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Università di Pisa
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Dipartimento: Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia
Tesi di laurea
Trattamento chirurgico con approccio robotico
dell’acalasia esofagea:
studio prospettico dei risultati clinici e funzionali
Candidata: Relatore:
Claudia Peluso Dr. Stefano Santi
A.A. 2014-2015
1
2
INDICE
ACALASIA ESOFAGEA 3
DEFINIZIONE E EIDEMIOLOGIA 3
EZIOPATOGENESI 4
CLINICA 9
DIAGNOSI 11
TERAPIA 21
CHIRURGIA ROBOTICA 44
IL SISTEMA ROBOTICO DAVINCI SURGICAL SYSTEM 44
VANTAGGI E LIMITI DEL SISTEMA DA VINCI 49
HELLER-DOR ROBOT-ASSISTED: TECNICA CHIRURGICA 50
EFFICACIA E SICUREZZA 55
FOLLOW UP 58
STUDIO CLINICO 65
INTRODUZIONE E OBIETTIVI DELLO STUDIO 66
MATERIALI E METODI 66
RISULTATI 70
DISCUSSIONE 77
CONCLUSIONI 79
RINGRAZIAMENTI 80
BIBLIOGRAFIA 81
3
ACALASIA ESOFAGEA
DEFINIZIONE E EIDEMIOLOGIA
L’acalasia è una patologia funzionale dell’esofago, descritta per la prima volta nel 1674
dal medico inglese Sir Thomas Willis (1621-1675). Egli osservò, nei pazienti affetti dal
disturbo, l’incapacità a deglutire il bolo alimentare, e definì il problema
“cardiospasmo”, in altre parole, l’impossibilità del cardias a rilassarsi. Si cimentò allora,
nel primo, rudimentale, trattamento dell’acalasia che consisteva nell’utilizzo di una
spugna, montata su un osso di balena, grazie alla quale spingere il cibo dall’esofago in
stomaco, per permettere al paziente di alimentarsi.
Il termine acalasia deriva dal greco “ακαλασια”, vuol dire “mancato rilasciamento” e fu
introdotto nel 1914 dal Dott. A. Hertz per il quale la patologia non era causata dal
“cardiospasmo” ma, piuttosto, dall’assenza del fisiologico rilasciamento del cardias
quando veniva raggiunto dall’onda peristaltica1. Nel 1937 Lendrum, ipotizzando una
degenerazione nervosa alla base del disturbo, analizzò tredici campioni autoptici
prelevati in pazienti acalasici e notò, in ognuno di essi, l’integrità del nervo vago e,
soprattutto, una perdita delle cellule gangliari nel plesso mienterico2.
L’acalasia è una patologia rara, ha un’incidenza di 0,4-0,6 casi/100.000 abitanti/anno e
una prevalenza di 8 casi/100.000 abitanti. Interessa qualunque fascia d’età, con un
picco che va dai 30 ai 60 anni3. I soggetti affetti, uomini e donne in ugual misura, hanno
un’aspettativa di vita pari a quello della popolazione generale4.
4
EZIOPATOGENESI
La patogenesi della malattia si può far risalire a una perdita, sia a livello del corpo
esofageo, sia dello sfintere esofageo inferiore (SEI), delle cellule gangliari del plesso
mienterico di Auerbach, situato tra lo strato longitudinale e quello circolare della tonaca
muscolare. Insieme al plesso sottomucoso di Meissner, questo sistema nervoso
intramurale, è considerato come un terzo componente del sistema nervoso vegetativo. Il
simpatico e il parasimpatico, inviano le loro fibre ai plessi, regolandone la funzione e
cooperando al fine di garantire una corretta funzionalità dell’apparato gastroenterico;
tuttavia, è stato dimostrato che una denervazione delle fibre extramurali non inficia la
funzionalità complessiva del sistema, cosa che invece accade quando vengono distrutte,
o sono congenitamente assenti, le fibre gangliari stesse dei plessi intramurali.
All’interno del plesso mienterico sono presenti neuroni di varia natura, tra cui quelli
colinergici con azione eccitatoria sulla motilità intestinale, e quelli inibitori, tra cui
quelli adrenergici, che liberano noradrenalina, quelli che secernono il VIP (vasoactive
intestinal peptide) e l’ossido nitrico (NO).
Molti studi hanno confermato che la perdita di neuroni5 è, per la maggior parte, ad
appannaggio di quelli inibitori. Evidenze supportano come la prima alterazione
istopatologica sia la presenza di un importante infiltrato infiammatorio6,
prevalentemente caratterizzato da linfociti T, con occasionali eosinofili, mastociti,
scarsi linfociti B, e macrofagi che, grazie alla produzione di citochine pro-infiammatorie
(IL-2, TNF, INF-γ), determina l’atrofia neuronale e la aganglionosi che si osserva nella
maggior parte dei pazienti, per condurre poi alla degenerazione delle fibre nervose e alla
fibrosi7. In particolare, ci sono dati che suggeriscono come la degenerazione nervosa
vari dall’esordio della malattia. Se inizialmente, infatti, a livello del SEI si riscontra la
perdita delle cellule gangliari e la riduzione del numero delle fibre nervose
5
intramuscolari, nelle acalasie di lunga durata, si assiste alla degenerazione del nervo
vago e dei nuclei motori dorsali, cosa che porta anche ad alterazione della peristalsi a
livello del corpo esofageo; questo sarebbe una conseguenza della perdita dei neuroni
mienterici8. Importante è anche l’ossido nitrico che avendo un’azione inibitoria sulla
muscolatura liscia del SEI, ne determina il rilasciamento.9 Studi condotti su una
popolazione di pazienti, hanno dimostrato come, rispetto ai controlli, vi sarebbe una
perdita della sintetasi inducibile dell’ossido nitrico(iNOS), enzima che media la
conversione di arginina e citrullina in NO, con compromissione del rilascio delle fibre
muscolari dello sfintere10
. Il perché questi meccanismi siano maggiormente localizzati a
livello del SEI, piuttosto che altrove, è stato a lungo ignorato. Recentemente,
l’attenzione dei ricercatori si è spostata sulle cellule di Cajal. Queste si trovano in
maniera ubiquitaria lungo l’apparato digerente, e fungono da pacemaker nel plesso
mienterico, cosa grazie alla quale si generano delle onde peristaltiche spontanee, e
modulano, inoltre, la neurotrasmissione eccitatoria e inibitoria nella muscolare propria.
In particolare, hanno la capacità di trasformare gli impulsi neuro-ormonali in impulsi
elettrici e hanno una densità di concentrazione maggiore a livello degli sfinteri, sia del
SEI che del piloro11,12
. Nei pazienti acalasici si sono riscontrati due sottotipi di pattern:
uno a maggiore presenza di cellule di Cajal, rispetto ai controlli, e uno con una minore
prevalenza. Questa discrepanza si correla con la diversa età dei pazienti analizzati e con
la diversa durata dei sintomi. Nel primo gruppo, infatti, i soggetti hanno un’età più
avanzata e sintomi presenti da lungo tempo, mentre, nel secondo, i pazienti sono più
giovani e l’insorgenza della sintomatologia è recente. È stata notata, anche, una
correlazione inversa tra la densità delle fibre nervose e quella delle cellule di Cajal:
l’aumento delle cellule consegue (come risposta compensatoria per la capacità
intrinseca delle cellule interstiziali di produrre ossido nitrico e di mediare, quindi, una
6
risposta inibitoria) a una primaria degenerazione delle fibre nervose. In altri pazienti è
stata riscontrata, invece, principalmente una degenerazione delle cellule di Cajal13
.
L’eziologia dell’acalasia, per quanto incerta, si può ricondurre a eventi che stimolano la
risposta infiammatoria, precedentemente descritta, e può essere ricondotta a fattori
genetici, autoimmuni e infettivi.
Fattori genetici
Nei bambini la causa più frequente è la Sindrome di Allgrove, detta anche “sindrome
della tripla A”, caratterizzata da acalasia, alacrimia, malattia di Addison14
. Oltre alla
tripletta sintomatologica che attribuisce il nome alla sindrome, si possono riscontrare
anche disfunzioni autonomiche e processi neurodegenerativi. È una patologia
estremamente rara di cui non si conosce l’esatta prevalenza; nel mondo sono stati
accertati meno di cento casi, a partire dal 1978, anno in cui fu descritta per la prima
volta. È determinata da una mutazione genetica, trasmessa con modalità autosomica
recessiva a carico di un gene, presente sul cromosoma 12q13 chiamato ALADIN15
. La
mutazione impedisce la corretta formazione di complessi proteici a livello della
membrana nucleare, cosa che impedisce, a sua volta, il passaggio di molecole attraverso
la membrana stessa. Questo inficia, di fatto, la capacità della cellula di riparare il DNA
e di proteggerlo dal danno ossidativo16
.
Sono stati compiuti studi genetici nei pazienti affetti da acalasia idiopatica, in
particolare sui singoli polimorfismi nucleotidici (SNP), con l’intento di individuare le
mutazioni responsabili della patologia. Gli studi sui SNPs relativi al gene per la ossido
nitrico sintetasi 2A e per il recettore 1 del peptide intestinale vasoattivo, non hanno dato
risultati soddisfacenti, se non per l’associazione tra i polimorfismi a carico del recettore
1 del peptide intestinale vasoattivo e l’insorgenza tardiva della patologia17,18
.
Recentemente uno studio caso-controllo ha dimostrato come un polimorfismo,
7
localizzato a livello del locus della linfotossina-α (LTA) e del tumor necrosis factor-
α(TNF-a) sia associato ad una maggiore suscettibilità per l’insorgenza dell’acalasia
idiopatica19
.
Fattori autoimmuni
Il ritrovamento, nel siero dei pazienti affetti, di anticorpi in grado di legare i neuroni del
plesso mienterico20
, ha portato a considerare l’implicazione del sistema immunitario
nell’insorgenza dell’acalasia. Anche l’analogia tra i disordini motori del tratto
gastrointestinale, come la sindrome dell’intestino irritabile, la pseudo-ostruzione
intestinale, ha posto il dubbio di una fisiopatologia analoga21
. La presenza degli
autoanticorpi antineuronali, è stata indagata in una serie di studi che hanno dimostrato
come questa possa essere un epifenomeno che si riscontra anche in altre patologie
esofagee in cui è presente una infiammazione, come la malattia da reflusso
gastroesofageo (MRGE)22–24
. Alcuni autori si sono soffermati sullo studio degli antigeni
umani leucocitari (HLA) del complesso maggiore di istocompatibilità di classe II25
.
Questi studi hanno dato risultati positivi, specialmente in considerazione delle origini
dei pazienti: gli alleli del sottotipo HLA-DQ sarebbero implicati nell’insorgenza della
patologia nei soggetti caucasici, viceversa quelli del tipo HLA-DR nei soggetti originari
del continente africano25,26
. Recenti ricerche hanno smentito, tuttavia, la correlazione
tra le varianti alleliche degli HLA, gli anticorpi antineuronali e le caratteristiche
cliniche27
. Dati interessanti sono emersi dall’analisi delle patologie autoimmuni presenti
in un campione di pazienti affetti da acalasia: la prevalenza di almeno cinque delle
diverse patologie autoimmuni ricercate (diabete mellito di tipo I, ipotiroidismo, lupus
eritematoso sistemico, uveite e la sindrome di Sjögren), risulta più elevata nei soggetti
che presentano acalasia28
. Queste ricerche, sebbene non conclusive, dimostrano una
chiara implicazione del sistema immunitario nella patogenesi della malattia.
8
Fattori infettivi
Gli studi sulla possibile implicazione infettiva, nella genesi dell’acalasia, hanno avuto
luogo anche grazie alle osservazioni fatte riguardo alla malattia di Chagas. Questa è una
patologia infettiva, endemica in America Latina, causata dal Trypanosoma Cruzi. Nei
soggetti affetti determina una prima fase di acuzie, caratterizzata da segni e sintomi
aspecifici tra cui febbre, linfoadenomegalie, pallore, dispnea; sono presenti, inoltre,
segni patognomonici come il segno di Romaña, e lo Chagoma. A questa fase, che può
durare anche dei mesi, segue la fase di malattia cronica in cui si possono manifestare gli
effetti della parassitosi in vari organi e apparati tra cui quello cardiaco, quello
gastrointestinale e nervoso. L’esofago è uno degli organi più frequentemente interessato
e vi si riscontrano alterazioni anatomofunzionali come la perdita delle cellule gangliari
del plesso mienterico e la presenza di anticorpi diretti contro il recettore muscarinico
M2 dell’acetilcolina. Ciò determina una sintomatologia simile a quella dell’acalasia e, a
causa dei deficit funzionali, l’organo può andare incontro a dilatazione fino al
megaesofago. Sulla base di queste evidenze, alcuni autori si sono concentrati sul
possibile ruolo degli agenti patogeni nella patogenesi dell’acalasia idiopatica. Sono stati
presi in considerazioni diversi agenti virali, tra cui il Paramyxovirus, l’Herpes simplex,
la Varicella Zoster e il Papilloma virus. Sebbene studi iniziali abbiano fatto presagire
un reale coinvolgimento di questi agenti virali29,30
, studi successivi hanno escluso la loro
partecipazione, pur non avendo, invece, confutato l’implicazione di altri agenti
patogeni31,32
. La presenza nel SEI di un infiltrato linfocitario superiore rispetto a quello
normalmente presente, ha spinto gli studiosi della patologia a indagare più a fondo.
Risultati promettenti sono stati ottenuti nel 2008, da due team diversi che hanno
dimostrato, grazie allo studio dei recettori delle cellule T linfocitarie (TCR) e alla
9
capacità di queste cellule di riconoscere l’antigene del HSV-1, come un’infezione
latente da herpes-virus di tipo 1 determini una risposta infiammatoria che porta alla
selezione di un clone di linfociti; la produzione di citochine infiammatori di tipo Th-1
(IFN-γ, IL-2) da parte di questo clone sembra, quindi, essere alla base del danno
neuronale indotto33,34
.
La patologia ha chiaramente un’origine multifattoriale che solo studi futuri potranno
elucidare, così da aprire nuove prospettive in merito alla diagnosi e al suo trattamento.
CLINICA
La disfagia è il sintomo più comune. Inizialmente interessa i cibi solidi, e solo nelle fasi
più avanzate coinvolge anche i liquidi. In una piccola percentuale di pazienti si assiste a
quella che è definita “disfagia paradossa”, cioè più pronunciata per i liquidi che per i
solidi. L’esordio è spesso graduale e il disturbo, quando il paziente si rivolge al medico,
arriva ad essere percepito quotidianamente, ad ogni pasto. Spesso, il paziente mette in
atto delle manovre, come il bere molto durante il pasto, o bere bevande gassate che,
aumentando la pressione intraesofagea, facilitano l’apertura del SEI e, quindi, lo
svuotamento dell’esofago. Anche il mangiare piano e poco caratterizza i pazienti che,
con il tempo, forse anche per dei meccanismi di evitamento, vanno incontro ad una
perdita di peso cospicua che peggiora nettamente la loro qualità di vita.
La persistenza del cibo indigerito e di saliva nell’esofago determina rigurgiti, sempre
più importanti con il progredire della patologia, che possono essere esacerbati dal
clinostatismo. Questo può esporre il paziente al rischio di sviluppare infezioni
respiratorie, come bronchiti e, raramente, polmoniti ab ingestis, ed egli stesso riferisce
di preferire una posizione semiseduta durante il riposo notturno per non incorrere nella
10
tosse e nel senso di soffocamento. Il rigurgito dell’acalasico si distingue da quello del
paziente affetto da patologie come la MRGE, per il sapore più blando e privo di note
acide35
; è più tipico delle fasi avanzate, quando l’esofago va incontro a dilatazione e può
accompagnarsi ad alitosi persistente, dovuta al ristagno alimentare. La pirosi è un
sintomo che spesso rende difficile la diagnosi. Non è associata al reflusso
gastroesofageo ma, piuttosto, all’aumento di acido lattico determinato dal cibo ritenuto
in esofago e dall’ingestione di bevande contenenti anidride carbonica36
. Alcuni autori
suggeriscono che ciò possa, invece, essere indicativo di una patologia da reflusso latente
e, quindi, da una minor pressione del SEI37
. Altro sintomo è il dolore retrosternale
presente in circa il 60% dei pazienti acalasici, più frequente nei soggetti giovani, di più
difficile trattamento e sulla cui natura si sa ancora poco38
.
Molto utilizzato è lo score di Eckardt, che assegna un punteggio da zero a tre (in base
alla frequenza e all’entità) ai seguenti parametri: perdita di peso, disfagia, dolore
retrosternale, rigurgito39
. Questo permette di inquadrare in maniera semplice i pazienti e
la severità del quadro clinico.
L’acalasia viene considerata un fattore di rischio per il cancro esofageo, in particolare
per la variante squamo cellulare, anche se sono stati riscontrati casi di adenocarcinoma e
di esofago di Barrett40
. Questo avviene a causa della stasi del materiale ingerito che
determina un’irritazione cronica a carico della mucosa con possibile degenerazione in
senso maligno. Questa associazione non confermata inizialmente41
, è stata, invece,
ampiamente dimostrata in ricerche successive42,43
. È stato condotto un follow-up di
circa vent’anni in pazienti acalasici con sintomi presenti da almeno un decennio: a
seguito di ripetuti controlli endoscopici e di analisi citologiche ottenute tramite brushing
è stata rilevata una percentuale di carcinoma nel 9,2% dei pazienti, percentuale che sale
a 18,92% nelle acalasie in stadio avanzato44
. Data la prognosi infausta del carcinoma
11
esofageo, sarebbe opportuno effettuare controlli ravvicinati nei pazienti, così da poter
individuare le eventuali lesioni nelle fasi più precoci. Oltre alle classiche metodiche
endoscopiche, è stato proposto l’uso dei coloranti vitali e della magnificazione per
evidenziare lesioni precancerose e carcinomi in situ: questo aumenta la risoluzione della
visualizzazione e dà al clinico maggiori possibilità di individuarle45
. La prognosi in
questi pazienti non sembra, tuttavia, essere differente rispetto a coloro che presentano il
carcinoma in assenza di acalasia46
.
DIAGNOSI
Se esiste il sospetto clinico di acalasia, l’esame diagnostico di primo livello è
l’esofagogastroduodenoscopia (EGDS). I rilievi diagnostici, sono diversi: l’esofago può,
infatti, apparire dilatato e, spesso, contenente ingesti; al passaggio attraverso la
giunzione esofago gastrica, si può avvertire il “segno dello scatto”, una resistenza al
transito dello strumento all’ingresso della cavità gastrica (Fig. 1).
Figura 1. Reperti endoscopici in corso di EGDS in paziente acalasico. L'esofago appare dilatato e contenente ingesti e saliva. La mucosa mostra segni di esofagite, dovuta al ristagno del materiale ingerito.
Questi elementi, purtroppo, non sono sempre presenti all’esordio della patologia. Alcuni
autori hanno suggerito la possibilità di servirsi di altri criteri che potrebbero diventare
patognomonici nell’acalasia all’esordio. Tra questi, le così dette “pieghe esofagee a
12
forma di rosetta”: se nell’esofago non acalasico, durante un respiro profondo, possono
essere visualizzati i vasi a palizzata in corrispondenza della giunzione esofago-gastrica,
nell’acalasia questo non succede; si rilevano, invece, queste pieghe nella parte più
distale dell’organo47
(Fig. 2).
Figura 2. A sinistra, vasi a palizzata visibili nel terzo distale dell'esofago di un soggetto normale durante una profonda inspirazione. Le pieghe esofagee a forma di rosette son invece visibili, a destra, a partire dal centro del lume dell’organo, in un paziente affetto da acalasia idiopatica.
Più di recente, dal Giappone, è giunta la proposta di utilizzare un colorante, l’indigo
carminio, sulla mucosa esofagea. Questa determina delle striature longitudinali sulla
parete, con un aspetto “gessato”(Fig. 3). Il rilievo è maggiormente presente nei pazienti
con sintomi da meno di cinque anni, e tende a scomparire nel tempo a causa
dell’ispessimento della parete dell’organo e della fibrosi della sottomucosa, entrambe
presenti nell’evoluzione del quadro anatomopatologico48
.
13
Figura 3. Confronto tra visione endoscopica prima e dopo l'applicazione del colorante vitale che dimostra la comparsa del pattern gessato(fig. A-B). Le stesse immagini mostrano la trama vascolare sottostante grazie alla magnificazione(fig. C-B).
La metodica endoscopica è essenziale nel discriminare l’acalasia dalla pseudoacalasia,
nella quale rientrano condizioni che possono mimare una sintomatologia similare, come
neoformazioni a livello del cardias o del fondo, stenosi peptiche o compressioni ab
estrinseco.
Esame complementare alla gastroscopia è la radiografia (Rx) del tubo digerente con
mezzo di contrasto baritato. I reperti caratteristici sono: l’assenza dell’onda peristaltica
primaria e la presenza di onde di contrazione terziaria, una dilatazione più o meno
importante dell’organo, la presenza di ingesti, il restringimento “ a coda di topo” del
cardias e l’assenza di bolla gastrica49
(Fig. 4).
14
Figura 4. Esofago a coda di topo
Alcuni autori hanno correlato il grado della dilatazione con la durata della malattia50
:
nelle malattie di lunga data si può arrivare ad un quadro di megaesofago, in cui l’organo
appare molto dilatato e può associarsi a tortuosità, il cosiddetto esofago sigmoideo
(Fig. 5).
Figura 5. Esofago sigmoideo
La manometria è l’esame di scelta per ottenere una diagnosi certa della patologia e per
programmare eventuali strategie terapeutiche. Il test standard è condotto tramite un
catetere a otto canali perfuso con acqua, introdotto per via naso-gastrica che permette di
15
rilevare le pressioni vigenti all’interno dell’esofago, in particolare, a livello degli
sfinteri, superiore e inferiore, e del corpo esofageo. Nei disturbi funzionali si ottengono
dei pattern di pressione anomala che sostengono il sospetto clinico e accertano la
patologia. Normalmente lo sfintere inferiore presenta un tono basale definito
dall’innervazione intrinseca autonomica dei muscoli lisci e, in parte, dalla crura
diaframmatica. La pressione normale a questo livello può variare dai 10 mmHg ai 45
mmHg. In base alla fase respiratoria si avranno pressioni comprese tra i 15 ± 11 mmHg,
a fine espirazione, e pressioni di 40 ± 13 mmHg, a fine inspirazione. A livello del corpo
esofageo la manometria permette di analizzare l’onda peristaltica che, originando dalla
contrazione volontaria della muscolatura faringea, prosegue interessando il resto
dell’organo per permettere il transito del bolo alimentare. L’acalasia è definita, nella
manometria tradizionale a perfusione, da:
Un criterio diagnostico principale: assenza di peristalsi a livello del corpo
esofageo;
Criteri diagnostici secondari: l’ipertono del SEI (pressione a riposo > 45 mmHg),
e dal suo incompleto rilasciamento (pressione residua > 8 mmHg).
Sono state descritte diverse varianti della patologia relativamente al profilo
manometrico51
:
Acalasia vigorosa, caratterizzata da contrazioni del corpo esofageo ad alta
ampiezza52
(Fig. 6).
16
Figura 6. Tracciato manometrico deglutitorio che dimostra ripetute contrazioni di alta ampiezza e lunga durata e assente rilasciamento del SEI.
Acalasia “short segment”, in cui è conservata una peristalsi valida nella maggior
parte del corpo esofageo ma non in un breve segmento(Fig. 7).
Figura 7. Mancanza di peristalsi negli ultimi 3 cm del corpo esofageo associata a incompleto rilasciamento
del SEI.
17
Acalasia con rilasciamento del SEI conservato (Fig. 8).
Figura 8. Aperistalsi esofagea con completo rilasciamento del SEI durante l'atto deglutitorio.
Acalasia con rilassamento transitorio intatto (Fig. 9).
Figura 9. Aperistalsi e rilasciamento transitorio del SEI inefficace ai fini della deglutizione.
18
Sono dati, questi, che possono rendere difficoltosa la diagnosi, tuttavia, recentemente, è
stata introdotta una metodica diagnostica molto sofisticata, la manometria ad alta
risoluzione che ha migliorato l’accuratezza diagnostica. Il concetto di base è l’utilizzo di
un numero maggiore di sensori che consente di ottenere una registrazione che risulti
temporalmente lineare e continua. Per ottenere ciò, i sensori sono posizionati a circa 1
cm di distanza l’uno dall’altro, hanno un’accuratezza di 1 mmHg e sono tarati sulla base
della pressione atmosferica. Grazie all’interpolazione dei dati non si hanno perdite a
livello degli spazi tra i sensori53
. Con l’utilizzo di specifici algoritmi, si riescono ad
ottenere diagrammi topografici e colorimetrici della pressione intraluminale, correlati al
tempo di registrazione, in cui le zone isobariche sono rappresentate dello stesso colore
(Fig. 10).
Figura 10. Mappa topografica deglutitoria che dimostra la progressione dell'onda di peristalsi dalla faringe in esofago in un soggetto con normale rilasciamento del SEI.
Questo sistema si è dimostrato più efficace e vantaggioso in termini di tempo di
esecuzione, oggettività di interpretazione e, soprattutto, qualità dei dati54
. Sulla base di
tale metodica è stato possibile stilare una nuova classificazione dei disturbi motori
19
dell’esofago, la “Chicago Classification”56
e suddividere l’acalasia in tre sottotipi in
base ai pattern manometrici (Fig. 11):
Acalasia di tipo I, acalasia classica, senza pressurizzazione > di 30 mmHg in più
di otto test deglutitori. Il corpo esofageo mostra contrattilità minima.
Acalasia di tipo II o con pressurizzazione, con almeno due deglutizioni associate a
pressurizzazione panesofagea maggiore di 30 mmHg. Assenza di peristalsi
intervallata a periodi di aumento pressorio compartimentalizzato.
Acalasia di tipo III, con due o più contrazioni spastiche, con o senza un periodo di
pressurizzazione compartimentalizzata.
Figura 11. I tre sottotipi acalasici sono distinti in base a tre pattern manometrici di contrattilità del corpo esofageo. Nel tipo I (fig. A) non c'è una pressurizzazione significativa del corpo esofageo e un rilasciamento incompleto del SEI. Nel tipo II(fig B) si nota una pressurizzazione di tutto l’esofago. Il tipo III(fig. C), acalsia spastica, è associato ad un aumento di pressione rapida, determinato da una contrazione anormale dell’organo che ne oblitera il lume. La ricostruzione 3D(fig. D), mostra i picchi e i minimi raggiunti dalla pressione nell’ultimo sottotipo
55.
20
Il grande contributo che deriva dalla metodica è di poter, oggi, aspettarsi una prognosi
più o meno favorevole, in termini di outcome, a seguito dei trattamenti.
Indipendentemente dal presidio terapeutico scelto, l’acalasia di tipo II mostra una
migliore risposta rispetto ai tipi I e III, con una percentuale di successo rispettivamente
del 96% contro l’81% e il 66% , a due anni di follow-up56
.
Il tipo II, nonostante sia caratterizzata dall’aperistalsi del corpo esofageo, presenta
contrazioni dello strato longitudinale della muscolare propria e un’eccitabilità delle
cellule degli strati circolari, sufficiente a determinare un’importante pressione
intraluminale. Risponde bene a qualsiasi trattamento che riduca l’ostruzione funzionale
a livello della giunzione esofagogastrica (iniezioni di botulino, dilatazione pneumatica,
miotomia sec. Heller). Viceversa nel tipo III si rileva un ostacolo al transito, non solo a
livello della giunzione esofagogastrica, ma anche a livello dei segmenti muscolari più a
monte. Questo lo rende clinicamente simile allo spasmo esofageo distale, e la sua
risposta alle terapie non è ottimale57
. L’acalasia di tipo I è caratterizzata da una
dilatazione maggiore dell’organo, conseguenza dell’aperistalsi e dell’ostacolo al
transito, e sembra che sia la naturale evoluzione del tipo II.
Confrontando la dilatazione pneumatica con la miotomia chirurgica, è emerso come il
successo terapeutico sia comparabile per l’acalasia di tipo I e leggermente migliore la
risposta alla dilatazione per il tipo II (100% vs 93%). La più ampia differenza, in
termini di percentuale di risposta alle diverse terapie, è emersa per il tipo III: 85% di
successo dopo miotomia chirurgica, contro il 40% dopo dilatazione endoscopica56
. Altri
autori hanno suggerito (partendo dal presupposto che alla manometria standard il tipo
III presenta una maggiore lunghezza del SEI) che in questi pazienti la lunghezza della
miotomia dovrebbe essere più estesa così da aumentare le probabilità di successo58
.
Riconoscendo il merito della manometria ad alta risoluzione, bisogna comunque
considerare che non tutti i quadri rientrano tra quelli descritti nella nuova
21
classificazione, lasciando chi si occupa di questi pazienti di fronte a dubbi diagnostici
leciti che necessitano di essere approfonditi59
.
TERAPIA
Il trattamento della patologia ha subito enormi cambiamenti, dall’intervento di Sir
Willis fino a Ernst Heller, un brillante chirurgo tedesco che nel 1913, per la prima volta,
eseguì una cardiomiotomia extramucosa esofagea ponendo le basi per quella che è oggi
la principale linea di terapia chirurgica della patologia.
Purtroppo non si dispone, ancora, delle conoscenze necessarie per un trattamento
definitivo dell’acalasia, mentre molti sono i possibili interventi palliativi volti ad
ottenere una risoluzione dei sintomi e, di conseguenza, a migliorare la qualità di vita dei
pazienti. In tutte le procedure, da quelle farmacologiche a quelle chirurgiche, l’obiettivo
è di abbattere la pressione del SEI permettendo così il transito del bolo alimentare.
Terapia farmacologica
La terapia farmacologica può essere un’alternativa, per la sua sicurezza ed efficacia,
specialmente in quei pazienti che non sono candidabili a procedure più invasive.
Purtroppo ha un effetto temporaneo. Tradizionalmente i farmaci più utilizzati sono stati
i calcio antagonisti e i nitrati, se presi 30-60 minuti prima del pasto. I calcio antagonisti
bloccando l’ingresso del calcio nelle cellule muscolari lisce, e i nitrati fornendo NO così
da sopperire alla sua mancanza, permettono il rilasciamento dello sfintere e, di
conseguenza, la discesa del bolo alimentare. L’isosorbide dinitrato sembra avere
un’azione più rapida e intensa, oltre che un effetto sullo svuotamento esofageo60–62
. Gli
effetti a lungo termine però non sono soddisfacenti, a causa della tolleranza che si
sviluppa nei confronti del principio attivo con conseguente calo dell’effetto
22
farmacologico63
. Gli effetti avversi, soprattutto successivi all’utilizzo dei nitrati62
, come
ipotensione, cefalea e edemi periferici, limitano l’utilizzo dei farmaci. Come alternativa
è stato proposto il sildenafil, dato il suo effetto inibitore sulla fosfodiesterasi di tipo V,
responsabile del catabolismo del NO64
. Altri studi, seppur non dimostrandone
l’efficacia, hanno proposto l’uso di terbutalina e aminofilline per la loro azione
rilassante sulla muscolatura del SEI.
Terapia endoscopica
Il trattamento endoscopico si basa sull’utilizzo della tossina botulinica e sulla
dilatazione endoscopica del SEI.
La tossina ostacola il rilascio di acetilcolina dalle terminazioni presinaptiche del plesso
mienterico. L’acetilcolina ha un’azione eccitatoria sulle cellule muscolari, pertanto, un
suo minore rilascio, controbilancia l’aumento del tono dello sfintere causato dalla
mancanza di neurotrasmettitori inibitori, permettendo uno svuotamento passivo
dell’esofago. Il suo utilizzo è stato correlato ad una risoluzione dei sintomi e ad un
miglioramento dello svuotamento, se relazionato all’iniezione di placebo65,66
. La
procedura prevede l’iniezione, sotto guida endoscopica, di circa 80-100 U di tossina, per
tutta la circonferenza dello sfintere distribuendola in parti uguali sui quattro quadranti.
Da una recente metanalisi è emerso che dopo un singolo trattamento, nel caso in cui si
scelga l’iniezione della tossina come terapia di prima linea, i sintomi migliorano nel
78.7% dei pazienti ad un mese, nel 70% a tre mesi, 53,3% a sei mesi e nel 40,6% oltre i
12 mesi di follow-up. Tuttavia, nel 46,6% dei pazienti è richiesta una seconda seduta67
.
I dati non sembrano essere così incoraggianti se si valutano i risultati a due anni, in cui
solo il 3% continua a non presentare i sintomi68
. La diminuzione di efficacia
sembrerebbe essere collegata allo sviluppo di anticorpi, chiamati anticorpi
neutralizzanti, diretti contro la tossina che ne inficiano l’effetto69
. Un altro aspetto
23
negativo è che i pazienti, possono sviluppare una fibrosi muscolare della zona che può
complicare un eventuale intervento chirurgico successivo70
.
La dilatazione endoscopica ha come principio l’applicazione di una forza radiale che va
a rompere le fibre muscolari, così da migliorare il transito. La metodica, che si rifà alla
primissima dilatazione effettuata da Willis nel 1964, oggi prevede l’uso di un
palloncino, con un diametro ≥ di 3 cm (le misure standard sono di 3 cm, 3,5 cm e 4 cm),
posizionato a cavallo della giunzione esofago gastrica. Lo strumento più utilizzato è il
Rigiflex®
(Boston Scientific, USA) (Fig. 12).
Figura 12. Dilatatore pneumatico Rigiflex.
Il posizionamento, tramite filo-guida, può essere effettuato o sotto guida fluoroscopica o
sotto visione endoscopica. Entrambe le metodiche sembrano avere uguale efficacia, per
cui si tende a preferire la seconda che non espone il paziente, né gli operatori sanitari, a
radiazioni71
. Una volta raggiunta la posizione desiderata, il palloncino viene insufflato
finché l’aria all’interno raggiunge una pressione, valutabile con un manometro, tale da
permettere all’esofago di aderire completamente al palloncino (Fig. 13).
24
Figura 13. L'immagine mostra le fasi della dilatazione endoscopica. Dopo l’introduzione del Rigiflex® su filo guida,
posizionatolo a cavallo della giunzione esofago gastrica, lo stesso viene insufflato così da dilatare lo sfintere e ristabilire il transito.
In questa fase possono comparire segni d’ischemia circonferenziali (Fig. 14).
Figura 14. Visione endoscopica durante la dilatazione
Per quanto tempo mantenere l’insufflazione è ancora oggetto di indagini, poiché alcuni
preferiscono una singola e breve applicazione (6 secondi), mentre altri sembrano
prediligere tempi più lunghi (60 secondi)72
. Da una recente metanalisi, in cui sono stati
riesaminati 15 articoli per un totale di 1065 pazienti, è emerso che nella maggior parte
dei casi si utilizzano pressioni medie di 10,9 psi (range tra i 7-18 psi) e un tempo di
applicazione medio di 73 secondi (range 6-240 secondi). I sintomi regrediscono
nell’85% ad un mese dal trattamento, anche se questa percentuale decresce con il
passare dei mesi di follow-up67
. Alcuni preferiscono sottoporre il paziente a più
25
dilatazioni nella stessa seduta, utilizzando in maniera crescente, i diversi diametri a
disposizione73,74
. Questo stesso schema può essere applicato in diverse sedute, qualora
la sintomatologia persista. I soggetti di sesso maschile con età < 40 anni, in particolare
se trattati con il palloncino di diametro pari a 3 cm, sembrano avere un outcome
peggiore e possono necessitare di più dilatazioni75
. Fattori predittivi di successo sono la
risoluzione dei sintomi, la riduzione del lume dell’organo, valutabile con gli esami di
imaging, e soprattutto, la diminuzione della pressione del SEI. Da alcuni studi è emerso
come una pressione > 10 mmHg dopo trattamento, sia correlata ad un alta percentuale di
fallimento e, quindi, alla necessità di dilatazioni successive76
. Con la recente
introduzione della manometria ad alta risoluzione è stato possibile valutare come
l’acalasia di tipo II e I, hanno una migliore risposta alla dilatazione pneumatica rispetto
alla tipo III77
che risponde meglio alla miotomia chirurgica56
. A fine procedura il
paziente viene sottoposto ad una radiografia del tubo digerente con mezzo di contrasto
idrosolubile (gastrografin) per escludere l’eventuale perforazione dell’organo,
complicanza temibile, che ha una percentuale di incidenza di 1,9% (range 0-16%)78
.
L’uso di una dilatazione progressiva o comunque di palloncini con diametro minore è
associato ad un minor rischio di perforazione79
. Diverticoli epifrenici, ernia iatale,
esofagite, la stessa acalasia vigorosa e precedenti interventi di esofagomiotomia non
sembrano essere associati ad un aumento di casi di perforazione80,81
. Ulteriori
complicanze della procedura possono essere: sanguinamenti gastrointestinali da
lacerazione della mucosa, dolore toracico transitorio, ematoma della parete esofagea.
Queste ultime sono state trattate con terapia antibiotica intravenosa e stretta
osservazione con buoni risultati82
. Un importante effetto collaterale della dilatazione
endoscopica è l’insorgenza del reflusso gastroesofageo: studi condotti con l’ausilio della
pH-metria hanno evidenziato reflussi acidi significativi nel 25-35% dei pazienti
sottoposti a tale procedura83,84
.
26
POEM
I primi dati riguardo alla miotomia endoscopica risalgono al 1980, quando Ortega et al.
effettuarono due miotomie, lunghe 1 cm e profonde 3mm, a livello del SEI in 17
pazienti85
. Molto dopo, Pasricha sperimentò, su modello animale, una nuova tecnica
endoscopica: dopo aver inciso la mucosa circa 5 cm al di sopra della giunzione
gastroesofagea, con l’ausilio di un dilatatore pneumatico, creò un tunnel nella
sottomucosa, attraverso il quale effettuò la miotomia86
. Nel 2010 Inoue modificò la
procedura per adattarla all’uomo, ottenendo risultati soddisfacenti87
.
La procedura è eseguita a paziente supino, intubato e in anestesia generale. Gli step
principali da seguire sono quattro: incisione della mucosa, tunnellizzazione della
sottomucosa, miotomia, sutura della lesione mucosale88
.
1. Incisione della mucosa: una volta individuata la giunzione esofagogastrica si può
optare per una incisione anteriore o posteriore. Secondo alcuni centri, una
miotomia anteriore determina meno danni a carico dell’angolo di His e, quindi,
meno rischi di reflusso post-operatorio. Prima di procedere con l’incisione si crea
un pomfo circa 3 cm sopra il punto d’ingresso che è stato scelto per effettuare la
miotomia. A questo punto si incide la mucosa per 1,5 cm in senso verticale, poi
attraverso il taglio si inserisce il gastroscopio per procedere alla dissezione dei
tessuti della sottomucosa. L’estensione del tunnel può variare dai 6 cm ai 10 cm.
2. Creazione del tunnel sottomucoso: il piano di dissezione della sottomucosa si
trova subito a ridosso della muscolare propria. È importante in questa fase,
rispettare le strutture della sottomucosa che saranno le uniche, una volta effettuata
la miotomia, a separare il lume dell’esofago dal mediastino, ed effettuare
l’emostasi dei vasi sottomucosi. Per creare il piano di dissezione si possono
utilizzare iniezioni di soluzione salina e indigo carminio, acqua ad alta pressione,
27
o un palloncino, simile al Fogarty. Il tunnel è esteso fino a 3 cm al di sotto della
giunzione esofagogastrica. Questo è essenziale per assicurare il successivo taglio
delle fibre muscolari “a fionda” che sono responsabili del tono del SEI.
3. Miotomia: la miotomia selettiva delle fibre circolari è praticata a circa 1 cm
dall’incisione della mucosa. Si cerca di risparmiare le fibre longitudinali per
evitare di creare un tramite con il mediastino, anche se spesso, a causa della
sottigliezza di queste fibre e della difficoltà nel separarle da quelle circolari,
questo non può essere garantito. Alcuni autori non hanno rilevato differenze
significative, in termini di complicanze, tra la miotomia a tutto spessore e quella
selettiva89
. La lunghezza della miotomia varia tra gli 8-10 cm.
4. Sutura dell’incisione della mucosa: prima di procedere alla satura si controllano il
tunnel nella sottomucosa e la mucosa stessa in cerca di lesioni involontarie a suo
carico. La mucosa può essere riparata con l’uso di clips endoscopiche o con un
dispositivo di sutura endoscopico flessibile (Fig. 15).
Figura 15. Step della POEM. (A) Ingresso nella mucosa. (B) Creazione del tunnel sottomucoso. (C-D) Miotomia. (E) Sutura della lesione nella mucosa.
Le complicanze della procedura includono: pneumomediastino, pneumoperitoneo,
sanguinamenti durante e dopo la procedura, lacerazione o ischemia della mucosa con
28
conseguente mediastinite e MRGE. L’ematoma della sottomucosa stessa può, in alcuni
casi, determinare una compressione ischemica con conseguente necrosi dei lembi di
mucosa. La maggior parte di queste complicanze possono essere trattate in maniera
conservativa senza sequele90
. Il reflusso sembra essere la complicanza più comune: è
stata riscontrata nel 20-46% dei pazienti sottoposti a procedura91
.
Il successo terapeutico, secondo dati ottenuti dalla letteratura, si attesta intorno all’80%,
ed è associato alla riduzione della pressione del SEI91
. Alcuni studi hanno correlato
l’efficacia della POEM con il tempo di svuotamento esofageo dopo esofagogramma92,93
.
Oggi, tuttavia, questo rimane un punto che necessita di successive valutazioni.
Trattamento chirurgico
Nel 1913 Heller trattò per la prima volta l’acalasia con la chirurgia. Durante il suo
intervento, che condusse per via trans addominale, effettuò una miotomia anteriore e
posteriore94
, cui seguì la risoluzione immediata della disfagia. L’intervento di miotomia
consiste in un taglio delle fibre muscolari che costituiscono lo sfintere esofageo
inferiore. Questa è una struttura complessa in cui le fibre muscolari circolari della
porzione toracica dell’esofago, si continuano nelle fibre oblique dello stomaco andando
a costituire la così detta “cravatta di Helvetius” (Fig 16).
29
Figura 16. Strutture muscolari della giunzione esofago-gastrica.
A mantenere il tono del SEI, contribuiscono anche i pilastri diaframmatici, che
circondano l’esofago durante il suo passaggio dal torace in addome. In particolare il
pilastro di destra, chiamato “laccio di Allison”, esercita un’azione a “pinza”, come se
fosse uno sfintere esterno che agisce sinergicamente con il cardias. La stabilità della
giunzione esofagogastrica è data, invece, dalla membrana freno-esofagea, la membrana
di Leimer-Bertelli, e dai due legamenti freno-esofageo e freno-gastrico.
Pochi anni dopo l’intervento di Heller, nel 1923, Zaaijer ottenne risultati comparabili
con la sola miotomia della parete anteriore dell’esofago95
. Negli anni successivi gli
interventi furono condotti con approccio open, addominale o toracico. Sebbene la
risoluzione dei sintomi e il controllo della malattia dessero speranze a medici e pazienti,
fu subito chiaro come l’effetto collaterale maggiore, in altre parole il reflusso
gastroesofageo, fosse un problema da risolvere. Fu Dor nel 1962 a proporre una
particolare fundoplicatio parziale anteriore, che andasse a completare l’intervento di
miotomia trans-addominale, così da prevenire il reflusso gastroesofageo96
.
All’inizio degli anni ’90, l’avvento della chirurgia mininvasiva rese l’intervento molto
meno debilitante e doloroso per il paziente, dimezzò i tempi di ricovero, permettendo di
ottenere il massimo risultato con il minimo dispendio. Gli interventi vennero eseguiti sia
30
con approccio laparoscopico che toracoscopico97,98
. Nonostante le diverse preferenze
dei chirurghi nello scegliere uno dei due accessi, per circa un decennio, la chirurgia
mininvasiva restò il cardine di ogni trattamento chirurgico. Dal 2000, è stato possibile
utilizzare, per il trattamento della patologia, anche la chirurgia robotica.
I main topics che si possono desumere dalla letteratura e che hanno posto le basi
dell’attuale chirurgia nel trattamento dell’acalasia sono:
Il tipo di approccio chirurgico da utilizzare;
La lunghezza della miotomia;
L’utilizzo o meno di una plastica antireflusso e quale;
I fattori predittivi di successo;
L’outcome dopo miotomia;
L’impatto di eventuali terapie precedenti sulla buona riuscita del trattamento
chirurgico;
L’approccio chirurgico vs quello endoscopico.
TIPO DI APPROCCIO CHIRURGICO
Un recente studio metanalitico ha comparato i diversi tipi di approccio chirurgico (open
toracico o addominale, laparoscopico, toracoscopico) e la loro efficacia in termini di
risoluzione dei sintomi e incidenza di MRGE post-operatoria (Tab. 1)67
. Entrambi gli
approcci open mostrano una risoluzione dei sintomi similare in termini di percentuali
(84,5% e 83,3% per l’approccio addominale e toracico, rispettivamente, p=0.72), ma nel
gruppo laparotomico l’incidenza di MRGE è dimezzata (12% vs 24,6%, p=0,13).
Confrontando i risultati della miotomia laparoscopica vs quella toracoscopica, la
risoluzione dei sintomi è migliore per la prima (89,3% vs 77,6%, p=0.048) con un
miglior controllo del reflusso (14,9% vs 28,3%, p=0,03), in più la laparoscopia ha la
stessa efficacia della laparotomia. Nell’interpretazione di questi dati dobbiamo
31
considerare che, mentre negli interventi per via addominale è sempre associata alla
miotomia una plastica antireflusso, in quelli per via toracica o non è eseguita
(toracoscopia), o lo è raramente (toracotomia).
Tabella 1 Campos G M, Vittinghoff E, Rabl C, Takata M, Gadenstatter M, Lin F, Ciovica R (2009) Endoscopic and surgical treatments for achalasia: a systematic review and meta-analysis. Ann Surg 249:45-57
La miotomia laparoscopica comporta, inoltre, un minor numero di giorni di
ospedalizzazione, meno perdite ematiche, minor tempo operatorio, minor complicanze
respiratorie e un ritorno più rapido alla vita quotidiana, se comparata con la
laparotomica99–103
. La toracoscopia presenta più svantaggi tecnici, come il dover
utilizzare un tubo tracheale a due vie per l’esclusione polmonare, la posizione del
paziente in decubito laterale e una maggiore difficoltà nell’esecuzione della
miotomia104
, specialmente sul versante gastrico. In più, negli interventi per via
addominale l’associazione della plastica antireflusso sec. Dor all’intervento di Heller
consente di gestire in maniera semplice ed efficace un’eventuale perforazione
misconosciuta della mucosa esofagea105
.
Il miglioramento della disfagia, a seguito della miotomia laparoscopica, si riflette in
maniera positiva sulla qualità di vita dei pazienti106–108
, come dimostrato dalla
32
percentuale di soddisfazione tra quelli intervistati in diversi studi. Attualmente, dunque,
il trattamento di scelta è quello video-laparoscopico.
Miotomia sec. Heller laparoscopica
Dopo aver indotto uno pneumoperitoneo di 13-15 mmHg con ago di Verres vengono
inseriti cinque trocars secondo il seguente schema: quello ottico da 10 mm al terzo
superiore di una linea che unisce l’apofisi ensiforme alla cicatrice ombelicale, uno da 10
mm per la retrazione epatica sul fianco destro, uno da 5 mm per la mano sinistra
dell’operatore a livello sottocostale destro sulla linea emiclaveare, uno da 10 mm per la
mano destra dell’operatore a livello sottocostale sinistro sulla linea emiclaveare e uno
da 5 mm sul fianco sinistro per l’assistente (Fig. 17).
Figura 17. Posizione dei trocar nell'intervento laparoscopico.
Retratto il fegato si procede all’isolamento dell’esofago con l’apertura della membrana
freno-esofagea di Leimer-Bertelli, esponendo la faccia anteriore dell'organo. Dopo
controllo endoscopico, su filo-guida s’introduce palloncino dilatatore di 3 cm (Rigiflex®
Boston Scientific, USA). Mediante opportune insufflazioni e desufflazioni del
palloncino, si procede a miotomia extra-mucosa sec. Heller estesa per 6 cm sull'esofago
33
e circa 3 cm sullo stomaco con conservazione del vago anteriore. Si verifica l'integrità
della mucosa lungo tutta l'estensione della miotomia. Estratto il Rigiflex®
si posiziona
sondino naso gastrico (SNG) a doppia via, tipo Salem®
, sotto visione laparoscopica.
Infine, si procede a confezionamento di plastica antireflusso:
Plastica sec. Dor: viene eseguita suturando la parete anteriore del fondo gastrico ai
margini della miotomia con tre punti di sutura staccati per ciascun lato, di cui i più
craniali ancorati ai pilastri diaframmatici109
.
Plastica secondo Toupet o Nissen: per prima cosa è necessario mobilizzare
completamente l’esofago, anche nella sua porzione posteriore. Si incide l’area
avascolarizzata del piccolo omento, al di sopra del ramo epatico del nervo vago,
esponendo il lobo caudato del fegato e il pilastro diaframmatico destro. Si divide
il legamento frenoesofageo sopra il grasso epifrenico. Si identificano i due pilastri
diaframmatici e si crea la finestra retroesofagea per il passaggio di una fettuccia
necessaria per la trazione della giunzione gastroesofagea. Si sezionano alcuni vasi
gastrici brevi per permettere al fondo gastrico di passare comodamente e senza
trazione attraverso la finestra retroesofagea. La fundoplicatio posteriore sec.
Toupet viene effettuata suturando le due emivalve ai bordi della miotomia,
lasciando scoperta la faccia anteriore dell’esofago. I punti più craniali sono
ancorati ai pilastri diaframmatici così da stabilizzare la plastica110
in addome.
La plastica sec. Nissen, lunga circa 2 cm, è confezionata in maniera “floppy”,
suturando le due emivalve dello stomaco con due/tre punti di cui uno ancorato
allo stomaco. La fundoplicatio sec. Nissen è raramente associata alla miotomia
sec. Heller a causa dell’alta percentuale di disfagia residua postoperatoria.
34
LUNGHEZZA DELLA MIOTOMIA
La lunghezza della miotomia deve essere tra i 4 e gli 8 cm sull’esofago e tra 0,5-2 cm
sullo stomaco, secondo quanto raccomandato dalla recenti linee guida111
. Questi valori
si basano su dati ottenuti dalla letteratura, anche se manca ancora una piena
concordanza tra gli autori. L’estensione della miotomia è importante perché
strettamente correlata alla risoluzione della disfagia e all’insorgenza del reflusso
postoperatorio. Alcuni autori hanno sottolineato come una miotomia breve (6-7 cm al di
sopra del cardias e solo pochi millimetri al di sotto) sia efficace allo stesso modo di una
miotomia estesa, ed elimini il rischio di MRGE, tenendo in considerazione che una
plastica antireflusso potrebbe peggiorare, o determinare, un quadro di disfagia
postoperatoria in un esofago con alterazioni della peristalsi quale è quello acalasico112
.
Secondo altri, risultati migliori si ottengono quando la miotomia è estesa per almeno
1,5-2 cm al di sotto del cardias, così da coinvolgere le fibre della cravatta di Helvetius.
Questo garantisce la risoluzione della disfagia, mentre l’insorgenza del reflusso può
essere limitato, o evitato, con una fundoplicatio, quando l’approccio chirurgico è
addominale113,114
.
RUOLO DELLA FUNDOPLICATIO DOPO LA MIOTOMIA
Come descritto in precedenza, una delle complicanze della miotomia è il reflusso
gastroesofageo che insorge quando sono lesionati i meccanismi antireflusso anatomici e
fisiologici contestualmente all’intervento. Oltre alla mobilizzazione più o meno estesa
dell’esofago, può contribuire alla sua insorgenza, l’estensione della miotomia. Prima
che diventasse chiara la necessità di estendere la miotomia sul versante gastrico per
prevenire la disfagia postoperatoria, la plastica antireflusso non era considerata
necessaria. Da una metanalisi degli anni ’80, era emerso come una miotomia troppo
35
estesa in senso craniale (7-8 cm) poteva alterare la clearance dell’esofago distale con
aumento del ristagno di acido, mentre una miotomia maggiore di 0,5 cm a livello
gastrico poteva compromettere le fibre muscolari oblique e la loro funzione contenitiva
sulla risalita di acido dallo stomaco in esofago, con il rischio di sviluppo di MRGE115
.
Il dibattito su quale sia la procedura migliore e se sia davvero necessario effettuarla al
fine di contenere i sintomi, rimane ancora oggi molto acceso. Una profonda spaccatura
si è creata tra chi non reputa necessaria la realizzazione di nessun tipo di
fundoplicatio116–118
e tra i fautori della plastica antireflusso119,120
. Secondo la metanalisi
condotta da Campos et al., sebbene la fundoplicatio non interferisca con la risoluzione
della disfagia, l’incidenza della MRGE è molto più alta quando questa non è eseguita
(31,5% vs 8,8% p=0,001). Anche quando i dati sono supportati da una valutazione pH-
metrica, i risultati si sovrappongono, dimostrando come la percentuale di reflusso senza
plastica si attesta al 45% contro il 14,5% (p=0,01) dei pazienti in cui è stata
confezionata67
. In un altro studio, a seguito di un follow up di sei mesi, si è dimostrato
come non vi siano differenze rilevanti tra una miotomia e una miotomia più una plastica
antireflusso, in termini di risoluzione dei sintomi. Tuttavia, nel 47,6% dei pazienti nel
primo gruppo, è stato evidenziato una MRGE, e il tempo medio di esposizione all’acido
nell’esofago distale è stato del 4,9%, contro lo 0,4% (p=0,001) dei pazienti in cui è stata
confezionata una fundoplicatio sec. Dor121
. Il lavoro di Csanedes del 2006, in cui è stato
condotto un follow up a lungo termine (15.8 anni) dopo intervento di Heller-Dor, ha
dimostrato un outcome favorevole nel 73% dei pazienti, mentre circa il 21% ha
sviluppato una patologia da reflusso122
.
Quale sia la fundoplicatio da preferire è oggetto di discussione e spesso l’una o l’altra
sono scelte in base alle preferenze del chirurgo e all’esperienza dei singoli centri. Le
opzioni maggiormente utilizzate sono: la plastica anteriore a 180° secondo Dor, la
posteriore a 270° secondo Toupet, e la 360° secondo Nissen. Gli autori a sostegno del
36
primo approccio concordano nel dire che permette di raggiungere ottimi risultati in
termini di controllo del reflusso, preservando strutture anatomiche come il legamento
freno esofageo, i vasi gastrici brevi, richiedendo, inoltre, meno tempo tecnico di
esecuzione123
e garantendo la copertura della mucosa esposta a seguito della
miotomia124
. Viceversa i fautori della plastica posteriore sec. Toupet affermano che
permette un miglior controllo dei sintomi da reflusso garantendo risultati migliori a
lungo termine, anche per quanto riguarda la disfagia (la fundoplicatio sec. Toupet non
copre la mucosa esofagea esposta ed essendo ancorata ai bordi della miotomia tende i
margini muscolari in direzioni opposte). Un recente studio multicentrico ha comparato
le due procedure. A sei mesi, nel 47% dei pazienti analizzati non sono state dimostrate
differenze nell’ambito del controllo della disfagia e del reflusso125
.
Secondo alcuni autori, la Nissen sarebbe la plastica antireflusso da preferire, in quanto
permette, nel tempo, un controllo maggiore del reflusso, rispetto alle altre
procedure120,126,127
. Tuttavia, confrontando i risultati a lungo termine della miotomia
associata a fundoplicatio sec. Dor o a fundoplicatio sec. Nissen, è emerso come la
seconda predisponga maggiormente a disfagia post-operatoria (2,8% vs 15%
rispettivamente, p=0,001)128
.
FATTORI PREDITTIVI DI SUCCESSO
Nel corso degli anni sono stati presi in considerazione diversi fattori che sembrano
avere un peso, più o meno accertato e importante, nel determinare il successo del
trattamento nei pazienti acalasici. Tra questi i più indagati sono:
Il grado di disfagia preoperatoria;
Una minore o maggiore pressione del SEI;
37
La dilatazione esofagea;
Precedenti trattamenti endoscopici.
Secondo alcuni autori, una severa disfagia preoperatoria, la totale assenza di peristalsi e
un grado maggiore di dilatazione dell’organo sembrano avere, anche se statisticamente
il dato è poco significativo, un impatto negativo sull’outcome; inoltre, il sesso maschile
e una pressione del SEI > 20 mmHg postoperatoria sono fattori predittivi negativi129
.
Relativamente al grado di dilatazione dell’organo, i pazienti che arrivano all’intervento
con un quadro di megaesofago hanno un outcome peggiore a lungo termine e
rispondono positivamente solo nel 50% dei casi, contro il 90% di successo che si
riscontra nei pazienti in cui la dilatazione dell’organo è minore130
. Nel post-operatorio,
una dilatazione >40 mm è stata associata al fallimento terapeutico in una percentuale
maggiore dei casi131
. In altri papers si contraddicono questi risultati dimostrando come,
anche i pazienti con esofago sigmoideo o dilatato, rispondano bene alla miotomia107,132
.
È stato indagato l’impatto della pressione del SEI pre e post-operatoria: si sono ottenuti
migliori risultati nei pazienti con una pressione preoperatoria >35 mmHg, se confrontati
con quei pazienti in cui la pressione era <35 mmHg133
. In altri studi la pressione del SEI
si è rivelata ininfluente rispetto alla buona riuscita dell’intervento134
.
Per quanto riguarda l’indice di massa corporea, si è dimostrato come l’obesità sia
associata a una maggiore incidenza di vomito e inalazione nel periodo preoperatorio.
Tuttavia pazienti con un BMI ≥30 sottoposti a miotomia, hanno riportato un ottimo
controllo della disfagia anche se più soggetti a sintomi da reflusso135
. L’età dei pazienti
e la durata dei sintomi non sembrano influenzare in maniera significativa il beneficio
che si ottiene dopo l’intervento di Heller136
. Precedenti interventi di dilatazione
endoscopica e iniezioni di botox, sembrano determinare un outcome peggiore, facendo
38
nascere il dubbio che, forse, la miotomia dovrebbe essere considerato l’intervento di
prima scelta nei pazienti sicuramente candidabili alla chirurgia137,138
.
COMPLICANZE E OUTCOME
La miotomia laparoscopica, associata alla plastica antireflusso, oggi è il trattamento di
scelta. Si è dimostrata una tecnica sicura, efficace che garantisce risultati a lungo
termine, migliori rispetto alle altre procedure.
Le complicanze intra-operatorie, secondo una recente metanalisi, complessivamente
sono del 6,3%. La mortalità è di circa lo 0,1%67
.
Le complicanze relative all’intervento di Heller possono essere suddivise in
complicanze intraoperatorie, a breve e lungo termine.
Tra quelle intraoperatorie rientrano le emorragie, le lesioni viscerali (in primis la
perforazione esofagea), lo pneumotorace e il versamento pleurico.
Eventi come lo pneumotorace e il versamento pleurico non sono specifici
dell’intervento di miotomia, ma sono complicanze generiche di qualsiasi intervento
sullo jatus diaframmatico o sul terzo inferiore dell’esofago.
La perforazione esofagea durante la miotomia è stata riportata in media nel 6,9% dei
pazienti, ma solo nello 0,7% con conseguenze cliniche67
. Nella maggior parte dei casi,
le perforazioni sono riconosciute intraoperatoriamente e riparate senza sequele cliniche.
Se non sono individuate, il decorso postoperatorio si può complicare con peritoniti,
mediastini e sepsi, e può insorgere la necessità di reintervenire chirurgicamente. Per
ridurre questa evenienza, alcuni chirurghi adottano metodiche intraoperatorie come la
prova idropneumatica, o l’iniezione di coloranti attraverso il sondino naso-gastrico.
Tra le complicanze a breve e lungo dobbiamo considerare la disfagia: la sua insorgenza
a pochi mesi dall’intervento deve essere considerata indice di fallimento terapeutico e di
39
verosimile errore tecnico. È stato dimostrato che, nei pazienti che manifestano il
sintomo entro tre mesi dall’intervento, la miotomia risulta incompleta, come evidenziato
dagli esami manometrici (lunghezza totale del SEI maggiore, 37,5 mm vs 42,5 mm,
p=0,007 rispettivamente nei pazienti con good e bad outcome) e radiologici
postoperatori (restringimento a livello della porzione terminale della miotomia
esofagea)139
.
La disfagia può ripresentarsi anche a distanza di tempo dall’intervento. Dopo la
miotomia laparoscopica, indipendentemente dalla fundoplicatio, un miglioramento della
sintomatologia è stato riportato nel 89% dei casi67
. Questi dati sembrano essere
supportati da alcuni studi che hanno condotto un follow-up per periodi prolungati, in cui
non si è dimostrata nessuna discrepanza tra la risoluzione della disfagia nell’immediato
periodo post-operatorio e a distanza140
. Tuttavia, altri autori non sembrano concordare,
rimarcando come si assiste, nel tempo, ad una riduzione della percentuale di pazienti
che non lamenta sintomi (95% di pazienti responsivi a 5 anni vs 73% a 15,8 anni)122,141
.
Come già descritto in precedenza, il grado di dilatazione dell’esofago sembra essere un
importante fattore predittivo di successo. Se si misura il diametro esofageo, a seguito
dell’esofagogramma, a circa 8 cm dal SEI in senso craniale, si può suddividere la
dilatazione in quattro stadi (Tab. 2):
GRADO DIAMETRO ESOFAGO (cm)
I <4
II 4-6
III >6
IV Esofago sigmoideo
Tabella 2. Grado di dilatazione dell'esofago all'esofagogramma.
40
I pazienti che rientrano nel IV stadio rispondono solo nel 50% mentre negli altri si
arriva ad una percentuale di successo del 90%130
.
Altra complicanza a lungo termine è la malattia da reflusso gastroesofageo. I pazienti a
cui non viene confezionata una fundoplicatio, sviluppano sintomi da reflusso ben nel
31,5%, mentre solo nell’8,8% quando questa è presente (p=0,001)67
. Questo dato è
confermato quando si sottopongono i pazienti al controllo pH-metrico. Eseguire il
monitoraggio pH-metrico nelle 24 ore non sempre è possibile, a causa dell’invasività
dello stesso esame che riduce la compliance del paziente, tanto più se la malattia da
reflusso è asintomatica. Tuttavia, la metanalisi condotta da Campos, ha dimostrato che
una valutazione strumentale è necessaria per avere una visione complessiva del paziente
dopo l’intervento di miotomia. Come già suggerito da Patti et al.142
, l’identificazione
della MRGE nei pazienti operati è fondamentale per scongiurare il rischio di esofago di
Barrett nei pazienti asintomatici e, qualora necessitino di dilatazione pneumatica per
disfagia residua, evitare di peggiorare il reflusso.
Il fallimento terapeutico, dunque, può essere attribuito a diversi fattori, tra cui quelli più
importanti sono: miotomia incompleta (33%), fibrosi (27%), plastica incontinente
(13%), fundoplicatio troppo stretta (7%), e una combinazione di miotomia incompleta e
fibrosi (20%)143
. In alcuni casi una dilatazione blanda endoscopica può essere efficace
nel risolvere la disfagia postoperatoria, specie quando il fallimento terapeutico è da
imputare ad una miotomia incompleta o a fibrosi dei margini della miotomia139
.
41
EFFETTI DEI TRATTAMENTI ENDOSCOPICI EFFETTUATI PRIMA DELLA
MIOTOMIA
Spesso i pazienti sono trattati con le terapie endoscopiche prima di subire l’intervento
chirurgico. Che tipo d’impatto possa avere questo sulla buona riuscita dell’intervento
non è ancora chiaro, com’è anche dimostrato dalla scarsa concordanza in letteratura, ma
secondo alcuni autori, tali trattamenti possono aumentare le complicanze intra-
operatorie come la perforazione. Le percentuali di perforazione variano tra il 7,8% e il
28% nei pazienti precedentemente trattati, contro percentuali che oscillano tra lo 0-6%
nel gruppo di quelli mai sottoposti a nessuna procedura144–146
.
Al contrario, alcuni autori non hanno riscontrato associazioni negative tra i precedenti
interventi endoscopici (dilatazione o iniezioni di botulino) e la chirurgia147–149
. È noto
che l’iniezione di botulino a livello delle SEI può determinare una reazione fibrotica che
può rendere maggiormente difficoltosa l’esecuzione della miotomia, in quanto
impedisce una corretta visualizzazione del piano di dissezione150–152
. Tuttavia, sono stati
riportati risultati simili, sia a seguito d’interventi effettuati su pazienti precedentemente
sottoposti a procedure endoscopiche, sia su pazienti mai trattati. Importante, ai fini
dell’outcome chirurgico, è la curva di apprendimento: maggiore è l’esperienza
dell’operatore meno questi fattori influenzano l’andamento147,153,154
.
APPROCCIO CHIRURGICO vs ENDOSCOPICO
Vi sono evidenze, supportate da recenti metanalisi, di come la miotomia chirurgica sia
maggiormente efficace rispetto ai trattamenti endoscopici143,155
67
. La persistenza dei
sintomi, o la loro recrudescenza, è stata maggiore nei pazienti sottoposti a trattamenti
endoscopici, riportando la necessità di re-intervento nel 19,5% e nel 10,1% dei pazienti
trattati con sola dilatazione o chirurgia, rispettivamente138
. Uno studio ha riportato una
42
maggiore probabilità di re-intervento (dilatazione pneumatica, miotomia chirurgica o
esofagectomia) tra i pazienti sottoposti a dilatazione endoscopica (63,5%), rispetto ai
pazienti trattati con la sola chirurgia (37,5%), in un arco temporale di circa dieci anni
(p<0,001)156
. Sono stati comparati, inoltre, pazienti operati di miotomia sec. Heller,
associata a plastica antireflusso sec. Dor o Toupet, con pazienti trattati con la sola
dilatazione endoscopica. Un primo studio ha dimostrato una percentuale di successo, a
cinque anni, del 95% vs 65% tra i due gruppi (p<0,01)141
, risultati confermati anche da
un secondo studio157
. Anche nei confronti dell’iniezione di botulino, la chirurgia ottiene
risultati superiori. Questo emerge da uno studio con un follow-up di circa sei anni: ben
l’87,5% dopo la miotomia si presentava privo di sintomi, mentre solo il 34%, nel
gruppo trattato con il botox, non lamentava disfagia (p<0,05)158
.
Diversamente da quanto descritto sopra, la superiorità della miotomia chirurgica non è
stata dimostrata in un trial randomizzato con follow-up di 43 mesi159
. In quest’analisi,
pubblicata sul New England Journal of Medicine, i pazienti sono stati suddivisi tra
quelli da sottoporre a dilatazione e tra quelli candidati alla chirurgia. Entrambe le
metodiche hanno dimostrato la stessa efficacia in termini di risoluzione dei sintomi,
tuttavia, nel 31% dei pazienti sottoposti a dilatazione e nel 12% di quelli sottoposti a
miotomia laparoscopica si è verificata la perforazione della mucosa. Stessi risultati sono
stati ottenuti da Vela che ha paragonato le due metodiche a breve e lungo termine,
notando una diminuzione dell’efficacia, progressiva nel tempo, in entrambe160
.
Una delle critiche che viene mossa all’utilizzo della dilatazione endoscopica, oltre al
rischio di perforazione, è l’alta percentuale di incidenza di MRGE. Dal 15% al 35% dei
pazienti sviluppano sintomi da reflusso, anche se si dimostrano responsivi ai trattamenti
con inibitori di pompa protonica78,161
.
Quale sia l’approccio migliore, rimane oggetto di dibattito, sebbene fondamentali siano
le considerazioni riguardo al paziente e ai benefici che può ottenere dai rispettivi
43
trattamenti e dai rischi cui va incontro. Anche l’abilità e l’esperienza dell’operatore
giocano un ruolo importante, da valutare nella scelta terapeutica. La dilatazione
pneumatica deve essere la scelta principale quando non sono rispettati alcuni standard di
trattamento: risposta clinica dopo la miotomia laparoscopica < 89,7% e mortalità
operatoria > 0,7%162
.
44
CHIRURGIA ROBOTICA
Nel 1995, la Intuitive Surgical (Mountain View, Sunnyvale, CA, US), brevettò il
prototipo di quello che oggi è il sistema chirurgico robotico più utilizzato al mondo. A
seguito dell’approvazione dell’FDA (Food and Drug Administration), nel 2000, che
autorizzò l’utilizzo del sistema da Vinci nella chirurgia generale laparoscopica, negli
anni successivi è stato possibile collezionare esperienze negli ambiti più disparati del
panorama chirurgico, dalla cardiochirurgia alla chirurgia ginecologica e urologica.
IL SISTEMA ROBOTICO DAVINCI SURGICAL SYSTEM
Dal primo prototipo a tre bracci (sistema robotico da Vinci S), il robot è stato migliorato
fino all’attuale modello a quattro bracci (sistema robotico da Vinci Si). Si avvale di un
sistema di visione tridimensionale ad alta risoluzione (magnificazione di 10x) e di
strumentazione EndoWrist®
, con ben sette gradi di libertà (nettamente superiori a quelli
della mano e del polso umano) che minimizzano i tremori fisiologici, e la tecnologia
Intuitive®
che replica l’esperienza di chirurgia a cielo aperto, preservando il naturale
allineamento occhio-mano-strumento e consente un controllo degli strumenti intuitivo.
Il sistema ha tre componenti principali che sono la console chirurgica, il carrello
robotico e la colonna endoscopica (Fig. 18).
Figura 18. Componenti del da Vinci Surgical System
45
CONSOLE CHIRURGICA
La console chirurgica permette al chirurgo di operare a distanza dal campo chirurgico
sterile. È costituita dal sistema di visione, dai masters controllers, vale a dire gli
strumenti simili a joystick che permettono all’operatore di manovrare i bracci del
carrello e i dispositivi EndoWrist®
, e dai pedali di controllo.
Il sistema di visione consente di avere una visuale 3D magnificata. Questo
comporta un’altissima risoluzione, grazie a più di mille immagini al secondo, e al
processore che elimina i rumori di fondo rendendole nitide. Lo zoom e la
possibilità di spostare l’ottica dalla console rendono agevole il muoversi nel
campo operatorio (Fig. 19).
Figura 19. Dispositivo-osservatore binoculare e pannelli di controllo laterali alla console chirurgica (in dettaglio: i manipoli allineati rispetto al sistema oculare).
I device per il controllo degli strumenti sono costituiti da due anelli regolabili per
ciascuna mano dell’operatore che li assicura su pollice e indice. Data l’ergonomia
della postazione, la posizione del corpo è estremamente naturale e confortevole.
In più, questo permette un perfetto allineamento occhio-mani, così che il chirurgo
abbia l’impressione di trovarsi sul campo operatorio e di usare le proprie mani
(Fig. 20).
46
I pedali hanno diverse funzioni: il “clutch” permette di bloccare i bracci e gli
strumenti nella posizione corrente lasciando libero il chirurgo di riposizionare le
proprie braccia; un secondo pedale è quello che serve per muovere la telecamera.
Sono presenti, inoltre, un pedale per la coagulazione bipolare e uno per quella
monopolare. L’ultimo, “l’arm swap”, permette di dirottare il comando dei
masters controller ad un braccio robotico diverso.
Sulla console vi è anche il sistema di accensione, di arresto d’emergenza e di
standby. Dopo un arresto di emergenza il sistema può essere riavviato annullando
l’operazione. Il tasto standby è utile nel caso sia necessario convertire in open:
disconnette immediatamente il sistema permettendo l’allontanamento rapido dei
bracci meccanici e del carrello.
CARRELLO ROBOTICO
Il carrello robotico, mobile e facilmente manovrabile, viene posizionato in
corrispondenza del lettino porta paziente e fissato indipendentemente da esso, cosicché
possa essere spostato velocemente nelle situazioni di emergenza. È costituito da quattro
bracci meccanici che vengono ancorati, a ciascuna estremità, ai trocars (Fig. 21).
Figura 20. Masters-controllers e visione endoscopica: coordinazione occhio-mano.
47
Figura 21. Il carrello robotico.
Tramite essi si posizionano gli strumenti. I bracci sono mossi dal chirurgo, anche se è
possibile lo spostamento manuale grazie ad un pulsante che li svincola dalla console
fintanto che viene premuto. Durante gli interventi devono essere rivestiti da involucri
sterili. Il braccio centrale è quello cui si fissa il sistema ottico, compatibile con un trocar
da 12 mm, mentre gli altri tre si adattano a trocars da 8 mm (Fig. 22).
Figura 22. Esempi di braccio robotico.
48
Una volta indotto lo pneumoperitoneo e posizionato il carrello, serve l’aiuto di un
secondo chirurgo per fissare gli strumenti e per sostituirli durante l’intervento. Ne
esistono di diversi tipi, ognuno dotato delle caratteristiche necessarie per eseguire
infinite procedure (Fig. 23).
Figura 23. Strumenti attualmente disponibile per il sistema chirurgico da Vinci (Intuitive Surgical, Inc., Sunnyvale, CA).
Con i loro sette gradi di libertà e l’articolazione EndoWrist®
, ovvero, a “polso ruotante”,
consentono di effettuare suture, clampaggi, dissezioni e manipolazioni dei tessuti quasi
senza limitazioni. In più la tecnologia Intuitive®
, traduce i movimenti del chirurgo in
movimenti fluidi e senza scatti, rendendo anche quelli più grossolani fini e precisi, ed
elimina i tremori (Fig. 24).
Figura 24. Lo strumento imita i movimenti del polso.
Una volta usati, gli strumenti possono essere sterilizzati e riutilizzati fino a dieci volte.
Lo stesso sistema segnala quando è ora di sostituirli.
49
COLONNA LAPAROSCOPICA
Come ogni colonna laparoscopica, comprende il monitor, l’insufflatore di CO2, una
doppia sorgente di luce ad alta intensità e processori video ad alta risoluzione.
VANTAGGI E LIMITI DEL SISTEMA DA VINCI
La telechirurgia, si basa sull’intuizione di Frederic Moll, che voleva trovare un sistema
per bypassare i limiti tecnici della laparoscopia. Secondo Moll “i robot sono bravi ad
andare dove si suppone che debbano andare, a ricordarsi dove si trovano e a fermarsi in
caso di necessità”.
La chirurgia robotica fa da ponte tra la chirurgia tradizionale e la chirurgia mininvasiva
laparoscopica. Le procedure in cui dà i risultati migliori sono quelle in cui il campo
operatorio è stretto e profondo, servono dissezioni accurate o si devono eseguire
microanastomosi.
Tra i vantaggi del sistema da Vinci, la visione tridimensionale è una delle più grandi
innovazioni. Il sistema ingrandisce le immagini fino a 10-15 volte, garantendo
operazioni precisissime. È superato, dunque, il limite della visione 2D della
laparoscopia, la mancanza di profondità delle immagini e le difficoltà di coordinazione
occhi-monitor. Gli strumenti sono mossi non più intorno ad un fulcro che rende il
movimento stesso speculare: l’operatore può eseguire qualsiasi gesto secondo il reale
orientamento che intende dargli. In più il sistema EndoWrist®
elimina il tremore
fisiologico, assicura una mobilità e una precisione notevolmente superiori rispetto, non
solo a quella laparoscopica, ma addirittura rispetto a quella delle mani e dei polsi. Da
non sottovalutare la posizione del chirurgo, seduto alla postazione a distanza, che può
affrontare interventi lunghi con minor fatica. Anche per la didattica e la formazione dei
chirurghi più giovani, il da Vinci Si, si dimostra all’avanguardia: la doppia console
50
permette di seguire il primo chirurgo durante tutto l’intervento godendo della stessa
prospettiva, mentre il software di training permette di migliorare le abilità tecniche.
Tra le limitazioni del sistema robotico, i costi elevati sono al primo posto, rendendola
una metodica d’elezione per centri d’eccellenza. Oltre al costo elevato del robot da
Vinci (circa 2.700.000 euro), si devono considerare quelli della strumentazione, che ha
un’emivita dimezzata rispetto agli strumenti laparoscopici, e ai malfunzionamenti che
richiedono personale e tecnici altamente formati(circa 200.00 euro di manutenzione).
I tempi operatori si dilatano, poiché è necessaria una preparazione preoperatoria degli
strumenti (posizionamento del carrello e centraggio del campo operatorio, rivestimento
dei bracci, check-up del sistema ecc.) che manca durante una normale laparoscopia. Gli
svantaggi tecnici che si incontrano durante gli interventi sono la mancanza di feedback
tattile e di forza; se con il sistema di visione 3D il primo può non essere un problema
nonostante non sia possibile avere la percezione della consistenza dei tessuti, la
mancanza del secondo può far sì che questi vengano danneggiati involontariamente. I
bracci meccanici possono ingombrare il campo operatorio e, specie se il posizionamento
non è stato fatto in maniera adeguata, questo può ostacolarne i movimenti.
Rimangono essenziali i vantaggi per il paziente che può godere di minori complicanze
intra-operatorie, minor il rischio di sanguinamento, minori tempi di degenza, minore
dolore post-operatorio e più rapido è il ritorno alle normali attività lavorative.
HELLER-DOR ROBOT-ASSISTED: TECNICA CHIRURGICA
Il paziente qualche giorno prima dell’intervento deve assumere una dieta
semiliquida/liquida e il giorno prima dell’intervento deve essere posizionato un sondino
naso-gastrico per il lavaggio e l’aspirazione dell’esofago da eventuali residui alimentari.
51
Si somministra terapia antitrombotica profilattica. Preparata la sala operatoria, una
volta indotta l’anestesia e intubato il paziente, indotto lo pneumoperitoneo con l’ausilio
dell’ago di Verres, vengono inseriti cinque trocars di cui due robotici: quello ottico da
10 mm al terzo superiore di una linea che unisce l’apofisi ensiforme alla cicatrice
ombelicale, uno da 10 mm per la retrazione epatica sul fianco destro, uno da 8 mm
robotico per la mano sinistra dell’operatore a livello sottocostale destro sulla linea
emiclaveare, uno da 8 mm robotico per la mano destra dell’operatore a livello
sottocostale sinistro sulla linea emiclaveare e uno da 10 mm paraombelicale sinistro per
l’assistente (Fig. 24).
Figura 25. Posizione dei trocar
A questo punto approssimando il carrello robotico al lettino porta-paziente si esegue il
docking del robot.
52
Figura 25. Sala operatoria: i bracci del carrello robotico sono fissati ai trocars addominali. A sinistra, il chirurgo alla console che coordina gli strumenti a distanza dal tavolo operatorio.
Solo quando si sarà sicuri di aver disposto tutto nella posizione corretta si aziona il
meccanismo di fissaggio (Fig. 27).
Figura 26. Disposizione sala operatoria.
53
L’intervento inizia clampando la prima ansa digiunale per eseguire una gastroscopia
intraoperatoria, controllare nuovamente il cardias per escludere cause di pseudoacalasia,
registrare la distanza del cardias dall’arcata dentaria e posizionare un filo-guida tipo
Amplatz Super-stiff®
(Boston Scientific, USA). Sul filo-guida, si inserisce un
palloncino tipo Rigiflex® da 30 mm (Boston Scientific, USA) a cavaliere della
giunzione esofago-gastrica.
Retratto il fegato, si posizionano i due strumenti robotici, la pinza di Cadière e l’uncino
monopolare rispettivamente per il braccio sinistro e destro del robot. Si seziona la
membrana freno esofagea esponendo l’esofago e la faccia anteriore dello stomaco,
ponendo particolare cura nell’individuare e preservare il nervo vago anteriore (Fig. 28).
Figura 27. Dissezione membrana freno esofagea.
Dopo aver iniziato la sezione dello strato muscolare longitudinale e circolare, circa un
centimetro sopra la giunzione gastroesofagea, fino a raggiungere lo strato sottomucoso,
viene condotta la miotomia esofagea, 6 cm in senso craniale e circa 2,5-3 cm,
caudalmente sul versante gastrico (Fig. 29).
54
Figura 28. Sezione dei piani e raggiungimento della sottomucosa(A); esecuzione della miotomia(B-C); misurazione della lunghezza(D).
La miotomia è estremamente facilitata con l’aiuto del Rigiflex. Infatti, insufflando e
desufflando il palloncino si espone in maniera corretta il piano muscolare e sottomucoso
(vedi riquadro B della figura 29); questo ha maggior importanza negli esofagi dilatati
(tipo III e IV). Tale miotomia è eseguita con l’uncino “a freddo” evitando di utilizzare
la diatermocoagulazione per ridurre il rischio della perforazione sottomucosa. Eventuali
sanguinamenti sono controllati con l’aiuto di una garza imbevuta di adrenalina o con la
compressione pneumatica eseguita dallo stesso Rigiflex.
Al termine della miotomia si sfila il palloncino e si posiziona un sondino naso-gastrico a
doppia via tipo Salem sotto visione robotica/laparoscopica. In alcuni casi può essere
eseguita una prova idropneumatica per evidenziare eventuali lesioni misconosciute della
mucosa. Si termina l’intervento con il confezionamento di una plastica antireflusso sec.
Dor, come descritto precedentemente (Fig.30).
55
Figura 29. Confezionamento della plastica antireflusso secondo Dor.
In prima giornata post-operatoria il paziente viene inviato ad eseguire un controllo
radiologico con contrasto idrosolubile per valutare il transito e l’eventuale presenza di
tramiti fistolosi. Se il controllo risulta negativo, dalla seconda giornata postoperatoria si
reintroduce l’alimentazione orale.
EFFICACIA E SICUREZZA
Non ci sono dubbi, ormai, sulla sicurezza e l’efficacia della miotomia esofagea robot-
assisted. Già pochi anni dopo la diffusione della chirurgia robotica, studi condotti
comparando la recente metodica e la laparoscopia classica, hanno evidenziato una
minore incidenze di complicanze intra-operatorie, un minor tempo di degenza, e meno
perforazioni esofagee163,164
. I tempi operatori, uno degli aspetti che sembrava rendere la
telechirurgia poco conveniente, si sono nettamente ridotti in maniera direttamente
proporzionale alla curva di apprendimento165,166
. Un recente studio multicentrico,
condotto da Shaligram et al., ha comparato l’approccio open, con quello laparoscopico e
robot-assisted, dimostrando minore morbilità a seguito di quest’ultimo e confermato i
minori tempi di ospedalizzazione167
.
56
PERFORAZIONE ESOFAGEA INTRAOPERATORIA
Volendo rapportare le notevoli migliorie introdotte con la chirurgia robotica, come la
visione 3D, ai vantaggi pratici, come un minor rischio di perforazione, Horgan et al.
dopo aver comparato 59 interventi eseguiti con il sistema da Vinci e 62 interventi
laparoscopici, ha registrato ben il 16% di perforazioni nel secondo gruppo contro lo 0%
del primo (p<0,01)164
. Stessi risultati sono stati ottenuti un anno fa da Perry (0% versus
3% di perforazioni rispettivamente per la Heller-Dor robotica e laparoscopica, p=0,001)
che, in più, ha riportato tempi di ricovero postoperatori dimezzati rispetto a quelli post-
laparoscopici168
. Anche altri studi, tra cui una meta-analisi, sono equiparabili in quanto
a conclusioni169,170
.
RISOLUZIONE DELLA DISFAGIA
La telechirurgia ha ottenuto risultati sovrapponibili, rispetto alla miotomia
laparoscopica, in termini di risoluzione del sintomo disfagia. Le percentuali di successo
si attestano al 92% vs il 90% della chirurgia laparoscopica 164
. Altri dati dimostrano
risoluzione della disfagia nell’82% dei casi, del rigurgito e del bruciore retrosternale nel
91%, e scomparsa del dolore toracico nell’82%171
. Anche i risultati a lungo termini sono
soddisfacenti: su un periodo medio di osservazione post-operatorio di 9 anni, tutti i
pazienti hanno avuto un miglioramento della sintomatologia disfagica168
.
COSTI
Uno degli aspetti più gravosi nell’utilizzo del robot è l’alto costo degli interventi. Un
grosso studio condotto da Shaligram et al., ha confrontato il costo di un singolo
intervento di miotomia laparoscopica con uno robotico: circa 7.500$ vs 9.500$.
Tuttavia, gli autori suggeriscono come in futuro una stretta collaborazione tra personale
sanitario e case produttrici, e la maggior diffusione del robot da Vinci, possa portare
57
all’abbattimento dei costi così da garantire al paziente il miglior trattamento
possibile167
.
58
FOLLOW UP
Dopo l’intervento di miotomia esofagea il paziente necessita di un follow-up a breve e a
lungo termine.
Nell’immediato periodo postoperatorio i controlli sono volti a valutare se l’obiettivo
primario del trattamento, in altre parole ristabilire il transito del bolo alimentare
attraverso lo sfintere, è stato raggiunto e, in caso contrario, pianificare terapie future. La
risoluzione della sintomatologia (disfagia, dolore retrosternale, rigurgito ecc.) non
costituisce, da sola, un indice adatto a questo scopo. Infatti, può esservi una risoluzione
dei sintomi senza un miglioramento significativo dell’ostruzione a livello della
giunzione esofagogastrica. Come dimostrato da Vaezi et al., i pazienti con outcome
peggiore dopo dilatazione endoscopica, pur dichiarando una risoluzione completa della
sintomatologia, erano quelli che presentavano ancora un transito esofageo
difficoltoso172
. L’Rx con contrasto e la manometria esofagea, sono le indagini principali
permettendo entrambe una rivalutazione della funzionalità dell’organo. La manometria
è senza dubbio l’esame più indicato per valutare l’abbattimento della pressione del SEI,
anche se, essendo una metodica più invasiva, non è eseguita di routine. Dati
suggeriscono che una pressione del SEI postoperatoria <10 mmHg, è associata a minore
disfagia residua172
; una pressione >10 mmHg, potrebbe essere un fattore predittivo per
la necessità trattamenti successivi.
Il follow-up a lungo termine è consigliabile, essendo l’acalasia una patologia per la
quale non esiste un trattamento causale definitivo. Ogni presidio terapeutico deve
essere, infatti, considerato un trattamento sintomatologico, in quanto, un’evoluzione del
quadro clinico-funzionale è sempre possibile. Controlli distanziati nel tempo
permettono di monitorare l’eventuale dilatazione dell’organo così da scongiurare il
59
rischio di insorgenza di megaesofago. Importanti, sono anche i controlli endoscopici
visto il rischio aumentato in questi pazienti, di sviluppare il cancro esofageo (dal 9,2 al
18,92%)44
. Come descritto in precedenza, una delle complicanze maggiormente
associata al trattamento della patologia è la MRGE. La reale incidenza del reflusso,
rischia di essere sottostimata, poiché di solito i pazienti vengono valutati solo da un
punto di vista sintomatologico. Il monitoraggio del pH nelle 24 ore è utile per
identificare i pazienti che presentano MRGE a seguito del trattamento, e per distinguerla
dalle condizioni in cui, per il ristagno del bolo alimentare nell’esofago, il paziente
avverte i sintomi da reflusso senza che questo sia effettivamente presente. Nella vera
MRGE, la caduta di pH (solitamente fino a valori di pH di 1,0-2,0) è improvvisa e
seguita da un ritorno a valori di 6,5. Al contrario, la caduta di pH associata al ristagno
avviene tipicamente nelle ore notturne, e raggiunge difficilmente valori al di sotto di
3142,173–175
. Questo è stato dimostrato anche dallo studio di Crookes et al. che, in vitro,
hanno sperimentato come cibo e saliva a temperatura corporea sono fermentati dai
lattobacilli, con produzione di acido lattico che determina una caduta di pH intorno a
4176
. Un pH di 3-4, difficilmente determina danni alla mucosa, poiché l’azione della
pepsina si esplica meglio a pH<3177,178
.
Il monitoraggio del pH intraesofageo può essere eseguito con la pH-metria esofagea
standard nelle 24 ore. Tramite un catetere, inserito per via trans nasale e posizionato a
circa 5 cm al di sopra del SEI (identificato mediante manometria), si registrano gli
episodi di reflusso definiti dalla caduta del pH<4. Durante la registrazione viene chiesto
al paziente di segnalare l’orario dei pasti, il momento in cui assume la posizione
clinostatica e tutti i sintomi che avverte. Il tracciato è poi analizzato identificando i
reflussi e correlandoli alla sintomatologia riportata.
60
Lo score di De Meester completa l’interpretazione dei dati pH-metrici ed è calcolato in
base ai seguenti parametri:
Numero totale di reflussi con pH<4;
La percentuale di tempo totale di reflusso a pH<4 (AET, dall’inglese Acid
Exposure Time);
Il numero di reflussi con pH<4 di durata maggiore a 5 minuti;
La durata del reflusso più lungo;
La percentuale del tempo in posizione supina con pH<4;
La percentuale del tempo in ortostatismo con pH<4.
I valori normali dello score sono stati calcolati su persone adulte asintomatiche. Ciascun
parametro è considerato indicativo di MRGE quando supera di più di due deviazioni
standard gli indici di riferimento. Lo score è patologico se è maggiore di 18179,180
.
Le limitazioni dello score sono la mancanza di correlazione con la prognosi e con il
grado di esofagite, pertanto è diventato un parametro di riferimento l’integrale di pH<4,
chiamato A.U.C. (dall’inglese area under the curve), che si correla proporzionalmente
con i reperti endoscopici.
La necessità di ottenere informazioni più dettagliate e specifiche ha dato luce alla pH-
impedenziometria multicanale nelle 24 ore.
Questa tecnica è il risultato dell’unione della pH-metria e dell’impedenziometria. Nel
1991, Silny la propose come nuova metodica in grado di riconoscere i movimenti
intraesofagei del bolo alimentare181
. L’esame è condotto per via trans-nasale, fissando il
catetere 5 cm al di sopra del SEI, precedentemente identificato con l’esame
manometrico. Sul sondino vi sono un sensore pH-metrico nella parte distale, e diversi
sensori che misurano l’impedenza a vari livelli (Fig. 31).
61
Figura 30. Disposizione sensori sul catetere da MII-pH( in nero sensori per il calcolo dell'impedenza; in rosso sensore da pH).
La tecnica si basa sull’analisi dell’impedenza calcolata tra due elettrodi vicini: i sensori
sono connessi a un trasduttore di voltaggio che analizza e rende leggibile il segnale (che
rappresenta l’impedenza elettrica intorno al catetere) all’interno della sezione
circoscritta dal paio di elettrodi. Essendo l’impedenza l’inverso della conduttività
elettrica, nel lume dell’organo il passaggio dell’aria, che ha una bassa conduttività,
determina un aumento del segnale, al contrario, il bolo alimentare o il reflusso
gastroesofageo, che hanno una conduttività maggiore, determinano una caduta di
impedenza. La conduttività del lume esofageo vuoto è relativamente stabile: si
registrano circa 2000-3000 Ohms. Si può, in questo modo, ottenere informazioni sulla
presenza del bolo ad un certo livello e caratterizzarlo da un punto di vista fisico-
chimico. Ciascuna deglutizione apparirà come una progressiva variazione del tracciato
in senso aborale, mentre i reflussi avranno un andamento esattamente opposto (Fig. 32).
62
Figura 31. Esempio del tracciato durante una deglutizione e durante un episodio di reflusso.
Queste informazioni, permettono di riconoscere un reflusso indipendentemente dal suo
pH. Termini come “reflusso acido”, “debolmente acido” e “non acido” sono stati
ridefiniti da una consensus di esperti sulla base delle osservazioni nate dall’applicazione
della MII-pH. I reflussi “acidi” sono stati definiti come quelli in cui il pH scende al di
sotto di 4, o che insorgono quando il pH esofageo è già sotto tale valore. Se il pH
decresce di più di un’unità, ma non supera il limite inferiore di 4, viene considerato
“reflusso debolmente acido”. Il pH di 7 è stato posto come cut-off tra i reflussi
“debolmente acidi” e i “non acidi”. Gli eventi in cui, pur manifestandosi un reflusso,
questo non è associato a caduta di pH al di sotto di 7, sono stati definiti come “reflussi
debolmente alcalini”182
.
I dati ottenuti a seguito dell’esame vertono su:
Il numero di reflussi gastroesofagei (acidi e non acidi).
Il numero di reflussi verificatisi in posizione supina e in ortostatismo.
63
Il tempo di esposizione all’acido (AET), definito come la percentuale di tempo in
cui il pH rimane al di sotto di 4.
Identificazione dell’estensione prossimale di ogni evento reflusso.
La sintomatologia associata ad ogni evento.
L’associazione tra sintomi e reflussi è valutata secondo i seguenti indici:
Symptom index(SI): definito come il numero dei sintomi associati a reflusso diviso il
numero totale dei sintomi riportati dal paziente. Viene considerato positivo per valori
>50%183
.
Symptom Association Probability(SAP): calcolato mediante la suddivisione delle 24
ore di registrazione in periodi temporali di due minuti, per ciascuno dei quali si calcola
la presenza o meno di sintomi. Comparando i periodi con e senza reflusso e quelli con e
senza sintomi si calcola la probabilità (p<0.05%). Il SAP viene calcolato come (1-p) x
100 e considerato positivo quando ≥ 95% 184
(Fig. 33).
Figura 32. Calcolo dei parametri SI e SAP.
64
Ciascun sintomo è associato al reflusso, se i due eventi rientrano in un arco temporale di
5 o 2 minuti, rispettivamente per il SI e per il SAP.
Symptom Sensitivity Index(SSI): definito come il numero di sintomi associati agli
episodi di reflusso diviso il numero totale di reflussi x 100%185
.
In assenza di episodi di reflusso o di deglutizioni, il lume dell’esofago collabisce, e i
valori basali d’impedenza (BI, dall’inglese Baseline Impedance), sono definiti dalla
conducibilità intrinseca delle pareti esofagee circostanti. Sulla base delle osservazioni
fatte da Farrè et al.186
, la BI oggi viene considerata un parametro utile per valutare
l’integrità della mucosa esofagea. I valori diminuiscono quando l’esofago è esposto
all’acido, e sono nettamente inferiori nei pazienti affetti da MRGE rispetto ai volontari
sani; gli stessi dati correlano con L’AET187
.
65
STUDIO CLINICO
66
INTRODUZIONE E OBIETTIVI DELLO STUDIO
Lo scopo primario del presente lavoro è stato di valutare l’efficacia della tecnica
robotica nel trattamento dell’acalasia esofagea in un gruppo di pazienti sottoposti a
miotomia esofagea secondo Heller e plastica antireflusso secondo Dor. Tale studio, in
maniera prospettica, ha valutato:
Le complicanze intraoperatorie e postoperatorie;
I risultati clinici e funzionali postoperatori;
La learning curve legata all’utilizzo della tecnica robotica.
MATERIALI E METODI
Fra il gennaio 2012 ed il dicembre 2014 è stata formulata diagnosi di acalasia in 45
pazienti consecutivi che sono stati trattati mediante tecnica robotica (da Vinci).
Tutti i pazienti sono stati ricontattati per eseguire valutazione di follow-up post-
operatorio sia clinico che con l’utilizzo di tecniche fisiopatologiche.
ARRUOLAMENTO PAZIENTI
I pazienti arruolati sono stati sottoposti a una valutazione pre-operatoria comprensiva di
visita medica, esami endoscopici, fisiopatologici e radiologici.
Durante la valutazione clinico-anamnestica, i pazienti hanno eseguito un’intervista per
esprimere un giudizio di gravità sulla sintomatologia, basandosi sull’utilizzo di un
questionario Likert (0= no sintomi, 1= sintomi lievi, 2= sintomi moderati, 3= sintomi
severi) relativamente alla presenza di disfagia, pirosi, dolore toracico non-cardiaco e
rigurgito.
67
Il work-up diagnostico preoperatorio si è basato sull’esecuzione di:
Esofagogastroduodenoscopia, per escludere a presenza di lesioni organiche
(pseudoacalasia);
Rx esofago-stomaco con mezzo di contrasto (mdc), per valutare la dilatazione
dell’organo e il suo svuotamento, oltre che confermare l’assenza di aria residua
sul fondo gastrico (reperto di “assenza di bolla gastrica”);
Manometria esofagea standard a perfusione, per confermare il mancato
rilasciamento dello sfintere esofageo inferiore (SEI) e l’assenza di peristalsi nel
corpo esofageo. La manometria è stata condotta secondo le Linee Guida del
gruppo Studio Motilità Apparato Digerente (GISMAD). Non è stato possibile
eseguire la valutazione dei pazienti mediante manometria ad alta risoluzione
perché, tale metodica, si è resa disponibile, nella nostra unità operativa, solo nel
corso di quest’anno.
Una volta ottenuto il consenso informato, tutti i pazienti sono stati sottoposti a
intervento chirurgico di Heller-Dor robot-assisted. La procedura chirurgica si è svolta
secondo le modalità descritte nel capitolo precedente.
Abbiamo analizzato la prevalenza delle seguenti variabili cliniche, quali complicanze
intraoperatorie ed entro 30 giorni dall’intervento chirurgico:
- Perforazione della mucosa esofagea in corso di miotomia;
- Emorragia;
- Pneumotorace;
- Versamento pleurico;
- Conversione laparotomica;
- Mortalità;
68
FOLLOW-UP
A seguito dell’intervento, i pazienti sono stati sottoposti ad un follow-up clinico
strumentale:
Valutazione clinica con questionario sintomatologico su scala Likert.
Rx esofago stomaco con mdc, in 45a giornata postoperatoria e poi annualmente.
EGDS.
Tutti i pazienti hanno eseguito un’EGDS con lo scopo di individuare l’eventuale
presenza di alterazioni della mucosa. Le erosioni a livello della mucosa del terzo distale
del viscere, qualora presenti, sono state categorizzate secondo la classificazione di Los
Angeles188
dell’esofagite erosiva.
Un sottogruppo di pazienti che ha dato il proprio consenso, ha eseguito anche uno
studio fisiopatologico dell’esofago mediante:
Manometria esofagea, per studiare nuovamente il tono e la lunghezza del SEI,
rivalutare e confermare l’assenza di motilità a carico del corpo esofageo;
pH-impedenziometria delle 24 ore (MII-pH), eseguita previa sospensione di
eventuale terapia acido-soppressiva.
Manometria esofagea standard
Tutti i soggetti che hanno aderito al follow-up fisiopatologico si sono, quindi, sottoposti
a manometria esofagea standard a perfusione. L’esame è stato condotto mediante
l’esecuzione di 10 deglutizioni di 5ml di acqua eseguite a distanza di circa 20 secondi
l’una dall’altra. Inoltre, mediante la tecnica di “pull-through”, è stata definita la misura
del bordo superiore, del bordo inferiore del SEI, del punto d’inversione pressoria (PIP)
che consente di misurare lunghezza intra-addominale e toracica dello sfintere stesso.
69
Studio pH-impedenziometrico multicanale
Lo studio di MII-pH è stato condotto con un sondino naso-esofageo in polivinile, del
diametro di 2,3 mm, contenente 6 coppie di elettrodi misuranti l’impedenza e un sensore
in antimonio misurante il pH (Versaflex® Z, Given Imaging, USA), calibrato, come
stabilito dal protocollo di utilizzo dello strumento, con due soluzioni tampone a pH 4.0
e pH 7.0 prima dell’inizio di ciascun esame. Il catetere monouso è stato posizionato con
il sensore di pH a 5 cm dal LES (la distanza del bordo superiore del LES dalle narici è
stata determinata con la valutazione manometrica) e i 6 canali misuranti l’impedenza
posti a 3, 5, 7, 9, 15 e 17 cm dal LES. I segnali d’impedenza e di pH sono stati registrati
a circa 50 Hz e acquisiti mediante un registratore portatile (Digitrapper®
pH-Z, Given
Imaging, USA).
Durante la registrazione, è stato chiesto a tutti i pazienti di consumare alimenti e
bevande esclusivamente nell’arco di tre pasti (pranzo, cena e colazione il giorno
seguente), sul modello della dieta mediterranea189
. Inoltre, è stato richiesto di assumere
la posizione clinostatica solamente durante le abituali ore di riposo notturno (massimo 8
ore).
Analisi dei dati
La lettura del tracciato di MII-pH è stata eseguita manualmente per assicurare un
accurato rilevamento e la classificazione degli episodi di reflusso, con l’utilizzo di
finestre operative di 5 minuti per tutte le 24 ore. Il tempo del tracciato corrispondente ai
pasti è stato escluso dalla lettura.
I dati di MII-pH sono stati utilizzati per determinare il numero e il tipo di episodi di
reflusso e l’AET, in ciascun paziente. Il numero totale dei reflussi è stato considerato
patologico se >54, e l’AET, valutato a livello dell’esofago distale, è stato definito
patologico con pH inferiore a 4 unità, per un valore superiore al 5% del tempo totale di
70
registrazione (24 ore). Come precedentemente riportato, i reflussi acidi, debolmente
acidi e debolmente alcalini sono stati definiti in accordo alla letteratura182
. Il reflusso
prossimale è stato definito come una caduta d’impedenza registrata fino a 15 cm dal
LES. Infine, la correlazione fra sintomi ed eventi di reflusso è stata valutata con il SI e il
SAP.
I valori di BI sono stati registrati a livello del canale più distale (z3, 3 cm sopra il LES)
durante le ore del riposo notturno a tre differenti orari (alle 01.00, 02.00 e 03.00). In
dettaglio, sono state selezionate finestre temporali di 10 min in corrispondenza di
ciascun orario, evitando episodi di reflusso, deglutizioni e cadute di pH190
.
ANALISI STATISTICA
Tutti i dati sono stati espressi come valore medio e deviazione standard. Per le variabili
continue è stato applicato il t-test di Student per dati appaiati (pre e post trattamento).
Per le variabili ordinali e nominali è stato applicato il test esatto di Fisher. Tutti i
risultati sono stati considerati statisticamente significativi per un valore di “p” inferiore
a 0,05.
RISULTATI
Dal gennaio 2012 al dicembre 2014, sono stati trattati chirurgicamente, mediante
tecnica robotica (da Vinci), per acalasia esofagea, 45 pazienti (33 maschi e 12 femmine)
con età media di 55,8 anni (ds 14,56) ed un BMI medio di 25,9 (ds 5,03).
Tutti i pazienti (100%) presentavano il sintomo disfagia con un livello medio di gravità
di 2,1 sulla scala Likert, il 27% (12 pazienti) presentava rigurgito (valore medio di 1,79
scala Likert), il 17.7% (8 pazienti) presentava dolore retrosternale (valore medio di
71
gravità di 1,5 di Likert) e pirosi nel 4% (2 pazienti con un valore medio di 1 scala di
Likert).
Grafico 1. Percentuale dei sintomi preoperatori.
Il periodo medio di presentazione dei sintomi è stato di 47,38 mesi (± 82,78).
Non abbiamo avuto complicanze intraoperatorie o postoperatorie. In particolare non si
sono verificate perforazioni esofagee, né intraoperatorie né postoperatorie.
In tutti i pazienti trattati, l’intervento chirurgico ha avuto una durata media di 2,69 ore
(±0,67) con una riduzione statisticamente significativa della durata media dal 2012 al
2014 (p<0.001). (Grafico 2)
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
100
100
27
17
4
%
Sintomi Preoperatori
Disfagia
Rigurgito
Dolore retrosternale
Pirosi
72
Grafico 2. Curva dei tempi operatori negli anni 2012-2014 (sopra); learning curve, con in dettaglio i tempi medi di durata degli interventi nei singoli anni (sotto).
Dopo la terapia chirurgica, il 93,4% dei pazienti presentava una risoluzione completa
del sintomo disfagia. In 3 pazienti (6,6%) la disfagia era ancora presente con un
punteggio medio della scala di Likert di 2,33: 2 pazienti avevano un punteggio di 2 e
uno di 3. Due di questi pazienti sono stati sottoposti a dilatazione endoscopica
pneumatica con un miglioramento della sintomatologia; l’altro paziente ha rifiutato la
1
1,5
2
2,5
3
3,5
4
4,5
TEM
PI O
PER
ATO
RI
(ore
)
p<0,001
LEARNING CURVE
2012→3,18 ore
2013→2,6 ore
2014→2,34 ore
73
dilatazione ed ha preferito seguire uno schema dietetico semisolido. Il sintomo rigurgito
è risultato migliorato passando dal 27% preoperatorio all’8,8 % postoperatorio con
livello di gravità di 1,62, Il dolore retrosternale era presente in 9 pazienti (20%; 1,33 su
scala Likert), la pirosi nel 15% (7 pazienti) con 1,85 come indice di gravità (Grafici 3 e
4).
Grafico 3. Percentuale dei sintomi postoperatori e gravità.
Grafico 4. Confronto tra le percentuali dei sintomi pre e postoperatori.
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90
100
Disfagia (p<0,0001)
Rigurgito (p=0,02)
Dolore retrosternale
(p=0.999)
Pirosi (p=0,008)
100
27
17
4 6,6 8,8
20 15
%
Preoperatorio
Postoperatorio
74
L’EGDS è stata eseguita, nello stesso centro, in 31/45 (68,8%) pazienti. Solamente 3/31
(9.6%) pazienti presentavano esofagite (1 grado B e 2 grado C).
L’esame di Rx esofago-stomaco postoperatorio, eseguito in 45/45 pazienti, ha
dimostrato una normale canalizzazione e svuotamento del corpo esofageo nel 100% dei
casi. E’ stata osservata, inoltre, una significativa riduzione del diametro medio del
viscere che è cambiato da 2,9 cm (ds 2,2) a 1,4 cm (ds 1,8) (p=0,00235). (Grafico 5).
Grafico 5. Valori medi del diametro esofageo pre e postoperatorio.
Un sottogruppo di 20/45 (44%) pazienti ha dato il proprio consenso ad eseguire uno
studio fisiopatologico postoperatorio, eseguito in media dopo 21 mesi (ds 6,06)
dall’intervento di Heller-Dor.
La manometria esofagea ha dimostrato che la pressione media del SEI è stata
significativamente ridotta passando da 28,6 ± 13,6mmHg a 10,4± 4,3mmHg (p=0,0001)
e di conseguenza anche la lunghezza media dello sfintere è passata da 3,3± 1,1 cm a
1,2± 0,7cm (p=0,0038). (Grafico 6)
75
Grafico 6. Valore medio della pressione del SEI pre e postoperatoria.
La MII-pH ha dimostrato un AET medio di 2,8% (ds 4,6) con un’esposizione
leggermente superiore in clinostatismo pari a 3,9% (ds 9,4) rispetto a quella in
ortostatismo 1,9% (ds 3,0). Il numero medio di reflussi è risultato di 22,5 (ds18,6) con
un numero di reflussi prossimali di 7 (ds 7,2). Tutti questi parametri analizzati sono
risultati completamente normali rispetto ai parametri nazionali di riferimento (Grafico
7).
Grafico 7. MII-pH: tempo totale di esposizione all’acido medio(AET), e del suo valore in ortostatismo e in
clinostatismo
76
Un esame più dettagliato a permesso di evidenziare che solamente 2/20 pazienti (10%)
presentavano valori alterati dell’esame di MII-pH (AET medio 8,3±7%; AET in
clinostatismo 16,6±14,3% ed un AET in ortostatismo 3,5±4,3%), con correlazione
sintomatologica con il sintomo pirosi. E’ importante, a tale proposito, sottolineare che
solamente 2/3 pazienti con esofagite hanno presentato un AET alterato (Grafico 8) e,
quindi, solo per questi possiamo confermare l’eventuale correlazione fra la presenza di
erosioni esofagee ed un esposizione patologica all’acido.
Grafico 8. MII-pH in pazienti con esofagite: AET medio, valore in ortostatismo e clinostatismo.
Infatti, il soggetto con esofagite erosiva ed esposizione all’acido nei limiti della norma,
potrebbe aver sviluppato la presenza di erosioni esofagee solo per effetto di transitorio
ristagno di materiale nella porzione inferiore del viscere176
. L’alterazione dell’AET,
quindi, deriva prevalentemente da un deficit di clearance esofagea (tipico di questi
pazienti) facilmente deducibile dall’assenza di peristalsi dell’esofago, dal numero
complessivamente limitato di reflussi e dall’esposizione all’acido prevalente in
clinostatismo, quando si perdono tutti i fattori di protezione dell’esofago (salivazione,
deglutizione, effetto della gravità).
Si segnala, infine, che il valore basale d’impedenza è risultato significativamente più
basso nei soggetti con esofagite ed esposizione patologica all’acido (498,5±297 Ohms),
77
rispetto ai soggetti senza esofagite ed esposizione all’acido nei limiti (1738,3±269,1
Ohms) (p=0,0001).
Nel sottogruppo in studio, 2 pazienti assumevano terapia con inibitori di pompa
protonica che è stata confermata dopo il controllo endoscopico più recente, per la
persistenza di esofagite; a un altro paziente ne è stata consigliata l’assunzione per il
riscontro di erosioni della mucosa esofagea.
DISCUSSIONE
Lo scopo di questo lavoro è stato quello di valutare i risultati ottenuti con la chirurgia
robotica nel trattamento dell’acalasia. La miotomia laparoscopica, pur rappresentando al
momento attuale il gold standard del trattamento chirurgico presenta delle limitazioni
che dipendono dalla tecnica (visione bidimensionale, limitazioni dei movimenti degli
strumenti laparoscopici), dall’esperienza dell’operatore e dall’abilità acquisita192
. Gli
enormi vantaggi della chirurgica robotica, come la visione 3D magnificata, la
limitazione dei tremori fisiologici, la strumentazione altamente sofisticata, hanno
permesso di mitigare le carenze laparoscopiche, pur mantenendo tutti i vantaggi della
chirurgia mininvasiva.
I nostri risultati confermano, quindi, i dati della letteratura164,168
: la chirurgia robotica,
nell’intervento di Heller-Dor, grazie alla magnificazione dell’immagine, all’alta
definizione e alla visione tridimensionale, può facilitare l’esecuzione della miotomia
esofagea riducendo le complicanze. Nessun paziente, infatti, in questo studio è andato
incontro a complicanze intraoperatorie, in primis a perforazione della mucosa esofagea
e nessuno degli interventi ha richiesto una conversione laparotomica. L’efficacia di tale
tecnica è stata confermata anche dai risultati postoperatori clinici (risoluzione della
disfagia e del rigurgito nella quasi totalità dei pazienti), radiologici (miglioramento del
78
transito, della canalizzazione, con una riduzione del diametro del lume esofageo in tutti
i pazienti) e manometrici (abbattimento della pressione del SEI in maniera
statisticamente significativa). D’altra parte, mentre la risoluzione della disfagia è
l'obiettivo primario del trattamento dell’acalasia, lo sviluppo d’importanti sintomi di
reflusso gastroesofageo, a seguito della miotomia, rimane un problema rilevante. In
letteratura l’incidenza di reflusso dopo l’intervento sec. Heller-Dor, varia dall’8% al
60%67,119,121,192,193
. Se diversi sono i lavori che hanno studiato il reflusso dopo miotomia
laparoscopica, a nostra conoscenza, questo è uno dei primi studi che ha valutato i
pazienti, operati di Heller-Dor robotica, con la pH-impedenziometria che si è rivelata
una tecnica molto più efficace, rispetto alla pH-metria standard, nell’individuare i
reflussi gastroesofagei e nel caratterizzarli.
Dei venti pazienti che sono stati sottoposti a questo esame strumentale, solo 2 (10%)
hanno ottenuto un tempo medio di esposizione all’acido patologico (AET), soprattutto
in clinostatismo.
Questi risultati clinici e funzionali sono in linea con quelli della letteratura, soprattutto
se consideriamo gli interventi di Heller-Dor laparoscopici eseguiti in centri di
riferimento191
. L’intervento di Heller-Dor robotico, quindi, risulta efficace e sicuro,
comportando una minore incidenza di complicanze e garantendo degli ottimi risultati
funzionali. Come tutte le nuove tecnologie, però, è necessario un periodo di
apprendimento, più o meno lungo, affinché se ne possano utilizzare appieno le
potenzialità. Il percorso d’apprendimento della tecnica robotica, comunque, è facilitato
dalla doppia console disponibile con il robot da Vinci Si, permettendo ai chirurghi meno
esperti di affiancare il primo operatore durante tutte le fasi dell’intervento. Grazie
all’estrema intuitività del robot, in due anni, nella nostra esperienza, c’è stata una
riduzione statisticamente significativa dei tempi operatori, fino a raggiungere un plateau
79
nel terzo anno di 2,36 ore che è sovrapponibile al tempo di esecuzione dell’intervento
con tecnica laparoscopica.
Alla luce di questi risultati, possiamo, quindi, considerare l’acalasia, come una corretta
indicazione alla chirurgia robotica, anche se, dobbiamo sottolineare che il nostro studio,
pur prospettico, ha alcune limitazioni: in primo luogo il numero limitato dei pazienti
studiati in relazione alla rarità dell’acalasia; secondariamente il fatto che lo studio
fisiopatologico postoperatorio è stato eseguito solo in 20 pazienti a causa all’invasività
della procedura ed, infine, la relativa brevità del follow-up.
CONCLUSIONI
Dopo più di tre secoli, dall’utilizzo di una spugna montata su un osso di balena da parte
del medico inglese Sir Thomas Willis, siamo giunti alla telechirurgia con cui il chirurgo
riesce ad eseguire gesti molto precisi utilizzando braccia robotiche articolate.
L’intervento per acalasia necessita proprio di tale sensibilità e precisione, soprattutto
durante il tempo della miotomia. Il nostro studio ha dimostrato che l’intervento sec.
Heller-Dor eseguito con tecnica robotica è sicuro ed efficace, con riduzione delle
complicanze e con ottimi risultati funzionali postoperatori, confermando l’acalasia,
quindi, tra le indicazioni a questo tipo di approccio.
Considerando gli attuali alti costi dell’approccio robotico, che ne limitano l’ampia
diffusione sul territorio, e il fatto che l’acalasia rientri tra le patologie rare, è auspicabile
che siano previsti percorsi di “centralizzazione” di tali casi, al fine di offrire ai pazienti
il migliore trattamento possibile.
La chirurgia, come tutta la medicina, sta evolvendo sempre più in tecnologia e
mininvasività e non possiamo che essere d’accordo con Oscar Wilde che affermava che
“ tutto ciò che è moderno viene, prima o poi, superato”.
80
RINGRAZIAMENTI
Un enorme grazie a chi mi ha accompagnato nello svolgimento di questo lavoro, che
con pazienza e sopportazione ha gestito i miei momenti di panico pre-laurea. Per cui
dico grazie al Dott. Santi per avermi dato la possibilità di frequentare il mondo, per me
"magico", della chirurgia; grazie al Dott. Pallabazzer che, con la sua passione per
l'anatomia, ha reso ogni intervento, cui ho assistito, un viaggio nel corpo umano; grazie
al Dott. Solito per i suoi aneddoti e per i consigli; al Dott. D’Imporzano e al Dott.
Belluomini, che mi hanno dato un assaggio di cosa aspettarmi una volta entrata, spero,
in specializzazione (voi siete matti!). Ringrazio anche il Dott. De Bortoli per il suo aiuto
prezioso.
Un grazie particolare va a Debora Gianetri, perché sa sempre cosa fare e senza la quale,
probabilmente, non ci sarebbe stata nessuna tesi; la verità è che è lei a mandare avanti la
baracca!
Grazie a voi ho imparato cose che nemmeno sapevo esistessero e mi sono sentita come
a casa, quindi, grazie per il ricordo bellissimo che porterò con me di quest’ultimo anno e
mezzo.
81
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