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Università degli Studi di Padova
General Course diritti umani e inclusione
IL SISTEMA DI ACCOGLIENZA ITALIANO E INCLUSIONE
La migrazione: non un’emergenza, ma un diritto umano inalienabile
Componenti:
Elena Brusadelli – 1146252 - SRD
Tiziana Munzone – 1144442 - SRD
Eloisa Pantano – 1148287 – SRD
A.A. 2017-2018
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INDICE
Introduzione
1. Storia delle migrazioni
1.1. Da sempre mobili
1.2. Medioevo
1.3. Colonialismo
1.4. Si va in America (e non solo)
1.5. Prima Guerra Mondiale e Seconda Guerra Mondiale
1.6. Si arriva in Europa
1.7. Si arriva in Italia
1.8. Conclusione
2. Sviluppo storico della normativa internazionale, europea ed italiana
in materia di asilo e rifugiati
2.1. L a creazione del sistema internazionale dei rifugiati
2.1.1.Prima fase / 2.1.2.Seconda fase
2.2. La creazione del Sistema Comune Europeo di Asilo
2.2.1. I presupposti per la creazione del Sistema Comune Europeo di
Asilo / 2.2.2. Prima fase del Sistema Comune Europeo di Asilo:
dal 1999 al 2005 / 2.2.3. Seconda fase del Sistema Comune
Europeo di Asilo: dal 2007
3. La normativa internazionale, europea e italiana in materia di
migrazione e di asilo 3.1. Piano internazionale: UNHCR, Convenzione di Ginevra del
1951, e Protocollo del 1967
3.2. Piano europeo: il Trattato di Schengen, il Trattato di Maastricht,
il Trattato di Lisbona e il sistema di Dublino
3.3. Piano nazionale: Italia, normative e politiche migratorie
4. Il sistema di accoglienza nazionale
4.1. Protezione internazionale
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4.2. Iter per il riconoscimento della Protezione internazionale in Italia
4.2.1. Fasi dell’accoglienza
4.3. Un’accoglienza mancata
5. Il nostro progetto per un sistema di accoglienza inclusivo
5.1. Dalla migrazione come sofferenza alla mobilità come diritto
umano inalienabile
5.2. Introduzione al progetto
5.3. Un progetto di multilevel governance
5.4. Un sistema di accoglienza umano e inclusivo nel territorio
italiano
Riferimenti bibliografici
4
INTRODUZIONE
Il tema da noi scelto ovvero quello della migrazione, della richiesta d’asilo
e dei sistemi d’accoglienza, è un tema ampiamente discusso e sviluppato
da politici, ambientalisti, ricercatori, diplomatici che attraverso i più svariati
mezzi di comunicazione riportano notizie alle persone. Vi è una
conoscenza capillarmente diffusa a tal proposito che si forma però, nella
maggior parte dei casi, dall'indifferenza e dal sentimento di odio e astio nei
confronti del diverso. Viene così a crearsi una cultura di massa che porta
le persone a dimenticarsi o a non vedere nei migranti a loro volta uomini,
donne e bambini. Proprio per questa situazione abbiamo deciso di
elaborare questo progetto al fine di includere i migranti in maniera, per
l'appunto, umana nei nostri territori. Le linee cardine che ci hanno
orientato nella elaborazione del nostro lavoro possono essere riassunte
nei concetti di eguaglianza, libertà e dignità che devono caratterizzare il
percorso e lo stanziamento delle persone che arrivano. Proponiamo quindi
metodi inclusivi per migliorare le condizioni dei beneficiari in un’ottica di
solidarietà e complicità tra persone di diversa cultura, lingua, religione ma
pur sempre uomini.
Elena, Eloisa e Tiziana
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1. STORIA DELLE MIGRAZIONI
Da sempre l’umanità si muove. Nella storia si contano talmente tanti flussi,
che non è possibile considerare la migrazione un fenomeno solo
contemporaneo. Abbiamo deciso di iniziare il nostro elaborato con un
breve excursus della storia delle migrazioni, perché questo ci permette di
acquisire una consapevolezza più completa e lungimirante del fenomeno.
Ci fornisce quelle “lenti” capaci di farci leggere il presente con una visione
più lucida e meno emotiva. Abbiamo deciso di analizzare la storia delle
migrazioni limitatamente all’Europa, perché ci riguarda più da vicino e
perché questo breve elaborato non sarebbe sufficiente per trattare
adeguatamente la storia di tutti i flussi migratori avvenuti nel mondo.
1.1. Da sempre mobili
Gli uomini, fin dall’inizio della loro lunga storia iniziata alcuni milioni di anni
fa, hanno sempre manifestato una forte propensione alla mobilità per
ristabilire equilibri tra risorse e popolazione, spesso messi in crisi da eventi
naturali o da trasformazioni strutturali. La mobilità geografica è dunque un
fenomeno fisiologico delle società umane e funzionale all’equilibrio
sociale.
La terra madre della nostra specie è stata l’Africa, dalla quale iniziò la
prima migrazione umana. I ricercatori identificano lo stretto di Bab-el-
Mandeb sul Mar Rosso come il punto di partenza più probabile. Questo
stretto specchio d'acqua tra il Corno d'Africa e la penisola arabica offriva la
via più breve per i nuovi continenti.
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Figura 1: La diffusione del genere umano sulla Terra
Nell’antichità (X-VIII millennio A.C.), nonostante inizia a svilupparsi
l’agricoltura in alcune zone del mondo, molte popolazioni rimangono mobili
alla ricerca di terre più fertili o dove la cacciagione sia più abbondante.
Figura 2: domini dell’Impero Romano nel 117 D.C
Con diverse gradazioni
d’intensità, già nel
mondo greco-romano si
può riscontrare tutta la
tipologia e la
problematicità dei
movimenti di migrazioni
presenti nell’età
moderna e contemporanea, cioè correnti migratorie dovute a cause
demografiche, economiche, politiche, religiose e anche di svago. Basti
pensare all’urbanesimo sviluppato dai romani, agli stabilimenti commerciali
mediterranei dei greci, all’arruolamento di uomini a Roma e altrove, alla
dispersione della comunità cristiana di Gerusalemme dopo il martirio di
Stefano (33 d. C.), ai pellegrinaggi a Delfi, all’accorrere periodico di folle
da ogni parte dell’Ellade a Olimpia per assistere ai Giochi e alla diaspora
successiva alla distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte
dell’Imperatore Tito (70 d.C.). La diaspora ci offre l’esempio di
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un’emigrazione di massa che si trasforma in immigrazione individuale e
che implica, già nella Roma imperiale, il problema dell’assimilazione degli
ebrei.
Ricostruire la storia delle migrazioni diventa più facile a partire dalle
migrazioni dell’evo antico e dell’età di mezzo: avvengono movimenti di
popolazioni nomadi e contemporaneamente hanno inizio i trasferimenti
per via marittima. L’esempio più imponente è dato da quell’insieme di
spostamenti, avvenuto tra il sec. II a.C. e il XIII d.C., che prende il nome di
invasioni barbariche. In questo periodo si hanno casi di espulsione in
massa delle popolazioni preesistenti (come quella dei britannici a opera
dei germani e dei franchi dai sassoni) e di fusioni o almeno unioni
simboliche (ad esempio normanni in Italia meridionale e crociati in Terra
Santa).
1.2. Medioevo
Durante il Medioevo, la mobilità transnazionale è molto diffusa: non solo
perché ci sono tantissimi pellegrini che si muovono per tutta l’Europa per
recarsi ai luoghi di culto, ma anche perché c’è una importante presenza di
vagabondi ed emarginati
che si spostano attraverso
i territori del continente,
mantenendo attiva la
pratica cristiana della
carità.
Figura 3: via Francigena, cartografia
storica
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La società medievale è fondata sull’agricoltura e sulla proprietà terriera e
dunque la sedentarietà diventa un valore, mentre nel concetto stesso di
viaggio è insito un elemento di emarginazione; emarginazione che i
vagabondi e i viandanti iniziano a subire anche in termini legislativi,
iniziando ad essere definiti “banditi”, ossia persone colpite da un bando
che limita la loro libertà di movimento.
Dal Medioevo il movimento delle persone diventa qualcosa che occorre
controllare e limitare e lo straniero viene emarginato dalla società.
La curiosità dell’uomo, però, alimenta la voglia di muoversi alla ricerca di
nuovi luoghi, o di nuove strade per raggiungere luoghi già noti. È grazie a
questa innata propensione umana allo spostamento che si è resa
possibile una “scoperta” geografica di importanza cruciale per la storia di
tutti noi: l’America.
1.3. Colonialismo
Con la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo (1492),
prende il via il colonialismo, definito come l'espansione di una nazione su
territori all’esterno dei suoi confini a danni di popoli ritenuti arretrati o
selvaggi, spesso per facilitare il dominio economico sulle risorse.
La storia della colonizzazione incorpora in questo periodo gran parte della
storia delle migrazioni.
Già dal Cinquecento, e poi con maggior frequenza dal Seicento, sempre
più europei – si stima che migrarono circa 50-55 milioni di persone –
decidono di lasciare il proprio paese e di dirigersi verso nuove terre in
cerca di maggior fortuna: Sud America (spagnoli e portoghesi), Nord
America (olandesi, inglesi e francesi), Africa (olandesi, inglesi, francesi,
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tedeschi e, in seguito, italiani) e Medio ed Estremo Oriente (olandesi,
francesi e inglesi) (Hoerder, 2002).
Figura 4: Assetto territoriale dell’Imperialismo europeo
Inizialmente lasciano il vecchio continente gli avventurieri, poi si consolida
quello che le scienze storiche e sociali hanno battezzato il modello delle
tre M: mercanti, missionari e militari. In seguito, le nuove terre diventano
meta anche di persone condannate e di ricercati. Il colonialismo si rivela
devastante per le popolazioni locali che vengono sterminate e rese
schiave dei coloni. Addirittura, molte popolazioni africane sono deportate
come manodopera a basso prezzo o schiavizzate, ciò fino al 1807, anno
in cui la Gran Bretagna dichiara illegale la tratta. Si calcola che vengono
deportati nel Nuovo Continente circa 11 milioni di schiavi africani,
generando un connubio, ancora oggi spesso rintracciabile, fra migrazioni
forzate e condizioni di schiavitù o servitù, che rappresenta la pagina più
nera della storia delle migrazioni (Curtin, 1969).
Alla fine dell’800 inizia una “febbre coloniale”: le potenze europee hanno
come obiettivo la costruzione di imperi coloniali. Questo sviluppo del
colonialismo diventa vero e proprio imperialismo: se prima sono i privati ad
occuparsene, ora la nuova espansione viene assunta come obiettivo da
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parte dei governi. È in questo periodo che vengono tracciati i confini a
tavolino, spesso irrispettosi della storia culturale-politica-sociale di quei
territori (e popoli) colonizzati, imponendo la cultura europea e creando una
dipendenza economica che ancora oggi lascia le sue tracce, anche se
questo processo finisce formalmente con la decolonizzazione della
seconda metà del Novecento.
1.4. Si va in America (e non solo)
L’esplosione demografica della popolazione europea e la rivoluzione
industriale, che rende “eccedentarie masse di lavoratori”, soprattutto nelle
zone rurali, spingono molti europei a emigrare verso le colonie “in cerca di
fortuna”. I fattori di attrazione dei paesi di destinazione sono: disponibilità
di terra e di spazio, domanda di lavoro dalle società emergenti e salari
reali alti. Questa migrazione fu possibile anche grazie al miglioramento dei
mezzi di trasporto e alla conseguente riduzione dei costi del loro utilizzo.
Fino al Settecento, si contano solo 8 milioni di europei in America.
La grande migrazione europea inizia a metà Ottocento. Secondo due
studiosi, Hatton e Williamson, 60 milioni di europei emigrano tra il 1820 e il
1940, con una frequenza che supera il milione di persone l’anno nei primi
vent’anni del Novecento. La maggior parte di loro emigra verso gli Stati
Uniti, ma tanti altri si dirigono verso l’America del Sud (soprattutto in
Argentina e Brasile), il Canada, l’Australia e, in percentuale minore,
l’Africa.
Figura 4: Destinazioni piò quotate durante la grande migrazione europea, 1846-1932
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Figura 5: Emigrazione dall’Europa, 1846 – 1924. Fonte: Hatton e Williamson, 2005
Figura 6: Espatri transoceanici medui annui (in migliaia) da quattro Paesi europei, 1851-1950.
Questa grande migrazione, avvenuta a cavallo tra Ottocento e Novecento,
ha come obiettivi non solo l’America, ma anche il centro Europa.
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Figura 7: Andamento degli espatri rispetto alla destinazione. Italia, 1876-1914.
Tra il 1846 e il 1932 sono ben11 milioni gli italiani che decidono di
espatriare, diretti principalmente verso gli Stati Uniti, l’America del Sud (in
particolare in Brasile e in Argentina), il Canada, l’Australia e l’Europa, in
particolare in Francia e Germania. Successivamente molti italiani
emigrano anche in Africa: nelle colonie italiane della Libia e del Corno
D’Africa, ma anche in Egitto, Tunisia e Marocco. Durante questo periodo,
il tasso di emigrazione dell’Italia è altissimo, ben 108 persone ogni mille
abitanti decidono di partire, sempre secondo quanto riportato da Hatton e
Williamson.
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1.5. Prima Guerra Mondiale e Seconda Guerra
Mondiale
Le due Guerre Mondiali producono milioni di sfollati: il fenomeno
migratorio non è più un fenomeno fisiologico delle popolazioni umane, ma
una drammatica emergenza da affrontare.
Il primo conflitto mondiale modifica profondamente le correnti migratorie
volontarie, permanenti o temporanee, intereuropee. La Francia e la
Germania restano i grandi paesi di immigrazione, seguiti da Belgio e dalla
Svizzera. Mentre la Russia perde ogni rilievo come paese di emigrazione,
per le restrizioni adottate dal governo sovietico e per l’industrializzazione
interna. È in questo particolare frangente storico che sono avviati i primi
sforzi internazionali in materia di migrazione (ad esempio la Conferenza
dei paesi d’emigrazione a Roma nel 1921 e la creazione dell’Alta
Commissione per i Rifugiati nel 1921).
Ma è soprattutto con la Seconda Guerra Mondiale che nasce una nuova
figura di migrante: il profugo (dal latino profugere: “fuggire via), persona
costretta ad allontanarsi dalla propria patria per diverse ragioni come
guerra, invasioni, rivolte, fame o catastrofi naturali e cercare quindi rifugio
altrove. In questo caso il profugo è il profugo ebreo che deve scappare dal
delirio nazista, ma anche il profugo russo che scappa dallo stalinismo o il
profugo spagnolo che fugge dalla dittatura franchista. Si stima che,
durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e i successivi, attorno ai
20 milioni di individui dovettero lasciare i rispettivi paesi di origine e
diventare così dei profughi.
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Figura 8: Migranti in fuga da Parigi che sta per essere invasa dai nazisti, 1940
Per far fronte a questa drammatica situazione, il 14 dicembre 1950
l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituisce l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e il 28 luglio del 1951 viene
adottata la Convenzione di Ginevra che introduce la figura giuridica del
rifugiato (dal latino refugire: “rifuggire”), individuo che “nel giustificato
timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua
cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le
sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la
cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la
protezione di detto Stato”.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le difficoltà economiche
condivise da tutti i paesi europei, e la stretta americana sulle politiche in
materia di migrazioni, indirizzano le correnti migratorie verso altre
destinazioni: in America Meridionale (dove i paesi privilegiati sono
l'Argentina e successivamente il Venezuela), in America Settentrionale (il
Canada), e in Australia, che era stata fino ad allora una destinazione del
tutto secondaria.
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Figura 9: I picchi dell’emigrazione italiana per principali destinazioni (1946-1990).
1.6. Si arriva in Europa
Il boom economico degli anni Sessanta in Europa del centro e del nord
richiede manodopera e ciò determina una migrazione da parte di persone
del sud Europa e di lavoratori extraeuropei. Per dare un’idea, la forza
lavoro straniera in Germania passa dallo 0,6% del 1957 all’11,2% del
1972 (Bettin e Cela, 2014).
La crisi economica mondiale, conseguente alla crisi del petrolio del 1973,
vede costretti i paesi del centro e nord Europa a limitare i flussi migratori
sud-nord.
Con il crollo dei regimi comunisti negli anni Ottanta si apre un nuovo flusso
migratorio da est a ovest. Più di un milione di persone emigrano solo nel
1989. Ciò prosegue per tutti gli anni Novanta, anche a causa del conflitto
che imperversa in ex Jugoslavia. Con l’ingresso nell’Unione Europea di 8
paesi dell’est (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca,
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Slovacchia, Slovenia e Ungheria) nel 2004 e due (Romania e Bulgaria) nel
2007, gli spostamenti lungo questo asse diventano ancora più facili.
Intanto, anche i flussi proveniente da Africa, Asia e Sud America
diventano sempre più consistenti. Tutto ciò, secondo i dati Eurostat, fa sì
che la popolazione straniera residente in Europa passi dai circa 2 milioni
del 1998 ai 37 milioni del 2016 (nel dato sono inclusi i cittadini europei che
vivono in un paese europeo diverso da quello d’origine).
1.7. Si arriva in Italia
Dagli anni Settanta l’Italia diventa una meta attraente per persone che
migrano per migliorare il proprio status economico: in generale si tratta di
migranti che partono soli e mandano parte dei guadagni alle famiglie
rimaste nel Paese d’origine.
È negli anni Ottanta che nascono professioni come le colf o i venditori
ambulanti, spesso esercitati da donne filippine o sudamericane e da
senegalesi o marocchini. I tunisini preferiscono svolgere il lavoro di
pescatori, mentre i primi migranti dell’Africa subsahariana sono impiegati
nel lavoro dei campi.
Con la caduta del muro di Berlino, iniziano ad arrivare persone dell’est
Europa, soprattutto albanesi e più tardi i rumeni. Ormai l’immigrazione
diventa un fenomeno fisiologico del nostro Paese.
Negli anni duemila, a causa della crisi economica, l’immigrazione viene
sentita come un fattore che impoverisce ulteriormente l’Italia. In questo
periodo l’Italia inizia ad essere anche solo terra di transito verso altri Stati
europei o per far ritorno al paese d’origine.
Negli ultimi cinque anni, il flusso di ingressi per motivi lavorativi è
fortemente diminuito, ma è aumentato molto quello dei richiedenti asilo,
che arrivano via mare sulle nostre coste.
Si calcola, che solo negli ultimi due anni sono sbarcate circa 350.000
persone, anche se questo fenomeno sta iniziando a ridursi.
17
Fonte: Ministero dell’Interno, Italia, 2018
Figura 10: Comparazione migranti sbarcati negli anno 2016/2017.
1.8. Conclusione
La mobilità è un fattore intrinseco (possiamo anche dire biologico-
istintuale), che da sempre ha caratterizzato l’Umanità.
Per comprendere i flussi migratori dobbiamo capire il contesto, come si
evidenzia da questo breve excursus sulla storia della migrazione. La
mobilità non è quindi un fenomeno casuale (ed emotivo), ma dipende da
precisi rapporti di potere, scelte politiche ed economiche.
Due eventi storici sono i principali fattori dell’attuale fenomeno migratorio
in Europa: in primo luogo, il colonialismo-imperialismo e guerre mosse da
interessi esterni a quelli locali hanno impoverito a tal punto quei Paesi da
costringere ora le persone a lasciarli; secondariamente, l’economia dei
“Paesi Sviluppati” ha bisogno di migranti vulnerabili, disposti a lavorare a
basso costo.
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2. SVILUPPO STORICO DELLA NORMATIVA
INTERNAZIONALE, EUROPEA ED ITALIANA
IN MATERIA DI ASILO E RIFUGIATI
L’interesse suscitato dal fenomeno migratorio si riflette in una serie di
conferenze, d’accordi, di trattati internazionali e nell’istituzione di
organismi permanenti. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIT,
ILO) tratta la materia in periodiche conferenze a partire dal 1919, così la
Commissione internazionale di emigrazione (Ginevra, 1921), la
Conferenza dei paesi d’emigrazione (Roma, 1921) e immigrazione (Parigi,
1923), la Conferenza internazionale d’emigrazione (Roma, 1924) e
immigrazione (Savona, 1928), il Comitato permanente dell’emigrazione
(Ginevra, 1925), la Conferenza internazionale degli statistici
dell’emigrazione. Inoltre, è in seguito alla Prima Guerra Mondiale,
producendo milioni di sfollati e migranti, che inizia a svilupparsi il sistema
internazionale dei rifugiati e dei richiedenti asilo.
Il concetto di asilo, nonostante fosse presente anche nelle tradizioni di
molti popoli fin dall’antichità (ad esempio nel medioevo Chiese e Conventi
erano luoghi deputati ad accogliere e proteggere i perseguitati a causa
della giustizia, beneficiando di diritto d’asilo), viene riconosciuto a livello
giuridico in questo particolare e drammatico frangente storico.
La Seconda Guerra Mondiale produce un numero di profughi, sfollati e
rifugiati senza precedenti. Per la Comunità internazionale diventa un
obbligo occuparsene e così viene fondato l’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati il 14 dicembre 1950, agenzia delle Nazione
Unite che svolge il ruolo di controllo della Convenzione di Ginevra sullo
status dei rifugiati del 1951 e del protocollo del 1967. L’Unione Europea,
nel 1999, ha iniziato un percorso per creare una politica europea comune
in materia d’asilo, chiamato Sistema Europeo di Asilo. La normativa
italiana manca di una legge organica riguardante la richiesta d’Asilo e di
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migrazione in senso più ampio. È necessario provvedere a tale proposito,
in quanto materia sempre più attuale ed imprescindibile.
2.1. La creazione del sistema internazionale dei rifugiati
L’attuale sistema internazionale in materia di rifugiati e richiedenti asilo è il
risultato di un processo iniziato a partire dalla Prima Guerra Mondiale e
che si è sviluppato in due fasi, portando alla istituzione di una serie di
organizzazioni e accordi interazionali, tra cui l’Agenzia dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
2.1.1. Prima fase
Con la fine della Prima Guerra Mondiale inizia la prima fase per la
creazione di un sistema internazionale a supporto dei rifugiati. I trattati di
Pace, stipulati nella Conferenza di Parigi del 1919, ridefiniscono
completamente la mappa d’Europa. Ad alcuni gruppi etnici-nazionali,
come gli Armeni o i Curdi, non viene garantita una sistemazione
geografica indipendente, con drammatiche conseguenze a livello
umanitario. Si calcola che il genocidio armeno causò circa 1,5 milioni di
morti.
Figura 11: I "quattro grandi"
alla Conferenza di pace di
Parigi (da sinistra a destra:
Lloyd George, Vittorio
Emanuele Orlando, Georges
Clemenceau, Woodrow
Wilson), 1919
20
Il primo passo per una legislazione in materia di rifugiati è l’istituzione
dell’Alta Commissione per i Rifugiati, il 27 giugno 1921, da parte della
Società delle Nazioni, guidata da Fridtjof Nansen. Il diplomatico
norvegese, Premio Nobel per la pace nel 1922, si occupò dal 1921 al
1929 dei rifugiati russi, armeni e greci, adottando, tra l’altro, il passaporto
Nansen, primo esempio di documento di viaggio internazionale per i
rifugiati. Le funzioni di questa organizzazione erano prevalentemente la
promozione e il coordinamento di azioni focalizzate al rimpatrio e
all'assistenza di determinati gruppi di persone. La figura del rifugiato è, in
questo periodo, un individuo che ha diritto a protezione solo se
appartenente ad un determinato gruppo o nazionalità.
Successivamente sono istituiti altri organismi internazionali che si
occupano di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati, tra cui: l'Ufficio
Internazionale Nansen per i Rifugiati, creato nel 1930 dalla Società delle
Nazioni, con il compito di facilitare il coordinamento delle attività di
supporto ai rifugiati; l'Ufficio dell'Alto Commissario per i Rifugiati dalla
Germania, istituito dalla Società delle Nazioni nel 1936, che aiuta gli ebrei
provenienti dalla Germania nazista a trovare un reinsediamento in Europa;
il Comitato Intergovernativo per i Rifugiati, creato su iniziativa del
Presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt nel 1938, con l’obiettivo
di sostenere quanti volessero scappare dai territori occupati dalla
Germania.
L’Ufficio Internazionale Nansen per i Rifugiati e l'Ufficio dell'Alto
Commissario per i Rifugiati dalla Germania vengono accorpati in un unico
organismo, l'Alto Commissario della Società delle Nazioni, il 1° gennaio
1939 con sede a Londra.
Il conflitto, durato dal 1939 al 1945, segna una pausa nell’attività
internazionale sull’argomento. Cessate le ostilità, il nuovo rigoglio delle
correnti di migrazioni, volontarie o no, poste in movimento dalle ostilità,
ripropone con rinnovato interesse la questione all’attenzione dei governi.
21
La Seconda Guerra Mondiale causa un numero di profughi, sfollati e
rifugiati senza precedenti, stimabile attorno ai 20 milioni di individui.
Per far fronte a questa drammatica situazione nel 1943 la Comunità
internazionale istituisce l'Amministrazione delle Nazioni Unite per
l'assistenza e la riabilitazione (UNRRA), a guida statunitense, concepita
per affrontare la prima fase dell'emergenza umanitaria. L'UNRRA viene
sostituita nel 1947 dall'Organizzazione Internazionale per i Rifugiati (IRO),
chiamata a risolvere i problemi più urgenti relativi ai rifugiati, tra cui il
rimpatrio degli sfollati provenienti dal blocco comunista e il loro
reinsediamento in paesi di nuova accoglienza. Nel 1951 l'IRO cessa la sua
attività e le sue funzioni vengono affidate al Comitato Intergovernativo per
le Migrazioni Europee (CIME), divenuto nel 1989 l'attuale Organizzazione
Internazionale per le Migrazioni (OIM).
Figura 12: Missione per gli europei provenienti dai campi di concentramento dell’Organizzazione Internazionale
per i Rifugiati, 1951
In seguito vengono create anche organizzazioni operative in territori
extraeuropei tra cui l'Agenzia di Soccorso e Lavori delle Nazioni Unite per i
Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), istituita dall’Assemblea
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delle Nazioni Unite l’8 dicembre1949 a seguito della guerra arabo-
israeliana del 1948 per gestire l’emergenza dei rifugiati palestinesi (ancora
oggi l’UNRWA è operativa e gestisce 59 campi profughi in Giordania,
Libano, Siria, Cisgiordania e la Striscia di Gaza) e l’Agenzia delle Nazioni
Unite per la Ricostruzione della Corea (UNKRA) istituita nel 1951 (cessò di
operare nel 1960) con il compito di gestire un programma di soccorso e
ricostruzione della Corea colpita da una guerra dal 1950 al 1953.
2.1.2. Seconda fase
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale si avverte la necessità di
istituire un’unica organizzazione internazionale specializzata nella
gestione dei rifugiati. Così il 14 dicembre 1950, allo scadere del primo
mandato dell’IRO, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituisce
l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite (UNHCR) con il compito
di assistere i cittadini europei fuggiti dalle proprie case a causa del
conflitto, che inizia ad operare il 1° gennaio 1951 con un mandato di tre
anni e poi destinato a sciogliersi.
L’UNHCR affronta la prima emergenza importante nel 1956, quando deve
gestire i rifugiati che fuggono dalla repressione delle forze armate
sovietiche in risposta alla rivoluzione ungherese. Negli anni ’60, il
processo di decolonizzazione in Africa produce la prima delle numerose
crisi di rifugiati del continente per la quale è richiesto l’intervento
dell’Agenzia. Nel corso dei due decenni successivi l’UNHCR è impegnato
nelle crisi che coinvolgono spostamenti forzati di popolazione in Asia e
America Latina. Alla fine del secolo si verificano nuovi esodi di rifugiati in
Africa e, come a chiudere il cerchio, anche in Europa, con nuove ondate di
persone in fuga dalla lunga serie di conflitti balcanici.
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Figura 13: Rifugiati serbi dopo i bombardamenti della NATO, 1999
L’inizio del ventunesimo secolo vede l’UNHCR prestare la sua opera di
assistenza nelle principali crisi di rifugiati in Africa (ad esempio in
Repubblica Democratica del Congo e Somalia) e in Asia, in particolare
nella trentennale questione dei rifugiati che coinvolge l’Afghanistan.
Allo stesso tempo all’Agenzia viene richiesto di mettere a disposizione la
propria competenza anche per assistere le numerose persone sfollate
all’interno del proprio paese a causa di conflitti. Seppure in maniera meno
evidente, l’UNHCR estende ulteriormente il proprio ruolo all’assistenza
degli apolidi, milioni di persone che non godono di ampia visibilità e che
rischiano di vedere negati i propri diritti fondamentali per il fatto di non
possedere la cittadinanza di alcuno Stato.
L’organizzazione, per il suo impegno, vince due premi Nobel per la pace,
rispettivamente nel 1954 e nel 1981.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha come propria
base giuridica la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei
rifugiati, adottata il 28 luglio 1951 in una speciale conferenza delle Nazioni
Unite a Ginevra. La Danimarca fu il primo Stato a ratificare il trattato
24
internazionale e ad oggi sono 145 gli Stati parte della Convenzione, che
entra in vigore il 22 aprile 1954. Inizialmente la convenzione era limitata
alla protezione dei rifugiati europei prima del 1° gennaio 1951, anche se
gli Stati avrebbero potuto fare una dichiarazione per l'applicazione delle
disposizioni anche ai rifugiati da altri luoghi. Il protocollo del 1967 ha
rimosso i limiti di tempo ed applicato il trattato ai rifugiati "senza alcuna
limitazione geografica". La Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951
costituisce il documento legislativo internazionale di riferimento in materia
di protezione dei rifugiati, sancendo nel diritto internazionale la definizione
giuridica di “rifugiato” e indicando i diritti dei rifugiati e i doveri degli Stati di
proteggerli. Il principio su cui si basa la Convenzione è quello di non-
refoulement (art.33), secondo il quale nessun rifugiato può essere respinto
verso un Paese in cui la propria vita o libertà potrebbero essere non
garantite. Tale principio viene considerato diritto internazionale
consuetudinario, quindi anche gli Stati che non hanno aderito alla
Convenzione sui rifugiati del 1951 devono rispettare il principio di non-
refoulement. Inoltre, la Convenzione sullo status dei rifugiati di Ginevra del
1951 si riferisce all’art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani
del 1948 che afferma: “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in
altri paesi asilo dalle persecuzioni”. È utile ricordare che un rifugiato può
godere di diritti e benefici in uno stato in aggiunta a quelli previsti dalla
convenzione (art.5 della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951).
Oltre alla Convenzione del 1951, esistono i seguenti strumenti giuridici
internazionali: la Convenzione sulla riduzione della apolidia del 1954, il
Protocollo relativo allo status dei rifugiati del 1966, la Dichiarazione sui
diritti umani degli individui che non hanno la cittadinanza del paese in cui
vivono del 1985. Utile anche il manuale del 1996 dell’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite su procedure e criteri per determinare lo status del
rifugiato.
25
2.2. La creazione del Sistema Comune Europeo di Asilo
La materia dell’asilo politico è in continua evoluzione a causa
dell’esponenziale aumento dei casi legati ai flussi migratori e anche
l’Unione Europea si è impegnata per armonizzare i quadri giuridici degli
Stati membri e dare alla materia dell’asilo una dimensione comunitaria,
obiettivo raggiunto con il Trattato di Amsterdam (firmato il 2 ottobre 1997 –
in vigore dal 1° maggio 1999). Questo percorso di comunitarizzazione
della materia dell’asilo ha portato all’avvio, a partire dal 1999, alla
creazione del Sistema Comune Europeo di Asilo (Common European
Asylum System-CEAS).
2.2.1. I presupposti per la creazione del Sistema
Comune Europeo di Asilo
Il primo passo per una politica comune riguardo all’Asilo in Europa è
l’adozione della Convenzione di Schengen, entrata in vigore nel 1995, che
abolisce le frontiere interne tra gli Stati europei, con la conseguente
creazione di un’unica frontiera estera e definisce i criteri per
l’identificazione dell’unico Stato responsabile delle domane d’asilo (artt.
28-38).
Nel 1997 entra in vigore la Convenzione di Dublino, che definisce più
dettagliatamente i criteri di obbligo di uno Stato di esaminare la domanda
di asilo, quali: i legami familiari, il possesso di un permesso di soggiorno o
di un visto validi (art. 5), l’ingresso irregolare (art.6) e l’ingresso senza
obbligo di visto (art. 7). Quando non fosse possibile stabilire lo Stato
competente rispetto ai criteri precedenti, l’esame della domanda è di
competenza del primo Stato al quale sia stata presentata (art.8).
Negli ultimi anni è presente un acceso dibattito per riformare tale Trattato
(entrato in vigore nel 1997, sostituito nel 2003 dal regolamento «Dublino
26
II», e modificato nel giugno 2013) per creare un Sistema Comune Europeo
in materia di asilo più inclusivo.
Il Trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, definisce la questione
dell’asilo una materia di competenza degli Stati membri anche se
riconosce che si tratta di una “questione di interesse comune”.
È solo con il Trattato di Amsterdam (firmato nel 1997- in vigore dal 1999)
che la materia in merito all’Asilo viene disciplinata a livello comunitario,
come stabilito dall’art. 63 del Titolo IV.
Nel 2009, nell’art. 78 del Trattato di Lisbona si stabilisce che l’Unione
Europea deve sviluppare una politica comune in materia di asilo (ad
esempio stabilendo delle norme per le condizioni di accoglienza e un
sistema comune per la protezione temporanea).
2.2.2. Prima fase del Sistema Comune Europeo di
Asilo: dal 1999 al 2005
Per la creazione del Sistema Comune Europeo di Asilo, dal 1999 al 2005,
avviene una fase di armonizzazione dei quadri giuridici degli Stati membri.
Il 15 e 16 ottobre 1999 si tiene in Finlandia la Conferenza di Tampere
durante la quale il Consiglio europeo ribadisce l’importanza che l’Unione e
gli Stati membri riconoscano il rispetto assoluto del diritto di chiedere asilo
e si impegnino verso l’istituzione di una comune giurisdizione in materia,
basata sull'applicazione della Convenzione di Ginevra del 1951 in ogni
sua componente. Si garantisce in tal modo che nessuno venga esposto
nuovamente alla persecuzione, mantenendo il principio di non-refoulement
. Il Consiglio sollecita inoltre l'istituzione di un sistema unico a livello
comunitario per l'identificazione dei richiedenti asilo (Eurodac).
L'applicazione di questi obiettivi si rivela difficile, soprattutto a causa del
27
principio dell'unanimità previsto dal Trattato di Amsterdam per l'adozione
di quasi tutte le decisioni in materia.
Nel 2001 viene firmato il Trattato di Nizza, entrato in vigore il 1° febbraio
2003, che modifica la procedura di voto, passando dall'unanimità alla
maggioranza qualificata, non senza condizioni.
Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 gli Stati europei si
preoccupano maggiormente per la sicurezza e le loro posizioni in merito
all’immigrazione si irrigidiscono. Nel 2004 nasce Frontex, l’Agenzia
europea di controllo delle frontiere esterne dell’Unione. Il rafforzamento
dell’Agenzia è stato richiesto nel 2009 dal commissario europeo per la
Giustizia, Libertà e Sicurezza Jacques Barrot e successivamente anche
da alcuni stati membri, fra cui nel 2011 da Francia e Italia. Frontex ha
condotto l’operazione Triton, con l'obiettivo di tenere controllate le frontiere
nel mar Mediterraneo. L'operazione, che ha sostituito l’operazione italiana
“Mare Nostrum”, perchè considerata troppo costosa per un singolo Stato
dell’UE (9.000.000 € al mese per 12 mesi), è iniziata il 1º novembre 2014
e prevedeva contributi volontari da 15 su 28 Stati membri dell'UE. Gli Stati
che hanno contribuito volontariamente all'operazione Triton sono: Islanda,
Finlandia, Norvegia, Svezia, Germania, Paesi Bassi, Francia, Spagna,
Portogallo, Italia, Austria, Svizzera, Romania, Polonia, Lituania e Malta.
Nel 2004 venne anche adottato il Programma dell’Aia, le cui priorità sono:
lotta al terrorismo, il rafforzamento dei diritti fondamentali e della
cittadinanza europea, la definizione di un'impostazione politica equilibrata
relativa alla gestione dell'immigrazione attraverso la cooperazione con i
Paesi terzi, la gestione integrata delle frontiere esterne dell'Unione, la
creazione di una procedura comune d'asilo, il potenziamento delle
politiche per l'integrazione delle comunità immigrate e la creazione di un
effettivo spazio europeo di giustizia.
28
2.2.3. Seconda fase del Sistema Comune Europeo di
Asilo: dal 2007
Dal 2007 inizia la seconda fase per la creazione del Sistema Comune
Europeo di Asilo. La Commissione Europea, il 6 giugno 2007, elabora un
documento (“Libro Verde”) per la creazione futura di un regime europeo in
materia di asilo, che offra un “livello comune di protezione più elevato e
comunque più uniforme all’interno dell’Unione europea, oltre a garantire
una maggiore solidarietà tra i vari Stati membri”, basato sull’applicazione
della Convenzione di Ginevra del 1951. Il piano d’azione prevede che la
proposta comune sia adottata entro il 2010.
Nel giugno 2008 la Commissione Europea elabora un Piano strategico
sull'asilo, che traccia una road-map rivolta al completamento della
creazione del Sistema Comune Europeo di Asilo, anche alla luce
dell'adozione del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed
entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Il Piano strategico propone una
strategia basata sul: garantire l’accesso all’asilo a chi ne ha bisogno;
stabilire una procedura comune di asilo; creare status uniformi per l’asilo e
la protezione sussidiaria; tenere conto della dimensione di genere e delle
particolari esigenze dei gruppi vulnerabili; intensificare la cooperazione tra
gli Stati membri sulle questioni pratiche; stabilire norme sulla
determinazione delle responsabilità degli Stati membri e sui meccanismi di
sostegno alla solidarietà e garantire la coerenza con le altre politiche che
incidono sulla protezione internazionale.
Ormai sono parecchi anni che i Paesi europei stanno lavorando per
armonizzare le loro politiche e nel 2008 la Commissione approva il Patto
europeo sull’immigrazione e l’asilo, definendo nuovi obiettivi in cinque
aree cruciali: organizzare l’immigrazione legale secondo le capacità
d’accoglienza degli Stati membri e favorire l’integrazione degli immigrati;
controllare l’immigrazione clandestina e favorire il ritorno volontario dei
migranti nel loro paese di origine o di transito; potenziare i controlli alle
29
frontiere; costruire un quadro europeo in materia di asilo e rinnovare il
partenariato con i paesi terzi per favorire le sinergie tra migrazione e
sviluppo.
L'11 dicembre 2009 il Consiglio europeo approva Il “Programma di
Stoccolma”, terzo programma di lavoro quinquennale dell’Unione europea
(per il periodo 2010-2014) in materia di Libertà, Sicurezza e Giustizia,
dopo quelli di Tampere del 1999 e dell’Aia del 2004. In materia di asilo, il
Programma di Stoccolma riafferma “l’obiettivo di stabilire uno spazio
comune di protezione e solidarietà basato su una procedura comune in
materia d’asilo e su uno status uniforme per coloro che hanno ottenuto la
protezione internazionale.”, conformemente a quanto previsto nei Trattati,
in particolare si fa riferimento all’art. 78 del TFUE. Inoltre, si legge che
l’Unione Europea dovrebbe aderire alla Convenzione di Ginevra del 1951
e al relativo Protocollo del 1967.
Figura 14: Profughi siriani mentre varcano il confine tra Serbia e Ungheria, 2015
30
3. LA NORMATIVA INTERNAZIONALE,
EUROPEA E ITALIANA IN MATERIA DI
MIGRAZIONE E DI ASILO
3.1. Piano internazionale: UNHCR, Convenzione di
Ginevra e Protocollo del 1967
È responsabilità degli Stati proteggere i propri cittadini. Quando i governi
non vogliono o non possono proteggere i propri cittadini, gli individui
rischiano di subire violazioni dei loro diritti tali da costringerli a lasciare le
loro case, e spesso persino le loro famiglie, per cercare rifugio in un altro
Paese. Allorché i governi dei Paesi d’origine non proteggono più i diritti
fondamentali dei rifugiati, la Comunità internazionale interviene a garantire
che tali diritti fondamentali siano rispettati. Dopo il 1945, l’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite ha creato l’Ufficio dell’Alto Commissario delle
Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Il compito dell’UNHCR è proteggere
i rifugiati e adoperarsi a trovare soluzioni durevoli ai loro problemi. La sua
attività si basa su un insieme di norme e strumenti internazionali che
comprendono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e la
Convenzioni di Ginevra (1951) sullo status dei rifugiati, così come una
serie di trattati e dichiarazioni internazionali e regionali, vincolanti e non,
che vanno specificamente incontro alle necessità dei rifugiati.
31
Figura 15: Logo dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati
La Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, conosciuta anche come
la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, è un trattato multilaterale
delle Nazioni Unite che definisce chi è un rifugiato e i diritti dei singoli che
hanno ottenuto l'asilo e le responsabilità delle Nazioni che garantiscono
l'asilo medesimo. La Convenzione stabilisce anche quali persone non si
qualificano come rifugiati, ad esempio i criminali di guerra e prevede
anche la possibilità di viaggiare senza visto per i titolari di documenti di
viaggio rilasciati.
Tale Convenzione si basa sull'articolo 14 della Dichiarazione universale
dei diritti umani del 1948, che riconosce il diritto delle persone a chiedere
l'asilo dalle persecuzioni in altri paesi. Un rifugiato può godere di diritti e
benefici in uno stato in aggiunta a quelli previsti dalla Convenzione.
Il Trattato di Ginevra del 1951 sui rifugiati fissa gli standard minimi per il
trattamento delle persone eleggibili e definisce il termine “rifugiato”:
individuo che “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua
razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un
determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello
Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non
32
vuole domandare la protezione di detto Stato”. Uno trai principi più
importanti enunciati dalla Convenzione di Ginevra è contenuto nell’
articolo 33: “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere in
alcun modo un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la
sua libertà sarebbe minacciata a causa della sua razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad una particolare gruppo sociale o delle sue
opinioni politiche” (principio di non-refoulement). Poiché la Convenzione è
stata redatta alla fine della Seconda Guerra Mondiale la definizione di
rifugiato in essa contenuta si riferisce agli individui che si trovavano fuori
del proprio paese d’origine e che erano rifugiati a causa degli avvenimenti
verificatisi in Europa o altrove prima del 1º gennaio 1951. Con lo scoppio
di nuove crisi di rifugiati alla fine degli Anni Cinquanta e nei primi Anni
Sessanta, è divenuto necessario ampliare il raggio d’azione sia temporale
che geografico della Convenzione sui rifugiati. Di conseguenza è stato
elaborato e adottato un Protocollo aggiuntivo alla Convenzione nel 1967.
Benché integralmente collegato ad essa, il Protocollo è uno strumento
indipendente dalla Convenzione del 1951. Elimina i limiti temporali e
geografici stabiliti nella definizione di rifugiato data dalla Convenzione.
Insieme, la Convenzione sui rifugiati e il Protocollo coprono tre questioni
fondamentali: la definizione del termine rifugiato, così come le condizioni
di cessazione e di esclusione dallo status di rifugiato. Lo status giuridico
dei rifugiati nei rispettivi paesi di asilo, i loro diritti e doveri, compreso il
diritto di essere protetti dal rimpatrio forzato, o refoulement, verso un
territorio nel quale la loro vita o la loro libertà sarebbe minacciata.
La maggioranza degli Stati ha preferito aderire sia alla Convenzione sia al
Protocollo. Così facendo, gli Stati riaffermano che ambedue i trattati sono
centrali al regime internazionale di protezione dei rifugiati.
A livello interregionale esistono diversi trattati e documenti che
disciplinano la materia di asilo e immigrazione. Esempi sono:
33
• la Convenzione che regola gli aspetti specifici dei problemi dei
rifugiati in Africa dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA)
adottato nel 1969: ha aggiunto alla definizione che si trova nella
Convenzione del 1951 una considerazione di carattere più
obiettivo, ovvero: ogni persona che sia costretta a lasciare il paese
d’origine a causa di aggressione esterna, occupazione, dominio
straniero o gravi turbamenti dell’ordine pubblico, in tutto o in una
parte del paese d’origine o di cittadinanza;
• nel 1984 una conferenza dei rappresentanti di governi latino-
americani ed eminenti giuristi ha adottato la Dichiarazione di
Cartagena. Simile alla Convenzione dell’OUA, la Dichiarazione
aggiunge una considerazione di carattere più obiettivo alla
definizione contenuta nella Convenzione sui rifugiati del 1951, così
da includere le persone che fuggono dai loro paesi “perché le loro
vite, la loro sicurezza o la loro libertà sono state minacciate da una
violenza generalizzata, un’aggressione straniera, un conflitto
interno, una violazione massiccia dei diritti dell’uomo o altre
circostanze che abbiano gravemente turbato l’ordine pubblico”.
3.2. Piano europeo: Il Trattato di Schengen, il Trattato
di Maastricht, il Trattato di Lisbona e il sistema di
Dublino
L'UE tratta i problemi legati all'immigrazione nel quadro del più ampio
settore “Libertà, sicurezza, giustizia”. È importante sottolineare questo
dato, in quanto ci fa capire il punto di vista da cui partiamo: i problemi
relativi all'immigrazione devono essere affrontati nell'ottica di permettere la
più ampia libertà possibile degli individui, salvaguardando allo stesso
tempo la sicurezza e il rispetto delle regole di convivenza. Visto che la
Comunità è stata concepita in un'ottica soprattutto economica, l'esigenza
34
di regolamentare questo aspetto viene avvertita più tardi, quando l'origine
geografica della manodopera cambia. A questo punto, l'azione della
Comunità si dirige in due direzioni ugualmente importanti: prevenire e
reprimere l'immigrazione clandestina e migliorare le condizioni dei
lavoratori provenienti da paesi terzi. Quest'ultimo aspetto è molto
importante, perché da qui inizia un percorso volto a garantire a questi
individui lo stesso trattamento, in termini di diritti sociali, riservato ai
cittadini dell'Unione. Vi sono in Europa diversi strumenti giuridici per
regolare questioni in materia di diritto di asilo e, in un’ottica più generale,
di migrazione. A tal proposito nel 1985 la Commissione, nel Libro Bianco
relativo alla creazione del mercato interno, pone fra gli obiettivi quello di
cominciare ad elaborare principi in materia di gestione delle frontiere
esterne; tuttavia, gli Stati non erano disposti a cedere sovranità in questo
settore, e cominciano a cooperare fra di loro al di fuori del contesto della
Comunità. Da qui nasce la Convenzione di Schengen, entrata in vigore nel
1990: un trattato internazionale, il quale prevede alcune norme comuni
perlopiù funzionali all'eliminazione dei controlli sulle frontiere interne.
Figura 16: Mobilità nello spazio Schengen
Questo trattato all’atto pratico prevede che all’interno di questa zona i
cittadini dell’Unione europea e quelli di paesi terzi possono spostarsi
liberamente senza essere sottoposti a controlli alle frontiere. Di contro, un
volo interno all’Ue che collega uno stato Schengen a uno stato non-
Schengen è sottoposto a controlli alle frontiere. La caduta delle frontiere
35
interne ha per corollario il rafforzamento delle frontiere esterne dello
spazio Schengen. Gli stati membri che si trovano ai suoi confini hanno
dunque la responsabilità di organizzare controlli rigorosi alle frontiere e
assegnare all’occorrenza visti di breve durata alle persone che vi fanno
ingresso. Un esempio di queste norme sono quelle sui visti: si stabilisce
che per soggiorni di breve durata venga concesso un visto uniforme, e che
per soggiorni di durata superiore siano invece gli Stati a definire le
condizioni. Questo accordo ha un discreto successo, tanto è che negli
anni successivi il numero di Stati aderenti aumenta.
Un passo avanti importante si ha con il Trattato di Maastricht (1992) il cui
Titolo VI crea il così detto “terzo pilastro”, allora denominato “Giustizia e
affari interni”, il quale include la politica di immigrazione, la politica di asilo
e l'attraversamento delle frontiere esterne. Tuttavia, la cooperazione è
ancora limitata e gli atti emanati in questo settore poco vincolanti.
La vera rivoluzione si ha con il Trattato di Amsterdam (1997), che porta la
politica di immigrazione come argomento all’interno delle competenze
della Unione Europea. Il nuovo Titolo IV del Trattato CE viene denominato
“Asilo, visti, immigrazione” e al Consiglio viene attribuita la competenza a
adottare atti in questo settore.
Tra il 2000 ed il 2001 le iniziative della Commissione hanno riguardato i
ricongiungimenti familiari, l’accoglimento dei rifugiati, l’attuazione del
principio di parità di trattamento e lo status dello straniero residente.
In questi anni le proposte che giungevano dalla Commissione e dai
governi erano sempre più legate ad aspetti giuridico-penali
dell’immigrazione irregolare mettendo in secondo piano l’effettiva fruizione
dei diritti umani da parte dei migranti irregolari.
36
Figura 17: Rotte principali degli immigrati irregolari che giungono in Europa
Nel 2001 viene firmato il Trattato di Nizza, entrato in vigore il 1° febbraio
2003, che modifica la procedura di voto, passando dall'unanimità alla
maggioranza qualificata, non senza condizioni. In virtù dello spirito di
questa Carta la Direttiva n.109 del 2003 ha disposto il diritto al
riconoscimento dello status di residente di lungo periodo allo straniero che
abbia soggiornato regolarmente in qualunque Stato membro e quindi le
limitazioni alle ipotesi di allontanamento, la parificazione ai cittadini
comunitari riguardo l’accesso ad alcuni servizi, il diritto di circolare e di
soggiornare in un altro Stato membro per un periodo superiore a tre mesi.
Nel 2005 la Commissione europea ha elaborato il “Libro verde
sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della migrazione
economica” ovvero uno strumento che mira ad avviare un dibattito
approfondito, con la partecipazione delle Istituzioni dell’UE, degli Stati
membri e della società civile, sulle novità da introdurre a livello comunitario
in materia di ammissione dei migranti per motivi economici e sul valore
aggiunto dell’adozione di questa disciplina comune.
L’impasse a cui è andata incontro l’Unione Europea dopo il fallimento della
Costituzione ad opera dei referendum negativi di Francia e Olanda è stata
superata nel 2009 dal Trattato di Lisbona, con il quale l'immigrazione
viene trattata assieme ai controlli, alle frontiere e all'asilo nel capitolo
riguardanti la sicurezza e le libertà. Il Trattato prevede che le frontiere
esterne siano sorvegliate in maniera efficace e che si crei un sistema
37
integrato fra gli Stati dell'UE al fine di effettuare questo controllo. La
competenza per assumere decisioni spetta al Consiglio, che adotta gli atti
secondo la procedura ordinaria. Queste decisioni stabiliscono, ad
esempio, la politica comune dei visti, i controlli a cui sono sottoposti gli
individui che attraversano le frontiere esterne, oppure le condizioni alle
quali i cittadini dei Paesi terzi possono circolare liberamente nell'Unione
per un breve periodo. La competenza dell’Unione Europea in tale materia
è di tipo concorrente: questo significa che l'Unione interviene a fianco degli
Stati. Nonostante gli Stati membri abbiano progressivamente accettato di
cedere sovranità in questo settore, essi hanno comunque voluto
mantenere determinate prerogative; il rapporto con i cittadini di Stati terzi
rimane una questione delicata, anche perché spesso legata ai rapporti di
tipo politico e diplomatico che ogni Stato membro intrattiene con altri
membri della comunità internazionale. Tuttavia, la competenza dell'Unione
non si spinge fino a determinare il numero di individui cittadini di Stati terzi
che uno Stato membro è disposto ad ammettere: i flussi sono liberamente
determinati dai membri, in quanto è parte della loro sovranità.
Un importante trattato riguardante la gestione dei flussi migratori in Europa
e che regola la questione delle richieste d’asilo è la Convenzione di
Dublino. Il 15 giugno 1990 i dodici Stati membri della Comunità Europea
(Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Irlanda, Italia,
Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito) firmarono la
Convenzione di Dublino, con l'obiettivo di armonizzare le politiche in
materia di asilo, per garantire ai rifugiati un'adeguata protezione, nel
rispetto della Convenzione di Ginevra (1951) e del protocollo di New York
(1967). La Convenzione è stata poi sostituita dal Trattato di Dublino II,
sottoscritto dagli Stati dell'Ue nel 2003, poi modificato nel 2013 e
rinominato Dublino III.
Questo trattato prevede che i cittadini extracomunitari che fuggono da
Paesi di origine perché in guerra o perseguitati per motivi di natura politica
o religiosa possono fare richiesta di asilo solo nel primo Paese membro
dell'Ue in cui arrivano, come prevedeva la Convenzione del 1990. Viene
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anche dichiarato che i richiedenti asilo non possono fare più domande
contemporaneamente in diversi Paesi; questa norma è stata stabilita per
gestire i flussi dei migranti evitando così il proliferare delle richieste di
protezione internazionale.
Caso in cui il richiedente asilo facesse più di una domanda, questi viene
rimandato al Paese di approdo. La doppia domanda viene rilevata perché
il profugo viene registrato, con tanto di schedatura delle impronte digitali, e
i suoi dati vengono inseriti in un database europeo (Eurodac) che
consente un controllo incrociato. In questa Convenzione viene, inoltre,
dichiarato che non può fare domanda chi abbia commesso un crimine
contro la pace, un crimine di guerra o contro l’umanità, un crimine grave di
diritto comune al di fuori del paese di accoglimento e prima di esservi
ammesso in qualità di rifugiato; chi si sia reso colpevole di azioni contrarie
ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
Questo trattato è oggetto da diversi anni di critiche da parte degli Stati
membri, quali Italia, Grecia, Spagna e Ungheria in quanto obbligati a
intraprendere l’iter legislativo della maggior parte dei migranti provenienti
dall’Africa e Medio Oriente essendo i primi Paesi in cui i richiedenti asilo
approdano. Negli ultimi tre anni, gli accordi bilaterali con Turchia e Libia,
principali Paesi di transito, hanno contribuito a rallentare i flussi, aprendo
però nuove problematiche di violazioni dei diritti umani per le condizioni di
vita nei campi di accoglienza provvisori su questi territori "di passaggio".
Ma la necessità di una riforma del processo di richiesta d'asilo è diventata
pressante da parte di molti Paesi membri. Il fronte dell'Est - Ungheria,
Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia - hanno rifiutato o opposto forti
resistenze al tentativo della Commissione Ue di imporre quote di
accoglienza nel 2015 in modo da alleviare la pressione su Italia e Grecia.
L'estate di quell'anno ha visto un picco di naufragi e di morti tra i migranti
che tentavano di attraversare il Mediterraneo, in corrispondenza con
l'acuirsi del conflitto in Siria e di altre crisi in Africa.
39
3.3. Piano nazionale: Italia, normative e politiche
migratorie
La Costituzione italiana
In Italia il diritto di asilo è affermato tra i principi fondamentali
della Costituzione della Repubblica, all’articolo 10.3 che recita: “ lo
straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo
nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
La Costituzione riconosce il diritto d’asilo a tutti coloro che non possono
godere nel loro paese d’origine delle libertà democratiche garantite dal
nostro ordinamento, senza che sia necessario, come invece richiesto dalla
Convenzione di Ginevra, che lo straniero sia personalmente perseguitato
perché appartenente a determinate categorie.
La legge che avrebbe dovuto essere emanata secondo il dettato
costituzionale per disciplinare la materia non è mai stata approvata. Di
contro si è affermata una giurisprudenza, soprattutto a opera del Consiglio
di Stato, che ha ritenuto che il disposto dell’articolo 10.3 non fosse
direttamente applicabile ma costituisse una norma programmatica, non
permettendone l’attuazione. La materia dell’asilo rimase priva di una
normativa che la disciplinasse fino all’approvazione della Legge di
attuazione della Convenzione di Ginevra del 1951 nel 1954. Per quanto
riguarda l’iter legislativo italiano in materia d’asilo e di immigrazione sono
state fatte diverse leggi, tutte con contenuti differenti riguardo la gestione
di questo fenomeno, cause e conseguenze che questi comporta.
La prima legge italiana che disciplina il fenomeno migratorio risale al 1986
(legge n. 943/86), e stabilisce alcune novità importanti: riconosce il
fondamentale diritto al ricongiungimento familiare ai lavoratori che vivono
in Italia regolarmente, inoltre afferma, almeno in principio, l’equiparazione
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dei diritti tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri. La legge n.943 attua la
prima regolarizzazione, sotto forma di sanatoria, dei lavoratori stranieri.
Figura 18: Edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale n.298 della pubblicazione della Costituzione italiana,
27 dicembre 1947
Leggi Martelli
Nel 1990, si arriva all’approvazione della legge Martelli (legge n. 39/90), la
quale risulta da un ciclo legislativo attivato principalmente a causa di
contrasti interni al sistema politico. Questa legge, contraddistinta
dall’imponente sanatoria che l’ha accompagnata, fu caratterizzata da
un’impostazione severamente restrittiva delle condizioni d’ingresso nel
Paese, anche al fine di venire incontro alle richieste che provenivano dagli
altri Paesi europei, preoccupati degli stranieri che, passando dall’Italia,
giungevano irregolarmente sul loro territorio. La legge Martelli, oltre a
regolarizzare una gran massa di lavoratori dipendenti e autonomi, abolisce
la “riserva geografica” per i richiedenti asilo politico (sino ad ora l’Italia si
riservava di riconoscere il rifugio politico solo a quei cittadini provenienti
essenzialmente dal blocco sovietico). A partire dai primi anni Novanta, in
Italia arrivano grandi flussi di stranieri in fuga dagli sconvolgimenti politici
in corso nei loro Paesi. Sarà la legge n.39/90 a pensare per prima alla
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programmazione dei flussi migratori, prevedendo decreti interministeriali
annuali. Dopo un breve periodo, il sistema migratorio italiano finisce
quindi per assestarsi su un doppio binario degli ingressi irregolari e senza
di un vero processo di stabilizzazione degli stranieri già presenti. La legge
Martelli introduce l’obbligo del “visto” per quasi tutti i paesi dai quali
provengono i flussi migratori, riforma i controlli di frontiera e attribuisce una
grossa importanza alle espulsioni, viste come strumento non solo di
repressione dei comportamenti di singoli stranieri ma anche come
strumento di contrasto dell’immigrazione irregolare in quanto tale.
La procedura d’espulsione dei cittadini stranieri, sia di quelli irregolari, sia
di quelli che abbiano riportato condanne penali per una serie di reati
specifici diventa una pratica molto diffusa; la prefettura dispone le
espulsioni attraverso un decreto e l’espulso ha quindici giorni per lasciare
l’Italia, a meno che non venga disposto l’accompagnamento coatto presso
la frontiera per particolari motivi di ordine pubblico.
È con il tracollo dei regimi dell’Europa Orientale che avviene un
mutamento significativo della percezione dei processi migratori. La massa
di migranti che approdano sulle nostre coste viene sempre più vista come
una realtà relativamente indifferenziata, caratterizzata più dalla “fuga dal
proprio paese” che non dalla domanda di lavoro dequalificato presente
nell’economia italiana. Nell’arco degli anni Novanta, i successivi
cambiamenti apportati da decreti-legge (decreto Dini del 1995) non hanno
mutato l’impostazione generale della politica italiana verso l’immigrazione,
sempre più vista come un problema di ordine pubblico e di difesa delle
frontiere.
La legge Turco – Napolitano.
Nel 1998, dal primo governo del centrosinistra, viene approvata la prima
legge organica sull’immigrazione, la cosiddetta Turco–Napolitano (legge
42
n.40/98), con la quale si decide di operare una riforma complessiva della
legislazione migratoria italiana.
La legge n.40/98, sotto il profilo degli strumenti di controllo, riformula in
profondità le norme relative ai controlli di frontiera e alla espulsione degli
stranieri irregolarmente presenti, rendendo possibile sia l’allontanamento
immediato degli stranieri, intercettati nel corso di un ingresso clandestino,
sia il trattenimento in appositi centri degli stranieri da espellere. I Centri di
detenzione Permanente Temporanea e di assistenza (CPT), sono una
delle novità inserite in questa legge che verrà mantenuta anche dalle leggi
successive. Il trattamento in questi centri viene disposto dalle questure in
tutti quei casi in cui non sia possibile verificare l’identità o la nazionalità
degli stranieri; quando sia necessario acquisire i documenti di viaggio;
quando occorra procedere al soccorso o quando manchi il mezzo di
trasporto per il rimpatrio. Se i CPT, sulla carta, avrebbero dovuto essere
una misura da utilizzare in casi estremi, nell’applicazione pratica invece il
ricorso al trattenimento è andato in crescendo. I CPT non sono solo un
fenomeno italiano, sono uno strumento diffuso in tutta Europa in seguito
all’adozione di una politica migratoria comune con gli accordi di Schengen
(in vigore dal 1995). Questi accordi hanno eretto in maniera stabile una
Europa chiusa ed esclusivista; da una parte la chiusura nei confronti dei
crescenti flussi migratori, dall’altra parte una tolleranza assente per i
migranti irregolari, ciò che significa di fatto un’esclusione di tali soggetti dai
diritti universalmente riconosciuti e una sempre più ampia discrezionalità
delle forze di polizia per quella che è considerata principalmente una
questione d’ordine. La mappa dei centri di detenzione temporanea per
richiedenti asilo in Europa disegna lo scenario di una “Europa dei campi”,
che tendono oggi ad aumentare indiscriminatamente, spesso senza
garanzie né rispetto dei diritti elementari degli ospiti.
43
La legge Bossi – Fini.
Nel 2002, il governo di centrodestra approva una legge sull’immigrazione,
la legge n.189/2002, la quale attua una sostanziale modifica di
componenti decisive della legge precedente, abrogandone completamente
alcune parti.
La legge n.198/2002 è una legge che si basa fondamentalmente sulla lotta
all’immigrazione clandestina (che viene strettamente associata alla
criminalità), laddove vengono invece tralasciate politiche per l’integrazione
rispetto alla precedente legge Turco – Napolitano.
La nuova legge riduce drasticamente le possibilità di ingresso regolare
(nei casi di concessione dei visti d’ingresso e in quelli dei ricongiungimenti
familiari); inoltre precarizza ulteriormente la condizione del migrante,
riducendo la durata dei permessi di soggiorno e soprattutto legando
rigidamente il permesso al contratto di lavoro. Con la legge n.198 esiste
anche, a parte la riduzione della durata del permesso di soggiorno da tre a
due anni, un nuovo reato penale ipotizzato relativo alla condizione di
clandestinità: precisamente si tratta del reato di permanenza clandestina,
che si configura in caso di violazione di un ordine di abbandonare lo Stato,
comminato quando non si riesce ad espellere forzatamente il migrante o
subito o all’uscita dal CPT per scadenza del termine; le impronte digitali
per i lavoratori extracomunitari; l’ampliamento e il rafforzamento della
funzione dei Centri di detenzione Permanente Temporanea, sempre più
utilizzati per rinchiudere gli immigrati irregolari anche nei casi in cui vi sia
sospensione o incertezza nel giudizio, oltre venir prolungata da uno a due
mesi (60 giorni) il periodo in cui poter tenere incarcerati gli immigrati, in
attesa di rispedirli a casa.
44
Legge Minniti – Orlando
Il 12 aprile 2017 la Camera ha approvato il decreto-legge n.13 in materia
di migrazione. Il decreto contiene disposizioni urgenti per l’accelerazione
dei procedimenti per la protezione internazionale e misure contrastanti
l’immigrazione illegale. La legge Minniti-Orlando nasce dall’esigenza di
accelerare i ricorsi sulle domande d’asilo, che nell’ultimo anno sono
aumentati intasando i tribunali. I punti principali del decreto si possono
suddividere in:
• Abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che
ricorrano contro un diniego;
• Abolizione dell’udienza;
• I richiedenti invieranno una video-registrazione al posto di
presentarsi davanti la Commissione territoriale;
• Estensione della rete dei centri di detenzione per i migranti
irregolari;
• Introduzione del lavoro volontario per i migranti;
• Attribuzione del diritto d’asilo sarà stabilito da un collegio di giudici;
• Saranno messe a disposizione maggiori risorse economiche per lo
stanziamento di forze armate presso le Ambasciate e i Consolati.
Il primo grado di giudizio sarà sostituito con un rito camerale senza
udienza.
Il piano prevede inoltre l’allargamento dei centri per il rimpatrio che da
C.I.E. si chiameranno C.P.R. (Centri Permanenti per il Rimpatrio). Si
passerà da quattro a venti centri, uno per ogni regione.
Minniti ha assicurato, in seguito a perplessità espresse da Organizzazioni
umanitarie, che i centri sorgeranno lontano dalle città e vicino agli
aeroporti. A tal proposito molte associazioni e partiti hanno formato un
presidio davanti al Parlamento per contestare la nuova legge. Inoltre, a
45
criticare il decreto vi è anche un gruppo di operatori sociali secondo i quali
la nuova legge costringe chi lavora nelle strutture a comportarsi come un
pubblico ufficiale, minando il rapporto di fiducia con gli assistiti. Molti
giuristi hanno sostenuto che il decreto non è in linea con la Costituzione
italiana, violandone l’articolo 111, e della CEDU, violandone l’articolo 24 e
l’articolo 26. Punto più critico è l’abolizione del secondo grado di giudizio.
Anche l’Associazione Nazionale Magistrati ha espresso un allarmato
dissenso perché la legge produce una tendenziale esclusione del contatto
tra ricorrente e giudice durante il giudizio di impugnazione delle decisioni
adottate dalle Commissioni territoriali. Preoccupazione condivisa anche
dal Presidente della Cassazione.
Questo decreto-legge è l’attuale normativa in vigore nel territorio italiano.
Questo percorso giuridico attraverso la normativa internazionale europea
e nazionale in materia di migrazione e asilo mette in evidenzia come la
giurisprudenza cambi a seconda sia del contesto storico in cui è inserita
sia dell’indirizzo politico che l’ha varata. Per quanto riguarda la normativa
italiana si sottolinea la mancanza di una vera e propria normativa organica
che disciplini la materia d’asilo: mentre gli standard internazionali del
diritto dei rifugiati prevedono il trattenimento del richiedente asilo come
misura eccezionale, la legge italiana fa del trattenimento detentivo la
norma. Si auspica, il prima possibile, un inquadramento del fenomeno in
un’ottica inclusiva e solidale che riconosca la migrazione un fattore
strutturale ed inevitabile.
46
4. IL SISTEMA DI ACCOGLIENZA NAZIONALE
Il sistema di accoglienza italiano prende origine da quanto delineato dalla
Conferenza Unificata del 10 luglio 2014, in occasione della quale è stato
definito, attraverso il raggiungimento di un’intesa tra Governo, regioni ed
enti locali, il primo “Piano nazionale per fronteggiare il flusso straordinario
di cittadini extracomunitari, adulti, famiglie e minori stranieri non
accompagnati”, che ha poi trovato fondamento normativo con il Decreto
Legislativo n.142/2015. Alla base dell’intesa vi era il proposito di
abbandonare la strategia emergenziale fino ad allora adottata,
riconducendo a una governance di sistema il tema dell’accoglienza e
costruendo, in ottemperanza alle direttive europee, un sistema unico
basato sul modello SPRAR, quale perno centrale dell’accoglienza di
secondo livello, sia per gli adulti che per tutti i minori stranieri non
accompagnati. Attraverso il Piano si intendeva dunque riorganizzare e
razionalizzare il sistema a livello nazionale, riportando tutti gli interventi di
accoglienza a una gestione ordinaria e programmabile. Sulla scia delle
indicazioni prodotte dall’Agenda europea sull’immigrazione, il Decreto
Legislativo n.142/2015, recependo le direttive europee 2013/32/Ue e
2013/33/Ue, ha proseguito il percorso di consolidamento della nuova
disciplina dell’accoglienza tracciando, secondo quanto già delineato
nell’accordo, un sistema articolato nel seguente modo:
1. una fase preliminare di soccorso, prima assistenza e
identificazione, che si svolge in centri governativi in corrispondenza
dei luoghi maggiormente interessati da sbarchi massicci;
2. una fase di prima accoglienza assicurata in centri governativi per
richiedenti asilo istituiti con decreto del Ministro dell’Interno, per il
tempo necessario all’espletamento delle operazioni di
identificazione (ove non completate precedentemente), alla
verbalizzazione della domanda e all’avvio della procedura di esame
47
della stessa, nonché all’accertamento delle condizioni di salute del
migrante;
3. una fase di seconda accoglienza in una delle strutture operanti
nell’ambito del sistema SPRAR predisposto dagli Enti locali (ove lo
straniero permane per tutta la durata del procedimento di esame
della domanda di protezione e, in caso di ricorso giurisdizionale,
fintanto che è autorizzata la sua permanenza sul territorio italiano).
Qualora sia temporaneamente esaurita la disponibilità di posti
all’interno delle strutture di prima o di seconda accoglienza, a causa
di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti, sono varate dal
Prefetto misure straordinarie di accoglienza, in strutture
temporanee denominate CAS.
In concreto, il percorso di accoglienza prevede innanzitutto la
canalizzazione dei migranti in arrivo negli hotspot, di recente costituzione,
ovvero nei pressi dei porti di sbarco selezionati, o nelle vicinanze, dove
vengono effettuate le prime procedure di soccorso, assistenza e
identificazione. Tali funzioni continuano tuttavia ad essere svolte anche
nei CPSA (Centri di primo soccorso e accoglienza), centri di transizione
nei quali gli stranieri ricevono le prime cure mediche necessarie, vengono
foto-segnalati e possono richiedere la protezione internazionale.
4.1. Protezione internazionale
In Italia il diritto di asilo è garantito dall’art.10 comma 3 della Costituzione:
“Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo
nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”
Può dunque presentare la domanda di riconoscimento di protezione
internazionale lo straniero che intenda chiedere protezione dallo Stato
48
italiano perché fugge da persecuzioni, torture o dalla guerra, anche se ha
fatto ingresso in Italia in modo irregolare ed è privo di documenti.
In relazione alla particolare condizione, può essere riconosciuto al
cittadino straniero che ne faccia richiesta lo status di rifugiato o lo status di
protezione sussidiaria.
La differente tutela attiene ad una serie di parametri oggettivi e soggettivi
che si riferiscono alla storia personale dei richiedenti, alle ragioni delle
richieste e ai paesi di provenienza.
Nello specifico, il rifugiato è un cittadino straniero il quale, “per il timore
fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,
appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si
trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a
causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese”
(Convezione di Ginevra del 1951). Può trattarsi anche di un apolide che si
trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora
abituale e, per le stesse ragioni, non può o non vuole farvi ritorno.
È invece ammissibile alla protezione sussidiaria per il cittadino straniero
che non possiede i requisiti per essere riconosciuto rifugiato ma nei cui
confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese
di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale
aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo
di subire un grave danno.
Lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono riconosciute all'esito
dell'istruttoria effettuata dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento
della protezione internazionale.
49
Protezione Umanitaria
È una forma residuale di protezione per quanti non hanno diritto al
riconoscimento dello status di rifugiato e alla protezione sussidiaria, ma
non possono essere allontanati dal territorio nazionale per riconosciute
condizioni di oggettive e gravi situazioni personali. Il permesso di
soggiorno per motivi umanitari viene rilasciato dal questore a seguito di
raccomandazione della Commissione territoriale, qualora ricorrano “seri
motivi” di carattere umanitario come ad esempio per motivi di salute o di
età, a vittime di situazioni di grave instabilità politica, di episodi di violenza
o di insufficiente rispetto dei diritti umani, vittime di carestie o disastri
ambientali o naturali.
4.2. Iter per il riconoscimento della Protezione
internazionale in Italia
Il viaggio, e per molti, le disavventure
non terminano con l'approdo alla terra
ferma o con il soccorso in mare.
Stando, infatti, ai nuovi parametri
europei, l'accoglienza predisposta a
beneficio dei soggetti arrivati in Italia
dovrebbe articolarsi in tre fasi:
1) la fase di soccorso (Centri di primo
soccorso e assistenza nelle regioni di
sbarco o limitrofe);
2) la fase di prima accoglienza e
qualificazione (hub);
3) la fase dello SPRAR.
Figura 19: infografica sul sistema di accoglienza
50
Ai fini della regolamentazione e del coordinamento dell'accoglienza e
dell'esame della domanda di protezione internazionale, l'Unione Europea
ha fatto ricorso ad un sistema di regole condivise, di cui due sono i pilastri
su cui il sistema si costruisce: il Sistema Dublino e l'EURODAC (European
Dactyloscopie). È proprio l'EURODAC a rappresentare il primo strumento
con cui, una volta approdati, gli stranieri hanno a che fare. Si tratta, infatti,
di un sistema assimilabile ad una vera e propria banca dati, in cui vengono
registrate tutte le generalità (in particolare si rilevano le impronte digitali) di
chiunque attraversi la frontiera in condizioni di irregolarità". Ciascuno Stato
membro procede tempestivamente al rilevamento delle impronte digitali di
ogni richiedente asilo di età non inferiore a 14 anni.
Alla procedura può avere accesso, quindi, tanto colui il quale abbia
appena fatto ingresso nel territorio italiano quanto chi sia già presente sul
territorio (con o senza permesso di soggiorno).
Quando la domanda di protezione internazionale viene presentata dallo
straniero all'ufficio di polizia di frontiera nel momento dell'ingresso,
“l'autorità invita formalmente lo straniero a recarsi al più presto presso
l'ufficio della Questura competente alla formalizzazione della richiesta”.
L'ufficio della Questura deve provveder alla redazione del verbale sulla
base delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente asilo, il quale, deve
comunicare, congiuntamente alla domanda di protezione internazionale
"tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima
domanda".
A questo punto, l'esame della domanda diviene di competenza delle
Commissioni territoriali. La Commissione territoriale, ai fini della decisione
su ogni singola domanda, accerta in primo luogo se sussistono le
condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato e successivamente
se sussistono le condizioni per il riconoscimento dello status di protezione
sussidiaria.
51
In caso di decisione positiva, la Commissione riconosce lo status di
rifugiato o la protezione sussidiaria. Qualora, dall'esito della decisione, al
richiedente sia riconosciuto lo status di rifugiato questi avrà diritto al
rilascio dalla Questura di un permesso di soggiorno per asilo politico di
durata quinquennale, rinnovabile. Si tratta di un permesso di soggiorno
che apre il soggetto beneficiario a tutta una serie di diritti, in particolare,
consente: l'accesso allo studio, lo svolgimento di un'attività lavorativa,
l'accesso al pubblico impiego, l'iscrizione al Servizio sanitario nazionale, e
soprattutto l'accesso alle prestazioni erogate dall'INPS (assegno sociale e
pensione per invalidi civili) nonché all'assegno di maternità concesso dai
Comuni.
4.2.1. Fasi dell’accoglienza
La prima fase, per certi versi antecedente alla fase di accoglienza vera e
propria, posta ab origine, consiste nel soccorso e nella prima assistenza
dei migranti (attività che avvengono in prossimità dei luoghi di sbarco).
Queste funzioni continuano ad essere svolte nei CPSA (Centri di primo
soccorso e accoglienza). Stando alla definizione del Ministero dell'Interno,
i CPSA sono centri che "ospitano gli stranieri al momento del loro arrivo in
Italia. Qui i migranti ricevono le prime cure mediche necessarie, vengono
foto-segnalati, possono richiedere la protezione internazionale". Sono
centri di transizione, nei quali ai migranti sono forniti un primo soccorso e
accoglienza, per poi procedere al loro trasferimento presso le altre
tipologie di centri. Il decreto che li ha istituiti non ha indicato né le
condizioni né le modalità di trattenimento, limitandosi ad affermare che la
permanenza in tali strutture deve perdurare il tempo strettamente
necessario all'espletamento delle operazioni di prima assistenza e
soccorso dei migranti sbarcati sulle coste italiane. Nella prassi si cerca di
non andare oltre le 48 ore, ma non sono mancati i casi in cui, soprattutto
in occasione delle ricorrenti "emergenze sbarchi", la permanenza in tale
tipo di strutture si è protratta per settimane .Tale situazione, oltre a non
risultare conforme alla legislazione italiana in materia di provvedimenti
52
limitativi della libertà, può altresì configurarsi come una violazione dell'art.
5 comma 1 della Convenzione Europea dei diritti Umani (CEDU), a causa
della radicale carenza del titolo giuridico legittimante la privazione della
stessa libertà personale.
Attualmente le strutture attive con funzioni di CPSA (ora chiamate hotspot)
sono quatro, tutte situate nelle regioni meridionali (Agrigento -
Lampedusa, Cagliari - Elmas, Lecce-Otranto, Ragusa - Pozzallo). Si tratta
di strutture molto grandi e in alcuni casi multifunzionali, che possono
ospitare fino a 1.000 persone contemporaneamente. Questa fase iniziale
apre l'ingresso al circuito dell'accoglienza vera e propria, attuata nei Centri
governativi di prima accoglienza, i cosiddetti hub regionali/interregionali.
Tuttavia, l'ingresso nel circuito dell'accoglienza avviene soltanto dopo
essere stata operata una distinzione tra gli aventi diritto a fare richiesta di
protezione internazionale e gli stranieri che, non avendo suddetto diritto,
dovranno essere rimpatriati.
Si tratta di una decisione presa dall'autorità dopo aver condotto, entro le
48 ore dall'arrivo negli hotspot (letteralmente “punto caldo”, cioè centri
sulle frontiere esterne dell’Unione in cui si procederà a registrare i dati
personali dei cittadini stranieri appena sbarcati, fotografarli e raccoglierne
le impronte digitali), degli stranieri, le procedure di identificazione. A
seguito di questa "scrematura", quanti abbiano manifestato la volontà di
chiedere protezione internazionale verranno inviati presso centri
governativi di prima accoglienza, i cosiddetti hub.
Si tratta di centri che accoglieranno persone con diritto di protezione
internazionale, in attesa di decisione da parte della Commissione circa la
loro domanda di protezione. La funzione degli hub sarebbe quella di
"colmare quel dislocamento esistente tra il primo e il secondo sistema di
accoglienza, creando un collegamento più strutturale al fine di evitare
dispersioni sul territorio". Sono centri gestiti dagli Enti locali, aventi la
funzione di predisporre una prima forma di accoglienza agli stranieri.
53
La permanenza negli hub è relativa a tutto il periodo di valutazione da
parte della Commissione della domanda di protezione e accettazione della
stessa. In quest'ultimo caso, il soggetto rifugiato potrà essere inserito nello
SPRAR. Chi si vedrà rifiutata la richiesta potrà proporre ricorso dinanzi al
Tribunale.
Attualmente, dunque, il Sistema nazionale di accoglienza è quindi
articolato in due sottoinsiemi, entrambi coordinati dal Dipartimento di
Libertà civile per l'immigrazione e dal Ministero dell'Interno, e che, in
ragione delle differenti funzioni, hanno modelli organizzativi, voci di costo
e tempi di permanenza differenziati. Il primo è caratterizzato dai cosiddetti
"centri governativi", strutture che offrono accoglienza a diverse tipologie di
migranti e che possono essere raggrupparti in quattro diverse tipologie:
hotspot (sostitutivi dei CPSA); hub regionali (Centri di Prima Accoglienza,
sostitutivi dei CARA); CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) e CIE
(Centri di identificazione espulsione). Quest’ultimi sono stati Istituiti nel
1998 dalla legge sull’immigrazione Turco - Napolitano con la
denominazione di Centri di Permanenza Temporanea per poi essere
trasformati in CIE (Centri di identificazione ed espulsione) dalla legge
Bossi Fini e infine rinominati C.P.R. (Centri di Permanenza per i Rimpatri)
dalla legge Minniti-Orlando. Sono strutture detentive dove vengono reclusi
i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno e dove la loro
permanenza corrisponde di fatto ad una detenzione, in quanto sono privati
della libertà personale e sono sottoposti ad un regime di coercizione che,
tra le altre cose, impedisce loro di ricevere visite e di far valere il
fondamentale diritto alla difesa legale.
Il secondo sotto-insieme è rappresentato dal Sistema di protezione per
richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), gestito attraverso gli enti locali con
l'essenziale supporto e ausilio del terzo settore, che offre soprattutto
servizi per l'accoglienza e l'integrazione dei soggetti beneficiari, in quanto
si tratta di strutture ospitanti un numero di posti piuttosto limitato.
54
Si tratta di un sistema finalizzato a realizzare una forma di "accoglienza
integrata", che mira alla predisposizione di misure di orientamento e
accompagnamento legale e sociale, nonché alla costruzione di percorsi
individuali di inclusione e inserimento socio-economico. La gestione dello
SPRAR è affidata alla rete degli enti locali in partenariato con enti del
privato sociale territoriale. Questa modalità di gestione che si concretizza
in un vero e proprio coinvolgimento dei territori ha rappresentato uno dei
punti di forza del sistema, come ribadito anche nel Rapporto
sull'accoglienza di migranti e rifugiati in Italia. Il sistema SPRAR rende
responsabili le amministrazioni locali, valorizzando la scelta volontaria di
adesione, senza che la collocazione di un centro quindi sia vissuta come
un’imposizione.
Quello proposto dallo SPRAR non è un semplice progetto di accoglienza;
le persone accolte, infatti, non sono dei meri beneficiari passivi di
interventi predisposti in loro favore ma protagoniste attive del proprio
percorso di accoglienza. È per questo motivo che si tende a parlare di
un'"accoglienza integrata", che, attraverso l'attivazione di percorsi
differenti e modulati sulla singola persona, si adoperi al fine di assegnare
un posto nella società agli stessi beneficiari dei progetti. Lo scopo dello
SPRAR dovrebbe essere quello di "rendere liberi i titolari di protezione
internazionale dallo stesso bisogno di accoglienza". È per questo un
percorso lungo, molto spesso difficoltoso e non sempre approdato ai
risultati auspicati, ma che rappresenterebbe la strada per la creazione di
una rete di accoglienza che si dispieghi in termini ottimali. L'obiettivo è
quello di inaugurare un percorso che si lasci alle spalle la disomogeneità
dei diversi sistemi di accoglienza e la conseguente frammentazione dei
vari percorsi di integrazione tesi a facilitare i processi di inclusione sociale
dei richiedenti asilo.
Obiettivo chiave dei progetti territoriali è proprio quello di avviare un
percorso che abbia quali destinatari i singoli individui e che sia volto alla
(ri)-conquista da parte di questi ultimi della propria autonomia.
55
4.3. Un'accoglienza “mancata”
Malgrado siano ormai trascorsi molti anni dal tentativo di elaborare una
legge di attuazione del dettato costituzionale che sancisce il diritto all'asilo
politico, ad oggi l'Italia continua ad essere carente di una legge organica
che garantisca, in modo adeguato e dignitoso, tale diritto su tutto il
territorio nazionale.
L'incapacità di colmare lacune, di garantire standard di accoglienza
omogenei su tutto il territorio e di gestire il fenomeno migratorio in toto è
alla base delle diverse ammonizioni da parte di altri Paesi europei verso il
nostro Stato. Emblematica a tal proposito è la sentenza emessa da un
tribunale civile di Stoccarda del 15 luglio 2012, nella quale il giudice
tedesco si rifiutava di rimandare la richiesta d'asilo in Italia per una
famiglia palestinese, sbarcata in Italia e giunta in Germania. A motivare la
sentenza il fatto che ai richiedenti asilo in Italia viene riservato un
trattamento "inumano ed umiliante", che impone agli stessi di vivere in uno
stato "al di sotto della soglia di povertà". La stessa Commissione Europea
contesta all'Italia una limitata capacità generale di accoglienza del sistema
di asilo italiano. Ancora oggi ci troviamo ad avere a che fare con un
sistema fondato su una normativa frammentata, stratificata in una serie di
leggi e decreti e che non ha trovato le dimensioni, l'omogeneità e
l'articolazione necessarie a fronteggiare in maniera adeguata la sfida di
accogliere i richiedenti asilo e i rifugiati accompagnandoli verso
l'integrazione e l’inclusione. Nell'analisi del sistema di accoglienza ciò che
emerge in modo chiaro è la varietà dei centri in cui si articola, differenziati
per la natura dell'ente gestore (istituzionale o del privato sociale), per gli
obiettivi (prima o seconda accoglienza), per l'approccio (assistenzialista o
progettuale), per la natura più o meno coercitiva dell'inserimento, per il
carattere nazionale o locale del sistema di rete entro il quale il centro
d'accoglienza è inserito, per le caratteristiche strutturali (centri collettivi o
appartamenti singoli), per la tipologia dei servizi erogati, nonché per la
capacità ricettiva. A partire dall'approvazione del Piano Operativo
56
Nazionale del 10 luglio 2014 per fronteggiare il flusso straordinario di
cittadini extracomunitari, adulti, famiglie e minori non accompagnati, si è
cercato di superare lo logica emergenziale, che ha da sempre dominato
nelle scelte politiche nazionali di accoglienza.
In Italia, numerose sono stati i report e le ricerche sulle strutture di
accoglienza realizzati nel mondo accademico e dalle realtà del terzo
settore, coinvolte nell'assistenza ai richiedenti asilo.
Nel 2010, a distanza di 5 anni dal primo rapporto, anche Medici Senza
Frontiere è tornata nei luoghi di detenzione per i migranti privi di permesso
di soggiorno e di transito per i richiedenti asilo, e ha fotografato per la
seconda volta, nel documento “Al di là del muro”, la realtà che si vive
all'interno dei CIE, CARA e CDA, mettendo in luce il perdurare di
condizioni "disumane e degradanti": Rispetto alle visite condotte nel 2003
poco è cambiato, molti sono i dubbi che persistono, su tutti la scarsa
assistenza sanitaria, strutturata per fornire solo cure minime, sintomatiche
e a breve termine. Stupisce inoltre l'assenza di protocolli sanitari per la
diagnosi e il trattamento di patologie infettive e croniche. Mancano
soprattutto nei CIE, come ad esempio in quello di Torino, i mediatori
culturali senza i quali si crea spesso incomunicabilità tra il medico e il
paziente. Sconcerta in generale l'assenza delle autorità sanitarie locali e
nazionali.
Drammatiche anche le condizioni strutturali degli edifici adibiti a centri di
accoglienza: nella realtà, molto spesso, si tratta di edifici già esistenti e
costruiti per altre finalità (ex caserme, ex centri geriatrici...), mentre, nei
rari casi di strutture di nuova costruzione, quest'ultimi sono modellati su
esempi di istituti penitenziari, circondati da cinta murarie elevate. Le
inadeguatezze strutturali si riverberano anche a livello igienico e di
sicurezza. Si evidenzia un forte gap tra le prestazioni effettivamente
garantite e gli standard fissati dal Ministero dell'Interno. Di particolare
interesse è, a questo proposito, il Rapporto sullo stato dei diritti umani
57
negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e il trattenimento per
migranti in Italia curato dalla Commissione straordinaria per la tutela e la
promozione dei diritti umani del Senato, pubblicato nel marzo del 2012.
Tra le criticità maggiormente sottolineate, si sottolinea l'incapacità del
sistema di accoglienza ordinario di accogliere un numero di immigrati
troppo elevato rispetto alla capacità ricettiva delle strutture (i grandi centri
collettivi sono dotati di posti il cui numero può variare da 100/150 fino a
1.500/2.000). Inoltre, sono state riscontrate carenze nella fornitura di
servizi alla persona così come previsti dallo Schema generale di capitolato
per la gestione dei centri adottato nel 2008 (mediazione linguistica,
informativa legale, sostegno socio-psicologico), con potenziale danno
soprattutto per i soggetti più vulnerabili, come le vittime di tortura o trauma
estremo, le vittime di violenza sessuale o di genere e le persone con
disabilità.
Un esempio a noi vicino di grande centro in cui viene praticata una mala
accoglienza è il campo di Cona (ex base missilistica della provincia
veneta) dove nel 2017 Sandrine Bakayoko ha perso la vita. È uno di quei
centri collettivi, dove vivono un migliaio di immigrati. Uno dei troppi centri
nei quali, dati i numeri, è impossibile fornire adeguata accoglienza e
dignità.
Figura 20: spazi interni del hub regionale di Cona, Venezia, 2018
58
Un altro grande campo nella regione veneta si trova nella desolata
campagna di Bagnoli. Negli ultimi due anni all’interno di quest’ultimo sono
stati semi-internati mediamente 800 richiedenti asilo, costantemente
vessati dall’assenza di servizi socio-sanitari adeguati, privati di uno degli
elementi per loro più preziosi e cioè del supporto legale e totalmente
isolati dal tessuto sociale circostante. È fondamentale ricordare che
questa condizione di violenta alienazione e di abbandono viene vissuta
per quasi tutti gli ospiti per un periodo molto lungo (circa un anno e
mezzo) e cioè dalle fasi immediatamente successive all’approdo fino al
termine dell’iter amministrativo e poi giudiziario percorso dalla domanda di
asilo. Questo si pone in contrasto con le previsioni normative che indicano
i C.P.A. come luoghi dove ospitare i richiedenti per il tempo “strettamente
necessario” alla verifica del loro stato di salute psico-fisica e di eventuali
loro vulnerabilità particolari.
In Italia esistono però anche esempi di buona accoglienza, tra cui:
• Baobab Experience a Roma;
• il Naga di Milano;
• il progetto “Accoglienza Degna” (LABAS BOLOGNA): progetto che,
attraverso l’auto-valorizzazione, il mutualismo e la cooperazione
solidale vuole affrontare in maniera critica ma concreta la crisi
abitativa, il fallimento delle politiche dell’abitare e quelle dell’asilo.
Attraverso Accoglienza Degna è stato realizzato un dormitorio
autogestito, dove si annulla la linea di separazione tra operatori e
beneficiari, dove cenare e fare colazione insieme, dove cambiarsi e
lavarsi, dove informarsi e connettersi a reti e servizi, dove
progettare insieme iniziative e attività, dove farsi carico tutti/e della
gestione e della organizzazione.
59
5. IL NOSTRO PROGETTO PER UN SISTEMA
DI ACCOGLIENZA INCLUSIVO
5.1. Dalla migrazione come sofferenza alla mobilità
come diritto umano inalienabile
La nostra proposta per un sistema di accoglienza italiano inclusivo si è
sviluppata partendo da alcuni documenti con o meno valenza giuridica di
riferimento. Ovviamente un buon sistema di accoglienza deve almeno
rispettare (non solo scritto sulla carta) l’art. 14 della Dichiarazione
Universale dei diritti umani, la Convenzione di Ginevra sullo status dei
rifugiati (1951) e l’art. 10 della Costituzione italiana (in vigore dal 1948),
che sono già stati da noi ampiamente analizzati. Inoltre, abbiamo deciso di
far riferimento anche a un documento meno conosciuto, la Carta di
Palermo 2015, perché pensiamo proponga un modello inclusivo di trattare
il fenomeno delle migrazioni. La Giunta comunale del sindaco di Palermo,
Leoluca Orlando, il 20 marzo 2015 ha approvato il documento “Mobilità
umana internazionale – Carta di Palermo 2015”, elaborato nell’ambito del
convegno internazionale “Io sono persona”. Gli obiettivi che questo
documento definisce sono: l’avvio di un processo culturale e politico per
l’abolizione del permesso di soggiorno, la radicale modifica della legge
sulla cittadinanza e l‘affermazione della mobilità come diritto della persona
umana, perché “nessun essere umano ha scelto, o sceglie, il luogo dove
nascere” (Carta di Palermo 2015).Quindi per i fautori di questa Carta e
anche per noi, bisogna trattare il fenomeno non più come un’emergenza
ma come un dato strutturale, affrontato con una visione progettuale che
abbia come valore centrale il riconoscimento del migrante come essere
umano. È necessario agire affinché la mobilità sia considerata un diritto
umano inalienabile per garantire una vita dignitosa a tutti gli uomini.
Il concetto di sicurezza deve essere, quindi, coerente con tale visione per
cui il migrante non deve più essere visto come un pericolo e alibi per
60
nascondere razzismi, egoismi e colonialismi del terzo millennio che tuttora
esistono; la sicurezza deve essere quella della persona in arrivo più che
quella dell’identità culturale, religiosa, dell’accesso al mercato del lavoro e
di tutela delle frontiere.
È la politica, a nostro avviso, che deve promuovere e realizzare questa
nuova visione e di conseguenza questo nuovo approccio di intendere la
mobilità come un diritto umano inalienabile. Una proposta a tal riguardo
che viene avanzata dalla Carta di Palermo è l’abolizione del permesso di
soggiorno; non si tratta in questo caso di uno slogan utopico ma di una
scelta progettuale e valoriale che va verso l’eliminazione di apparati
normativi emergenziali e disumani. Infatti la storia è piena di apparati
normativi inumani, come la pena di morte e la schiavitù.
L’Unione Europea deve essere l’arsenale di valori umani e democratici
che si concretizzano in un’ottica e in uno spazio internazionale a raggio di
d’azione globale; da un lato deve sollecitare la comunità mondiale affinché
la libertà di circolazione delle persone, oltre che dei capitali e delle merci,
sia riconosciuta internazionalmente e non solo all’interno dello spazio
Schengen. Dall’altro, il processo migratorio deve essere affrontato
attraverso interventi multilivello, non solo a livello internazionale, europeo
e nazionale ma anche coinvolgendo gli enti locali, le ONG, le associazioni.
Trattando la mobilità come diritto fondamentale di ogni persona. Tutt’oggi
non esiste una normativa che disciplini un dovere specifico degli Stati di
attuare un sistema di accoglienza inclusivo.
Basti pensare al lungo e ingiusto iter burocratico che devono affrontare i
migranti che spesso li espone al rischio di ricadere in condizioni di
precarietà e emarginazione; ad esempio va eliminata la previsione della
perdita del soggiorno per coloro che perdono il lavoro.
Riassumendo, il documento chiede la riduzione fondata della burocrazia,
che ostacola il riconoscimento della cittadinanza italiana, e rivendica il
diritto al futuro, alla protezione, all’abitazione, all’iscrizione anagrafica,
61
all’accoglienza, alla salute, alla partecipazione politica e alla
contaminazione culturale.
La Carta di Palermo ha raccolto molti consensi, tra cui quelli di Dusseldorf
e Bogotà, ed è stata inoltrata al Presidente della Repubblica italiana,
Sergio Mattarella, a Papa Francesco, al Presidente del Consiglio dei
Ministri, l’allora Matteo Renzi, ai Presidenti di Senato e Camera,
all’Organizzazione delle Nazioni Unite, a tutte le Agenzie internazionali, al
Presidente del Parlamento europeo, a quello della Commissione europea
e, tramite l’Anci nazionale, a tutti i sindaci italiani e all’Ars, innescando una
discussione all’interno della comunità internazionale.
5.2. Introduzione al progetto
Notando affinità tra le nostre idee in materia e ciò che è scritto nella Carta
di Palermo, abbiamo realizzato il nostro progetto per un sistema di
accoglienza inclusivo. Appena abbiamo iniziato a progettare ci siamo
accorte che per l’attuazione di tale sistema servirebbero innanzitutto
politiche di multilevel governance sullo status dell’asilo e dei rifugiati. Fin
dall’inizio ci siamo rese conto che si tratta di un processo di attuazione
complesso e non immediato. Quindi, di seguito presentiamo prima la
nostra idea “utopica”, che a nostro avviso è la soluzione più adeguata di
trattare la materia, e poi la nostra proposta di un sistema di accoglienza
italiano inclusivo. Questo perché capiamo l’importanza e l’urgenza di
risolvere l’emergenzialità dell’approccio ora presente nel nostro Paese
nell’affrontare la migrazione forzata.
62
5.3. Un progetto di multilevel governance
I processi migratori sono da sempre esistiti e la mobilità è quindi un fattore
intrinseco, che da sempre ha caratterizzato l’Umanità. È un fenomeno
universale che si sviluppa nel tempo e nello spazio; questa universalità è
la ragione per cui noi riteniamo si debba agire a livello globale, attraverso
istituzioni e strutture idonee. A tal proposito le Nazioni Unite dovrebbero
democratizzarsi per diventare anche interlocutore privilegiato e
protagonista di politiche inclusive di accoglienza. Troppo spesso, infatti,
sottovalutiamo il ruolo dell’ONU o ne stravolgiamo il suo significato a
causa di logiche contabili, speculative, finanziare senza renderci conto che
è un esempio straordinario di volontà di convivenza a partire dal suo
essere un insieme di comunità eterogenee. Proprio per i motivi
sopraelencati le Nazioni Unite devono istituire un’Agenzia specializzata al
collocamento dei richiedenti asilo e affiancata da un organo di garanzia
che produca rapporti periodici (con reports anche della società civile) e
sanzioni (economiche-disciplinari) nel caso in cui si riscontri un
inadempimento del rispetto dei diritti umani. L’ONU deve creare politiche
di multilevel governance, conciliando le diverse realtà: interregioni, Stati,
OIG, ONG, popoli, minoranze, governi locali e city diplomacy. Bisogna
implementare i corridoi umanitari, affinchè le persone possano giungere
attraverso vie legali e sicure il Paese ospitante.
Siamo consapevoli che questo nostra idea per essere attuata richiede
tempo e numerose modifiche strutturali, sia dell’ONU che della Comunità
internazionale (come l’internazionalizzazione dei diritti umani e la
democratizzazione internazionale).
È necessario agire fin da subito per migliorare la situazione dei richiedenti
asilo e dei rifugiati.
A tal proposito crediamo che l’agire locale sia lo strumento più idoneo, in
questo momento storico, per attuare piccoli ma veri cambiamenti.
63
5.4. Un sistema di accoglienza umano e inclusivo
nel territorio italiano
La nostra analisi riguardante il terreno dell’accoglienza in Italia parte
dall’esigenza di inquadrare la suddetta questione in un contesto più ampio
legato alle migrazioni e all’andamento socio-demografico. Quello che, con
il nostro progetto vorremmo proporre, è una selezione di metodi inclusivi
per migliorare le condizioni dei beneficiari innanzitutto, il loro benessere e i
loro diritti. Pensiamo sia giusto che l’accoglienza si fondi sulla garanzia di
una vita dignitosa per i migranti e per questa ragione vogliamo delineare
un percorso inclusivo.
Noi da questo presupposto proponiamo in base ai bisogni specifici di ogni
singola persona:
• Un’accoglienza diffusa: la soluzione esiste, si chiama progetto
Sprar. È un modello operativo già praticato (da circa quindici anni)
anche nell’Alto Vicentino. Il comune di Santorso è capofila di un
progetto per 39 posti, che ha permesso di accogliere più di 400
persone. Istituzionalizzare un’accoglienza fondata su centri per
piccoli gruppi e non in spazi collettivi, affrontando così il fenomeno
migratorio in un’ottica non di sicurezza dei confini (ed
emergenzialità) ma di rispetto dei diritti umani; Vi deve essere una
rete nazionale ramificata a livello regionale e comunale, in cui una
comunicazione continua e un’attenzione verso i bisogni umani
siano il perno di questa tipologia di accoglienza. Infatti, come si
evince dalla situazione italiana in materia, non è possibile garantire
un’assistenza adeguata nei grandi centri. Questi sono solamente
luoghi ad impatto negativo sul territorio, che alimentano il razzismo
e dove i diritti dei migranti non vengono rispettati e a loro volta gli
stessi migranti non riescono a integrarsi positivamente nel territorio.
Inoltre, le persone diventano numeri e i problemi si moltiplicano
64
senza che possa essere trovata una risposta adeguata a causa
dell’impossibilità di fornire una reale assistenza.
Un’accoglienza giusta è possibile solo se gestita con piccoli numeri,
a misura di persona dove, favorendo l’autonomia e la responsabilità
degli ospiti fin dall’arrivo, si possono sviluppare dei reali progetti di
inclusione e rendere il territorio protagonista politico delle comunità
e luogo di scambio interculturale. Lo Sprar dà ai comuni la piena
titolarità nella gestione dell’arrivo dei richiedenti asilo. L’obiettivo è
di transitare il maggior numero di persone dalla gestione prefettizia
a quella dei comuni, strutturando un intervento permanente nel
nostro territorio. Per realizzare in maniera completa e per far si che
questa modalità di accoglienza sia una soluzione di lungo periodo
bisogna che ogni ULSS presente nei diversi territori si faccia carico
della gestione;
• l’attuazione di un percorso individuale e strutturato: centrato sullo
sviluppo dell’autonomia dei beneficiari per quanto riguarda i servizi
erogati. Per esempio, attraverso un’autonoma preparazione dei
pasti che permetterebbe un maggior rispetto delle tradizioni
religiose e culturali nonché delle prescrizioni mediche. Si deve
intervenire affinché le persone ospiti acquisiscano strumenti per
diventare a tutti gli effetti cittadini dei Paesi ospitanti una volta usciti
dai programmi di assistenza. Attraverso questo processo le singole
persone possono (ri)costruire le proprie capacità di scelta e di
progettazione e (ri)acquistare la percezione delle proprie
potenzialità e opportunità”;
• un Piano Formativo ad hoc con fondi Ue e statali: organizzare corsi
intensivi di lingua, cultura e civiltà italiana: un sistema di
accoglienza inclusivo deve prevedere corsi di lingua italiana di un
minimo di 10 ore settimanali; devono essere tenuti da personale
competente ed esperto in materia. Questo perché la lingua è il
65
principale mezzo per permettere un’integrazione nel territorio in
diversi contesti: lavorativo, sociale, scolastico e altri;
• il dialogo con la comunità e il suo territorio: creando momenti di
conoscenza e confronto reciproco con cui i beneficiari possano
intraprendere relazioni autentiche con la comunità arricchendo
entrambe le parti coinvolte. Questa potrebbe essere, a nostro
avviso, una possibile risposta agli episodi sempre più frequenti di
xenofobia e razzismo, che sono causati spesso da una poca
conoscenza dell’altro e da una scorretta informazione;
• inserimento occupazionale: bisogna procedere a una mappatura
del fabbisogno lavorativo del territorio su cui si opera in modo tale
da poter attivare tirocini formativi e/o borse lavoro mirati e
promuovere inserimenti lavorativi a seguito di tirocini formativi
retribuiti;
• il diritto alla salute: va attuato l’articolo 32 della Costituzione italiana
che non distingue tra cittadini e migranti ma si rivolge a tutte le
persone indigenti sul territorio nazionale: “la Repubblica tutela la
salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Bisogna
semplificare le procedure per l’iscrizione al Servizio sanitario e
risolvere la perdita del diritto alle cure gratuite per le persone che
perdono il diritto all’iscrizione anagrafica. La salute diventerebbe
così un bene pubblico e individuale indivisibile (Carta di Palermo).
Bisogna inoltre garantire una stretta collaborazione con i Servizi
socio-sanitari locali, con i dipartimenti di salute mentale territoriali e
le realtà del privato competenti nell’accompagnamento
all’inserimento socio-economico-abitativo delle persone con tali
caratteristiche.
Si creerebbe in questo modo un Servizio sanitario nazionale
inclusivo;
• la presenza di personale qualificato in grado di rispondere ai
bisogni dei beneficiari: per esempio attraverso un servizio di
66
mediazione linguistica e interculturale inclusiva. Il compito del
mediatore non è soltanto facilitare la comprensione linguistica, ma
soprattutto migliorare le condizioni della comunicazione
interculturale, fondamentale per il buon andamento di un progetto di
accoglienza integrata. Vista l’importanza e la delicatezza del suo
ruolo, il mediatore linguistico-culturale deve essere una figura
professionale formata, in possesso di titoli riconosciuti da enti
pubblici (per esempio università, regioni, enti locali), con una
comprovata esperienza professionale nel settore e con attitudini
quali l’empatia e la capacità di comunicare e di interagire con gli
altri;
• azioni di informazione e di coinvolgimento degli attori sociali del
territorio, in particolar modo quelli istituzionali. È fondamentale
difatti che il progetto, oltre l’attività di mappatura dei servizi sanitari,
sociali, educativi, costruisca una rete di collaborazioni con le
istituzioni/servizi territoriali quali gli uffici dell’anagrafe, le USLL, la
Questura, la Prefettura, i centri per l’impiego (CPI), i centri
provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA), gli enti di formazione
professionale, gli istituti scolastici, i servizi sociali del comune, ecc.
• l’orientamento e l’accompagnamento all’inserimento abitativo. La
precarietà abitativa è uno dei fattori che incide maggiormente sui
processi di esclusione sociale, impedendo la stabilizzazione della
persona e costringendola in una condizione di incertezza
continuativa. La ricerca di una sistemazione abitativa, la più
possibile durevole e autonoma, rappresenta un aspetto
fondamentale nel percorso verso la (ri)conquista dell’autonomia e
dell’integrazione. Infatti, come si riscontra nel quotidiano, permane
una reale difficoltà da parte dei rifugiati a reperire alloggi autonomi
e adeguati;
• il recupero del proprio background: riconoscere alla persona il
possesso e la qualità di determinate conoscenze, competenze e
qualifiche che il diretto interessato potrà spendere nel suo percorso
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d’inserimento socio-economico (certificazione delle competenze).
Per esempio, il riconoscimento dei titoli di studio permetterebbe
un’inclusione del soggetto nel contesto sociale, riconoscendo in lei
(o lui) le capacità già acquisite;
• la tutela legale: bisogna riuscire a garantire un percorso di
accompagnamento e orientamento giuridico svolto da personale in
possesso di certificate e specifiche competenze per preparare i
beneficiari alla convocazione della Commissione territoriale;
• un sistema di garanzia all’interno delle strutture d’accoglienza
composto da tecnici: è necessario un impegno concreto di
monitoraggio al fine di verificare la qualità dei servizi erogati e il
rispetto dei livelli di accoglienza;
• nel caso dei minori stranieri non accompagnati, si devono garantire
le collaborazioni con i servizi socio-educativi locali, con il mondo
dell’associazionismo giovanile, con le associazioni sportive e
ricreative;
• nel caso di servizi in favore di vittime di tratta, o sospette tali, è
imprescindibile il lavoro di rete e il raccordo con le realtà,
associative e istituzionali, specializzate nell’accoglienza e nella
protezione di tale specifica condizione di vulnerabilità;
• un’attenzione particolare deve essere riservata alla questione di
genere: creare progetti differenziati, ma non discriminatori, in base
alle diverse esigenze per fornire a tutte gli strumenti idonei (ad
esempio consultori, asili nido pubblici, servizi di assistenza
psicologica e psichiatrica) per superare le difficoltà e violenze
vissute ed affrontare il presente e il futuro.
Il nostro progetto sviluppa un’accoglienza inclusiva che vede nei migranti
forzati non un onere per lo Stato ospitante, ma piuttosto una risorsa in
quanto cerca di sviluppare le loro potenzialità rendendoli protagonisti attivi
del proprio percorso di accoglienza e di inclusione sociale.
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