sorella
del nonno di lui), alla zia materna del padre di lui, alla figlia del fratello germano, poi uterino, poi
consanguineo; ugualmente per la figlia della sorella. Alcuni malikiti danno la precedenza alle figlie
del fratello rispetto alle figlie della sorella. In mancanza di questi parenti, la custodia si attribuisce al
curatore testamentario, sia egli maschio o femmina; poi, ad altri parenti prestabiliti.
Gli šāfi ‘iti analizzano distintamente tre ipotesi. In base alla prima, sono presenti parenti maschi e
femmine del minore: la precedenza spetta alla madre, alla sua ascendente (anche se remota, a
condizione che abbia la qualifica di erede); la custodia non spetta perciò alla madre del padre della
madre, perché non ha titolo ereditario. Nell’ordine seguono poi il padre, la madre di lui, la madre
della madre di lui (anche se remota, se ha titolo per ereditare). Se sono in concorso maschi e
femmine, la più prossima tra le donne ha la precedenza; segue il più prossimo tra i maschi.
Nell’ordine vengono poi le sorelle, i fratelli, la zia materna, la zia paterna. La seconda ipotesi
riguarda il caso in cui ci siano solo femmine tra i parenti e si prende in considerazione il seguente
ordine di precedenza: la madre e le sue ascendenti, le ascendenti del padre, la sorella, la zia
materna, la figlia della sorella, la figlia del fratello, la zia paterna, la figlia della zia materna, la
figlia della zia paterna, la figlia dello zio paterno, la figlia dello zio materno. Il parente che ha il
doppio vincolo di parentela, paterno e materno, ha la precedenza; segue il parente che ha il solo
vincolo paterno e poi quello che ha il solo vincolo materno. La terza ipotesi riguarda il caso in cui ci
sono solo maschi tra i parenti. L’ordine è il seguente: padre, avo, fratello germano, fratello
consanguineo, fratello uterino, figlio del fratello germano o consanguineo, lo zio paterno fratello
germano o consanguineo del padre; parimenti, per il figlio dello zio paterno germano o
consanguineo del padre.
Gli hanbaliti sono più schematici e fissano il seguente ordine di precedenza: madre, madre della
madre e altre ascendenti in linea materna (anche se remote), padre, le ascendenti del padre (anche se
remote), avo paterno e le sue ascendenti, sorella germana, sorella uterina, sorella consanguinea, zia
materna sorella germana della madre, zia materna sorella uterina della madre, zia materna sorella
consanguinea della madre, zia paterna sorella germana del padre, zia paterna sorella uterina del
padre, zia paterna sorella consanguinea del padre, le zie materne della madre dando la precedenza
alle germane, poi alle uterine e poi alle consanguinee; si segue lo stesso criterio per le zie materne
del padre e per le zie paterne del padre; figlie delle sorelle, figlie dei fratelli, figlie degli zii paterni,
figlie delle zie paterne, figlie degli zii paterni della madre, figlie degli zii paterni del padre. Tutte le
volte che, nei suddetti casi, vi sono in concorso parenti con un doppio vincolo di parentela e parenti
con il solo vincolo paterno o materno, precedono i parenti germani, seguono quelli uterini e poi
quelli consanguinei. Sono esclusi dal diritto alla custodia, i parenti che non sono di grado proibito
rispetto al minore.
Le qualità che il parente deve possedere per poter avere la custodia sono state oggetto di disputa tra
le scuole giuridiche. Tuttavia, egli deve necessariamente essere pubere (il minore non ha diritto alla
custodia) e dev’essere sano di mente (la custodia non spetta al folle o al demente).
Vi sono notevoli divergenze tra le scuole giuridiche circa il termine della custodia.
Nella scuola hanafita non vi è unanimità: la custodia del maschio cessa quando raggiunge sette anni,
secondo alcuni, o nove, secondo altri; la custodia della femmina, invece, ha termine quando ha le
prime mestruazioni, per alcuni, e quando raggiunge l’età dell’appetito sessuale (9 anni), secondo
altri. In ogni caso, dopo quest’età, il figlio maschio che sta sotto la custodia della madre viene
affidato al padre; quando poi, il minore sano di mente diventerà pubere, sarà giuridicamente
emancipato, a meno che non sia psicologicamente labile (in un caso del genere, il padre deve
continuare a tenerlo con sé ed educarlo). Se manca il padre, questo compito spetta al parente del
minore al quale è stato affidato. Al figlio pubere non si deve il mantenimento, a meno che non vi
provveda il padre ed a meno che egli non sia dedito agli studi. Quanto alla figlia, trascorsa l’età
della custodia, se è vergine il padre (o, in mancanza, un altro avente diritto) la tiene con sé; se
invece la figlia è avanzata in età ed ha giudizio, è libera di abitare dove vuole. Quanto alla figlia non
più vergine, il padre non la deve tenere con sé, a meno che la ragazza non sappia provvedere a se
stessa.
Molto più semplice è la dottrina dei malikiti, secondo i quali il periodo della custodia del figlio
maschio va dalla nascita alla pubertà: raggiunta questa età, la custodia cessa, anche se il figlio ha
una malattia mentale (mentre il dovere di provvedere al mantenimento continua ad incombere sul
padre). La custodia della figlia, invece, dura fino alla consumazione del suo matrimonio.
Gli šāfi ‘iti non stabiliscono una durata determinata per la custodia e lasciano al minore una
notevole libertà di scelta. Se il padre e la madre si separano, il figlio minore può optare di restare
con la madre o con il padre, come pure può scegliere se stare con l’avo paterno o con altri. Dopo
aver optato per uno dei genitori, può cambiare scelta anche più volte. Se il maschi ha scelto di stare
con la madre, egli rimane con lei di notte e sta con il padre durante il giorno, in modo da ricevere la
necessaria formazione. Se la figlia ha scelto di stare con il padre, questi le può impedire di far visita
alla madre, ma non può impedire alla madre di far visita alla figlia. Se la figlia ha invece scelto la
madre, essa resterà sempre presso di lei. Se il minore, maschio o femmina, ha scelto entrambi i
genitori, si tira a sorte tra di loro; se invece ha taciuto senza sceglierne alcuno, la custodia spetta alla
madre.
Gli hanbaliti fissano a sette anni il termine della custodia, sia per il maschio sia per la femmina. Ma,
dopo quest’età, i genitori possono concordare di farlo rimanere da uno di loro; se essi divergono, la
scelta sarà effettuata dal minore, a meno che egli non faccia una scelta di comodo per avere
un’educazione meno rigida: in questo caso, infatti, la scelta è invalida e il ragazzo sarà costretto a
rimanere presso il più idoneo dei due. Se il giovane sceglie il padre, starà con lui giorno e notte, ma
non gli è impedita la visita della madre. Se invece sceglie la madre, resterà da lei di notte e starà con
il padre durante il giorno, in modo da imparare un mestiere ed avere una formazione. Il minore può
ripensare alla sua scelta, anche più volte. Se non ha scelto nessuno dei due o li ha scelti entrambi, si
tira a sorte; infine, se sceglie una terza persona starà da lei. Per quanto riguarda la figlia femmina
che ha già raggiunto i sette anni di età, è diritto del padre tenerla con sé fino alla pubertà e fino alla
consumazione del matrimonio. Se la minore sta con uno dei genitori, resterà da lui sempre, giorno e
notte, ma non si può impedire all’altro di visitarlo.
Secondo gli hanafiti, alla titolare della custodia (sia essa la madre o un’altra donna) è dovuto il
mantenimento, che però è cosa diversa rispetto alla remunerazione per allattamento e al
mantenimento dato ai figli. Il mantenimento per la custodia è dovuto dal padre o da chi è obbligato;
ma se il minore che è in custodia ha dei beni, si utilizzeranno questi, infatti il padre deve il
compenso solo se il minore non ha beni. Se la donna che ha la custodia ha un alloggio, il figlio sta
con lei, ma non deve ricevere compenso per l’alloggio; se invece non ce l’ha, ha diritto al
compenso. Il compenso per la custodia va dato alla madre del minore se essa non è attualmente
sposata con il padre del minore o se non si trova nel periodo di ritiro legale per essere stata ripudiata
dal padre del minore. Queste regole si applicano quando non c’è alcun parente del minore che vuole
assumersi la custodia gratuitamente; se invece, c’è qualcuno che si prende tale responsabilità, si
possono verificare diverse altre ipotesi.
I malikiti ritengono che chi esercita la custodia, sia essa la madre o qualche altra donna, non abbia
diritto a nessun mantenimento. Infatti, essa non è obbligata a sostenere le spese di mantenimento e
di formazione del minore, che sono a suo carico solo se ha dei beni (altrimenti vi deve provvedere il
padre o il tutore). Se poi la madre è povera e il minore in custodia ha dei beni, il mantenimento si
preleva dai beni del minore, non a titolo di compenso per la custodia ma a causa della sua povertà.
Il padre (o il tutore) invece, deve provvedere al mantenimento del minore: l’ammontare di esso,
viene calcolato dal giudice secondo il suo arbitrio. Lo stesso ragionamento viene seguito anche per
l’alloggio da fornire alla donna che ha la custodia.
Per gli šāfi ‘iti, il mantenimento per la custodia è dovuto anche alla madre. Questo compenso è cosa
diversa e distinta da quello dovuto per l’allattamento; perciò, se la madre è anche la nutrice, ha
diritto ad entrambi i compensi. Il mantenimento per la custodia si preleva dai beni del minore, se ne
ha; in caso contrario, è dovuto dal padre o dal parente obbligato. L’ammontare del mantenimento va
calcolato tenendo conto di quanto è sufficiente, in base alle condizione di lei.
Secondo gli hanbaliti, chi esercita la custodia può chiedere il mantenimento. La madre ha un diritto
preminente alla custodia, anche se qualche altra donna si offre di esercitarla gratuitamente. Tuttavia,
la mamma non può essere obbligata ad assumersi la custodia del minore; se però si rifiuta, il suo
diritto decade e si trasferisce ad un’altra persona avente diritto. Se una donna viene assunta per
l’allattamento e la custodia, essa vi è obbligata per contratto; ma se il contratto ha per oggetto solo
l’allattamento, essa è tenuta anche alla custodia mentre, se viene assunta solo per la custodia, non è
tenuta ad allattare il minore82
.
5) PROVA DEL MATRIMONIO
Il contratto di matrimonio produce tutti i suoi effetti quando avviene la consumazione; esso, però, si
considera già perfetto con la manifestazione della volontà delle parti. Infatti, se il marito muore
subito dopo la conclusione del contratto e il matrimonio non era stato ancora consumato, la moglie
non entra in ritiro legale ma ha diritto alla metà del dono nuziale, se fissato nel contratto; inoltre,
82
Sull’argomento, si veda: “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp.
39-48; “Il diritto di famiglia nel mondo arabo – costanti e sfide” di Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, pp. 91-94; “L’Islam e
il diritto di famiglia” di Silvio Ferrari, all’Interno di “Islam: una realtà da conoscere”.
anche se il matrimonio non è stato consumato, si crea vocazione ereditaria tra i coniugi e si produce
l’impedimento basato sulle affinità.
Sia la stipula del contratto che la consumazione del matrimonio sono provate dalla presenza di
testimoni. Tuttavia, le scuole divergono sulla obbligatorietà della prova del contratto: per hanafiti,
šāfi ‘iti e hanbaliti, è necessaria la presenza dei testimoni alla stipula del contratto, cioè quando
avviene l’offerta e l’accettazione; mentre, per i malikiti, la loro presenza è solo raccomandabile.
Tutte le scuole ammettono invece che la consumazione, implicita nel trasferimento della moglie
presso il domicilio coniugale, debba essere attestata da testimoni presenti al momento del fatto.
Generalmente, il contratto di matrimonio è attestato da due testimoni maschi, puberi, liberi, sani di
mente ed idonei a testimoniare, presenti al momento della stipula del contratto e del trasferimento.
Le scuole giuridiche non sono d’accordo su una delle qualità del testimone, cioè la sua idoneità a
testimoniare. Secondo gli hanafiti, l’idoneità non è una condizione necessaria per la validità del
contratto, ma lo è per attestare l’esistenza del contratto qualora venisse negato. Per šāfi ‘iti e
hanbaliti, al contrario, nei due testimoni l’idoneità a testimoniare, che dev’essere palese, è
importante e va presa in considerazione. Per i malikiti, infine, se sono presenti idonei testimoni non
bisogna far riferimento ad altri; se invece non ci sono, è valida la testimonianza di una persona
incensurata nota per non dire il falso. Inoltre, gli hanafiti, non ritengono necessario che i testimoni
siano solo maschi (come le altre scuole giuridiche), essendo valida anche la testimonianza di un
uomo e due donne (ma non di due donne soltanto)83
.
6) AUTONOMIA IN MATERIA CONTRATTUALE: CLAUSOLE E TERMINE
Un contratto di matrimonio, come qualsiasi altro contratto, può includere delle clausole che, però,
non tutte le scuole ammettono.
Gli hanafiti ritengono che le condizioni, per essere valide ed effettive, devono essere conformi alla
natura propria del contratto, altrimenti si considerano non esistenti (nonostante il contratto resti
valido).
Una dottrina simile è sostenuta dagli šāfi ‘iti, secondo i quali se un contratto di matrimonio dipende
da una condizione, è nullo. Per questa scuola le condizioni possono essere non valide e rendere
83
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 48-
49.
nullo il contratto, quando non richieste dallo stesso, o valide, come quelle che descrivono le qualità
del soggetto contraente. Le condizioni stipulate al di fuori del contratto di matrimonio, invece, non
hanno alcuna efficacia.
I malikiti seguono un ragionamento più complesso; essi distinguono le condizioni in quattro
categorie: 1. condizioni che non arrecano pregiudizio al contratto, anche se non si realizzano; 2.
condizioni che rendono il contratto nullo; 3. condizioni che non sono in contraddizione con il
contratto (tuttavia, se stipulate, devono essere adempiute); 4. condizioni che devono essere
adempiute, altrimenti il coniuge può scegliere di rescindere il contratto.
Per gli hanbaliti, le condizioni possono essere di tre tipi: 1. condizioni valide; 2. condizioni non
valide che rendono nullo il contratto; 2. condizioni illecite, considerate perciò nulle, ma che non
annullano il contratto84
.
7) PRATICHE MATRIMONIALI CONSUETUDINARIE
Secondo la consuetudine, una serie di cerimonie precede e segue la celebrazione del matrimonio.
Innanzitutto, viene invocata la benedizione di Dio sui due promessi sposi. Uno speciale profumo
giallo (sufra), viene poi preparato per il promesso sposo, al quale viene consegnato anche un dono
consistente in datteri, burro e ricotta, che saranno distribuiti tra i presenti al matrimonio.
Generalmente il contratto è stipulato alla presenza di un imäm che legge qualche versetto del
Corano e pronuncia un sermone. Il pranzo di nozze è obbligatorio in quanto il Profeta ha detto:
“Date un pranzo di nozze, anche se con la pecora”. È importante, però, non dare un banchetto di
nozze molto diverso nel caso si sposino più donne.
Gli invitati sono obbligati ad accettare l’invito al banchetto nuziale; se qualcuno rifiuta,
disobbedisce a Dio e al suo Profeta. Donne e ragazzi sono ben accetti al banchetto, e non si possono
invitare esclusivamente i ricchi ed escludere i poveri. Durante il ricevimento può essere servito il
naqì (succo ottenuto da datteri secchi messi in ammollo) e bevande non inebrianti, nel rispetto delle
regole islamiche sui cibi e le bevande. Il banchetto, inoltre, serve anche a pubblicizzare
ulteriormente il matrimonio85
.
84
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 49-
50, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 208-
211. 85
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 50-
51.
8) LO SPOSO E LA SPOSA
Secondo gli insegnamenti islamici, il comportamento dell’uomo prima del matrimonio deve
adeguarsi a delle regole ben precise e determinate che servono a formare il suo carattere in
preparazione del matrimonio e, nel contempo, servono a preservare una società casta e pulita.
L’Islam non ammette che un uomo, prima del matrimonio, abbia delle esperienze sessuali o
sperimenti la convivenza di coppia come prova della futura riuscita di un matrimonio, come si
evince da questo versetto coranico:
“E coloro che non hanno di che sposarsi, cerchino la castità finché Allah non li arricchisca con la
Sua grazia…”86
.
Anche per coloro che non possono affrontare il matrimonio, quindi, la pratica di scegliersi
un’amica, formare una coppia ed andare a convivere, è completamente illegale. E proprio per
evitare questo pericolo, Iddio facilita la formazione della nuova famiglia, semplificando le regole
affinché i giovani vi accedano senza eccessivi oneri.
La chiave del successo di un matrimonio dipende dalle doti morali degli sposi; lo sposo ideale, deve
perciò entrare nel matrimonio con l’atteggiamento responsabile di una persona che vuol formare
una famiglia sulla base del mutuo rispetto e dell’amore. Il matrimonio dev’essere fondato sulla
religiosità e non sull’infatuazione per la bellezza, per la ricchezza o per la posizione sociale della
sposa.
Dopo aver ricercato la propria sposa, nella maniera onorevole indicata da Dio e dal suo Profeta e,
dopo aver celebrato il matrimonio nel modo previsto dall’Islam (una celebrazione pubblica, con
poco chiasso e nessuna ostentazione) il marito musulmano ha da quel momento precisi doveri nei
confronti della sua sposa. Il primo e più importante di essi, riguarda il benessere della propria
moglie, che l’uomo deve garantire con la protezione ed il mantenimento. Ma i doveri del marito
riguardano anche la sfera intima del rapporto coniugale, per evitare ciò che potrebbe causare dolore
alla propria sposa.
Se l’uomo non si uniforma ai suoi obblighi, la donna può richiedere lo scioglimento del matrimonio
ad un tribunale islamico, così pure, qualora le stia facendo del male.
Il marito è comunque sollecitato dal Corano ad evitare il divorzio ed a preservare il matrimonio,
anche se non dovesse essere perfetto, mostrando pazienza e comprensione per gli eventuali difetti
della moglie:
86
Cor. XXIV, 33.
“Comportatevi verso di loro convenientemente. Se provate avversione nei loro confronti, può darsi
che abbiate avversione per qualcosa in cui Allah ha riposto un grande bene”87
.
L’indesiderabilità del divorzio, poi, è stata enfatizzata da Maometto, secondo il quale:
“Al cospetto di Allah, la più odiosa delle cose permesse è il divorzio”.
La religiosità, la pazienza, la comprensione, l’amore e la fedeltà garantiscono la durata del
matrimonio ed assicurano l’ambiente ideale per la crescita di una prole timorata di Dio. Inoltre, la
mutua consultazione nelle decisioni comuni da prendere sull’andamento della famiglia e
sull’educazione dei figli, fortifica l’amore fra i coniugi.
Maometto ha insegnato ai mariti la gentilezza e il rispetto per l’intelligenza delle loro spose, ha
insegnato loro ad essere pronti a consultarle ed a tener conto dei loro consigli, a non imporre
restrizioni più grandi di quelle imposte da Dio perché, anche se è lui il capo della famiglia, sua
moglie può rappresentare un saggio e discreto aiuto nel prendere importanti decisioni. Il marito,
quindi, ha l’obbligo di consultare sua moglie come ogni responsabile ha l’obbligo di consultare i
suoi sottoposti:
“…si consultano vicendevolmente su quel che li concerne…”88
.
Il marito, ha anche l’obbligo e la responsabilità di correggere, quando è necessario, la propria
moglie, come sostenuto dal Profeta stesso:
“Ammonisci tua moglie e, se c’è del buono in lei, ella raccoglierà il tuo ammonimento; ma non
picchiare tua moglie come se fosse una schiava”.
L’uomo, quindi, non ha alcun diritto d’infierire su di lei indiscriminatamente e, se ciò dovesse
succedere, la moglie può chiedere il divorzio ad un tribunale islamico. Il cattivo carattere, secondo
Maometto, va controllato e non sfogato sugli altri, specialmente se si tratta di una donna:
“Il forte non è colui che vince sugli altri, ma il forte fra noi è colui che sa controllare la propria ira”.
Ogni forma di tirannia, di oppressione e di sfruttamento dei deboli dev’essere condannata:
“Temi la preghiera di colui a cui fai torto perché, in verità, non c’è velo fra lui e Allah. Il tiranno,
non entrerà in Paradiso”.
87
Cor. IV, 19. 88
Cor. XXXXII, 38.
Ad ogni modo, se il marito musulmano mira ad una buona riuscita del matrimonio, non dovrà far
altro che prendere a modello e ad esempio di vita il Profeta, chiedendo a Dio la fede e la forza
morale per raggiungere quelle sue qualità e per poter essere uno sposo ideale.
Come l’uomo, anche la donna deve ricercare prima di tutto la religiosità nel futuro marito. La scelta
del giusto compagno è importantissima per lei e, proprio per l’amore ed il rispetto che deve portare
a suo marito, è auspicabile che sposi chi possa veramente meritare quell’amore e quel rispetto.
Sincerità e fiducia reciproca, quindi, dovranno essere le basi del rapporto coniugale. La sincerità
s’identifica strettamente con la fede; per questo, la sincerità verso il marito rappresenta un requisito
essenziale di una buona moglie. Con il suo comportamento leale, la moglie deve sostenerlo e
incoraggiarlo nel fare ciò che è bene, impedendogli di commettere il male.
Nell’obbedienza ad Allah, la moglie esercita un’influenza benefica su tutta la famiglia, dando
esempio di un comportamento corretto, donando la sua amorevole attenzione ai familiari e facendo
della casa un rifugio sicuro e desiderato.
La donna è chiamata a compiacere il proprio sposo, non soltanto prendendosi cura della sua
bellezza, che col passare del tempo può sfiorire, ma soprattutto con la sua amorevole attenzione.
Deve prendersi la responsabilità di dedicarsi con costanza al benessere dello sposo, custodendone la
casa e gli interessi, salvaguardando il suo onore e mantenendosi casta in sua assenza. In un hadìt, il
Profeta descrisse le conseguenze di un comportamento contrario a quanto prescritto:
“La donna che parla sgradevolmente e fa che suo marito sia afflitto a causa della sua scortesia,
incorre nell’ira di Allah fino a quando non sorriderà al proprio marito e cercherà di riuscirgli
gradita”.
Non potrà aspettarsi, dunque, che l’amore del suo sposo duri per sempre se sarà aspra, rude,
antipatica e, se, non s’interesserà dello stato d’animo di suo marito.
Dio ha creato gli uomini e le donne complementari gli uni alle altre, per vivere in cooperazione e
non in competizione.
Ma è la moglie che determina l’atmosfera casalinga ed è lei ad assicurare che la casa sia un luogo
piacevole in cui vivere. Ella è responsabile anche della cura e della prima educazione dei figli.
Proprio per questo suo ruolo, il suo sforzo e i suoi sacrifici, l’Islam innalza la figura della donna e
della madre, che diventa centrale nella società.
Per una donna musulmana, quindi, la casa è al centro dell’attenzione ed il benessere di marito e figli
sono le sue prime preoccupazioni, subito dopo i suoi doveri verso Dio. Ma questo suo ruolo non le
impedisce, col consenso del marito, d’intraprendere un lavoro fuori casa, di continuare la propria
educazione e di prestare un servizio volontario nella comunità. Ma deve far in modo che le proprie
responsabilità, verso la casa e la famiglia, vengano comunque assolte.
La donna musulmana mantiene la riservatezza circa i problemi della propria famiglia ed i rapporti
con il marito, anche con le amiche più intime, perché non è ammesso divulgare faccende intime
relative ad altre persone. In pubblico, per quanto riguarda l’abbigliamento, deve osservare i principi
islamici ed agire con modestia, mentre a casa o lontano dagli sguardi di altri uomini, può vestirsi
come piace a lei ed al proprio marito.
Gli altri aspetti della vita familiare e sociale che una sposa musulmana deve osservare sono il
rispetto dei genitori e dei parenti del marito, l’ospitalità ed i buoni rapporti con i vicini.
Nei rapporti intimi, sia la donna che l’uomo devono essere consapevoli di ciò che piace o non piace
ad entrambi, ed essere disponibili ai bisogni dell’altro. Una moglie che soddisfa il proprio sposo
nell’ambito del matrimonio, protegge lui e se stessa dal rischio di relazioni extra-coniugali e, oltre a
compiacere il proprio marito, compiace Dio.
L’Islam incoraggia ad avere figli, ma non proibisce il controllo delle nascite (in presenza del mutuo
consenso tra marito e moglie) con metodi che non presentano effetti collaterali dannosi. L’aborto è
comunque proibito, a meno che la vita della madre non sia in pericolo. La proibizione si estende
anche a quelle forme di pianificazione familiare che permettono al concepimento di aver luogo
uccidendo l’embrione o prevenendo il suo sviluppo nel grembo materno.
In sostanza, una volta che il matrimonio è “perfetto”, la moglie è giuridicamente sottoposta al
marito, che acquisisce la potestà maritale su di lei, implicante il diritto al godimento, il diritto di
correzione mitigato nell’Islam89
e l’obbedienza della moglie (non quando il marito ordina qualcosa
di illecito). Il marito è considerato custode e responsabile della famiglia mentre, la moglie, è
considerata custode e responsabile del domicilio coniugale. La casa, secondo il Corano90
, è uno
spazio familiare protetto, non accessibile a tutti. La donna può uscire dal domicilio coniugale in
89
Cor. IV, 34: “Gli uomini preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e, perché, essi donano dei
loro beni per mantenerle; le donne buone sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è
stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti,
poi battetele; ma se vi ubbidiscono, allora non cercate pretesti per maltrattarle; ché Dio è grande e sublime”. 90
Cor. XXIV, 27-29: “O voi che credete! Non entrate in case altrui senza aver chiesto prima il permesso e aver salutato
le persone della casa. Questo sarà meglio per voi, se ben meditate. E se non vi trovaste nessuno, non vi entrate finché
non ve ne sia dato il permesso e, se vi si dice: ‘Tornatevene via!’ andatevene. Sarà questo atto più puro per voi, che Dio
conosce quel che voi fate. Non sarà per voi peccato se entrerete in case disabitate in cui sia qualche oggetto utile per
voi: Dio sa quel che palesate, Dio sa quel che nascondete”.
caso di necessità, mentre occorre il consenso del marito per andare in moschea. Essa, inoltre, non
può effettuare digiuni non obbligatori senza il consenso del marito e non può rifiutare di avere un
rapporto sessuale se il marito la invita a farlo91
.
8.1) RAPPORTI PADRE-FIGLIO
La filiazione (nasab) è la relazione di sangue che lega tra loro persone che discendono l’una
dall’altra, in linea maschile o femminile. La filiazione legittima può essere stabilita in vari modi:
attraverso un valido matrimonio, sulla base della testimonianza di due uomini o di un uomo e due
donne, per la rivendicazione del padrone nel caso di una schiava, per via giudiziaria quando più di
una persona rivendica la paternità di un bambino, in seguito a rapporti sessuali avuti in buona fede,
per il riconoscimento di paternità.
Testimoniare la consumazione del matrimonio è molto importante ai fini dell’attribuzione di
paternità. Essa è legalmente presunta quando la moglie è condotta nel domicilio coniugale e i
coniugi, idonei ad avere rapporti sessuali, vi restano isolati; allo stesso modo, è presunta quando la
moglie ha trascorso più di un anno nel domicilio coniugale.
Secondo una massima giuridica, “il figlio appartiene al letto” e cioè, un figlio nato dopo il termine
minimo di gestazione (6 mesi o 180 giorni dall’effettiva o presunta consumazione del matrimonio) è
legalmente attribuito al marito. Anche se una donna incinta contrae un altro matrimonio (sia a
seguito del ripudio , sia per l’annullamento del precedente matrimonio) nell’intervallo tra il
concepimento e la nascita, il figlio nato dopo 6 mesi (o 180 giorni) dal primo matrimonio, continua
ad essere attribuito al precedente marito, mentre un figlio nato sei mesi dopo il secondo matrimonio,
è attribuito al nuovo marito.
Per quanto riguarda la paternità del figlio di una schiava, essa è attribuita al padrone se il bambino
nasce 6 mesi (o 180 giorni) dal concepimento, quando il padrone ammette di aver avuto rapporti
sessuali con lei o rivendica la paternità del neonato, oppure se continua a vivere con quella schiava
senza disconoscere la nascita.
Il padre (o avo), sano di mente e sui iuris, esercita la patria potestas sui figli minori; in sua
mancanza essa incombe sul tutore testamentario che, secondo i malikiti, può essere anche la madre.
91
Sull’argomento, si veda: “L’Islam e il diritto di famiglia” di Silvio Ferrari in “Islam: una realtà da conoscere”; “Il
matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 215-219; gli
articoli “I suoi diritti nell’Islam, come moglie” e “Il matrimonio”.
Solo il padre maggiorenne, sano di mente e in condizioni fisiche e morali tali da poter esprimere
liberamente la sua volontà, può riconoscere un figlio di paternità ignota e con un’età tale da potersi
ragionevolmente presumere suo, ma non può riconoscere uno schiavo o un liberto di una terza
persona. Tuttavia, il riconoscimento di paternità può essere contestato.
La persona riconosciuta è considerata parente di sangue. Il padre può però revocare il
riconoscimento anche se, gli effetti della revoca ricadono su di lui e non sul figlio.
Un figlio legittimo appartiene alla famiglia paterna, acquisisce il nome del padre e segue la sua
religione finché è minore. Al contrario, i figli illegittimi nati da un rapporto sessuale illecito, non
sono membri della famiglia paterna e non ereditano dal padre ne dai suoi parenti, ma hanno un
rapporto esclusivo con la madre e la famiglia di lei. Ai figli illegittimi sono equiparati quelli nati da
un rapporto sessuale del padrone con la propria schiava, ma da lui disconosciuti. Quando il padre è
ignoto, i figli sono attribuiti esclusivamente alla madre: per il diritto islamico, infatti, tale bambino
non è collegato in alcun modo al padre biologico. Questo principio fondamentale è strettamente
legato alla severa condanna della fornicazione, delitto la cui pena è fissata direttamente dal Corano:
l’uomo non può trarre dal delitto commesso alcun profitto e, in particolare, non può perpetuarsi
nella propria stirpe. Di fatto, nel sistema tradizionale, la rigidità di tale principio era attenuata da
una serie di regole operative che ne escludevano gli effetti più pregiudizievoli per i bambini; questi,
riuscivano nella quasi totalità dei casi a essere inseriti nella rete di parentela agnatizia, deputata a
fornire al singolo individuo sicurezza e protezione.
Oggi i sistemi giuridici arabi conservano il principio ma hanno eliminato quelle regole in tema di
presunzioni che più ripugnano il senso comune. Mantengono l’istituto del riconoscimento ma vi si
ricorre con disagio ed imbarazzo perché, dopo l’abolizione della schiavitù in numerosi Paesi, è
sempre più arduo giustificare la nascita di un figlio chiaramente legittimo92
.
8.2) RAPPORTI MADRE-FIGLIO
L’embrione, secondo il Corano93
, si sviluppa attraverso sette fasi, l’ultima delle quali corrisponde
all’infusione dell’anima. La dottrina prevalente fissa il termine dell’infusione a 120 giorni dalla
92
Sull’argomento, si veda: “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 52-
54; “Il diritto di famiglia nel mondo arabo: costanti e sfide” di Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, pp. 91-94; “L’Islam e il
diritto di famiglia” di Silvio Ferrari in “Islam: una realtà da conoscere”.
93
Cor. XXII, 5; Cor. XXIII, 12-14.
fecondazione e la vita prenatale viene suddivisa in due fasi, diversamente rilevanti dal punto di vista
giuridico: vita biologica e vita umana.
L’aborto premeditato provocato dalla madre, da entrambi i coniugi o da una terza persona dopo
l’infusione è unanimemente condannato e richiede il “pagamento” della pena con il sangue (tranne
se effettuato per salvaguardare la saluta della madre), mentre, non c’è unanimità sulla liceità
dell’aborto durante i primi 120 giorni. Ad oggi, la dottrina più diffusa ritiene che l’aborto è sempre
illegittimo, tranne che per ragioni terapeutiche; le legislazioni contemporanee, invece, variano
molto sull’argomento.
La legge religiosa islamica garantisce i diritti del nascituro ma, dal punto di vista giuridico,
l’esistenza di un soggetto comincia con la nascita; il feto è considerato nato quando esce
completamente dall’alveo materno ed è vivo e vitale.
La madre è obbligata ad allattare il neonato per il periodo massimo di due anni94
. Secondo gli šāfi
‘iti la madre può rifiutarsi di farlo in caso di ripudio, a meno che il suo ex-marito non si faccia
carico del mantenimento suo e del figlio; ma è comunque lecito interrompere l’allattamento se
entrambi i genitori sono d’accordo95
. Se la madre non può allattare per motivi leciti, deve pagare a
questo scopo una nutrice; soltanto le donne di elevata condizione sociale e quelle ripudiate in modo
definitivo possono pretendere dal marito che paghi, a sue spese, una nutrice. Tuttavia, se il padre
non ha i mezzi economici per farlo o il figlio rifiuta latte diverso da quello materno, quest’ultima lo
deve allattare e riceverà un compenso uguale a quello che di regola viene dato a una nutrice96
.
9) VOCAZIONE EREDITARIA TRA I CONIUGI
I tre titoli che danno diritto ad ereditare sono: il vincolo di sangue, il matrimonio e il patronato.
L’Islam ha introdotto notevoli riforme nel diritto ereditario rispetto all’età pagana e quindi, anche le
donne sono state ammesse ad ereditare; le mogli, non sono più un bene patrimoniale trasmesso per
eredità, ma sono soggetti di diritto e partecipano come eredi alla divisione dei beni. Inoltre, le
norme ereditarie coraniche assegnano ai coniugi una condizione privilegiata, essendo i soli eredi
che non vengono mai esclusi dall’eredità (tranne che per differenza di culto, omicidio o schiavitù).
94
Cor. XXXI, 14; Cor. II, 223. 95
Cor. II, 223. 96
Cor. LXV, 6-7.
Sull’argomento, si veda: “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 54-
56; “Il diritto di famiglia nel mondo arabo: costanti e sfide” di Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, pp. 91-94; “L’Islam e il
diritto di famiglia” di Silvio Ferrari in “Islam: una realtà da conoscere”.
Un valido contratto di matrimonio crea una reciproca vocazione ereditaria tra i coniugi, anche se il
matrimonio non è stato consumato o non è stato determinato il dono nuziale.
La quota del marito superstite corrisponde ad una metà dell’attivo ereditario, se la moglie deceduta
non ha lasciato discendenti (maschi o femmine) di qualsiasi grado (inclusi i figli naturali di lei); ha
diritto, invece, ad un quarto di esso se sono presenti anche altri eredi. La moglie superstite ha diritto
a un quarto dell’eredità, se il marito deceduto non ha lasciato discendenti (maschi e femmine di
qualsiasi grado, esclusi i figli illegittimi e quelli la cui paternità sia stata contestata), oppure ad un
ottavo di essa.
Nel Corano, infatti, si legge:
“Ecco quel che Dio vi ordina a proposito dei vostri figli: al maschio la parte di due femmine […]. A
voi spetta la metà di quello che lasciano le vostre spose, se esse non hanno figli. Se li hanno, vi
spetta un quarto di quello che lasciano, dopo aver dato seguito al testamento e ‘pagato’ i debiti. E
a loro spetterà un quarto di quello che lasciate, se non avete figli. Se invece ne avete, avranno un
ottavo di quello che lasciate, dopo aver dato seguito al testamento e pagato i debiti. Se un uomo o
una donna non hanno eredi, ne ascendenti o discendenti, ma hanno un fratello o una sorella, a
ciascuno di loro toccherà un sesto, mentre se sono più di due divideranno un terzo, dopo aver dato
seguito al testamento e ‘pagato’ i debiti senza far torto a nessuno”97
.
“Ti chiederanno un parere. Dì, a proposito del defunto che non lascia eredi (né ascendenti né
discendenti), Dio vi dice: se qualcuno muore senza lasciare i figli ma ha una sorella, a essa
toccherà la metà dell’eredità, mentre egli erediterebbe da lei tutto quanto se ella non avesse figli;
se ci sono due sorelle, avranno i due terzi di quello che lascia; se ci sono due fratelli, maschi o
femmine, al maschio la parte di due femmine”98
.
Essendo regolamentate dal Corano, è raro e difficile trovare una critica a queste disposizioni anche
perché, i giuristi musulmani sono per lo più uomini e, quindi, nessuno di essi è interessato alla
questione dell’uguaglianza tra uomo e donna in riferimento all’eredità.
Il diritto musulmano, però, vieta la successione tra i musulmani e i non musulmani da entrambi i
lati: l’apostata che lascia l’Islam non può ereditare da alcuno e solo i suoi eredi musulmani possono
97
Cor. IV, 11-12. 98
Cor. IV, 176.
ereditare i suoi beni. Ciò significa che, in caso di conversione all’Islam, come in caso d’abbandono,
solo gli eredi musulmani possono beneficiare della successione99
.
99
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 57-
58 e “Il diritto di famiglia nel mondo arabo: costanti e sfide” di Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, pp. 81-84.
PARTE SECONDA
SOMMARIO: 1) Invalidità e annullamento del matrimonio; 2) Apostasia; 3) Ripudio; 3.1) Ripudio
revocabile e irrevocabile; 3.2) Triplice ripudio; 3.3) Prova del ripudio; 3.4) Capacità del ripudiante; 3.5)
Ripudio condizionato; 3.6) Ripudio pronunciato da persona diversa dal marito; 3.7) Dono di consolazione; 4)
Altri tipi di ripudio; 4.1) Zihār; 4.2) Īlā’; 4.3) Hul’; 5) Scioglimento giudiziale del contratto matrimoniale;
5.1) Li’ān; 5.2) Scioglimento per vizio redibitorio; 5.3) Scioglimento per inadempienza; 5.4) Scioglimento ex
officio judicis; 6) Periodo di ritiro legale; 7) Effetti patrimoniali dello scioglimento del matrimonio.
1) INVALIDITÀ E ANNULLAMENTO DEL MATRIMONIO
I rimedi matrimoniali possono essere suddivisi e organizzati in due grandi gruppi.
- Il primo gruppo riunisce i mezzi che si possono utilizzare per reagire alla conclusione di un
contratto di matrimonio viziato o imperfetto.
È viziato, e dunque invalido, il contratto concluso da contraenti incapaci, in assenza di
testimoni o in violazione di uno degli impedimenti matrimoniali.
È imperfetto quando i suoi effetti dipendono dalla volontà di un terzo, come nel caso di un
contratto concluso dal tutore matrimoniale per il minore di sesso maschile. In quest’ultimo
caso, infatti, il ragazzo può determinare lo scioglimento del matrimonio quando acquista la
capacità di agire. Lo stesso accade quando il tutore matrimoniale della donna o, secondo gli
hanafiti, la donna personalmente, concludono il contratto con un uomo non adeguato: i due
possono determinare lo scioglimento del matrimonio per loro insoddisfacente.
Questo primo gruppo di rimedi, quindi, serve per reagire a un difetto originario dell’atto.
In rari casi, anche l’atto originariamente valido può essere travolto e invalidato, come
accade per il sopravvenuto cambiamento di religione del marito o della moglie.
- Il secondo gruppo, riunisce i mezzi diretti ad ottenere lo scioglimento del matrimonio
validamente concluso. Essi travolgono il rapporto matrimoniale e nascono per il
deterioramento delle relazioni coniugali.
Il marito può provocare la fine del matrimonio con estrema facilità, attraverso la
dichiarazione di ripudio. Non occorre che tale dichiarazione sia motivata, né che la moglie
sia presente ad essa o che ne sia informata.
La donna, invece, deve ricorrere al giudice, dimostrando l’esistenza di una di quelle cause di
divorzio che i giuristi ammettono.
Estrema importanza, poi, assume la qualificazione dello scioglimento, ai fini della sua
inclusione o non inclusione nella serie dei tre ripudi a disposizione del marito.
Inoltre, mentre il ripudio è un atto immotivato, il divorzio deve basarsi sull’inadempimento
da parte del marito di uno dei suoi obblighi; anche se, oggi, il carattere immotivato del
ripudio è indebolito: il giudice può normalmente indagare sui motivi che hanno spinto il
marito a ripudiare la moglie e può rendere lo scioglimento per lui più oneroso se la sua
decisione è arbitraria, non giustificata dal comportamento della donna.
I rimedi del primo gruppo, sono utilizzati meno frequentemente rispetto a quelli del secondo
gruppo. I due gruppi, si distinguono anche per la diversa legittimazione: i mezzi per ottenere lo
scioglimento del rapporto matrimoniale basato su un contratto validamente concluso, sono riservati
ai coniugi, con un particolare favore per il marito; tra quelli utilizzati per reagire alla conclusione di
un contratto viziato o imperfetto, la domanda di scioglimento per mancanza di adeguatezza
matrimoniale è aperta solo a chi non ha partecipato alla conclusione del contratto, coniuge o tutore
matrimoniale. Per quanto riguarda l’annullamento del matrimonio, poi, può accadere che l’interesse
ad agire sia riconosciuto ad ogni musulmano nell’esercizio dell’hisba, il dovere incombente a
ognuno di “ordinare il bene e proibire il male”.
Il discorso sull’invalidità matrimoniale è impostato in maniera totalmente diversa rispetto a quello
sull’invalidità del contratto in generale. In riferimento a quest’ultimo, si distinguono: il contratto
viziato nella sua essenza, bätil, che è assolutamente privo di effetti e quello fäsid, in cui il vizio
interessa gli attributi del contratto e che può produrre, nonostante il vizio, limitati effetti. In materia
matrimoniale, invece, non c’è differenza tra fäsid e bätil; qualunque sia il vizio che lo colpisce, il
contratto è assolutamente inefficace.
Il matrimonio viziato può produrre una serie limitata di effetti se viene consumato. In particolare, i
giuristi discutono approfonditamente sulla qualificazione, lecita o illecita, dell’atto sessuale e degli
effetti che a tale qualificazione sono strettamente legati: l’applicazione della pena coranica (hadd)
per la fornicazione, l’obbligo di pagare alla donna il mahr e l’attribuzione all’uomo del figlio nato
da tale rapporto sessuale.
Secondo la maggior parte delle legislazioni islamiche, il matrimonio è valido se completo dei
requisiti e degli elementi essenziali; da esso derivano tutti gli effetti che scaturiscono da tale
contratto sin dal momento della sua conclusione. È invalido, invece, il matrimonio mancante di
alcuni requisiti ed elementi essenziali. Prima della consumazione, esso è inefficace; dopo la
consumazione, si registrano i seguenti effetti: l’uomo deve corrispondere alla donna il minore tra
mahr determinato nel contratto e mahr di equivalenza; l’obbligo di rispettare il periodo di ritiro
legale; il versamento del mantenimento durante il periodo di ritiro legale; il riconoscimento della
paternità e il nascere dell’impedimento per affinità.
Ad ogni modo, sia che il matrimonio sia stato consumato, sia che non lo sia stato, i due coniugi
devono separarsi, come ordina loro il giudice pronunciando il fash, l’annullamento.
Il matrimonio, secondo la maggior parte degli stati, viene dichiarato nullo se manca anche un solo
elemento essenziale, in caso d’impedimento o di clausola contraria alla natura del contratto e, se si
prova l’apostasia del marito. Se il matrimonio è stato concluso senza tutore, senza i due testimoni o
senza il mahr, è dichiarato nullo prima della consumazione è il marito non è obbligato a versarle il
dono nuziale. Se vi è stata consumazione, il matrimonio è confermato con il versamento del mahr di
equivalenza, se manca solo un elemento essenziale; se invece, ne mancano più di uno, è nullo.
Qualsiasi matrimonio concluso con una donna proibita, è dichiarato nullo, senza riguardo
all’avvenuta consumazione. Ne derivano, comunque alcuni effetti, come lo stabilimento della
paternità e l’obbligo di osservare il periodo di astinenza legale100
.
2) APOSTASIA
Le varie scuole giuridiche divergono sugli effetti dell’apostasia, di entrambi i coniugi o di uno dei
due, sul vincolo matrimoniale.
- Secondo gli hanafiti, se apostata il marito, il matrimonio si rescinde immediatamente e
definitivamente, senza bisogno della sentenza di un giudice in quanto, il miscredente, non
può in nessun caso esercitare la potestà su una musulmana. Se invece apostata la moglie, si
aprono varie possibilità in base alle varie correnti della scuola. Secondo una dottrina,
l’apostasia della donna causa lo scioglimento del matrimonio; quest’ultima sarà
imprigionata e picchiata ogni tre giorni, fino a quando non ritornerà all’Islam. Secondo
100
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, pp. 212-214.
un’altra dottrina, il contratto non viene rescisso, specialmente quando la moglie ha rinnegato
l’Islam allo scopo di separarsi dal marito. Infine, secondo una terza dottrina, la moglie che
rinnega l’Islam diventa schiava dei musulmani e il marito può comprarla dal governante.
- Secondo i malikiti, se è il marito ad apostatare, i coniugi si devono separare in modo
definitivo. Se, invece, è la moglie ad abiurare l’Islam e viene provato che lo ha fatto per
liberarsi dal marito, non c’è separazione.
- Per gli šāfi ‘iti, se apostatano entrambi i coniugi o anche uno solo dei due, bisogna prendere
in considerazione se ciò sia avvenuto prima o dopo la consumazione del matrimonio. Se è
avvenuta prima, il rapporto matrimoniale si interrompe immediatamente; se invece è
avvenuta dopo, il matrimonio non s’interrompe immediatamente, ma sia attende: se prima
che cessi il periodo di ritiro legale della donna i coniugi riabbracciano l’Islam o lo
riabbraccia chi dei due ha apostatato, il matrimonio sussiste; in caso contrario,
s’interrompono i vincoli coniugali. Secondo questa scuola, non vi è poi differenza se
l’apostata è il marito o la moglie.
- Gli hanbaliti, sostengono una dottrina simile a quella šāfi ‘ita. Se, infatti, entrambi i coniugi
apostatano contemporaneamente o apostata uno dei due e, questo avviene prima della
consumazione, il contratto matrimoniale viene rescisso. Se invece l’apostasia si verifica
dopo la consumazione, avviene la separazione ma non s’interrompono i vincoli
matrimoniali, a meno che non sia terminato il periodo di ritiro legale. Se l’apostata non fa
ritorno all’Islam prima del termine del ritiro legale, il contratto è rescisso dal momento
dell’apostasia101
.
3) RIPUDIO
Il matrimonio può essere sciolto anche solo per volontà del marito102
. In generale, il ripudio (taläq)
è considerato lecito, ma reprensibile o biasimevole.
Anche per quanto riguarda il ripudio, i giuristi fanno ricorso alla classificazione delle categorie di
azioni. A seconda delle circostanze, infatti, il ripudio può essere qualificato come obbligatorio,
proibito, biasimevole o raccomandato. Il ripudio è obbligatorio quando il marito non è in grado di
provvedere al mantenimento della moglie; è raccomandato se la moglie è di carattere immorale,
perché adultera o perché tralascia i doveri della preghiera, del digiuno o ha altri comportamenti
101
Sull’argomento si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 59-
60. 102
Il ripudio viene considerato un vero e proprio diritto dell’uomo.
biasimevoli; è proibito quando ha come conseguenza un atto sessuale illecito con la moglie o con
un’estranea, oppure quando dal matrimonio deriva uno sfruttamento dei diritti altrui; è biasimevole,
infine, se il marito ripudia la moglie senza una causa.
Gli elementi fondamentali del ripudio sono quattro: 1. il marito che da ripudio (è senza effetti il
ripudio pronunciato da un estraneo che non è soggetto del contratto matrimoniale); 2. la moglie (è
senza effetti il ripudio dato ad un’estranea o alla propria schiava, che non è considerata moglie ma
concubina); 3. la forma del ripudio e, cioè, un’espressione indicante (in modo esplicito o indiretto)
lo scioglimento del contratto di matrimonio; 4. l’intenzione.
Inoltre, affinché il ripudio sia valido, devono realizzarsi determinate condizioni, alcune delle quali
dipendono dal marito, altre dipendono dalla moglie e altre ancora si riferiscono alla forma.
Quanto al marito, egli dev’essere pienamente capace di agire nel momento in cui pronuncia il
ripudio: pertanto dev’essere sano di mente (se la follia è intermittente, il ripudio non è valido se
dato durante i momenti di perdita della capacità d’intendere e di volere, che può essere provocata da
malattie mentali o dall’assunzione di sostanze stupefacenti. Tuttavia, se l’uomo assume
coscientemente tali sostanze, conoscendone gli effetti, e ripudia la moglie, tale ripudio sarà
comunque valido; se invece crede che determinate sostanze non compromettano le facoltà mentali o
le assume per esigenze mediche, il ripudio non sussiste); pubere (non è valido il ripudio pronunciato
da un impubere, anche se ha raggiunto l’età del discernimento. Secondo gli hanbaliti, però, il
ripudio dato da un impubere che ha discernimento è valido, a condizione che egli sia a conoscenza
di cosa significhi il ripudio e dei suoi effetti); dev’essere libero di scegliere, senza nessuna
costrizione.
Quanto alla moglie, essa dev’essere sotto la potestà maritale del marito; non dev’essere una schiava;
dev’essere una moglie legittima sulla base di un contratto valido (se, infatti, il marito ha contratto
matrimonio durante il periodo del ritiro legale della donna o ha stipulato altri tipi di contratti nulli, il
ripudio non sussiste perché, quella donna, non è sua legittima moglie).
Infine, per quanto riguarda la forma, l’espressione pronunciata dal marito deve riferirsi al ripudio in
modo esplicito o implicito103
, non basta la sola intenzione; parimenti non è valido il ripudio basato
solo sui comportamenti, come quando il marito manda la moglie a casa del padre in seguito ad un
litigio, oppure le fa recapitare i suoi effetti personali e il resto del dono nuziale senza però
pronunciare il ripudio. Ci sono divergenze tra le scuole, poi, in riferimento all’accettazione per il
ripudio del gesto e della scrittura di un muto. L’espressione del marito, inoltre, deve rispecchiare la
103
Se un uomo ripudia la propria moglie solo nella sua mente, il ripudio non è valido.
sua intenzione, essendo questo un atto personale dello stesso. Un ripudio dato in stato d’ira, sotto
costrizione, in stato di ebbrezza o di malattia mentale, non è valido, sulla base della massima: le
azioni sono valutate in base alle intenzioni. Se il ripudio viene dato durante una malattia terminale,
la moglie ha diritto a succedere al marito, anche se è terminato il periodo di ritiro legale. Se il
matrimonio non è stato consumato, essa ha diritto a metà del dono nuziale e alla metà dell’eredità;
mentre, se è stato consumato, ha diritto a tutto il dono nuziale ed è parimenti erede del marito.
L’uomo libero ha il diritto di pronunciare il ripudio tre volte (mentre lo schiavo può pronunciarlo
solo due volte, anche se è il marito di una donna libera). Il taläq dev’essere pronunciato durante il
periodo di purità della donna e successivamente, il marito non deve più avere rapporti sessuali con
lei. Si richiede, inoltre, la presenza di due testimoni.
Naturalmente, il ripudio è valido solo se dato dopo aver stipulato il contratto di matrimonio: il
ripudio non può essere dato prima del matrimonio. Ad ogni modo, il ripudio può essere sottoposto a
condizione, tanto che, se il marito lo condiziona ad un tempo ed a un luogo futuro, ha effetto lo
stesso.
Quando i rapporti tra i coniugi diventano difficili, al ripudio deve precedere il tentativo di
riconciliazione, facendo ricorso alla procedura arbitrale, mediante la nomina di un arbitro per parte,
scelti dalla famiglia del marito e dalla famiglia della moglie104
. Se il tentativo di riconciliazione
fallisce, il marito può far ricorso anche al triplice ripudio, che è conforme al Corano e alla Sunna
quando viene dato nel tempo e nel numero stabilito, vale a dire quando è pronunciato tre volte
durante i periodi di purità della donna e attestato da due testimoni. Dopo il primo ripudio, il marito
deve astenersi da lei; ma se riprende i rapporti prima del terzo ripudio, quello definitivo, il ripudio si
considera nullo e viene ripristinata la vita coniugale. Tuttavia, oggi, si usa pronunciare anche il
ripudio innovativo, che non rispetta i tempi e le varie condizioni; inoltre, al marito è concesso di
ripudiare la moglie tre volte consecutivamente, senza rispettare il termine dei tre mesi.
Il marito ha il diritto di ripristinare la vita coniugale; questo suo diritto, però, cessa quando termina
il periodo di ritiro legale o al verificarsi di altre condizioni prestabilite. Il ripristino della vita
coniugale dev’essere attestato da due testimoni, anche se la moglie non è presente.
Quando il marito ripudia la moglie ed ha ancora il diritto di riprenderla con se (fino al ripudio
definitivo) la deve tenere nel domicilio coniugale, a meno che non abbia commesso qualcosa che
richieda l’applicazione della pena hadd. Inoltre, quando l’uomo ripudia in modo irrevocabile una
delle sue mogli, può risposarsi immediatamente (senza attendere il termine del ritiro legale della
104
“E se temete una rottura fra marito e moglie, nominate un arbitro dalla parte di lui e uno dalla parte di lei e, se i due
coniugi desiderano riconciliarsi, Dio metterà armonia fra loro…”. – Cor. IV, 35.
moglie), al contrario della donna. Infine, quando la moglie è ripudiata in modo non definitivo, cioè
quando ancora sta nel periodo di ritiro legale, sussiste comunque la reciproca vocazione ereditaria
tra i coniugi105
.
3.1) RIPUDIO REVOCABILE E IRREVOCABILE
Il Corano pone un limite importante al potere del marito di dare ripudio:
“Il ripudio vi è concesso due volte: poi dovete o ritenerla con gentilezza presso di voi, o rimandarla
con dolcezza… Questi sono i termini di Dio: non oltrepassateli, che quelli che oltrepassano i
termini di Dio, sono gli empi”106
.
Il primo e il secondo ripudio sono revocabili dal marito, per tutta la durata del periodo di ritiro
legale (‘idda):
“Quanto alle divorziate, attendano, prima di rimaritarsi, per tre periodi mestruali. E non è loro
lecito nascondere quel che Dio ha creato nel loro ventre, se esse credono in Dio e nell’ultimo
giorno. Ché è più giusto che i loro mariti le riprendano quando si trovano in questo stato, se
vogliono riappacificarsi…”107
.
Per revocare il ripudio, il marito deve dichiarare di fronte a due testimoni: “rendete testimonianza
che ho fatto tornare mia moglie, che l’ho ripresa”; inoltre, il marito che ha rapporti sessuali con la
moglie durante il periodo di ritiro legale, revoca automaticamente il ripudio.
Scaduto il termine senza che il marito abbia revocato il ripudio, questo diviene definitivo. Si tratta,
tuttavia, di un ripudio definitivo minore: tra la donna e l’uomo non sorge alcun impedimento
matrimoniale ed essi si potranno nuovamente sposare, con un nuovo contratto e un nuovo mahr.
Infatti, è lecito al marito sposarla con un nuovo contratto, con il quale riavrà ciò che resta dei ripudi,
che lei si sia nel frattempo sposata con un altro oppure no. In altri termini, se egli l’ha ripudiata una
sola volta, torna da lui con due ripudi e se l’ha ripudiata due volte, torna da lui con un solo ripudio.
Dopo il terzo ripudio, a differenza che dopo i primi due, l’uomo non può più tornare sulla propria
decisione e riprendere con sé la moglie prima dello scadere del ritiro legale; né può, dopo tale
momento, risposare la moglie che gli diventa proibita:
105
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 60-
65 e“Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 219-220. 106
Cor. II, 229. 107
Cor. II, 228.
“Dunque, se uno ripudia per la terza volta la moglie, essa non potrà più lecitamente tornare da lui
se non sposa prima un altro marito; il quale, se a sua volta la divorzia, non sarà peccato se i due
coniugi si ricongiungono, se pensano di poter osservare le leggi di Dio. Questi sono i termini di
Dio che Egli dichiara a uomini che comprendono”108
.
Il terzo ripudio è detto definitivo maggiore. L’uomo che, sposando la donna ripudiata la rende
nuovamente lecita al primo marito che la potrà sposare nuovamente, si chiama muhallil (colui che
rende lecito). Il matrimonio con quest’ultimo, dev’essere consumato. Più in particolare, la donna
non è nuovamente lecita al primo marito se prima non si verificano cinque condizioni: la prima è
che sia trascorso il periodo di ritiro legale dall’uomo che l’ha ripudiata; la seconda è che essa si
sposi validamente con un uomo diverso da lui; la terza è che quest’ultimo consumi il matrimonio; la
quarta è lo scioglimento definitivo del secondo matrimonio; la quinta è che sia trascorso il periodo
di ritiro legale dall’uomo109
.
3.2) TRIPLICE RIPUDIO
I giuristi musulmani ammettono la possibilità, per l’uomo, di pronunciare più ripudi in una sola
volta, nella forma del triplice o duplice ripudio.
Tale pratica, anche se produce effetti, è considerata dalla maggior parte dei musulmani riprovevole.
Il ripudio riprovevolmente innovato è contrapposto al ripudio conforme alla Sunna che, per essere
tale, oltre a non dover essere duplice o triplice, deve anche essere pronunciato in un periodo ben
definito. Il ripudio conforme alla Sunna, deve avvenire nel periodo intermestruale della donna; deve
trattarsi, inoltre, di un periodo nel quale non abbia avuto rapporti sessuali.
La contrapposizione tra ripudio conforme alla Sunna (per quel che riguarda il tempo) e ripudio
riprovevolmente innovato, non riguarda nemmeno tutte le donne; infatti, questa distinzione non vale
per la donna in menopausa, la donna incinta e la donna che ha ottenuto il ripudio dietro corrispettivo
prima della consumazione.
108
Cor. II, 230. 109
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, pp. 220-222.
Attualmente, la maggior parte dei codici vietano la pratica del triplice ripudio e ne annullano le
conseguenze110
.
3.3) PROVA DEL RIPUDIO
Il Corano invita a pronunciare il ripudio di fronte a due testimoni:
“E quando sian giunte al termine loro, trattenetele con gentilezza o con gentilezza separatevene. E
prendete a testimoni presone fra voi che sian giuste e testimoniate avanti a Dio…”111
.
La presenza dei testimoni è sicuramente raccomandata, ma non è necessaria alla validità del ripudio,
che è un atto privato. Lo stesso vale per la revoca del ripudio: è raccomandato che l’uomo faccia
attestare la revoca a due testimoni; se non lo fa, essa è tuttavia valida. Inoltre, non è richiesto che la
dichiarazione di ripudio raggiunga la donna o che essa ne sia informata.
Tuttavia, i legislatori contemporanei, pur riconoscendo la natura di atto extra-giudiziario del
ripudio, cercano di sottrarre quest’ultimo alla sfera privata dell’uomo: incentivano, perciò, la
redazione ufficiale dell’atto di ripudio e la registrazione dell’atto presso il tribunale.
In Egitto, ad esempio, è imposto al ripudiante di far redigere l’atto di ripudio dal notaio competente,
entro trenta giorni da quando lo ha pronunciato. La moglie si considera a conoscenza del ripudio se
è presente alla redazione dell’atto da parte del notaio; in caso contrario, spetta al notaio dargliene
notizia personalmente, tramite ufficiale giudiziario. /-/ Gli effetti del ripudio si producono dal
giorno in cui è pronunciato, salvo che il marito non l’abbia celato alla moglie; gli effetti relativi alla
successione e agli altri a contenuto patrimoniale si producono dalla data in cui la donna ne viene a
conoscenza.
La certificazione del ripudio ha il seguente contenuto:
“Il giorno _____ dell’era volgare, corrispondente al _____ della hiğra, alle ore _____ nell’ufficio
notarile di _____, davanti a noi _____ notaio nell’ufficio di cui sopra, in presenza del signor _____
residente in _____ la cui identità è provata mediante _____ e di nazionalità _____ in qualità di
testimoni maggiorenni e in possesso di tutte le qualità richieste per legge, è comparso il signor
_____ figlio di _____ figlio di _____ nato il _____ a _____ di nazionalità _____ di religione _____
e di professione _____ residente in _____ la cui identità è provata mediante _____ e ha dichiarato
110
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, pp. 222-223. 111
Cor. LXV, 2.
di aver sposato la signora _____ figlia di _____ figlio di _____ di nazionalità _____ di religione
_____ e residente in _____, secondo quanto risulta dal contratto di matrimonio certificato/redatto
in _____ con il numero _____ in data _____, e di aver vissuto coniugalmente con lei secondo la
Legge, e che adesso desidera ripudiarla per la prima volta. Egli ha dichiarato: ‘Mia moglie, con
cui ho consumato il matrimonio, la signora _____ è ripudiata da me con il primo ripudio
revocabile’. Noi abbiamo inteso che si tratta del primo ripudio revocabile, per cui egli può
riprenderla con sé fino a che dura il ritiro legale. Sulla base di tutto ciò, è rilasciato il presente
certificato relativo al ripudio del signor _____ di sua moglie, la signora _____. Dopo averne dato
lettura ai testimoni, tutti lo sottoscrivono con noi. Il ripudiante _____. Il primo testimone _____. Il
secondo testimone _____. Il notaio _____.”
In alcuni Paesi, poi, il ripudio può avere luogo soltanto attraverso un provvedimento del giudice.
Secondo la legge libica:
“In ogni caso il ripudio è stabilito con una sentenza del tribunale competete. Il ripudio davanti al
tribunale risulta dalla dichiarazione di colui che ne ha il potere, in presenza dell’altra parte o, se essa
è nell’impossibilità di essere presente, del suo rappresentante; naturalmente, ciò deve avvenire solo
dopo che siano stati esauriti tutti i tentativi di riconciliare i due coniugi”.
In Algeria:
“Il ripudio è stabilito mediante sentenza, dopo il tentativo di conciliazione da parte del giudice, il
cui periodo non può superare i tre mesi. Chi riprende con sé la moglie durante il tentativo di
conciliazione, non ha bisogno di un nuovo contratto. Chi la riprende con sé dopo la sentenza di
ripudio, ha bisogno di un nuovo contratto”.
In questi e in numerosi altri casi, il rispetto delle formalità viene considerato necessario per dar
prova, o dar più facilmente prova, alle autorità dello stato dell’avvenuto ripudio. Ma, la validità del
ripudio, non è comunque messa in discussione112
.
3.4) CAPACITÀ DEL RIPUDIANTE
Il ripudio dev’essere pronunciato da persona capace. La capacità è richiesta anche se il ripudio
espresso è un atto formale, che prescinde dall’esistenza dell’intenzione.
112
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, pp. 224-226.
La dichiarazione di ripudio è espressa se contiene la parola taläq o una forma derivata, come ad
esempio: ‘sei ripudiata’, ‘sei colpita da ripudio’, ‘ti ho ripudiata’. In tutti i casi in cui viene utilizzata
una formula espressa di ripudio, la donna è immediatamente ripudiata, anche se il marito non ne ha
l’intenzione. Tutte le altre espressioni in grado di esprimere la volontà di ripudio sono metaforiche:
esse sono efficaci solo se accompagnate dall’intenzione.
Non sempre, dunque, è necessaria l’intenzione dell’uomo affinché il ripudio sia efficace. Ciò è
confermato dal trattamento riservato al ripudio dato per scherzo che, sulla base del Corano, è
considerato efficace:
“E non prendete a gabbo i segni di Dio”113
.
Ad ogni modo, i legislatori contemporanei stanno cercando di garantire che alla dichiarazione di
ripudio corrisponda l’intenzione di sciogliere per davvero il matrimonio, come dimostra la
legislazione libica, secondo la quale:
“Chi pronuncia il ripudio dev’essere pubere, sano di mente, capace di autodeterminazione; egli deve
volere l’espressione che dà luogo al ripudio e dev’essere consapevole di ciò che dice. – Si da per
non avvenuto il ripudio del minore, del pazzo, del demente, di chi è vittima di violenza e di chi ha
perso il discernimento”114
.
3.5) RIPUDIO CONDIZIONATO
Il ripudio può essere sottoposto a condizione e, in un caso del genere, esso ha luogo non appena la
condizione si realizza.
Le condizioni che caratterizzano questo tipo di ripudio non dipendono necessariamente dalla
volontà della moglie, del marito o di un terzo. Possono anche non dipendere dalla volontà di alcuno.
Il ripudio sottoposto a condizione può servire a imporre alla moglie, o al marito, un obbligo di fare
o di non fare; ma la sua funzione può essere anche solo retorica: per rafforzare le affermazioni,
renderle incisive e persuasive.
113
Cor. II, 231. 114
Libia, legge n.10 del 1984, art. 32, lett. a e b.
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio
Ferrari, pp. 226-227.
Al ripudio può essere apposto anche un termine, riferito a un tempo, a un luogo o ad altro. Esso, ha
quindi luogo, quando questi vengono in essere, come nel caso in cui il marito dice alla moglie: “sei
ripudiata nel mese di…” oppure “sarai ripudiata domani”.
Attualmente, la maggior parte delle legislazioni, proibiscono sia il ripudio condizionato, sia quello
sottoposto a termine: il ripudio dev’essere assoluto115
.
3.6) RIPUDIO PRONUNCIATO DA PERSONA DIVERSA DAL MARITO
Il ripudio può essere pronunciato anche da una persona diversa dal marito che abbia, da questo,
ricevuto tale potere. Le varie scuole giuridiche, non hanno un unanime parere su questo particolare
aspetto del ripudio .
- Secondo gli hanafiti, il marito può delegare la moglie di dare ripudio a se stessa o può farsi
rappresentare da un’altra persona. La funzione di rappresentante può essere svolta in tre
modi: 1. mediante una lettera con la quale il marito informa la moglie che può scegliere di
essere ripudiata; 2. tramite il mandato, con il quale il marito delega un’altra persona di
ripudiare la moglie (in questo caso si seguono in tutto e per tutto le regole del mandato); 3.
mediante la concessione dei pieni poteri ad un’altra persona, che può essere anche la moglie,
ed il trasferimento del diritto a ripudiare. A differenza del mandato, il marito che conferisce
pieni poteri, non può più ritornare sulla sua decisione.
- Anche secondo i malikiti, il marito può farsi rappresentare dalla moglie o da altra persona a
dare ripudio. La delega può essere esercitata in due modi: mediante una lettera o mediante la
concessione dei pieni poteri. Con la lettera, il marito informa la moglie che è stata ripudiata.
La concessione dei pieni poteri ad un’altra persona, invece, può essere di tre tipi: mandato,
diritto di opzione e trasferimento del diritto.
Con il mandato, il ripudio è causato dalla moglie o da altra persona, anche se il marito ha il
diritto d’impedirlo, prima che avvenga, revocando il mandato.
Con il diritto di opzione, è il marito che causa di fatto il triplice ripudio, mentre la persona
delegata ne ha la potestà solo sulla base di un testo scritto o di una norma; in altri termini, la
possibilità che da la facoltà di opzione di effettuare o meno il triplice ripudio, viene trasferita
ad una terza persona sulla base di un testo scritto o di una norma.
115
Sull’argomento si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, pp. 228-229.
Il trasferimento del diritto, infine, si ha quando il ripudio è causato di fatto da una terza
persona, ma non sulla base di un testo scritto o di una norma.
Il titolare del diritto di opzione o del trasferimento del diritto, a differenza del mandatario,
agisce autonomamente, in quanto diventa titolare del diritto che prima apparteneva al marito
della donna da ripudiare. Ad ogni modo, c’è una differenza anche tra il titolare del diritto di
opzione ed il titolare del trasferimento del diritto: il primo, ha il diritto di dare il triplice
ripudio, anche se il marito non aveva intenzione di darlo; il secondo, ha il diritto di dare
ripudio, ma non può spingersi fino al triplice ripudio.
- Secondo gli šāfi ‘iti, il marito può concedere alla moglie di ripudiare se stessa attribuendole
pieni poteri ma, in questo caso, si devono rispettare due requisiti essenziali: il ripudio non
deve dipendere da una condizione e deve avere effetto immediato. La scuola šāfi ‘ita
equipara il trasferimento dei pieni poteri al mandato: di conseguenza, il marito può revocarlo
prima che la moglie abbia dato ripudio a se stessa.
- Infine, per gli hanbaliti, il marito può farsi rappresentare dalla moglie o da altra persona a
dare ripudio. Questa funzione di rappresentanza va considerata come un mandato. Pertanto il
marito, prima che la moglie abbia dato ripudio a se stessa o la persona delegata abbia
ripudiato la donna, può revocare il mandato o fare qualcosa per far decadere il mandato.
I giuristi considerano con particolare attenzione la questione del momento in cui va esercitato il
potere conferito dal marito alla moglie o ad un’altra persona. Se il marito dice alla moglie “ripudiati
quando vuoi”, la donna può ripudiarsi immediatamente o in seguito; se il marito dice a un uomo
“ripudia mia moglie”, egli può ripudiarla immediatamente o più tardi; se invece dice “ripudiala, se
vuoi”, deve ripudiarla immediatamente. Una donna a cui il marito dice: “la tua sorte ti appartiene” o
“ripudiati da te” ha libertà di scelta fino a quando il marito non le revoca l’autorizzazione o non ha
con lei rapporti sessuali.
La donna, a sua volta, deve dichiarare apertamente la sua volontà dicendo, ad esempio, “lo voglio!”,
poiché ciò che è nel cuore non si conosce fin quando non viene dichiarato; se nel cuore la donna
vuole il ripudio, ma non lo dichiara, esso non ha luogo. E se dichiara di volerlo mentre è sottoposta
a violenza, il ripudio ha comunque luogo, in considerazione delle parole da lei pronunciate. Lo
stesso vale se il marito ha sottoposto il ripudio alla volontà di un terzo116
.
116
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, pp. 229-230 e “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp.
66-67.
3.7) DONO DI CONSOLAZIONE
Il dono di consolazione, o mut’a, è una donazione fatta alla donna ripudiata per consolarla del
dolore che ciò le ha procurato. La fonte dell’istituto è riconosciuta in alcuni versetti del Corano:
“Non v’è nulla di male se ripudierete le donne prima di averle toccate o prima di aver loro fissato
una dote; ma assegnate loro mezzi per vivere, ricchi o poveri ciascuno secondo le sue possibilità, in
modo umano; è un dovere, questo, per chi è benefico”117
.
“E se le ripudierete prima di averle toccate, ma avete già assegnato loro una dote, una metà di
questa resterà a loro, a meno che non vi rinuncino, o non vi rinunci colui che ha in mano il vincolo
de matrimonio. Ma è più vicino al timor di Dio che rinunciate voi. Non dimenticate mai la
generosità, nei rapporti fra voi, ché Dio osserva ciò che voi fate”118
.
“Alle ripudiate spettano mezzi di sussistenza secondo onestà: è un dovere per i timorati di Dio”119
.
Il dono consolatorio spetta alla moglie ripudiata quando il ripudio dipende dal marito, ad esclusione
della donna che non ha consumato il matrimonio e che ha già diritto alla metà del dono nuziale. Se
invece il ripudio dipende da lei, non ha diritto né al dono consolatorio né al dono nuziale.
La moglie ripudiata in modo definitivo non lascia il domicilio coniugale fino al termine del periodo
di ritiro legale, vale a dire fino a quando non diventa libera di risposarsi; ciò avviene quando la
moglie inizia il terzo periodo di ritiro legale dopo la terza mestruazione, quando cioè
s’interrompono tra i coniugi i vincoli matrimoniali, ivi compresa la reciproca vocazione ereditaria.
La moglie ripudiata non ha diritto al mantenimento durante il periodo di ritiro legale, a meno che
non sia incinta; in quest’ultimo caso, il marito la mantiene fino al parto.
Molti legislatori statali hanno imposto il dono di consolazione obbligatorio in caso di divorzio
immotivato o abusivo. Secondo la legislazione siriana, ad esempio, “se il marito ripudia la moglie e
al giudice risulta che l’abbia fatto arbitrariamente, senza ragionevole motivo, e che alla donna ne
deriverà miseria o disagio, il magistrato può condannarlo, tenuto conto della gravità dell’arbitrio, a
un’indennità non superiore a tre anni di mantenimento per una donna dello stesso livello sociale”.
Talvolta, essi lo prevedono indipendentemente dalla valutazione dei motivi che hanno spinto
117
Cor. II, 236. 118
Cor. II, 237. 119
Cor. II, 241.
l’uomo al divorzio e dalla situazione in cui si viene a trovare la donna, con il semplice scopo di
disincentivare questo modo di scioglimento del matrimonio120
.
4) ALTRI TIPI DI RIPUDIO
Il marito può allontanare e disconoscere la moglie anche con altri tipi di procedimento, come lo
zihār, l’īlā’ e l’hul’.
4.1) ZIHĀR
Lo zihār è un tipo di giuramento che può condurre allo scioglimento del matrimonio. Esso consiste
nel paragonare la moglie ad una donna proibita ed avviene quando l’uomo manifesta questo
concetto dicendo:
“Tu sei per me come la schiena di mia madre”.
Gli elementi fondamentali dello zihār sono quattro: 1. l’uomo che da questo tipo di ripudio, cioè il
marito; 2. la donna destinataria di questo ripudio, cioè la moglie; 3. la formula del ripudio; 4. la
forma.
Con il pronunciamento dello zihār, si interrompono i rapporti sessuali tra i coniugi, ma il
matrimonio sussiste. Su richiesta della moglie, il qadì può fissare al marito un periodo di tempo (che
va da un minimo di due mesi ad un massimo di quattro) per poter revocare il ripudio. Trascorso
questo termine senza alcun ripensamento da parte del marito, il giudice decide lo scioglimento del
matrimonio. Ma, se il marito revoca lo zihār prima della scadenza del termine, deve compiere
un’espiazione prima di poter riavere rapporti con la moglie. Infatti, il Corano stabilisce:
“Quelli di fra voi che ripudiano le mogli loro dicendo: ‘Sii per me come il dorso di mia madre!’,
sappiano che esse non sono le loro madri e che le loro madri son solo quelle che li hanno generati,
ed essi così facendo profferiscono abominio e falsità: Iddio è però perdonatore, indulgente –
Coloro che ripudiano le mogli dicendo: ‘Sii per me come il dorso di mia madre!’ e poi tornano su
quanto hanno detto, s’abbino per ammenda l’affrancamento di uno schiavo, prima d’accostarsi ad
esse di nuovo. Di questo Iddio vi ammonisce: e Dio sa ciò che fate. – chi poi non trovasse uno
120
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, pp. 230-232 e “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp.
65-66.
schiavo da affrancare, digiuni per due mesi consecutivi prima di accostarsi alla sua donna di
nuovo. Chi non può farlo, nutra invece sessanta poveri. Questo perché voi crediate in Dio e nel Suo
Messaggero. Questi sono i termini di Dio, e chi rifiuta fede avrà castigo cocente!”121
.
4.2) ĪLĀ’
Il marito può unilateralmente ripudiare la moglie facendo ricorso alla pratica preislamica īlā’, il
giuramento di astenersi dai rapporti sessuali con la moglie, secondo quanto stabilito dal Corano:
“A coloro che giurano di separarsi dalle loro mogli è imposta un’attesa di quattro mesi. Se tornano
sul loro proposito, ebbene Dio è indulgente e perdona; - e se poi saran confermati nella loro
decisione di divorziarle, Iddio ascolta e conosce”122
.
Il giuramento di astinenza sospende il matrimonio. Trascorsi i quattro mesi stabiliti dal Corano,
infatti, il marito viene costretto dal giudice, su richiesta della moglie, a pronunciare il ripudio o a
ripensarci. Se la vita coniugale viene ripristinata il marito, a causa della rottura del giuramento, deve
fare una espiazione dopo la consumazione, la stessa fissata per lo zihār.
Gli elementi costitutivi del giuramento di astinenza sono: 1. il marito, 2. la moglie, 3. il giuramento
del marito, 4. l’oggetto del giuramento (cioè, il rapporto sessuale), 5. la forma, che è quella del
giuramento, 6. la durata, implicita nel giuramento, di astinenza (vale a dire, la volontà di non voler
avere rapporti sessuali con la moglie123
.
4.3) HUL’
Viene definito hul’, lo scioglimento del matrimonio contro il pagamento di un corrispettivo da parte
della donna. Esso trova la sua fonte nel Corano:
“…e non v’è lecito riprendervi nulla di quello che avete loro dato; a meno che ambedue non
temano di non poter osservare le leggi di Dio, ché se temono di non poter osservare le leggi di Dio,
121
Cor. LVIII, 2-4.
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, p. 68, e
“Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 234-235. 122
Cor. II, 226-227. 123
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, p. 69,
e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 235-236.
non sarà peccato se la moglie si riscatterà pagando una somma. Questi sono i termini di Dio: non
oltrepassateli, ché quelli che oltrepassano i termini di Dio, sono gli empi”124
.
In merito all’argomento, poi, il Profeta disse ad una donna che si lamentava con lui del marito:
“Sei disposta a restituirgli il suo giardino? Ella rispose di si. Ed egli disse al marito: accetta il
giardino e ripudiala”.
Questa particolare forma di ripudio, dunque, si basa sulla rinuncia da parte del marito alla potestà
maritale e al diritto di godimento sulla moglie, in cambio di un riscatto o di una compensazione
pagata dalla moglie al marito per ottenere il ripudio. Naturalmente, questo scambio deve avvenire
per mutuo consenso.
Gli effetti dell’hul’, sono quelli di un ripudio dirimente; tuttavia, esso si distingue nettamente dal
ripudio comune, in quanto vi si può far ricorso sempre, anche nei periodi in cui è di solito proibito
ripudiare la moglie.
Gli elementi essenziali dell’hul’ sono: 1. la persona obbligata a dare il corrispettivo (che può essere
anche una persona diversa dalla moglie), 2. la vulva della moglie (su cui il marito ha il diritto di
godimento) di cui l’uomo si priva, 3. il corrispettivo, cioè il bene che il marito riceve in
contraccambio per la perdita della potestà maritale e del diritto di godimento, 4. il marito ripudiante,
5. la potestà maritale attuale.
La persona obbligata a dare il corrispettivo deve avere la capacità giuridica di disporre dei beni;
pertanto, la donna minorenne, malata di mente o prodiga, non può chiedere al marito di essere
ripudiata facendo ricorso all’hul’. Quanto invece al marito, egli deve avere la capacità giuridica di
dare ripudio e cioè, dev’essere libero, pubere e sano di mente, con piena capacità di agire e quindi
di contrattare. Pertanto, il marito minorenne o malato di mente, non può ripudiare la moglie secondo
questa procedura; al contrario, il ripudio dato dal prodigo è valido, anche se egli non può impegnare
i suoi beni.
Per quanto riguarda il corrispettivo, si deve trattare di un bene che abbia valore economico (pertanto
non è valido l’hul’ dato in cambio di qualcosa che non ha valore), di un bene puro (deve trattarsi,
cioè, di un bene da cui il musulmano può trarre vantaggio) e di un bene non acquistato illegalmente.
È possibile scambiare il compenso dovuto per l’hul’ con un altro bene, sia esso un bene
commerciale, il dono nuziale, il mantenimento dovuto per il ritiro legale, il compenso per
l’allattamento o per la custodia, ecc....
124
Cor. II, 229.
L’hul’ richiede anche una particolare forma, che consiste nella domanda e nell’offerta espresse
verbalmente. Un semplice comportamento non produce tutti gli effetti di questo ripudio, anche se
c’è l’intenzione. Per questo motivo, non è valido l’hul’ quando la moglie dà al marito dei beni ed
esce di casa senza che egli le abbia detto “tu sei ripudiata con hul’ come contropartita” e la moglie
non gli abbia risposto “ripudiami con hul’ in cambio di quanto ti ho dato”.
La durata del periodo di ritiro legale obbligatorio per la moglie ripudiata mediante l’hul’, è quella
usuale di una donna ripudiata125
.
5) SCIOGLIMENTO GIUDIZIALE DEL CONTRATTO MATRIMONIALE
Lo scioglimento giudiziale del matrimonio avviene sia come conseguenza della procedura del li’ān,
sia per vizio redibitorio, sia a causa di inadempimento di una condizione del contratto, sia ex officio
judicis.
5.1) LI’ĀN
Dal momento che il diritto islamico non conosce un istituto per il disconoscimento di paternità, il
mezzo per ottenere questo risultato è il ricorso alla procedura del li’ān, un giuramento imprecatorio
il cui scopo principale è quello d’impedire l’attribuzione di paternità al marito, anche se il ripudio
ne è la necessaria e subordinata conseguenza.
“E coloro che accusano le loro donne, e poi non hanno altri testimoni che se stessi, dovranno
comprovare l’accusa con quattro attestazioni, fatte in nome di Dio, attestanti che dicono il vero. - E
la quinta attestazione sia che la maledizione di Dio scenda su di lui, se ha mentito. – E alla donna
sarà risparmiata la punizione se attesterà con quattro attestazioni fatte in nome di Dio che il marito
mente; - e la quinta sarà che l’ira di Dio scenda su di lei, se il marito ha detto il vero”126
.
Se il marito sospetta che un nascituro, legalmente attribuito a lui, non sia in realtà suo figlio, ma non
può accusare la moglie di adulterio perché non può portare testimoni, tranne se stesso, egli deve
“comprovare l’accusa con quattro attestazioni, fatte in nome di Dio, attestanti che dice il vero. E la
quinta attestazione prevede che la maledizione di Dio debba scendere su di lui, se ha mentito”. La
moglie fa lo stesso. È il marito che deve dare inizio alla procedura del li’ān; se dà inizio alla
125
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, p. 69,
e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 236-238. 126
Cor. XXIV, 6-9.
procedura, ma non la porta a termine ed ammette di aver mentito, egli sarà fustigato con la pena
hadd per falsa accusa di rapporti sessuali illeciti, ed i coniugi non si separeranno.
Le conseguenze della ritrattazione del giuramento, da parte della donna, sono più gravi: se la donna
che ritratta è di stato libero ed è sposata (o lo è stata in passato), sarà lapidata, altrimenti sarà
sottoposta a cento frustate.
Il li’ān, che costituisce impedimento permanente ad un nuovo matrimonio dei coniugi, può essere
dato per iscritto, con un gesto o con un cenno familiare. Una volta completata la procedura, il
marito pronuncia il triplice ripudio ma, secondo la dottrina prevalente, i coniugi sono separati ipso
facto, anche se il giudice non rescinde il contratto.
Il dono nuziale non dev’essere restituito al marito in quanto, il matrimonio è stato comunque
consumato, anche se l’accusa dovesse rivelarsi vera; se invece l’accusa è falsa, la moglie non deve
restituirlo a maggior ragione. Ma se il marito intraprende questa procedura prima di aver consumato
il matrimonio, essa ha diritto solo alla metà del dono nuziale.
Il giuramento imprecatorio è, per il diritto musulmano, l’unico mezzo per disconoscere il figlio
concepito o partorito dalla moglie: questa esclusività è dovuta alla riluttanza dei legislatori
nell’ammettere prove scientifiche per questo fine. In seguito al li’ān, quindi, solo la filiazione
materna può essere stabilita. Per questo, il figlio prende il nome della madre ed eredita da lei,
mentre da lui ereditano la madre ed i parenti di lei.
La procedura attivata dal marito di condizione libera, è valida anche per il marito schiavo, anche se
a quest’ultimo non si applica la pena hadd per l’eventuale falsa accusa di adulterio rivolta alla
moglie schiava127
.
5.2) SCIOGLIMENTO PER VIZIO REDIBITORIO
Prima della conclusione del contratto di matrimonio, le parti sono tenute a dichiarare in modo
esplicito i loro difetti o quelli della persona rappresentata.
127
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 71-
72, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 232-
234.
Se i difetti vengono occultati, la parte danneggiata può chiedere al qadì lo scioglimento del
matrimonio per vizio redibitorio. Si deve trattare di malattie o vizi che colpiscono uno dei due
coniugi e che rendono impossibile la convivenza o i rapporti sessuali tra marito e moglie.
Tuttavia, per poter procedere con lo scioglimento, è necessario che il marito o la moglie vengano a
conoscenza di questi problemi dopo la stipula del contratto di matrimonio; per la moglie, però,
questi vizi sono considerati redibitori solo quando erano già presenti nel marito prima del
matrimonio.
I difetti presenti nei coniugi possono essere suddivisi in due categorie: una, dà ad entrambi il diritto
di rescindere dal contratto di matrimonio senza riserva; un’altra, conferisce tale diritto solo ad uno
dei due coniugi, se così è stato pattuito nel contratto di matrimonio. La prima categoria include, a
sua volta, tre casi: difetti che entrambi i coniugi possono avere, difetti specifici del marito, difetti
specifici della moglie. La seconda categoria è quella che prevede il diritto di rescissione solo se uno
dei coniugi lo ha stabilito come condizione nel contratto di matrimonio; al verificarsi di una
particolare malattia o condizione, il marito o la moglie ha il diritto di opzione nel decidere se
continuare a vivere con il coniuge o chiedere lo scioglimento del matrimonio.
Per quanto riguarda il diritto della moglie al dono nuziale, se un uomo sposa una donna con una
grave malattia senza che il curatore matrimoniale lo abbia informato della sua condizione e, il
marito opta di dividersi prima della consumazione, egli non deve dare alla moglie ripudiata né la
metà del dono nuziale, né il dono consolatorio. Se, viceversa, il marito sceglie di separarsi dopo la
consumazione, egli le deve l’intero dono nuziale per via della consumazione (anche se poi potrà
rivalersi sul curatore); non le deve, invece, né il mantenimento né l’alloggio durante il periodo di
ritiro legale128
.
5.3) SCIOGLIMENTO PER INADEMPIENZA
Quando uno dei coniugi non adempie ad uno o più doveri derivanti dal matrimonio, l’altro può
chiedere al qadì lo scioglimento del contratto. I casi a cui si fa riferimento sono, ad esempio: il
mancato pagamento del dono nuziale, il mancato adempimento di un’obbligazione presente nel
contratto, ecc…
128
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 72-
73, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 238-
239.
Nel caso estremo in cui il marito non è in grado di pagare il mantenimento alla moglie, le varie
scuole prospettano diverse strade, che non portano tutte allo scioglimento del matrimonio.
Secondo gli hanafiti, infatti:
“Se il marito non è in grado di pagare il mantenimento della moglie, non c’è divorzio; il giudice
propone alla donna di pendere a prestito quanto le serve a nome del marito. Se l’uomo è assente e il
suo patrimonio è affidato a un uomo che ammette la mancanza del marito e riconosce l’esistenza del
matrimonio, il giudice calcolerà su quel patrimonio il mantenimento della moglie, dei figli minori e
dei due genitori”.
A sostegno di questo rifiuto nel concedere il divorzio alla donna creditrice del mantenimento, gli
hanafiti citano due versetti coranici:
“Che colui che ha abbondanza di mezzi spenda abbondantemente e che colui cui fu misurata la
provvidenza spenda di quello che Dio gli ha dato. Iddio non obbliga nessuno a far cose maggiori
delle possibilità che gli ha dato. Certo Iddio darà, dopo l’avversità, prosperità”129
.
“Se il vostro debitore si trova in difficoltà, gli sia accordata una dilazione fino a che una facilità gli
si presenti; ma se rimetterete il debito, sarà meglio per voi, se sapeste!”130
.
Gli hanbaliti, invece, ammettono che la donna possa ottenere il divorzio dopo che siano stati esperiti
tutti i tentativi necessari per ottenere il mantenimento:
“Se l’uomo omette di pagare il mantenimento, nonostante sia in grado di farlo, la donna deve
utilizzare il suo patrimonio nella misura del proprio bisogno e di quello dei suoi figli, senza
chiedere il divorzio; se non può, deve rivolgersi al giudice, che ordinerà al marito di versarle il
mantenimento. Se questi si rifiuta, il giudice lo farà imprigionare. Se sopporta di essere
imprigionato, il giudice preleverà il mantenimento dal suo patrimonio. Se non ci sono che beni
mobili o immobili, li venderà a tale scopo […]. Se il giudice ritiene che l’uomo non possegga un
patrimonio da cui prendere il necessario per far fronte al mantenimento, la donna può chiedere il
divorzio”.
Nello stesso verso, va anche la scuola šāfi ‘ita, secondo la quale la donna può chiedere il divorzio
in caso di mancato pagamento del mantenimento ed anche nel caso in cui il marito non le abbia
pagato il mahr:
129
Cor. LXV, 7. 130
Cor. II, 280.
“Se l’uomo non è in grado di pagare il mantenimento ma, la donna pazienta, essa maturerà un
credito nei suoi confronti; in caso contrario, la moglie potrà chiedere il divorzio”.
Infine, per i malikiti:
“La donna ha il diritto di chiedere il divorzio se il marito non è in grado di pagare il mantenimento
attuale; ma non per il passato”.
Un altro caso specifico che consente alla moglie di chiedere al giudice di essere liberata dal vicolo
coniugale, si verifica quando il marito risulta essere assente. Quando il marito è disperso e non si sa
dove sia, la moglie attende per quattro anni, trascorsi i quali il matrimonio si ritiene rescisso per
morte presunta dell’uomo; di conseguenza, la moglie entra nel periodo di ritiro legale per
vedovanza (quattro mesi e dieci giorni), trascorso il quale sarà libera di risposarsi.
Una volta che si è risposata, a prescindere dal fatto che abbia consumato o non consumato il
matrimonio con il secondo marito, nessuno potrà più obbligarla a tornare con il primo marito,
qualora esso dovesse ritornare; ma, se il marito ricompare prima che la moglie si sia risposata, ha
tutto il diritto di tenerla con sé131
.
5.4) SCIOGLIMENTO EX OFFICIO JUDICIS
Se un uomo sposa una donna e non consuma il matrimonio, ha un anno di tempo per farlo. In caso
di inadempimento dopo che questo periodo sia trascorso, il matrimonio viene sciolto dal giudice in
modo dirimente: non si fa ricorso al ripudio e non è previsto il ritiro legale per la moglie. Il termine
a quo per il calcolo dell’anno, è il giorno in cui la moglie si è rivolta alle autorità.
Tuttavia, se il marito ha consumato il matrimonio anche una sola volta e, poi, risulta impedito
dall’avere rapporti con lei, non può essere applicata la procedura precedente.
Infine, quando il marito sostiene di aver consumato il matrimonio e la moglie sostiene il contrario,
possono verificarsi due situazioni: se la donna era vergine al momento del matrimonio, sarà
esaminata da quattro donne idonee a testimoniare se è, o no, ancora vergine; se invece era già
deflorata, il marito deve portare come testimonianza un campione di sperma su un pezzo di
stoffa132
.
131
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 73-
74, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, pp. 239-
242. 132
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, p.74.
6) PERIODO DI RITIRO LEGALE
Dopo lo scioglimento del matrimonio, la donna deve rispettare il periodo di ritiro legale, l’ ‘idda.
Esso ha anche lo scopo di verificare l’esistenza di un’eventuale gravidanza ed è calcolato sulla base
dei cicli mestruali. Per tali motivi, una donna ripudiata prima della consumazione del matrimonio
non è obbligata a trascorrere questo periodo d’isolamento:
“O voi che credete! Quando sposate delle credenti e poi le divorziate prima di averle toccate, non
avete da osservare con loro nessun termine…”133
.
Quando, invece, il matrimonio è stato consumato, si possono verificare cinque casi: 1. la moglie
ripudiata è incinta; 2. non è incinta ma ha un’età in cui ha ancora i cicli mestruali; 3. la moglie
ripudiata non è incinta e non ha più le mestruazioni; 4. la vedova è incinta; 5. la vedova non è
incinta. Nel caso di scioglimento giudiziale del contratto matrimoniale, valgono le prime tre ipotesi.
Se la donna ripudiata è incinta, il periodo di ritiro si estende fino al parto, poi è libera di risposarsi:
“…sia il loro termine d’attesa fino a che non abbiano deposto il loro peso…”134
.
Se invece non è incinta ed ha ancora le mestruazioni, il ritiro termina dopo tre cicli mestruali:
“Quanto alle divorziate, attendano, prima di rimaritarsi, per tre periodi mestruali…”135
.
Se, infine, la donna non ha più le mestruazioni, il ritiro termina dopo tre mesi dalla data del ripudio;
anche il periodo di ritiro legale di una minorenne, che non ha cioè ancora raggiunto la pubertà, è di
tre mesi:
“Per quelle fra le vostre donne che disperino di aver più mestruazioni, se dubiterete che siano
incinte, sia il periodo di attesa di tre mesi, e lo stesso per quelle che non hanno avuto ancora
mestruazioni…”136
.
Questi termini sono validi per una donna di condizione libera mentre, il periodo di ritiro legale di
una schiava (negli stessi casi), dura la metà: ovviamente, siccome un ciclo mestruale non è
divisibile, il ritiro di una schiava che ha ancora mestruazioni è di due cicli completi; il termine del
ritiro legale per la schiava che non ha più mestruazioni, invece, dura un mese e mezzo.
La morte reale o presunta del marito ha come effetto l’inizio del periodo di ritiro legale:
133
Cor. XXXIII, 49. 134
Cor. LXV, 4. 135
Cor. II, 228. 136
Cor. LXV, 4.
“Se qualcuno di voi muore e lascia delle mogli, queste attenderanno per quattro mesi e dieci
giorni…”137
.
L’ ‘idda, quindi, dura quattro mesi e dieci giorni per la vedova libera non incinta e, la metà (due
mesi e cinque giorni), per la schiava: non c’è differenza tra la moglie maggiorenne o minorenne, sia
che abbia consumato il matrimonio oppure no, sia che abbia ancora mestruazioni oppure no.
Durante questo periodo, la vedova deve osservare il lutto. Quest’ultimo consiste nel rinunciare agli
ornamenti e ai gioielli, nel non passarsi l’antimonio sugli occhi e nel non portare abiti colorati; la
donna in lutto non deve profumarsi, né tingersi le unghie con l’henné. Deve passare la notte nella
casa, dove deve trascorrere il periodo di ritiro legale.
Il termine del ritiro legale comincia a scorrere subito dopo il ripudio o la morte; se la donna non è a
conoscenza del ripudio o della morte fino a che il periodo di ritiro legale è trascorso, il periodo
dell’ ‘idda si considera rispettato138
.
7) EFFETTI PATRIMONIALI DELLO SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO
I diritti patrimoniali che spettano alla donna dopo lo scioglimento del matrimonio sono
estremamente esigui e riguardano, nella migliore delle ipotesi, il mantenimento e l’alloggio per il
periodo di ritiro legale.
A tal riguardo, si distinguono tre categorie di donne: quelle ripudiate in modo revocabile (che
possono essere riprese dal marito), le quali hanno diritto al mantenimento e all’alloggio; le donne
irrevocabilmente ripudiate (sia con divorzio giudiziale, sia con triplice ripudio) che hanno diritto
all’alloggio e al mantenimento solo se risultano essere incinte; le vedove, che non hanno diritto
all’alloggio e nemmeno al mantenimento.
Non ha diritto al mantenimento la donna dopo l’hul’ (a meno che non sia incinta), né la donna
contro cui è stato pronunciato il li’ān (neppure se incinta).
I legislatori contemporanei hanno cercato d’intervenire per rafforzare alcuni punti e rendere effettivi
altri diritti spettanti alle mogli. Ad oggi, questi ultimi comprendono: il resto del mahr, il
mantenimento per il periodo di ritiro legale, il dono di consolazione stabilito in base alla durata del
137
Cor. II, 234. 138
Sull’argomento, si veda “Due sistemi a confronto: la famiglia nell’Islam e nel diritto canonico” di A. Cilardo, pp. 74-
76, e “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di Silvio Ferrari, 242-243.
matrimonio, alla situazione patrimoniale dei coniugi, ai motivi del ripudio e alla misura dell’abuso
nel ricorso al ripudio da parte del marito. Durante il periodo di ritiro legale, la moglie dovrà abitare
nella casa coniugale o in un alloggio a lei appropriato, anche in funzione della situazione
patrimoniale del marito. In mancanza, il tribunale dovrà stabilire le spese di alloggio che andranno
consegnate al cancelliere, insieme agli altri diritti spettanti alla sposa. Se il marito non consegna le
somme previste nel termine fissato, si dovrà considerare che egli abbia rinunciato all’intenzione di
ripudiare la moglie139
.
139
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio – diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti”, a cura di
Silvio Ferrari, p. 244-245.
PARTE TERZA
SOMMARIO: 1) Matrimonio consuetudinario: una “pratica sociale dissidente”; 2) Nikah-e mut’a: il
matrimonio a termine; 3) Innovazione e progresso delle legislazioni statali.
1) MATRIMONIO CONSUETUDINARIO: UNA “PRATICA SOCIALE DISSIDENTE”
Una particolare forma di matrimonio, sempre più diffusa in numerosi Paesi islamici, è quella del
matrimonio consuetudinario, denominato matrimonio ‘urfī. L’elemento distintivo di questo tipo di
matrimonio, è quello di non essere un contratto ufficiale: esso non viene registrato da alcun notaio o
ufficiale celebrante.
Il contratto così stipulato, sembra avere tutte le caratteristiche per essere considerato valido dalla
scienza giuridica islamica, corrispondendo pienamente ad un normale atto di matrimonio. Proprio
per questo motivo, gli Stati non hanno mai dichiarato illegali tali unioni, che pertanto continueranno
a produrre gli stessi effetti di un normale matrimonio fino a quando non verranno contestati nei
tribunali.
Gli ‘ulamā, invece, non sono unanimemente d’accordo nel sostenere la validità di una pratica
considerata deviante perché contraria alla “morale islamica” e perché ritenuta in grado
d’incoraggiare relazioni finalizzate ai soli rapporti sessuali. La donna, in questo contesto, viene
anche lasciata libera di sottoscrivere il contratto senza tutore legale e, la coppia, nella maggior parte
dei casi non fa alcuna pubblicità delle avvenute nozze, mantenendo il tutto nella segretezza: fattori,
questi ultimi, che giustificherebbero il loro scetticismo.
La maggior parte degli accademici e degli ‘ulamā contemporanei, dunque, motivano la non validità
del matrimonio consuetudinario con il mancato rispetto di alcune prescrizioni fondamentali, vale a
dire: la partecipazione di testimoni, la pubblicità dell’avvenuto rito nuziale e la stipula di un
contratto scritto. La questione che si pone, quindi, è quella di conoscere l’effettivo valore
invalidante degli elementi citati all’interno della dottrina classica musulmana.
Quest’ultima, ha stabilito che per la validità del contratto di matrimonio, debbano essere soddisfatte
le seguenti condizioni: la presenza di due “contraenti”, soggetti giuridicamente abilitati a stipulare
un contratto; il luogo del contratto; la formula del contratto (offerta-accettazione). Un ulteriore
elemento essenziale è l’oggetto del contratto nuziale, di duplice natura a seconda che lo si consideri
in relazione al marito o alla moglie. Rispetto al marito, l’oggetto del contratto è la donna; rispetto
alla moglie, l’oggetto è il “corrispettivo” che l’uomo le deve sotto forma di dono matrimoniale ed
anche gli altri obblighi derivanti dallo sposalizio.
Resta d’impedimento alla contrazione di un valido matrimonio, l’unione con una donna proibita,
secondo i canoni stabiliti dalle quattro scuole giuridiche.
Il contratto, per essere giudicato “valido”, ha bisogno del consenso reciproco delle parti. Non sono
richieste formule fisse, anche se le dichiarazioni dei due congiunti devono essere sempre dirette ed
esplicite, nonché libere da condizionamento. È opinione condivisa, inoltre, che lo scambio dei
consensi possa avvenire mediante: la parola, la scrittura o il segno.
Secondo la dottrina giuridica musulmana, dunque, un contratto di matrimonio che soddisfa le
suddette condizioni, può essere ritenuto valido ed esistente.
Tra gli argomenti sollecitati dagli ‘ulamā e dagli uomini di legge musulmani per evidenziare la non
conformità della “pratica ‘urfī” rispetto a quanto dettato dalla shari‘a, vi è la mancanza di altre
condizioni ritenuta basilari e, cioè, la pubblicità dell’avvenuto matrimonio e l’utilizzo di testimoni
durante la sottoscrizione del contratto.
In realtà, la sottoscrizione di un contratto ‘urfī intravede nella testimonianza un obbligo
imprescindibile, in conformità con tutti i canoni dettati dalla dottrina classica, la quale, anche su
questo punto non risulta essere del tutto unanime.
Se è vero, almeno nella pratica odierna, che tutte le scuole (e le legislazioni) prevedono la presenza
di due testimoni, resta comunque da chiedersi quanta importanza abbia la pubblica notorietà
dell’atto di matrimonio ai fini della validità del contratto. La prima opinione, attribuita ad Abū
hanīfa, sostiene che la testimonianza contiene implicitamente la pubblicità: dunque, la validità della
testimonianza è condizione per la pubblicità, così come la presenza di due testimoni insieme ai due
contraenti, rende concreto il significato della notorietà, anche se il tutto è tenuto segreto. Una
seconda opinione, sostenuta da Malik, afferma che la testimonianza non è una condizione per la
formazione del contratto, perché questa dipende dalla pubblicità. Infine, in base ad una terza
opinione, la pubblicità è unicamente sufficiente per la formazione del contratto, senza alcun bisogno
di ricorrere alla testimonianza; la pubblica notorietà, infatti, è ciò che segna la differenza tra il
matrimonio e l’unione libera o la fornicazione.
Il Corano, non dice nulla in merito alla necessità della testimonianza per la validità del contratto di
matrimonio mentre, la Sunna, si esprime più volte in merito alla testimonianza e alla pubblica
notorietà, suggerendo di annunciare e pubblicizzare il matrimonio.
Un’altra questione controversa è quella inerente l’utilizzo, per la validità del matrimonio, di una
prova scritta (o contratto nuziale). In aperta contraddizione con le prescrizioni del Corano, secondo
il quale la testimonianza assume il senso “di una dichiarazione attraverso la quale il testimone
attesta la realtà di ciò che ha visto (o pretende di aver visto)”, il diritto musulmano classico non
ammetteva la prova documentaria, considerando quanto scritto nel Corano un semplice consiglio.
Secondo i giuristi, quei versi non avevano lo scopo di far sostituire la prova testimoniale con la
prova scritta, ma illustravano l’intenzione di costituire un documento a cui i testimoni potevano
ricorrere per rinfrescare i loro ricordi. Ad ogni modo, oggi, tutti i riti sono concordi nel non
annoverare la prova scritta tra i mezzi legali di prova, se non ci sono dei testimoni che attestano la
veridicità dell’atto. Inoltre, i giureconsulti, non sono mai arrivati ad indicare la prova scritta come
una prova diretta ed interamente indipendente dall’operato dei testimoni. Tuttavia, a partire dal XIX
secolo, molti Paesi hanno modernizzato le regole giuridiche relative alla prova ed hanno ammesso,
nei fatti, lo scritto come mezzo di prova senza che esso sia accompagnato da testimoni.
Un altro termine di riferimento che sancisce la validità o meno di un matrimonio, è rappresentato
dall’obbligo di essere scritto su carta ufficiale e di essere registrato allo stato civile. In tal senso, il
matrimonio valido è quello registrato attraverso l’intermediazione di un impiegato, mediante un
documento ufficiale, reso pubblico a tutti; quest’ultimo si contrappone al matrimonio stipulato con
scrittura privata, non ufficiale, circondato dal segreto e non reso noto. Se ne deduce che la
caratteristica principale del matrimonio ‘urfī è di non essere ufficiale, perché non registrato. E in
effetti, nella terminologia del diritto positivo, così come nel senso comune, ogni matrimonio non
legalizzato è considerato ‘urfī, ma non nel senso di “consuetudinario”, bensì nel senso di
“clandestino”.
Ad ogni modo, confrontando la legalità del matrimonio su due piani, quello del diritto musulmano e
quello del diritto positivo, si può riscontrare una forte ambivalenza di fondo, per cui: un matrimonio
stipulato presso un ufficiale dello Stato, potrebbe essere mantenuto segreto dagli sposi, venendo
quindi meno, un precetto stabilito dalla legge sacra dell’Islam; così come, un matrimonio stipulato
“privatamente” ma rispettante tutti i principi e le condizioni della legge islamica, compresa la
pubblicità, non verrebbe riconosciuto dallo Stato.
Il risultato di tutto questo è chiaro: che lo Stato dichiari “clandestino” e dunque illegale un
matrimonio che non rispetta le sue proprie norme, non impedisce che questo matrimonio possa
essere considerato “legittimo” dal diritto musulmano e di conseguenza dai suoi fedeli.
Poiché il matrimonio ‘urfī non prevede motivi speciali che possono provocare la separazione della
coppia, ad esso si applicano le medesime regole utilizzate per il matrimonio ufficiale. Il divorzio
può avvenire attraverso le varie forme di ripudio unilaterale ed anche per volontà delle parti.
La sentenza di divorzio emessa dal giudice, avrà come unica conseguenza la rottura del legame
coniugale. La sposa ‘urfiyya, non può ricorrere al giudice per vedersi riconoscere i diritti previsti
dalla legge sacra islamica in riferimento ai rapporti matrimoniali; per esempio, non le è lecito
reclamare la seconda parte della dote che le sarebbe spettata in seguito alla sentenza di divorzio,
come non ha diritto di chiedere il risarcimento o il mantenimento.
Ciononostante, un elemento comune alle due pratiche di divorzio è rappresentato dalla volontà del
legislatore di concedere alla donna, in ogni caso, la possibilità di divorziare. Infatti, per molto
tempo la sposa ‘urfiyya è rimasta nell’impossibilità di ricorrere al giudice per liberarsi dal vincolo
matrimoniale, a prescindere dalla gravità del motivo che ne stava alla base. Questo, perché, i
tribunali della shari ‘a richiedevano che l’unione venisse provata da un atto di matrimonio
autentico; di conseguenza, la stessa legge vietava ai giudici di esaminare qualsiasi causa, relativa a
questo tipo di matrimonio, mirante a riconoscerne l’esistenza, sebbene ciò non significava
necessariamente che un matrimonio del genere non potesse esistere da un punto di vista giuridico.
Il legislatore non si è spinto tanto lontano da dichiarare illegale tale tipo di matrimonio: la
registrazione serve a provare l’esistenza del contratto, ma non è una condizione di validità. Il
contratto di matrimonio non registrato, produrrà i suoi effetti fin quando non verrà contestato. Se
esso non verrà mai contrastato, resterà legittimo e valido tra i due sposi e produrrà tutti i suoi effetti.
Il problema sorge quando uno dei due sposi decide di mettere fine all’unione senza il consenso
dell’altra. In questo caso il marito ha tutta la libertà di ripudiare sua moglie attraverso la formula del
triplice ripudio. Una sposa ‘urfiyya che vuole divorziare da suo marito, invece, ha acquisito solo di
recente il diritto d’intentare una causa di divorzio, grazie ad alcune leggi che rimediano
parzialmente a questi problemi per un “desiderio di umanità verso la sposa”; in passato, infatti, se
l’uomo non aveva intenzione di mettere fine al matrimonio, la donna non poteva sposare
nessun’altro a causa dell’esistenza del vincolo matrimoniale e del divieto che i giudici hanno di
riconoscere i contratti matrimoniali non registrati.
Quali sono, dunque, le principali problematiche che solleva la pratica del matrimonio ‘urfī?
Nelle società musulmane contemporanee, il matrimonio è ancora il più importante evento nella vita
di uomini e donne. Esso è regolato da norme consuetudinarie, religiose, morali e legali che lo
connotano di una complessità molto più vasta di quanto comunemente si crede. Fattori sociali,
economici ed emozionali intervengono nella scelta del congiunto e nella stipulazione del contratto,
mentre l’idea di rimanere celibi per scelta, quasi del tutto sconosciuta e poco incoraggiata, è oggi,
ancor più che nel passato, oggetto di critiche e disprezzo. Ciò perché il matrimonio e la vita
familiare che ne deriva, sono quelle istituzioni che più prevedono il rispetto dei principi morali,
essendo il campo in cui regole e valori sociali esprimono il loro massimo vigore e in cui meglio si
manifesta la pressione dell’etica e delle norme religiose.
Proprio per questo, la definizione del quadro prescrittivo entro i cui limiti il matrimonio assume
sacralità e validità legale, è da rintracciare non solo all’interno dell’intero campo giuridico, quanto
in tutte quelle dinamiche che stanno dietro, o che contribuiscono, alla costruzione e al
mantenimento “dell’ordine”.
Il fatto che il matrimonio ‘urfī, pur avendo tutti i requisiti per essere qualificato valido dalla scienza
giuridica islamica, sia nell’insieme stigmatizzato come una pratica alternativa e deviante, conferma
che il problema non è limitato alla sola questione normativa, ma la trascende per collocarsi oltre.
Nei secoli, l’opinione maggioritaria dei giuristi e dei teologi musulmani sunniti, è stata diretta a
considerare il matrimonio come un dovere religioso, all’interno del cui quadro normativo l’uomo
avrebbe potuto soddisfare i propri naturali bisogni sessuali. Proprio per questo, l’istituto consta di
due parti imprescindibili, quella contrattuale e quella più propriamente rituale e sacramentale, non
necessariamente simultanee. Di conseguenza, la segretezza dell’‘urfī, il suo essere limitato al solo
aspetto formale (senza la mediazione di quelle cerimonie rituali che portano alla sacralizzazione del
rito matrimoniale e alla consumazione) e la sua collocazione al di fuori di tutte le operazioni di
“negoziazione” familiare, compreso l’aspetto economico, fanno in modo che questo tipo di
matrimonio venga associato dall’opinione maggioritaria, a un rapporto sessuale illecito e illegale. In
tal senso, quindi, se è possibile che la scienza giuridica riconosca la validità di tale unione e di un
contratto di matrimonio anche successivo alla consumazione, la pratica sociale considera
inammissibile tale eventualità, perché lontano dall’aspetto rituale e, dunque, sacro.
Il matrimonio consuetudinario, così come attualmente praticato, minaccia i divieti posti dalla
società e, per questo, si presenta e viene percepito come un fenomeno di trasgressione e
degenerazione. Ciò vale in particolar misura oggi, in un momento in cui il processo di “re-
islamizzazione degli spazi”, in atto in tutte le società musulmane da oltre un ventennio, ha
concentrato ogni attenzione sulla decenza (come norma pubblica) e sul pudore (come sentimento
concernente l’ordine del privato). Due aspetti che costituiscono l’essenza stessa del concetto di
morale.
Questo stato di cose, dovrebbe aiutare a mettere sullo sfondo qualsiasi prospettiva esistenzialistica e
monolitica concernente sia lo stato che la sharì‘a, nonché ogni pretesa di spiegazione del sociale, a
partire dalla sua determinazione religiosa, fino alla nozione di “molteplicità di campi normativi” a
disposizione del soggetto nel suo rapporto con la “normatività”. In tal senso, il matrimonio ‘urfī non
dev’essere considerato come un mero elemento di trasgressione rispetto ai vari divieti in materia di
relazione tra sessi, quanto piuttosto la rivendicazione di nuovi diritti all’interno di una società
percepita come anchilosata su norme troppo rigide.
Il fatto che gli stati hanno enormi difficoltà a conciliare queste nuove esigenze, che tollerano
quando non sono troppo “visibili” e reprimono quando si trovano in “calo di legittimità”, significa
lasciar spazio a dei vuoti che il singolo soggetto può colmare secondo delle logiche
individualistiche e spesso tendenti all’illegalità.
Il discorso moralista contro le coppie illegittime, quando si sposta dalla semplice condanna del
comportamento al ritrovamento delle sue cause, ha gioco facile nel continuare la propaganda
nazionalista del “complotto dell’occidente”, prospettando una perdita dei valori dovuta
all’acculturazione o all’adozione di modelli stranieri. La tendenza espressa nel matrimonio ‘urfī di
dare maggiore importanza al consenso, come sintomo di un più accentuato individualismo, è
l’espressione dei mutati rapporti sociali e del declino di alcune forme dell’istituzione familiare.
Mentre l’attaccamento ai valori religiosi, espressi nell’utilizzo di norme provenienti dal diritto
musulmano, può essere letto come un’impossibilità ad uscire, anche solo mentalmente, da dei
canoni riconosciuti come inviolabili e simbolici140
.
2) NIKAH-E MUT’A: IL MATRIMONIO A TERMINE
Il matrimonio a termine era largamente praticato in Arabia nel periodo preislamico, com’è
testimoniato nella più antica biografia di Maometto, in cui si racconta che la bisavola del Profeta
ricorreva spesso e volentieri a questo particolare tipo d’istituto.
La pratica della mut’a rimase in vigore anche nel periodo della storia islamica quando, i sunniti,
ritennero che il Profeta volesse vietarla mentre, gli sciiti, respinsero tale illazione e seguitarono a
ritenerla perfettamente legittima.
140
Sull’argomento, si veda “Il matrimonio ‘urfì in Egitto: elementi per la comprensione di una ‘pratica sociale
dissidente’”, in Jura Gentium, di Costantino Paonessa.
Il matrimonio temporaneo, quindi, è oggi una pratica propria dell’Islam sciita. È un contratto di
matrimonio la cui durata è assoggettata dai contraenti a un termine prefissato, che può variare da un
minuto a 99 anni, stabilito prima che i coniugi concludano il matrimonio. L’uomo (sposato o no) e
la donna non sposata (vergine, divorziata o vedova) possono concordare la durata del rapporto e
l’importo della compensazione spettante alla donna. Un uomo può avere un numero illimitato di
matrimoni temporanei e, contemporaneamente, può avere anche uno o più matrimoni permanenti; la
donna, invece, può essere coinvolta in un solo matrimonio e non ne può contrarre uno nuovo prima
di un determinato periodo d’attesa che segue la fine di quello precedente. Questo tipo di matrimonio
non richiede testimoni e non richiede alcuna registrazione.
La condizione di moglie temporanea è, in genere, tenuta nascosta agli estranei, soprattutto tra i ceti
più popolari dove le tradizioni sono più radicate. Il matrimonio a termine garantisce maggiori
libertà alla donna, rispetto a quelle spettanti ad una moglie “permanente”: ella vive a casa sua, esce
senza chiedere il permesso e può lavorare; l’unico suo dovere, è quello di essere disponibile quando
il marito la cerca!
Negli anni passati, erano soprattutto i motivi finanziari a spingere la donna a contrarre un tale tipo
di matrimonio; oggi come oggi, il matrimonio temporaneo viene utilizzato soprattutto dai giovani
per aggirare tutti i divieti imposti dalle leggi islamiche sui rapporti tra uomini e donne.
Numerose, quindi, sono le caratteristiche che differenziano il matrimonio temporaneo da quello
permanente:
- caratteristica imprescindibile del matrimonio a termine, è la stipulazione di un contratto in
cui vengono fissati la durata e i termini dell’unione;
- per far si che il matrimonio temporaneo sia valido, poi, è necessario stabilire un mahr che il
marito dovrà donare alla sposa;
- non esiste il divorzio. Tra gli sciiti il divorzio è visto come un complesso processo che
coinvolge numerosi mediatori e che prevede un periodo volto a dare alla coppia la
possibilità di riconciliarsi; ciò, naturalmente, non è necessario nel matrimonio a termine, dal
momento che esso non finisce a causa di una disarmonia, ma cessa a causa della scadenza
del contratto;
- il marito può invalidare questo matrimonio anche prima di quanto è stato concordato: in tal
caso, dovrà versare l’intero compenso alla donna se hanno avuto rapporti sessuali; in caso
contrario, dovrà versarle solo metà dell’importo pattuito;
- i coniugi, non sono eredi l’uno dell’altro, ma i figli nati da tale matrimonio ereditano da
entrambi i genitori avendo, davanti alla legge, gli stessi diritti dei figli nati da un matrimonio
permanente;
- il marito è finanziariamente responsabile di eventuali bambini nati dal matrimonio
temporaneo;
- la moglie può uscire di casa senza chiedere il permesso al marito e non è obbligata ad
obbedirgli. Inoltre, l’uomo, non deve farsi necessariamente carico delle spese per il
mantenimento della donna.
3) INNOVAZIONE E PROGRESSO DELLE LEGISLAZIONI STATALI
Il mondo musulmano è una realtà vastissima e disomogenea. Le legislazioni che si sono susseguite
nei vari Paesi hanno adottato norme sociali e di comportamento profondamente diverse da quelle
predicate dalla legge divina, provocando un notevole divario tra quest’ultima e la legge applicata.
In alcuni Paesi, a poco a poco, il diritto statale ha scalzato il monopolio legislativo detenuto dalla
legge sacra e dalla giurisprudenza dei dotti. Il diritto islamico “canonico”, basato e legato al Corano
e alle altre fonti classiche del diritto, ha perso la sua forza organizzativa nella vita pubblica e ha
lasciato ampio spazio al nuovo “stato legislatore”; quest’ultimo, quindi, procede in maniera
autoritaria con la sua produzione normativa e le sue scelte settoriali.
Le maggiori innovazioni nei vari Paesi, sono state apportate dai nuovi Statuti Personali (o Codici di
famiglia). Questi ultimi, regolano il matrimonio e la vita familiare (..prima e più importante cellula
della società islamica) senza tener necessariamente conto dell’antica e tradizionale dottrina
islamica.
Prendendo in considerazione (anche solo) l’area maghrebina e, in particolar modo il Marocco,
l’Algeria e la Tunisia, emergono numerose differenze tra i vari ordinamenti, dovute al percorso
storico di ogni Paese e alle priorità dei singoli legislatori.
Il Marocco, ad esempio, ha fatto un passo in avanti importante verso la modernizzazione del diritto
di famiglia con la riforma della “Mudawana”, la legge marocchina che regola il matrimonio e gli
altri istituti facenti capo al suddetto diritto. Essa è stata riformata nel febbraio 2004 dal Parlamento
del Marocco ed è stata promulgata dal re Mohammed VI, grazie anche alle pressioni dei movimenti
femminili e modernisti del Paese. La nuova Mudawana, ha ricevuto anche il plauso degli attivisti
per la salvaguardia dei diritti umani grazie alle sue innovative riforme sociali. Con un’attenzione
particolare a non offendere il mondo “spirituale” ed a non affermare l’assoluta separazione del
diritto dalla sfera religiosa, essa ha smosso l’ordine prestabilito ed ha gettato le basi per migliorare
la condizione della donna marocchina, che fino a quel momento era una delle più sfavorevoli di
tutto il Maghreb.
La riforma del 2004 ha apportato sostanziali cambiamenti al diritto classico precedente, basato sul
Corano e sulla Sunna, facendo del principio di uguaglianza tra uomo e donna il principale fattore di
rinnovamento ed il punto di partenza di una vera e propria rivoluzione culturale.
Gli articoli più significativi della Mudawana si riferiscono agli aspetti più importanti del
matrimonio e della vita familiare, disciplinandone lo svolgimento.
Innanzitutto, è stato abolito il cosiddetto “matrimonio imposto”: il padre non può più decidere
discrezionalmente del matrimonio della figlia. Talvolta accompagnato da un rito religioso, il
matrimonio è oggi una pubblica dichiarazione preparata da due notai e firmata dai due sposi in
presenza di due testimoni, in forza della quale l’uomo s’impegna a corrispondere una dote (ancora
necessaria) alla donna e a provvedere al suo mantenimento. In tale contratto, gli sposi possono
inserire le clausole che più desiderano applicare.
Rimangano ancora validi alcuni impedimenti matrimoniali, tra i quali, quello inerente alla disparità
di religione: è nullo il matrimonio fra una donna musulmana ed un non musulmano (anche se
cristiano o ebreo); è possibile, invece, l’unione tra un uomo musulmano e una donna di religione
ebrea o cristiana.
All’interno del rapporto matrimoniale, la donna è sempre assoggettata (...anche se in misura minore
rispetto al passato) alla direzione del marito; quest’ultimo, ha potere correzionale ed ha diritto di
decidere se e quali persone potrà frequentare sua moglie (al di fuori dei parenti stretti). L’unica vera
autonomia della donna è quella patrimoniale: ella, infatti, può gestire il suo patrimonio personale e
la dote che riceve dal marito.
La poligamia, pur rimanendo autorizzata, diviene più difficile da praticare. La donna ha il diritto
d’includere nel contratto matrimoniale la condizione per cui il marito dovrà astenersi dal prendere
con sé altre mogli. Tale pratica, inoltre, dev’essere espressamente autorizzata da un giudice e può
essere concessa solo in determinati casi:
- quando c’è una giustificazione eccezionale ed obiettiva;
- quando la prima moglie da il suo consenso;
- quando l’uomo ha sufficienti risorse per sostenere le varie famiglie e garantire tutti i loro
diritti.
Persiste l’istituto del ripudio anche se, con la revisione del codice, è stata introdotta la possibilità
per la donna di richiedere il divorzio giudiziale quando sono presenti i seguenti motivi:
- mancato mantenimento;
- malattie non dichiarate;
- sevizie fisiche (solo se provate e solo in seguito ad un tentativo di conciliazione);
- abbandono del tetto coniugale.
Di molto poco rispetto al periodo pre-revisione, invece, è cambiata la situazione femminile per
quanto riguarda la custodia ed il diritto ad educare i figli. Qualche “privilegio” in più è stato
riconosciuto alla madre ma, nel complesso, il potere del padre nei confronti dei figli rimane
prevalente e dominante.
L’Algeria ha una legislazione ed una situazione decisamente diversa. Essa ha deciso di abolire il
matrimonio imposto ma, allo stesso tempo, lo consente nei casi in cui si teme una cattiva condotta
da parte della ragazza.
Il matrimonio può essere celebrato solo con rito religioso e non dev’essere notificato alle autorità
civili.
La dote è ancora necessaria e le donne possono chiedere d’inserire nel contratto tutte le clausole che
non sono in contrasto con la legge islamica; ciò, permette alle mogli di avere voce in capitolo sugli
aspetti fondamentali della vita coniugale e familiare.
Non sono ammessi matrimoni misti, se non quelli tra un uomo musulmano e una donna ebrea o
cristiana; non è possibile il contrario, né sono possibili unioni tra persone appartenenti a religioni
diverse da quelle rivelate.
La tutela dei figli spetta al padre e, la sua patria potestà, non è mai messa in discussione.
L’istituto della poligamia è ancora previsto mentre, il ripudio, è stato abolito a livello legislativo ma
continua, di fatto, ad essere praticato.
Nel codice algerino, infine, si parla di divorzio giudiziale consensuale o per iniziativa del marito. La
donna può chiedere il divorzio solo per motivi di grave comportamento immorale dell’uomo che,
stranamente, si verificano molto di rado.
Il diritto tunisino della famiglia è sicuramente uno degli esempi maggiori di modernità all’interno
dei Paesi arabo-musulmani. Il legislatore non ha proceduto semplicemente a codificare il diritto, ma
ha agito sul contenuto dello stesso, modernizzandolo attraverso una nuova lettura della shari’a.
Sono stati utilizzati due diversi metodi per favorire l’evoluzione del diritto: il metodo “religioso” e
il metodo “giuridico”. Il primo prevede un ritorno alle fonti e, in particolare, al Corano; attraverso
tale tecnica viene salvaguardata la religione e, al tempo stesso, si dimostra che è possibile adeguare
i grandi principi dell’Islam agli imperativi della vita moderna. Il metodo giuridico, invece, compara
la natura degli Stati nuovi con quella degli Stati antichi. Questi ultimi erano religiosi e
rappresentavano una comunità di soli musulmani. Lo stato moderno e nazionale, invece, riunisce
cittadini musulmani e non musulmani, è sovrano ed è legittimato a promulgare leggi al fine di
risolvere i problemi sociali, senza entrare nella sfera religiosa. Una volta ultimato il codice, il
legislatore ha introdotto nuove istituzioni non riconosciute dal diritto musulmano, modernizzando
ulteriormente il sistema. Quando, poi, le esigenze di modernità sono risultate incompatibili con le
esigenze religiose, il legislatore ha optato per il silenzio, non indicando alcuna soluzione
prestabilita. In questo modo, ha lasciato ampia libertà alla giurisprudenza, permettendole
d’interpretare tale silenzio come un semplice rinvio alla shari’a, oppure, di utilizzarlo come mezzo
di evoluzione della normativa anche se in contraddizione con la regola religiosa. Le disposizioni
che hanno attribuito allo Statuto personale tunisino la qualifica di codice moderno, sono numerose.
In primo luogo, è stato abolito il matrimonio imposto ed è stata prevista una condizione
fondamentale per la conclusione del contratto stesso: il consenso esplicito dei due coniugi, che
devono essere necessariamente puberi. È stata abolita anche l’obbligatorietà del consenso di un
tutore al matrimonio per le donne maggiorenni mentre, la dote, rimane ancora necessaria.
Il codice tunisino tace sulla possibilità di effettuare matrimoni misti tra persone di religione diversa
ma, di fatto, non si fanno e vengono accettati solo se celebrati all’estero.
La legislazione tunisina risulta essere più esplicita e moderna per quel che riguarda i rapporti
genitori-figli, stabilendo che la tutela dei figli dev’essere ugualmente ripartita tra madre e padre; la
donna, inoltre, può impugnare la patria potestà dell’uomo inadempiente nei confronti dei figli dopo
il divorzio.
La poligamia è stata vietata ed è perseguita penalmente; anche il ripudio è stato abolito ed è prevista
l’uguaglianza tra uomini e donne per la richiesta di divorzio. Quest’ultimo, dev’essere preceduto
necessariamente da un tentativo di conciliazione ed è diventato, in tutto e per tutto, giudiziario. Esso
può essere richiesto indifferentemente da uno dei due coniugi, per:
- danno;
- reciproco consenso;
- senza motivo, “per capriccio”.
Il diritto di famiglia tunisino, quindi, occupa un posto particolare nel mondo arabo-musulmano e ne
costituisce, per certi aspetti, un esemplare unico.
Esso, tuttavia, non è esente da alcuni problemi, come quelli derivanti dall’attuazione delle norme e
dalla corretta esecuzione delle nuove disposizioni. Queste ultime, inoltre, non sono state recepite da
tutti i gruppi sociali della popolazione, impedendo una reale trasformazione.
È ancora necessario, quindi, che le acquisizioni del legislatore e i valori a cui s’ispirano siano
assimilati dalla società, nella loro interezza: a tal fine, è necessario che la collettività abbia il tempo
di assorbire e far propri tali principi e che, la stessa, sia messa in condizione di farlo mediante
strutture adeguate e un sistema educativo efficiente, capace di far evolvere le mentalità e l’intera
società141
.
In conclusione ed in generale, quindi, il passaggio dalla famiglia “patriarcale” alla famiglia
“coniugale” si è realizzato esclusivamente in alcuni Paesi e solo parzialmente sul piano giuridico, in
quanto il nucleo familiare è tuttora ancorato a ruoli ben definiti, in funzione del sesso e dell’età.
141
Sull’argomento, si vedano gli articoli: “Matrimonio e diritto di famiglia nell’Islam”, a cura delle prof.sse Perlotto
Anna e Maraschin Cinzia; “La donna in Tunisia: il codice di statuto personale tra modernità e tradizione”, a cura di
Cristina Caputo.
CONCLUSIONI
Le questioni e i meccanismi riguardanti il diritto di famiglia degli ordinamenti musulmani e, in
particolare, il matrimonio islamico, riescono ad interessare ed entusiasmare per la particolarità delle
loro disposizioni.
A prescindere dal livello di gradimento che ognuno ha (o può avere) nei confronti della cultura e
delle tradizioni di questa società, è innegabile che ci siano delle peculiarità interessanti da studiare
ed analizzare.
Ciò che ha spinto, me, ad intraprendere questo tortuoso viaggio alla scoperta di una parte
fondamentale del mondo islamico, non è stato un innamoramento per l’universo orientale, ma lo
scetticismo e lo stupore che mi hanno invasa quando ho seguito ed ascoltato alcuni “insegnamenti”
su questo argomento.
Le riflessioni che seguirono avevano un unico comune denominatore: incredulità ed amarezza! La
comprensibile (credo) incredulità di una ragazza “occidentale”, che ancora idealizza il matrimonio,
nel sentir parlare di curatore matrimoniale, dono nuziale, ripudio e cose del genere…!
Com’è possibile, mi chiedevo, che nel XXI secolo ci siano ancora parti del mondo in cui una
ragazza può essere obbligata dal padre (o da un suo parete maschio) a sposarsi, magari con un
“vecchio” del doppio dei suoi anni che ha già altre mogli a carico e numerosi figli che educa a suo
piacimento?! Perché, poi, per contratto una donna deve obbedire ai voleri e ai piaceri del marito,
senza battere ciglio??? E per quale ragione, un uomo, ha il diritto di ripudiare più volte la donna che
ha deciso di sposare?!
Queste, erano solo alcune delle domande che mi frullavano in testa e che mi hanno spinta a studiare
una cultura e un contesto che mi sembravano molto lontani dalla nostra quotidianità. Una realtà (la
loro) molto legata, per definizione e tradizione, alla famiglia ma che allo stesso tempo considera
uno dei suoi componenti, la donna, inferiore rispetto alla parte maschile della stessa. Una società
che ancora considera il Corano, legge divina per eccellenza, la principale fonte del diritto,
ritenendolo in grado di regolare gli ambiti più importanti della vita umana.
Con numerosi pregiudizi, quindi, ho intrapreso il mio percorso di ricerca e ho scoperto una nuova
concezione di matrimonio, lontana dalla nostra idea di sacramento e da ogni tipo di spiritualità. Ho
scoperto un sistema preciso e puntuale che disciplina puntigliosamente tutti gli aspetti di questo
“contratto”: i vari soggetti, l’oggetto, gli impedimenti e perfino i rapporti che devono intercorrere
tra marito e moglie; un sistema che prevede e disciplina anche lo scioglimento dell’unione e le varie
conseguenze della separazione.
Ma, mi sono anche accorta che qualcosa sta cambiando e che, alcuni Stati stanno cercando di
eliminare o limitare pratiche obsolete e criticate da fasce rilevanti della popolazione. Molteplici
diritti sono stati riconosciuti dalle recenti codificazioni alle donne, sia in quanto tali, sia in quanto
mogli.
Numerose, ancora, sono le pratiche arcaiche che (a mio avviso) andrebbero eliminate o
ridimensionate; ad ogni modo, mi piace sottolineare che più di qualcosa è stato fatto e che la
macchina del rinnovamento si è già messa in movimento.
Riguardo ai miei preconcetti e ai miei pregiudizi sull’argomento, non posso dire di aver cambiato
idea; ho provato, però, a guardare l’intera faccenda da un altro punto di vista, il loro, e ritengo di
non poter dare un giudizio severo e negativo sulle tradizioni e sulla storia millenaria di un popolo.
In fondo, e senza andare troppo lontano, in “casa nostra” ci sono tante di quelle incongruenze e
contraddizioni da far impallidire anche la più attiva tra le femministe e il più moderno tra gli
occidentali!
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