Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
246 31320 gennaio 2018
“Quindi, dobbiamo fare delle scelte: decidere se la nostra etnia,
la nostra razza bianca, la nostra società
deve continuare a esistere o la nostra società
deve essere cancellata: è una scelta.”
Attilio Fontana
Maschietto Editore
(ancora)
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, 1969
La prima
Central park, una
domenica mattina.
Il bel tempo e il
desiderio di un po’
di relax mi hanno
spinto tornare a
far due passi in
solitaria. Era presto
e non c’erano quegli
assembramenti di
folla che si trovano
abitualmente nei
giorni del week-end.
Atmosfera rilassata,
anche il poliziotto
non sembra un
robo-cop e viaggia
a bordo di una
tranquillizzante
“Vespa” che ho
notato con un certo
piacere patriottico.
Erano quasi tutte
persone over-fifty,
molte di origine
italiana, che
sceglievano sempre
la prima mattina o
il tardo pomeriggio
per la passeggiata
al parco. Il sole era
ancora sopportabile
e non si aveva
quella sensazione
sgradevole di essere
immersi in una
specie di melassa!
Direttore
Simone SilianiRedazione
Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
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Editore
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Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
246 31320 gennaio 2018
In questo numeroITra architettura e ambiente storico
di Alessandro Gioli
Quei resti etruschi a Gonfienti
di Giuseppe Alberto Centauro
Le forme visibili dei pensieri invisibili
di Laura Monaldi
Da Pontormo a San Carlo
di M. Cristina François
Serra Yilmaz nei panni di Grisélidis, prostituta geniale
di Michele Morrocchi
Sorella arte
di Simonetta Zanuccoli
Viaggi straordinari
di Valerio Dehò
Il ridicolo simbolismo della Ruota delle meraviglie
di Francesco Cusa
Mappe di percezione: San Francisco
di Andrea Ponsi
Erika Stone fotografa sociale
di Danilo Cecchi
La trottola e il robot
di Cristina Pucci
Non devi perderti nelle cose
di Paolo Marini
Il Summer di Mimmo
di Monica Innocenti
Prima del Big Bang non c’era un prima
di Gianni Bechelli
e Remo Fattorini, Alessandro Michelucci, Burchiello 2000... Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali
Al Bano, il putiniano pugliese
Le Sorelle Marx
Quando c’era lui
I Cugini Engels
Riunione di famiglia
420 GENNAIO 2018
Il 19 novembre scorso fu presentato nella
sala del Pegaso nel Palazzo della Regione di
via Cavour il libro Architettura contempora-
nea e Ambiente storico, a cura di Francesco
Gurrieri con scritti di Carlo Cresti, Giuseppe
Cruciani Fabozzi, Sergio Givone, Francesco
Gurrieri, Franco Purini, edito da Angelo Pon-
tecorboli Editore, Firenze 2017. Chi scrive fa-
ceva parte dei presentatori insieme a Cristina
Donati, lo stesso Gurrieri e Giuseppe Crucia-
ni Fabozzi..
In quella occasione cercai di circoscrivere gli
ampi e molto interessanti contenuti del libro
soffermandomi su quali criteri adottare per
progettare una nuova architettura in un am-
biente storico, come recita lo stesso titolo.
Progettare non è cosa da poco, specialmente
a Firenze, cosicché proposi una riflessione:
uno di noi si iscrive alla Facoltà di Architettu-
ra e, dopo molti anni di studio e di lavoro, ha
la ventura di diventare architetto di fama in-
ternazionale. E’ molto probabile che la fama
se la faccia all’estero piuttosto che in Italia
ma un giorno, dopo aver fatto grandi cose, è
chiamato a Firenze e qui gli si presenta una
curiosa realtà: dagli studiosi preposti alla
salvaguardia dell’Ambiente storico gli verrà
detto che il suo progetto dovrà salvaguarda-
re l’Ambiente storico; senza altro aggiungere.
Naturalmente quel famoso architetto sa bene
di essere stato invitato proprio per essersi di-
stinto nella soluzione di complessi problemi
attinenti l’inserimento di nuove architetture
in varie città d’arte e, ovviamente ringrazierà
e parlerà dei propri convincimenti, delle sue
visioni del mondo e dell’architettura. Imma-
gino anche che cercherà di tranquillizzare
tutti coloro che, preoccupati per l’eventuale
alterazione dell’immagine di Firenze, gli fa-
ranno notare, come ricorda Paola Grifoni in
“Il silenzio dell’architetto” (pubblicato dopo
la presentazione del suddetto libro in Cultu-
ra Commestibile n.240), che fra “notissimi
architetti sia italiani che stranieri nessuno di
loro è stato in grado di capire la realtà storica
con la quale si trovava a interagire. Un archi-
tetto, solo perché di fama, non è esperto nelle
diverse discipline e sovente non possiede la
capacità di valutare i suoi limiti e la consape-
volezza della diversità tra tipologie progettua-
li, in particolare l’approfondimento necessa-
rio per avvicinarsi al restauro architettonico
o, ancora più impegnativo, a un intervento di
progettazione in un ambito storicizzato”.
Abbandonando quel grande architetto al suo
destino cercherò dunque di individuare qua-
di Alessandro Gioli
li potrebbero essere i modi di intervento in
una città come Firenze. Faccio riferimento al
saggio di Sergio Givone dal significativo titolo
“Che fare?”. Ci sono, dice Givone, senza per
altro crederci troppo, tre possibili strade; cer-
cherò di seguire queste indicazioni e magari
di ampliarle.
1) Come era e dove eraLa prima possibilità consiste nel ricostruire
l’opera architettonica come era nel suo luogo
di origine. Qui a Firenze il convincimento
prese forza per la ricostruzione delle zone
distrutte intorno al Ponte Vecchio. Inutile ri-
cordare le discussioni fra gli uomini di cultura
dell’epoca sull’adozione o meno di tale crite-
rio, fra chi paventava il nuovo e chi lo invoca-
va come occasione di rinascita.
Ci sono molti modi per porgersi in ascolto
della storia ne indico tre sufficienti a far capi-
re la complessità dell’argomento.
1.a) La storia viene rispettata pienamente.Il Ponte a Santa Trìnita costruito nel 1567
dall’Ammannati, su suggerimento di Miche-
langelo, famosissimo per la bellezza e l’ar-
monia delle arcate disegnate con il metodo
della catenaria, fu distrutto più volte dalle
piene dell’Arno del 1252, 1333, 1557. Fat-
to saltare in aria dai tedeschi il 4 agosto del
1944, fu deciso di ricostruirlo come era e
dove era per l’impegno di molti uomini di
cultura dell’epoca con un progetto di Ric-
cardo Gizdulich che riuscì nella non facile
impresa di far riaprire la cava di pietraforte
nel giardino di Boboli. Già riaprire una cava
di pietra a Boboli, foss’anche per ricostruire
un’opera-immagine della città, sarebbe oggi
cosa impensabile.
Comunque in questo caso la storia è molto
chiara: è stato rifatto come era, pur con non
poche polemiche di chi lo avrebbe voluto
nuovo o magari più largo visto che oggi sop-
porta il passaggio di autobus, taxi , auto e bi-
ciclette con i turisti fermi a fotografare dalle
sue spallette il Ponte Vecchio.
1.b) La storia viene rispettata solo in parte.Givone fa l’esempio del teatro La Fenice a
Venezia del 1789, ricostruito dopo l’ incen-
dio del 1837 in un falso stile barocco e ri-
costruito nei primi anni 2000 dopo un altro
incendio; ovviamente “dove era e come era”
ma non come l’originale costruzione del 700
suggerita anche da Gae Aulenti, architetto
incaricato del progetto, bensì su quella falsa
ottocentesca. Perché? Probabilmente perché
l‘immagine più recente della Fenice prevalse
su altri intendimenti.
Qui a Firenze abbiamo un caso analogo: le
molte discussioni riguardanti il rifacimento
della pavimentazione di piazza della Signoria
si sono concluse non ascoltando il tempo del-
la quattrocentesca pavimentazione in cotto
e ricorsi in marmo a disegnare quella grande
superficie al tempo del Savonarola, ma si è
preferito riposizionare le stesse pietre, un po’
rettificate e lavorate, per non perdere la conti-
nuità visiva alla quale ormai si era abituati. In
tal caso è valso più il ricordo del recente color
grigio che non quello lontano del rosso matto-
ne. Nel caso, le manifatture del cotto del Fer-
rone avrebbero avuto una bella presentazione
e un promettente rilancio economico.
1.c) La storia non viene rispettata.Per il ponte a Santa Trinita abbiamo detto;
Tra architettura
520 GENNAIO 2018
ma ci comporteremmo nello stesso modo nel
caso del Ponte alle Grazie? La storia ci dice
che il ponte alle Grazie, in origine ponte di
Rubaconte, costruito nel 1227, era a 9 cam-
pate poi ridotte a 6 per far posto ai Lungarni
e all’attraversamento del tram; fu ricostruito
dopo la guerra nel 1957 a 5 campate con una
trave in cemento armato su progetto di Mi-
chelucci, Gizdulich e Santi, progetto in parte
modificato durante l’approvazione. La storia
ci dice anche come su quelle precedenti 6
campate, per ogni pigna era posizionata una
casetta; lì presero dimora alcune religiose che
dettero vita a due ordini monastici femminili,
quello delle Romite del Ponte e delle Murate.
Mi pongo la domanda: se per un malaugura-
to evento naturale fossimo nella necessità di
ricostruire di nuovo il ponte alle Grazie, a
quale momento storico dovremmo fare riferi-
mento? In sostanza il “come era e dove era”
dovrebbe rispettare l’antico ponte con le ca-
sette sulle pigne o quello attuale del gruppo
Michelucci? Optare per quest’ultimo vorreb-
be dire preferire la contemporaneità rispetto
a una testimonianza storica e allora perché
non proporre un progetto del tutto nuovo ma-
gari a firma di un grande architetto, per pura
ipotesi, Renzo Piano? Cosa sarebbe meglio
per Firenze, rivedere in piedi il ponte di ora
oppure una nuova opera di una grande firma?
2) Lo stilePotrebbe svolgere un ruolo di guida lo stile?
Che almeno – così si dice - si costruisca se-
guendo i canoni stilistici esistenti, quelli
tradizionali, quelli ormai divenuti nostra
identità. Lo stile dovrebbe fornire la solu-
zione usando un dettato di norme lessicali di
un tempo lontano. Quando si invoca lo stile
occorrerebbe avere presente il fatto che si fa
appello a una consuetudine linguistica, a un
manierismo sorto in origine da un fare archi-
tettura del tutto personale e innovativo. Il
Gotico, il Rinascimento a Firenze, il Barocco
a Napoli, il Liberty, l’Art nouveau, la Seces-
sione a Londra, Praga, Budapest, Vienna o
Parigi hanno avuto una origine, una data di
nascita, nel tempo mescolati e sostituiti da
tanti ubbidienti “neo”, il neo gotico, il neo-
classico e così via, a loro volta ispirazione di
tanti revival, mode e via dicendo. I sostenitori
del rapporto stile-identità, non potendo per
ovvi motivi allontanare del tutto la contem-
poraneità, consigliano di nasconderla dentro
l’involucro architettonico esistente. In piazza
della Signoria c’è l’edificio in stile rinascimen-
tale delle Assicurazioni Generali del 1871
dell’arch. Landi costruito sulle rovine della
Loggia dei Pisani e della chiesa di S. Cecilia
del 1300, in stile neo gotico sono le facciate
del Duomo del De Fabris del 1871 e quella
di Santa Croce di Niccolò Matas del 1863,
in seguito gli edifici del 1940 del Giovannoz-
zi in via Valfonda, in bugnato di pietraforte,
davanti alla Stazione del Gruppo Toscano di
qualche anno precedente, forse a compensa-
re il troppo razionalismo di quella. Per non
parlare della neogotica sede del Parlamento
Inglese a Londra e trasvolando l’oceano, la
Casa Bianca in stile palladiano.
Dopo l’ultima guerra qui a Firenze nacque lo
stile fiorentino; un vernacolare né vecchio né
nuovo fatto di cemento armato e pietra forte
di Por Santa Maria “che fa da facciata a case
borghesi e simula non si sa che”, dice Givone,
oppure setti di pietraforte e superfici vetrate
nelle ville sulle colline, infine quel vago sa-
pore di medioevale povero, fatto di intonaco
con aggiunte e affacci, volumi e volumetti che
si arroccano gli uni sugli altri e i terrazzini
raggiungibili da scale contorte e innumere-
voli finestre e finestrine che si affacciano
sull’Arno e sull’opera monumentale degli Uf-
fizi. In quest’ultimo caso è stato detto che era
il meglio che si poteva fare viste le condizioni
oggettive in cui si operava e c’è da crederci,
ma i risultati di quella occasionalità sono stati
congelati, quasi fossero anch’essi opera mo-
numentale da salvaguardare. In questo caso
lo stile non può essere invocato. Di quelle co-
struzioni nessuno che abbia detto: “vi piace?
Questo l’ho fatto io”.
3) La tradizione La storia ci insegna come la tradizione sia
uno di quei termini, insieme all’identità e
all’appartenenza, da maneggiare con cura
soprattutto sul piano culturale e politico. Mi
limito all’architettura e principalmente alle
tecniche costruttive e all’uso dei materiali. La
tradizione propone di fare come si è sempre
fatto e si fonda sul detto che chi lascia la stra-
da vecchia per la nuova non sa cosa si ritrova.
La tradizione è fonte ispiratrice dell’arte arti-
giana e dei mestieri svolti nelle antiche botte-
ghe; massima dunque giustissima che dimen-
tica tuttavia come lo scorrere inesorabile del
tempo porti con sé l’evoluzione complessiva
della realtà, da quella tecnologica a quella
culturale, fino a toccare tutte le particolarità
del vivere; tanto è vero che ricordiamo con
sagre, palii e feste in costume come eravamo.
La tradizione ci invita a far riemergere dalla
storia antichi reperti trasformandoli in miti.
In architettura rispettare le tecniche tradizio-
nali del passato è, per legge, semplicemente
impossibile. La tradizione rimane nell’ambito
del restauro e nell’uso dei materiali come la
pietra, il mattone, i manti di copertura dei
tetti, le malte degli intonaci, il legno degli in-
fissi esterni, le terre e gli ossidi per le colora-
zioni e così via.
4 ) La memoria C’è un altro termine molto usato dagli archi-
tetti in cerca di mediazioni con la storia ed è
la cosiddetta memoria. Anche per la memo-
ria, come con la storia, non c’è niente di certo.
Un dipinto di Salvator Dalì del 1931 intito-
lato “La persistenza della memoria” raffigura
alcuni orologi molli a indicare, dietro le spinte
della psicoanalisi di Freud e la teoria della re-
latività di Einstein, l’inconsistenza del tempo,
il suo fugace valore. L’architettura non è da
meno e se la storia è un difficile suggeritore
allentiamo, se possibile, qualche sua maglia e
lasciamo aperte le strade alla sensibilità inter-
pretativa dell’autore lasciando il tempo e le
date a loro stesse.
Con la memoria l’interpretazione assume
una grande importanza; essa libera chi pro-
getta dalle pastoie delle categorie referenziali
già indicate ma lo costringe a non distaccarsi
troppo dalla realtà storica del luogo. La paro-
la chiave è “riconoscimento”; se si riconosce
la città in un edificio e viceversa vuol dire che
quell’edificio diviene esempio di una felice
corrispondenza, di una affinità elettiva, quasi
di carattere parentale.
A volte la memoria si concretizza in valori
simbolici come per la ricostruzione del parla-
mento tedesco, il Bundestag, costruito nella
seconda metà dell’800 da Paul Wallot, famo-
so per la grande cupola di vetro e acciaio. Il
concorso vinto da Norman Foster ha lasciato
come era la facciata esterna con le colonne
ambiente storico
620 GENNAIO 2018
mentre la nuova grande cupola in vetro e ac-
ciaio ricorda molto da vicino quella originale.
Altre volte la memoria oscilla o nel totale ri-
spetto dell’opera (in questi casi lo strumento a
volte labile del ricordo si traduce negli statuti
disciplinari del restauro) oppure in libere cre-
azioni intese come superamento della stessa
storia, ovvero come semplice negazione della
presenza di un passato.
Ricorda a tal proposito Francesco Gurrieri
quanto sia grande l’importanza della cono-
scenza storica per arricchire e attualizzare
il proprio sapere, ma ricorda anche come l‘
applicazione teorico-pratica del restauro, pro-
muova differenti direzioni nelle stesse scuole
disciplinari; a volte favorendo l’interpretazio-
ne creativa secondo cui, in una visione post
moderna, il passato è già tutto compreso nel
presente, a volte come auspicio di un ritorno
alle identità originali, ripulendole e liberan-
dole da superfetazioni, aggiunte, sostituzioni,
abusi.
Scrive Franco Purini: “Se ci si rivolge alla sto-
ria si vede con gli occhi della mente il luogo
dell’origine di ogni forma, sul quale è necessa-
rio e bello meditare. Ma tale luogo contrasta
talmente tanto, nella sua energia generativa,
con l’infinita catena di possibilità che esso
possiede, da non poter convivere con la con-
templazione dell’inizio (germinazione di pos-
sibilità e di inneschi). Da tale incompatibilità,
che non si riesce mai a superare, scaturisce
l’immaginazione dell’architettura nella sua
realtà più viva. Ma anche l’ambiente storico
nasce da un consumo infinito dell’origine, dal
suo replicarsi incessantemente nell’abitare
umano”.
Cosa è successo, che non c’è più un luogo nel
nostro animo capace di vivere nelle nuove
opere, non c’è più in ciò che facciamo una
manifesta provenienza? Perché cimentarsi
sempre nel rapporto fra architettura contem-
poranea e ambiente storico come se fossero
cose diverse quando è proprio l’ambiente
storico ad aver prodotto “naturalmente” l’ar-
chitettura contemporanea? Detto questo, di-
viene importante porgere grande attenzione
alla qualità del progetto architettonico.
Carlo Cresti nel saggio “Architettura moder-
na e città storiche” ricorda l’edificio di Mi-
chelucci a Firenze fra via dello Sprone e via
Guicciardini del 1956, la Casa alle Zattere
a Venezia di Ignazio Gardella del 1957 e la
Torre Velasca a Milano del gruppo BBPR del
1958.
Tre edifici in tre anni, presi ad esempio dalla
trattazione teorico pratica della progettazio-
ne in tutte le Facoltà di Architettura d’Italia;
solo tre edifici per indicare la difficile interdi-
pendenza fra realtà e innovazione, fra storia e
modernità per chi ricercasse una “recondita
armonia di (fra) bellezze diverse”. Recondita
armonia come frutto di incerto e oscillante
sentire in chi progetta, in cui si riflette un
altrettanto incerto e oscillante criterio in chi
deve giudicare. Si può dire che sia riuscita
questa operazione di ricerca? No, non lo si
può dire, e non sappiamo se questo sia do-
vuto a chi non ha saputo interpretare - gli
architetti - o a coloro che non hanno saputo
valutare, le Sovrintendenze.
La cosiddetta “memoria” si offre anche a
un’altra importante considerazione e riguar-
da il valore che assume la permanenza nella
mente della medesima immagine. La persua-
sione avviene con meccanismi ormai noti che
condizionano i nostri comportamenti quoti-
diani e i nostri giudizi. Non tanto l’opera in
sé quanto la circolazione della sua immagine
è ormai divenuto il mezzo per veicolare valori
e consensi in modo del tutto simile ai messag-
gi pubblicitari. Non per niente viviamo nella
realtà virtuale. “Beh, se piace tanto alla gente
vuol dire che un valore artistico ci deve pur
essere … se piace non può essere brutto” ebbe
a dire con ironia Andy Warhol a proposito
della discutibilissima opera pittorica di Mar-
garet Keane che dipingeva sempre bimbi dai
grandi occhi.
Un’opera sarà riconosciuta e nel ripetersi
della sua immagine acquisterà un surplus di
valore che la renderà, più di altre, oggetto di
attrazione e di desiderio. Per i monumenti
ridotti a immagine di loro stessi avviene la
medesima cosa.
Certo, la persistenza del ricordo dipende dal-
la qualità della cosa ricordata nel senso che è
quest’ultima ad innescarlo ma a volte si ricor-
dano cose semplicemente antiche trasforma-
te in icone e miti. La Tour Eiffel doveva esse-
re smontata dopo l’esposizione universale del
1889 e invece è divenuta il simbolo di Parigi,
e il Ponte Vecchio a Firenze, ricostruito nel
1345 da Taddeo Gaddi dopo la grande piena
del 1333, a suo tempo innovativo in virtù dei
tre archi ribassati, era strada su cui si svolge-
vano funzioni di mercato e di macellazione
delle carni e su cui il Vasari costruì il suo Cor-
ridoio. Il mito ci porta a fermare il tempo e
a rendere eterna l’architettura la quale, come
tutto ciò che esiste, eterna non potrà essere.
Viene in mente a tale proposito il paradosso
della nave di Teseo. Il mito racconta che tor-
nato Teseo in patria dopo essere riuscito ad
uccidere il Minotauro, gli ateniesi decisero di
conservare la sua nave nel tempo. Tutte le vol-
te che qualcosa della nave si deteriorava quel
qualcosa veniva rifatto esattamente come era;
il giorno in cui tutte le parti della nave furono
sostituite qualcuno si domandò se la nave era
ancora quella originale di Teseo.
5) La copiaOltre allo strumento del ricordo si potrebbe
ricorrere alla copia. Mentre noi conserviamo
ciò che già abbiamo, in altre parti del mondo,
ad esempio in Cina, Russia ecc., alcuni ric-
chi personaggi di quei paesi, disdegnando il
contemporaneo, pensano all’architettura con
la testa tutta rivolta all’indietro, al passato
appunto e proprio a quello europeo; così co-
piano castelli e regge, palazzi e giardini come
quelli di Bruges, Oxford o della Loira. Anche
senza andare così lontano, la copia del “vec-
chio” pare fornire garanzie culturali maggiori
rispetto all’inedito nuovo anche se realizzato
dal famoso architetto e poi in tal caso non c’è
da scomodare alcuna capacità interpretativa,
si copia, come si faceva a scuola magari sba-
gliando i numeri finali del compito. Del resto
chi non ricorda i monumenti fiorentini come
la Loggia dei Lanzi, il Palazzo Pitti, lo Speda-
le degli Innocenti ricostruiti intorno al 1870
a Monaco di Baviera su volere di Ludovico I?
E quante volte abbiamo detto di fronte alle
molte banalità delle periferie che assediano i
centri storici: perché non le hanno fatte come
quelli?
Per concludere di quale memoria, di quale
storia, di quali pensieri dovrà avvalersi chi
progetta a Firenze?
Rimane forse la possibilità di un ritorno alle
origini? Sembra necessario ripensare ciò che
realmente siamo e ciò che vogliamo, ed è un
augurio che si conclude con una domanda:
non sarebbe meglio, anziché disperdersi in
critiche, dubbi e divieti affidarsi, come pa-
zienti di fronte alle collaudate e decantate
virtù di un primario di medicina, alle capaci-
tà dei grandi architetti per risolvere i propri
problemi come fanno già da tempo, in tutte le
città del mondo?
Diciamo la verità, a forza di ricordare e non
fare, siamo rimasti soli, magari inorgogliti dai
tanti forestieri venuti da fuori. Dimenticavo:
ci si lamenta anche di quelli.
Secondo Vittorio Gregotti ci potranno essere
solo due strade: il nuovo farà a meno del pas-
sato e quanto più vorrà essere nuovo tanto più
ne prenderà le distanze, in altre parole vorrà
camminare da solo, oppure il nuovo non po-
trà essere altro che la copia di un qualsiasi
occasionale passato preso in prestito. C’è da
crederci.
In altre parole, e ancora una volta come la sto-
ria ci insegna, l’architettura potrà presentarsi
figlia del proprio tempo oppure fedele imma-
gine del proprio passato
720 GENNAIO 2018
Anche questa volta a Firenze l’anno è comin-
ciato. Portato da una ventata di moda o di ridi-
colo, a seconda del gusto o del punto di vista.
In ogni caso Pitti ha depositato il suo strascico.
Quanto meno nelle figure di gangster che si
sono sparpagliate per il centro città, tra Luisa
Via Roma e la Fortezza da Basso. Il panciot-
to quest’anno è stato d’obbligo. Così come il
cappello in stile Borsalino, il sigaro in bocca e
il vestito lungo. Era chiaro che quest’anno gli
anni Venti dovevano fare da padroni, anche se
con una patina di eccentrico anacronismo che
fa sempre tanto italiano.
L’anno è cominciato e il Must italo-interna-
zionale della moda maschile è riapprodato a
Firenze, come sempre, col suo passo ondulato
da red carpet, e quel profumo dolciastro che
tradisce ogni volta il suo passato da Fonzie di
periferia. Pitti è tornato, con il suo look im-
pomatato e le sue abitudini indefesse. I locali
hanno tirato fuori le loro lavagnette per ag-
giungere la dicitura “Pitti” alle solite miscele
di cocktail fatti di zenzero e gin della Conad.
L’avevamo aspettato tutti anche quest’anno,
il Pitti, per poter raccontare che quella festa
era davvero troppo cool e insistere con la so-
lita gabola del moda misto arte che funziona
sempre e fa sentire tutti così dannatamente
internazionali, pure se poi la sera devi tornare
a Calenzano. Quando a Firenze c’è Pitti, sono
tutti quanti appena tornati da un workshop
a Berlino con Marina Abramovich. Lo stes-
so workshop di cui avevano parlato quei due
conosciuti nel viaggio on the road in Thailan-
dia...
Anche quest’anno però, il buon vecchio Pitti
ha portato qualcosa di insolito. Da qualche
parte, in un angolo un po’ meno trafficato, in
qualche strada poco battuta da tacchi e riflet-
tori, è accaduto qualcosa. Qualcuno è passato
col naso per aria, un po’ per caso, in sordina.
E si è fermato di fronte a una vetrina a pochi
passi dal Ponte alla Vittoria.
Dietro al vetro c’erano dei libri che parlano
della Moda con la M maiuscola. La moda
quando è nata, un po’ provocante un po’ pro-
vocatoria, la Moda ancora un po’ ingenua che
sculetta e ride, fuori dal canto e dalla retorica.
Il passante col naso per aria ha bussato al ve-
tro ed è entrato. Ha chiesto se poteva sfogliare
quei libri, e pagina dopo si è immerso nella
lettura. E poi è successo qualcosa di molto
strano. La sua voce, che era un bisbiglio soffo-
cato, mentre leggeva ha cominciato ad alzarsi
di tono. Di più, sempre di più, tanto da richia-
mare a sé tutte le persone che c’erano intorno
o che si trovavano per caso a passare di là. A
poco a poco, quella voce alta e intonata, ha
cominciato a staccarsi dalle pagine dei libri e
ha cominciato a raccontare storie sue, tutte le
storie che quelle pagine gli avevano fatto ve-
nire in mente. Insomma, a forza di raccontare
e scambiarsi racconti, dietro a quel vetro e a
quelle pagine di Moda è nata un’idea. Desti-
nare lo spazio della vetrina al racconto di sto-
rie. Detto così sembra banale. Ma la faccenda
è un po’ più articolata. L’idea è che chiunque
potrà estrarre i libri da una grande collezione
e disporli come vorrà dietro la vetrina. Impi-
landoli uno sopra all’altro, fino al soffitto, di-
sponendoli uno in fila all’altro, come i tasselli
di un domino. Chiudendoli come clutch da
borsetta, o aprendoli come ventaglio...
E’ soltanto un’idea di un passante venuto per
caso. E’ soltanto una storia. Ma domani o tra
un mese potrebbe diventare realtà, o un abito
o un paio di pantaloni tenuto su con le bre-
telle. Nel frattempo chiunque potrà visitare la
vetrina. Sta in via del Rosso Fiorentino. Non
è troppo illuminata, ma dietro si intravede un
culo stretto in un paio di shorts inguinali e
tante altre copertine di libri. Accanto, un po’
distante, sulla destra, c’è un campanello con
scritto Maschietto Editore. E si può sempre
suonare.
Maschietto Editore – Libri d’Arte
via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Vetrine d’arte
Vetrine d’autore
di Vittoria Maschietto
820 GENNAIO 2018
Putin ha finito i rubli avendoli spesi tutti
per condizionare le elezioni presidenzia-
li USA, ottenendo peraltro un notevole
successo. Ora però non può più spendere
per aggiustare le elezioni italiane. Dove
è indeciso: usato sicuro (il vecchio amico
Silvio, compagno di tanti festini) o il nuovo
frizzante (l’sbarco-partenopeo Di Maio, con
il suo look Kgb)? Ma di sicuro ha messo a
punto la sua arma segreta: Albano Carrisi.
Pare che gli accordi per una nuova lista,
guidata dal cantante pugliese, siano stati
Le SorelleMarx
Al Bano, il putiniano puglieseconclusi durante il concerto per i 100
anni del Kgb, cui Al Bano ha partecipato
come unico cantante straniero. Al Bano ha
confessato al Corriere della Sera lo scorso 2
gennaio di essere un putiniano della prima
ora: “Lo sostengo da tempi non sospetti. È
un grande. Ha un senso religioso della vita.
Ha il pugno di ferro e non ci vedo nulla
di male. Ormai lo uso molti, a partire da
Trump ma anche da noi. Capisco che nei
casi di mors tua vita mea ci voglia anche
questo”. Allora, giù nella mischia: un lista
“Nostalgia canaglia”, in onore della Gran-
de Madre Russia e del suo Piccolo Padre,
che punta ad essere l’ago della bilancia
della politica italiana: se vince il Berlusca
allora governo di destra, se invece vince
Giggi avanti con un governo dell’altrove.
Unica certezza: Al Bano e le sue Nostalgi-
che Canaglie dentro. Un solo inno: Libertà!
C’è grande subbuglio nel Vecchio Palazzo
di Firenze fra i Giovani Leoni ( che, in
verità, assomigliano piuttosto a facoceri)
perché i consiglieri della sinistra minac-
ciano di uscire dalla maggioranza per le
incaute frasi del presidente del Quartiere
1, Maurizio Sguanci, sul Duce. Il sindaco
Nardella cerca di salvare capre (lo Sguan-
ci, in “sgarbese”) e cavoli (la sua maggio-
ranza).
“ Maurizio, mi hai combinato un bel casi-
no con il tuo post su Mussolini. Ora che si
fa?”
“ Casino? Oh Dario ma tu ci vivi fra la
gente? Pensa, ieri ero alla stazione e c’erano
tutti i treni in ritardo: ma ti rendi conto???
Quando c’era Lui queste cose non succede-
vano! E poi, cosa avrei detto mai?”
“Ah si? Tu hai detto che ha fatto più cose
Mussolini per questo paese in 4 lustri che
tutti gli altri in 20 anni!!!! Ti pare una cosa
da dire?”
“ Perché, non è vero? Scusa Dario, i Patti
Lateranensi, la riforma costituzionale…”
“Ma che sei scemo???? Non nominare la
riforma costituzionale qui che Matteo ha
lasciato le cimici e ci ascolta!! E poi che mi
frega delle riforme. Te devi chiedere scusa
per la cazzata che hai detto: 4 lustri sono
20 anni. È una ripetizione, scemo!”
“Ah, sì? Dici? A me la parola lustro mi
suonava così bene… Va bene, per questo
chiedo scusa”
“ Non a me, grullo; alla Collesei e al Rossi
che vogliono uscire dalla maggioranza!
Tieni, chiamali sul cellulare.”
“Pronto, Stefania? Volevo scusarmi per il
mio imperdonabile errore: 4 lustri equival-
gono a 20 anni….”
Dall’altra parte della cornetta arriva una
serie di improperi che letteralmente spetti-
nano lo Sguanci, il quale riattacca.
“Hai visto, Maurizio: era semplice. Bastava
chiarirsi.”
“ Veramente la Stefania mi ha detto dove
potevo ficcarmi le scuse. Poi ha parlato in
modo preciso su tua madre: la conosce? E
poi mi ha detto che il problema era Musso-
lini e il fascismo: non capisco… Mi sembra
strano… questi son dettagli…”
“Mah, non so che dirti Maurizio… Questi
comunisti sono così vecchi, rigidi… Aveva
ragione la buonanima di Matteo: rottamare
tutti li dovevamo! E ora che si fa?”
“ Ci penso io, Dario… basta che non mi fai
dimettere. Chiamo un mio amico, il mio
consigliere speciale per questo genere di
cose”
“E chi è?”
“Guarda, Dario, un genio. Uno storico di
qualità sopraffina. Anzi, te lo raccomando
per il CdA del Vieusseux. Si chiama Save-
rio Di Giulio. Eccolo qui in fotografia”
Ah rieccolo! Tu sei proprio scemo! Questa è
la foto che suscitò tante polemiche nell’a-
prile 2016”
“ Ma perché? Non capisco? Forse perché …
è di Casa Pound?”
“ No, idiota! Che me frega della casa di
questo Pound… basta che non sia occupata!
No, la polemica era perché questo indivi-
duo ha rovinato l’estetica della foto! Non lo
vedi qui? Come si fa a twittare o a postare
una simile schifezza?”
“ Si, Dario… hai ragione. Che dici, se
chiedo scusa lo possiamo mettere lo stesso
al Vieusseux”
A Firenze piove. Dario si esercita sul violi-
no. Quando furoreggia. I facoceri veicolano
cercando lombrichi. Tutto procede, nel
migliore dei mondi possibili. Come sempre.
I CuginiEngels
Quando c’era lui
920 GENNAIO 2018
disegno di Lido Contemori
didascalia di Aldo Frangioni
Nel miglioredei Lidipossibili
Dobbiamo decidere se la nostra razza di rinoceronti deve continuare a esistere o se deve essere cancellata
messe: pensione minima di mille euro per
tutti.
L’impressione è che si tratti una gara sterile
e inutile. Una sfida destinata a suscitare più
ilarità che passioni. Ad oggi non ho sentito
nessuno tra gli incerti e i disinteressati che
abbia cambiato idea, che sia rimasto folgora-
to in vista del 4 marzo, ritrovando motiva-
zioni e spinta per tornare alle urne. Leggo
invece sondaggi che confermano alti livelli
di incertezza destinati all’astensionismo,
soprattutto tra i giovani. E penso che non ci
sarà nessuna inversione di tendenza fino a
quando una metà del paese continuerà a far
finta che non esista l’altra metà.
Voglio dire che il tarlo che alimenta sfiducia
e disinteresse è nutrito dai crescenti livelli
di disuguaglianza. L’Italia non è un paese
solo rancoroso ma sempre più spaccato tra
ricchi e poveri. Tanto che ai primi segnali di
ripresa non si accompagnano né un ritorno
di fiducia, né un minimo di entusiasmo. Un
recente studio Eurostat ci dice che l’Italia è
in testa alla classifica delle persone in diffi-
coltà. Non si tratta di bruscolini ma di qual-
cosa come 10,5 milioni di italiani che vivo-
no in uno stato di “deprivazione materiale
e sociale”. Un modo per dire che non sono
più in grado di avere una vita dignitosa. E
l’Istat affonda ancora di più il coltello: sono
1,6 milioni le famiglie
in condizione di povertà, il 7,9% degli italia-
ni, che salgono al 10% tra i giovani tra 18 e
34 anni.
Dimenticanze. Mentre tutti i partiti dedi-
cano una costante attenzione ai sondaggi
pre-elettorali, nessuno, dico nessuno, sem-
bra prendere sul serio questa realtà; nessu-
no dice una parola chiara sulla necessità
di ridurre le disuguaglianze, tantomeno si
avanzano proposte per una più equa redi-
stribuzione della ricchezza. Di questo nes-
suno parla, come se si vivesse nel migliore
dei mondi possibili. Confermo: non voterò
per coloro che promettono una riduzione in-
discriminata di tasse.
Segnalidi fumo
Promesse e dimenticanze. Partiamo dal-
le prime. Si promette di tutto in vista del
voto del 4 marzo, sperando in questo modo
di aumentare i consensi. Tra voli pindarici
e fantasiose acrobazie, c’è chi promette l’a-
bolizione del canone Rai, chi del bollo auto
e chi delle tasse universitarie; oppure chi
promette il reddito garantito e chi la retribu-
zione minima di 10 euro; chi il superamento
del jobs act o la riduzione dell’aliquota sui
redditi al 15%. Fino alla promessa delle pro-
di Remo Fattorini
1020 GENNAIO 2018
Le forme visibilidei pensieri invisibili
L’Arte di Luca De Silva è un viaggio della men-
te e nella mente, teso a sondare i campi mistici
e misteriosi dell’armonia e dello spirito, in una
continua e incessante creazione capace di an-
nientare il tempo e fare dello spazio un connu-
bio di espressione ed emozione. In questo per-
corso intimo che perdura dagli anni Sessanta a
oggi, Luca De Silva ha aperto le porte della sua
personalissima carriera offrendo, negli spazi
espositivi della Biblioteca San Giorgio, un cam-
mino di conoscenza e di scoperta nonché una
sintesi cronologica e tematica delle tappe più
importanti della sua ricerca estetica. Libri d’ar-
tista, libri oggetto, installazioni e piccole opere
dialogano fra le vetrine e gli spazi della Biblio-
teca per offrire ai visitatori un corpus completo
e monografico di un artista che ha dedicato la
propria vita all’Arte e all’arduo tentativo di dare
un senso alla Vita e ai complessi legami comu-
nicativi della modernità. Un viaggio all’interno
di una filosofia estetica estremamente originale
ed inedita che l’artista ha diviso in vari periodi
della sua vita: nel “Corpo ideale” la ricerca «era
giocata su ritmi di colore nero lucido su nero
opaco per poi passare a una geometria accen-
nata e anche frantumata di colore», sulla scia di
«ritmo cosmico» capace di indagare gli elemen-
ti più spirituali e creativi dell’arte; nel “Corpo
antropologico” con la serie delle “Impronte” e
dell’ “Omaggio ai nostri padri” si riscopre «la
pelle delle cose», la traccia e l’oggetto dell’e-
sistenza umana come testimonianza di una
storia che dal primitivo torna al presente per
concretizzarsi in una memoria senza tempo;
nel “Corpo psicologico” l’attenzione artistica
si sposta verso la dimensione dell’inconscio e
dell’onirico, ossia laddove l’emotività fa da pa-
drona amalgamandosi nelle pulsioni collettive;
nel “Corpo assente o virtuale” l’opera d’arte
di Laura Monaldi
diviene un viaggio mentale nei regni sconfinati
dell’immaginario, dove il «corpo» si manifesta
nella sua assenza e nella sua presenza immagi-
naria; nel “Corpo d’arte” l’artista si riappropria
del corpo come elemento fagocitante e canni-
bale che diviene esso stesso opera d’arte in un
gioco di luci e apparizioni epifaniche; infine nel
“Corpo di sogno” si esplica una delicata sintesi
fra l’immagine e l’azione che concretizza l’ope-
ra nella sua genesi più performativa ed evocati-
va. La prassi che Luca De Silva offre nelle ve-
trine della Biblioteca San Giorgio una ricerca
dialettica, fatta di continue riflessioni e riman-
di estetici, capaci di cogliere l’essenza stessa e
il principio fondante del fare arte. Allo stesso
modo è l’eclettismo di base che rende l’artista
emotivamente partecipe al proprio presente,
come si percepisce sfogliando e contemplan-
do le pagine, i pensieri e gli aforismi custoditi
nel suo ultimo libro pubblicato recentemente
da Morgana Edizioni dal titolo paradigmati-
co “Utopie”, oppure ascoltando i testi poetici
cantati da Francesco Pinzani con le musiche di
Cristiano De Silva contenuti nel CD a tiratura
limitata “La mia eternità”. Tutto ciò perché per
Luca De Silva l’arte altro non è che un conti-
nuo sfuggire alle regole di un gioco troppo limi-
tante per un’anima così eternamente creatrice.
1120 GENNAIO 2018
di Sergio Favilli
Dentiere per tutti
Va bene che in Italia ci sono 11 milioni di
adulti creduloni che frequentano abitualmen-
te maghi, cartomanti e fattucchiere, va bene
che siamo in piena campagna elettorale dove
c’è chi promette “dentiere per tutti”, dove si
ipotizzano pensioni da mille euro anche per
chi non ha pagato mai i contributi, dove tutti
dicono che intendono abbassare le tasse, dove
non si prospettano maggiori posti di lavoro ma
rendite assistenziali a pioggia, dove nessuno osa
dire quali saranno le coperture finanziarie delle
sue promesse, va bene che i venditori di tappeti
nel nostro paese son sempre ascoltati, ma forse,
recentemente, si è superato il limite!! Quando
un leader politico sostiene con convinzione che
il suo partito o movimento riuscirà a triplicare,
ripeto TRIplicare il numero dei propri parla-
mentari, siamo al vero e proprio delirio delle
balle spaziali!! Non è che questa affermazione
sia stata fatta dal Segretario del Movimento
Autonomo di Roccacannuccia, no, questa ame-
na ed incredibile affermazione l’ha fatta un lea-
der che si dichiara “in odor” di Palazzi Chigi!!!!
Anche un bimbetto di prima media ripetente
potrebbe calcolare che, con la legge attuale, per
raggiungere mediamente i 360 parlamentari
occorre arrivare almeno ad un risultato eletto-
rale del 45/50%, cosa statisticamente e storica-
mente impossibile!! Che fare?? Nella speranza
che masanielli, pifferai magici e fattucchiere si-
ano rifilati in soffitta, domani mattina vado alla
Camera di Commercio per aprire una catena
di negozi denominata “L’anello al naso” , ho già
anche un finanziatore occulto, un vecchio co-
mico sul viale del tramonto che, ormai, fa solo
piangere!!!
vicino le tue debolezze”.
Lo spirito che anima le tracce è stato conce-
pito a Tokyo, ma altre metropoli simboleggia-
no lo smarrimento e la solitidune alle quali si
accennava prima: ecco quindi “Istanbul” e
“Manhattan 5am”.
Ricco di melodie delicate ma mai leziose,
espresse in un linguaggio esplicito e diretto,
Nocturne conferma ancora una volta il ta-
lento compositivo del pianista. Il solido baga-
glio tecnico e il calore umano fanno di Remo
Anzovino un musicista nel senso più pieno e
più profondo del termine, un poeta capace di
esprimersi senza usare le parole.
“La musica e il diritto sono entrambe discipli-
ne che richiedono rigore e forma, da un lato,
intuizione e fantasia, dall’altro”: con queste
parole Remo Anzovino, avvocato e composi-
tore, si presentava ad Alessandro Sgritta nel
2006. L’intervista fu realizzata poco dopo
l’uscita di Dispari (La Frontiera/Rai Trade,
2006), il suo primo CD. Da allora sono pas-
sati 12 anni, nei quali il pianista friulano ci ha
offerto una musica ricca di sensazioni, pensie-
ri, riflessioni.
Grande appassionato di cinema, Anzovino ha
musicato fra l’altro il celebre film muto Na-
nook di Robert Flaherty. Ha scritto musiche
dedicate ad avvenimenti e figure centrali del
Novecento, come il disastro del Vajont (“Su-
ite for Vajont”, in Vivo, 2013), Pier Paolo Pa-
solini (L’alba dei tram, 2015) e Cassius Clay/
Muhammad Ali (Fight for Freedom, 2017),
quest’ultimo realizzato con Roy Paci.
In tutti i lavori realizzati finora era stato af-
fiancato da varie formazioni o da prestigiose
orchestre. Mancava però un disco dove il pia-
no fosse il protagonista assoluto. A colmare
questa lacuna ha provveduto Nocturne (Sony
Classical, 2017), l’ultimo lavoro di questo arti-
sta poliedrico, che si esibirà al Teatro Puccini
di Firenze mercoledì 24 gennaio.
Nel nuovo lavoro, come si diceva, domina il
piano, accanto al quale compaiono talvolta
dei solisti e la London Session Orchestra, ar-
rangiata e diretta da Stefano Nanni.
Anzovino ha studiato a fondo i celebri Not-
turni di Chopin, li ha esplorati e sezionati ad-
dentrandosi nei dettagli più nascosti della loro
struttura. In brani come “Nocturne in Tokyo”
e “Miss you” ha coagulato il frutto della sua
indagine, mantenendo ciò che definisce “il
frutto di quella planimetria”, che però ha rilet-
to con la sensibilità di un musicista moderno.
Ed è proprio la modernità il cardine attorno
al quale ruota il disco: “fatta di smarrimento e
solitudine”, dice il musicista, ma “questi sono
anche il bello del tempo in cui viviamo”.
Il disco può essere considerato una sorta di
racconto, ambientato in “in una notta nella
quale fai un bilancio della tua vita e guardi da
di Alessandro Michelucci
MusicaMaestro
Le emozioni della notte
1220 GENNAIO 2018
Mai rinvenimento archeologico di tale rile-
vante importanza fu tanto inaspettato da co-
gliere impreparati gli stessi tutori istituziona-
li: “Un’antica città in un luogo impensabile:
quando alcuni anni fa la Società Interporto
della Toscana Centrale scelse quest’area per
realizzare il più grande scalo-merci ferrovia-
rio della Regione, non era stata in alcun modo
presa in considerazione l’ipotesi che questa
parte del territorio di Prato, posta ai confini
con i Comuni di Campi Bisenzio e di Calen-
zano, in una zona a utilizzazione agricola, pia-
neggiante e priva di urbanizzazione recente,
potesse celare una scoperta archeologica di
straordinaria importanza, decisamente rivo-
luzionaria per la storia più antica dei luoghi
oggi occupati dalla periferia della città di Pra-
to” («Archeo», marzo 2001). Così le archeo-
loghe Poggesi e Bocci della Soprintendenza
fiorentina si espressero sulla scoperta dell’in-
sediamento etrusco su Bisenzio. Ma facciamo
un passo indietro, perché la storia dell’area
archeologica di Gonfienti, comincia sul finire
del 1996, grazie alla reiterata e circostanziata
segnalazione da parte di Silvio G. Biagini, ap-
passionato cultore di storia antica che, a quel
tempo, lavorava all’Interporto presso la Doga-
na e che già l’anno prima, durante la costru-
zione del fosso attiguo al piazzale merci, ave-
va segnalato i resti di una strada acciottolata
orientata SE- NO, valutata sulle prime come
il paleo alveo di un torrente. Alla luce di que-
ste scoperte mi domando ancor oggi perché
al Biagini non sia stato conferito per meriti il
titolo di ispettore onorario. Tornando ai fatti:
nell’area detta «Pantano 2», a circa 700 metri
dall’antica pieve di san Martino a Gonfienti,
erano riemersi diffusi reperti strutturati e coc-
ci vari dove si stava scavando per realizzare un
bacino idrico di compenso per le acque reflue
a servizio delle infrastrutture interportuali;
dopo pochi mesi, a circa 500 metri di distanza
dai primi, nel corso dei lavori di livellamento
dei terreni per l’edificazione del un lotto 15 F,
furono dissodati due complessi edificati. Tut-
tavia, nel 1997, dopo che i lavori di sbanca-
mento (non sospesi dopo i primi ritrovamenti)
avevano messo in luce un notevole quantitati-
vo di reperti fittili (tra i quali – come segnalato
dal suo scopritore – un frammento di vaso a
figure nere su fondo rosso), la Soprintendenza
fiorentina finalmente interviene con l’effet-
tuazione di due piccoli saggi dai quali emer-
gono con chiarezza le fondamenta a cassafor-
ma di costruzioni contestualizzabili al periodo
etrusco arcaico.
Sui quei primi ritrovamenti archeologici ritor-
nerà Gabriella Poggesi, responsabile di zona
Quei resti etruschi a GonfientiFrammenti di cronaca di un ritrovamento “quasi fortuito”
di Giuseppe Alberto Centauro
per la SBAT, che racconterà alcuni anni più
tardi a «La Repubblica» (Firenze, 24 luglio
2005): “Il primo sopralluogo ai resti, nel ’97,
si svolse in un’atmosfera di grande tensione.
Sapevo di avere davanti qualcosa di impor-
tante, ma non sapevo se saremmo riusciti a
difendere dai grandi interessi in gioco con
l’interporto”.
A Gonfienti, solo nell’estate del 1999, venne-
ro effettuate le prime indagini archeologiche.
In una nota SBAT del 24 settembre 1999 in-
viata al Comune di Prato, si legge: “Nell’area
del bacino di compenso di Gonfienti stanno
tornando alla luce complessi strutturali di di-
mensioni notevoli … Si tratterebbe di un inse-
diamento di età ellenistica, miracolosamente
conservato fino ad oggi … E’ evidente che la
scoperta è di notevolissima importanza per la
storia più antica di Prato, in quanto riconduce
almeno all’età ellenistica l’esistenza di centri
La segnalazione del 1996 (da: Carta Archeologica
della Provincia Prato, SBAT 2011, p.311)
1320 GENNAIO 2018
stanziali nel territorio; non si può d’altra par-
te escludere fasi di utilizzazione più antiche
del complesso, che potrebbero emergere con
l’auspicabile approfondimento dell’indagine
archeologica.… Naturalmente la Società In-
terporto è stata ufficialmente informata che
qualsiasi ulteriore lavoro di scavo nell’area in
questione doveva essere comunicato a questo
Ufficio per le necessarie esigenze di tutela e
che dovevano in ogni caso essere effettuate
indagini archeologiche per poter valutare
l’estensione fisica e cronologica del comples-
so”. Nella riunione del 27 ottobre 1999 tra
Comune e SBAT viene stabilito di effettuare
sondaggi. Su «La Repubblica» del 22 settem-
bre 2000, la direttrice Poggesi dichiara: «per
ora pensiamo che si tratti di un abitato di oltre
2 ettari e mezzo”; l’8 ottobre su «La Nazione»
il presidente dell’Interporto dichiara di avere
già speso oltre 250 milioni (diventeranno in
breve 500) per finanziare gli scavi e che gli
ettari ancora da scoprire sono almeno cinque
(saliranno entro l’anno a 11 con l’apertura
di un nuovo cantiere). Eloquente il titolo di
apertura dell’articolo: “Parco archeologico e
interporto. Una scommessa tra passato e fu-
turo” che annuncia la messa in luce di: “una
strada larga 10 metri e una serie di complessi
abitativi con tanto di canaletti di scolo delle
acque”. Questa lunga gestazione dei primi
saggi esplorativi si conclude con un resocon-
to pubblicato su «Archeo» dell’emblematico
titolo “Etruschi di periferia”. Così il soprin-
tendente Bottini: “… sono stati costantemente
seguiti tutti i lavori che comportano asporta-
zione di terreno; inoltre, i diversi lotti dell’in-
tera area sono stati di volta in volta sottoposti
ad indagini geofisiche e alla successiva verifi-
ca di anomalie evidenziate, mediante saggi di
profondità. E’ stato così possibile realizzare
una mappa con le zone a rischio, all’interno
delle quali ha preso avvio la ricerca arche-
ologica vera e propria, interamente finan-
ziata dalla Società Interporto della Toscana
Centrale”. In seguito agli oneri finanziari e
al “congelamento” di vari ettari edificabili,
Camera di Commercio, Unione Industriali
e Cari-Prato, soci dell’Interporto, scrivono al
Sindaco Mattei in merito “all’ultimo grave
problema: quello della ennesima scoperta –
in sé positiva ma ‘inopportuna’ quanto all’’u-
bicazione dei reperti – di vestigia etrusche”.
Tuttavia le maggiori e più clamorose evidenze
archeologiche dovranno ancora manifestarsi e
bisognerà aspettare il 2003 per averne piena
cognizione. Ma già pare incombere sulla città
etrusca un palese conflitto d’interessi, tra con-
trollore e controllato, quasi fosse uno spettro
aleggiante sugli scavi ancora a venire.)
Planimetria tratta dalla Carta
Archeologica della Provincia di
Prato, © SBAT 2011, p. 320,
riguarda le tracce (Lotto 15 F/G)
dell’insediamento etrusco messe in
luce nel 2001.
1420 GENNAIO 2018
di Paolo Marini Rileggo alcune pagine del diario di Etty
Hillesum, da lei scritto tra il 1941 e il 1943,
prima di morire a soli ventinove anni.
Etty è (non ‘era’ né, tantomeno, ‘fu’) una ra-
gazza unica. Dotata di una sensibilità e di
una intelligenza fuori dal comune, ha accet-
tato “con gioia la bellezza di questo mondo
di Dio, malgrado tutto”. In quel “malgrado
tutto” c’è il male che essa poco a poco co-
nosce ed affronta; è come misteriosamente
preparata e così, non solo lo accetta, ma gli
va generosamente incontro.
Etty è per caso pazza? Forse. O forse ha
soltanto preso una decisione fondamentale,
ancorché incomprensibile ai più: ha scelto
di fidarsi di Dio. Il resto è tutto e soltanto
una logica conseguenza.
A Dio l’ha condotta la sua “irrequietezza
‘creativa’”. Gli chiede di essere più e più
volte presa nella Sua grande mano e di di-
ventare Suo strumento. Tenerezza e gran-
dezza, allo stesso tempo, di una piccola don-
na che ha pure i desideri, i dubbi, i pensieri
di tante coetanee.
E’ Dio che fa la differenza. Ne pronuncia
ripetutamente il nome ed esorta ad averne il
coraggio (quanto mai necessario, nell’oggi!).
La concentrazione che scaturisce dalla pre-
ghiera edifica quegli “alti muri” in mezzo ai
quali può ritrovare se stessa e la sua unità,
“lontana – scrive - da tutte le distrazioni”.
E così, in questa solitudine del cuore ma
senza fughe dalla realtà (che anzi legge sin
nel profondo) né dagli altri (coltivando rela-
zioni sociali e personali), Etty è una donna
che irradia luce, tanto di più dove fa molto
buio. Le sue non sono pagine ‘trionfali’, rac-
chiudono soltanto una ineguagliabile uma-
nità. Non pretende di possedere il mondo,
ne accetta le contraddizioni: un “lungo e
doloroso processo” - anzi, un vero appren-
distato del dolore – ha forgiato in lei una
spiccata autonomia, “la presa di coscienza
che (...) non esiste alcun aiuto o appoggio
o rifugio presso gli altri”, perché essi “sono
altrettanto insicuri, deboli e indifesi”; soffre
interiormente una battaglia sanguinosa, da
cui esce ogni volta sfinita ma (più) consape-
vole, capace di godere della bellezza anche
in mezzo all’odio e alla bestialità, forte di
una svolta: “è in te che le cose devono venir
in chiaro, non sei tu che devi perderti nelle
cose”.
La giovane donna vive dunque momenti
drammatici, segnati da una “oppressione
di piombo”, eppure ama la vita ed è rico-
noscente per tutto il tempo che ha a dispo-
Non devi perdertinelle cose
sizione. E’ un amore, il suo, che attinge da
quella sorgente interiore, quel luogo intatto
e recondito in cui incrocia quotidianamen-
te Dio.
Nel diario è anche un abbozzo di estetica
della narrazione, che si lega perfettamente
alla mistica di questa scrittrice ebrea olan-
dese: Etty vorrebbe scrivere “con altret-
tanto spazio intorno a poche parole”, sen-
za cercare le ‘belle lettere’ ma “parole che
siano organicamente inserite in un grande
silenzio, e non (...) che esistono solo per co-
prirlo e disperderlo”. Essenzialità e silenzio
si alimentano a vicenda, si compenetrano.
Un giorno del ‘43, il 30 novembre, tutto que-
sto vitalissimo, magmatico mondo interiore
incontra il capolinea terreno. Etty ha scelto
di condividere la sorte di tanti ebrei prigio-
nieri: parte per Westerbork e lì si trova “da-
vanti al nudo steccato della vita” (“davanti
alla sua ossatura, libera da qualsiasi costru-
zione esterna, Mio Dio, ti ringrazio perché
m’insegni a leggere sempre meglio”); viene
quindi deportata ad Auschwitz.
In lei era già matura la consapevolezza che
“tutte le cose indispensabili che sono state
rimandate per una vita intera devono esse-
re sbrigate con urgenza”. La morte “grande,
semplice, e naturale” - insieme ad una gra-
duale rarefazione delle “raffinatezze della
civiltà” - si era già lasciata riconoscere al suo
cospetto. Ma la luce della sua anima aveva,
ha continuato a splendere e lo fa ancora, an-
che in questo momento.
Etty ci consegna con il diario una lunga ode
alla vita, una diffusa preghiera di ringrazia-
mento a Dio, il suo sicuro investimento nel-
la fede e nell’amore.
Che Dio sia con te, Etty.
1520 GENNAIO 2018
Women House, la mostra femminista, radi-
cale e a volte ironica presentata nello spazio
espositivo con magnifica vista sulla Senna del
palazzo della Monnaie, la Zecca nazionale
della Francia, a Parigi in Quai de Conti 11, ha
suscitato in molti qualche perplessità. Un’e-
sposizione al 100% femminile con quadri,
fotografie, sculture, installazioni, tessuti, filma-
ti... di 39 artiste, note o emergenti, provenienti
da diverse parti del mondo che ha come tema
il rapporto tra la donna e lo spazio domestico
inteso come rifugio o come esilio (la prison du
foyer). La mostra, dopo la tappa parigina, sarà
accolta al National Museum of Woman in the
Arts a Washington. L’intento della sua orga-
nizzatrice, Camille Morineau, è anche quello
di portare a sempre maggiore conoscenza la
creatività femminile penalizzata, secondo la
storica dell’arte, rispetto a quella maschile.
La stessa Morineau è a capo di un’organizza-
zione no profit chiamata Aware (Archives of
Women Artist Reserarch & Exihipitions). Nel
2009 aveva curato, sempre a Parigi, Elle@
Pompidou, una delle principali mostre dell’ar-
te femminista del periodo.
La necessità di trovare uno spazio personale,
un rifugio, in casa propria fu teorizzato da
Virginia Woolf nel libro “Una stanza tutta per
sé” del 1929. E’ questo l’anno nel quale inizia
la mostra per creare un percorso che arriva ai
giorni nostri passando attraverso gli anni ‘70,
momento di ribellione delle artiste contro la
privazione di uno spazio reale (di esposizio-
ne) e simbolico (di riconoscimento). Il titolo
della mostra è un omaggio a un evento, Wo-
menhouse, organizzato in quel periodo a Los
Angeles da Judy Chicago e Mirian Schapiro
che, in linea con il movimento femminista che
anche nell’arte cercava il suo spazio, misero a
disposizione di 25 artiste una casa abbando-
nata per trasformarla con le loro opere in un
manifesto di protesta sulla condizione della
donna. La mostra parigina, che si apre con
una enorme, coloratissima scultura di Niki de
Saint Phalle, Nana House II, e termina con un
altrettanto grande ragno di Louise Bourgeois,
rappresentazione degli aspetti protettivi e ter-
rificanti della figura materna e qui simbolo del
potere femminile, si sviluppa in otto sezioni
che mostrano la varietà dei punti di vista delle
artiste presenti: femminista, poetico, politico o
nostalgico.
A chi ha espresso il dubbio che fare una mo-
stra di sole artiste tenda a ghettizzare anziché
celebrare il loro lavoro, Camille Morineau ri-
sponde senza incertezze: è in un certo senso
un gesto politico e dispiace avere ancora biso-
di Simonetta Zanuccoli
Sorella arte gno di fare questo gesto.
Non ci rimane quindi che sperare che arrivi
presto il giorno che queste esposizioni di gene-
re non saranno più necessarie e il lavoro del-
le donne sarà semplicemente mostrato come
Arte e non come Arte Femminile. Nel frat-
tempo esorto le amiche che si dilettono come
me con tele e pennelli di sostenere le nostre
sorelle artiste e andare a vedere Women Hou-
se prima che finisca il 28 gennaio.
1620 GENNAIO 2018
Ok, va bene la fotografia di Storaro (già in
“Cafè Society”), la regia sapiente, il movi-
mento studiato delle macchine da presa…
ma la realtà ci offre l’ennesimo esercizio di
stile del Woody-Allen-di-Natale. La cosa
che infastidisce, al netto di alcune gemme
di rara bellezza (su tutte la telefonata “abor-
tita” di Ginny), è l’impalpabile anelito di
costrutto fondato su didascalie fin troppo
annunciate. Insomma: il simbolismo de “La
Ruota delle Meraviglie” è semplicemente
ridicolo. Allen oramai assomiglia sempre di
più a certi allenatori di calcio dagli schemi
logori che continuano a riproporre il mede-
simo modulo (un tempo foriero di successi)
sfruttando fino allo stremo la grandezza
di certi campioni. Soltanto che, a un cer-
to punto, vuoi per ragioni di logoramento,
vuoi per ragioni di anzianità, gli uomini
di sport hanno quantomeno il buongusto
di ritirarsi dall’attività agonistica, magari
in favore d’una carriera da commentatori
televisivi, o di rappresentanza. Qui l’osti-
nato Allen (che non possiede l’immarcesci-
bile necessità espressiva di un de Oliveira)
spreme fino all’osso la classe di Kate Win-
slet e Jim Belushi, ne vampirizza anima
ed essenza al fine di produrre poche stille
di nettare in un’opera confusa, infarcita di
citazioni sterili, manieristica fino alla nau-
sea. Il magnifico caleidoscopio generato da
Storaro evidenzia semmai - per contrasto
- tale pochezza di idee, tutte cristallizzate
nelle iconcine dei personaggi, in una sorta
di presepe del ricordo che fa tanto nostal-
gica piéce disneyana. Il dramma reale è che
Allen ha smarrito la sua visionarietà. Ancor
peggio: Woody Allen è oramai incapace di
farci ridere! E’ diventato un tessitore di tra-
me sterili, acconciate da cinema autoriale,
confezionate come il bel regalino inutile da
mettere sotto l’albero. Ormai si va a vedere
il cinema di Woody Allen per “spacchet-
tarlo”. Perfino i due killer (straordinarie
maschere de “I Soprano”) paiono essere lì
per il puro gusto della citazione, masche-
re aliene conficcate a forza in un contesto
sbagliato (“I Soprano”: andatevi a rivedere
quella straordinaria serie se volete davvero
riconciliarvi col Cinema). Coney Island è
il presepe, la cornice immanente in cui il
regista demiurgo relega e confina i suoi per-
sonaggi. Il problema è che la tragedia che
dovrebbe dispiegarsi in questa agorà rima-
ne invece accartocciata fra le lamiere della
ruota panoramica, fra le pastoie del suo ste-
rile impianto concettuale, con risultati che
rasentano il patetico (vedasi il forzato mo-
nologo finale di Ginny, talmente paludato
e fuori da ogni tempistica teatrale e cine-
matografica da indurre alla contumelia. Im-
maginate una sorta di epilogo dell’Odissea
con Ulisse in preda al mal di mare). Al di là
delle belle apparenze, ne “La Ruota delle
Meraviglie” non funziona quasi nulla. Non
c’è nessuna tensione che non sia frutto del-
la recitazione. Mai come in questo film ho
visto gli attori…recitare. Una cosa davvero
insostenibile, figlia di un approccio coerci-
tivo e rigido che ben mi ricorda certe griglie
compositive in grado di rendere asfittica,
ad es., un’opera musicale. Invano ho atteso
un segnale da parte del Deus Ex Machina,
l’enorme mano che forza il cielo di cartape-
sta e irrompe nella scena facendo a pezzi la
“Ruota delle Meraviglie”. Da quanto tempo
si attende un segnale visionario del genere
in un film di Allen? D’un qualcosa che
possa polverizzare il “contegno” borghese
di ogni sua ultima opera? Impossibile: è la
poetica di un cinema centripeto che na-
sconde una “volontà d’impotenza”; è il gat-
to che non si morderà mai la coda, il gatto
alleniano che implode nella spirale interna.
Evviva dunque il bambino piromane: ma
facciamogli dare fuoco anche a ‘sta pellico-
la! Che bel finale che sarebbe stato, vecchio
caro Woody. Impara da Buster Keaton!
di Francesco Cusa
Il ridicolo simbolismo della Ruota delle meraviglie
1720 GENNAIO 2018
te spaesata, è andata a coltivare lavanda in
Provenza, Monica perché il marito parruc-
chiere dal taglio troppo facile si trova in va-
canza a Rebibbia; sarà l’affetto e il senso di
responsabilità verso i figli che li accomuna
a trasformare lo scontro iniziale in un rap-
porto possibile. L’equipe degli sceneggiatori
e della regia ha lavorato davvero a lungo a
Bastogi, tanto che alcuni abitanti del quar-
tiere sono entrati felicemente a far parte del
cast; particolarmente divertenti Alessandra
e Valentina Giudichessa, nel film Pamela e
Suellen, sorellastre gemelle di Monica, che
parlano all’unisono e si dedicano a quello
che definiscono eufemisticamente “shop-
ping compulsivo”, in realtà saccheggiando
sistematicamente i supermercati del quar-
tiere. Lo si potrebbe definire un film sulla
nuova incomunicabilità o anche sugli effetti
possibili di una contaminazione reale; non
manca qualche cliché come quello della do-
mestica immigrata classista o l’eccesso mac-
chiettistico di Claudio Amendola, marito di
Monica in uscita dal gabbio così come nel
fumetto su Coccia de morto; sono invece
trattate con ironica maestria le manie dei
radical chic sia a Capalbio che a Roma dove
nel cinema d’essai Monica non comprende
perché non si possa mangiare qualcosa ve-
dendo il film in lingua originale armena né
tanto meno alzarsi prima della fine dei tito-
li di coda. Un film brillantemente comico,
ben diretto e recitato, che si chiude con un
apertura di speranza senza retorica.
Che le divisioni socioeconomiche e cultura-
li tra strati diversi della popolazione in Italia
nel 2018 siano profonde come strapiombi è
un dato piuttosto evidente ma l’ultimo film
di Riccardo Milani “Come un gatto in tan-
genziale “ lo descrive e approfondisce con
grazia ironica e senza retorica, con ottimi
tempi comici garantiti soprattutto dal tan-
dem Albanese/Cortellesi, “squisitamente
complici”. È un vero sollievo ritrovare un
film commedia italiano che non sia , come in
tutto un recente passato, solo una sequenza
di spot senza un vero filo logico e narrativo;
qui la tendenza si inverte, forse anche per-
ché si parte da un’esperienza reale di vita
del regista e per il lavoro intenso fatto sul
campo nei quartieri romani. In sintesi, Gio-
vanni, Antonio Albanese, è un intellettuale
agiato, molto sobrio, abita in un lussuoso ap-
partamento nel centro storico della capitale,
è un progressista e lavora come consulente
di una think tank che elabora progetti per
l’ottenimento di fondi europei destinati al
recupero delle periferie urbane degradate,
viaggiando con la sua equipe tra Roma e
Bruxelles; la sua esistenza viene sconvolta
dalla scoperta che la figlia tredicenne, Agne-
se, è innamorata di un coetaneo dall’appa-
renza piuttosto coatta , Alessio, che abita
in una delle periferie sulle quali Giovanni
disquisisce a Bruxelles, senza mai averle
frequentate e precisamente Bastogi, sei pa-
lazzoni tra Torrevecchia e Quartaccio, che,
come dice un collega napoletano di Giovan-
ni, “fa sembrare Scampia un centro benes-
sere”. Un amore, quello di Alessio e Agne-
se, che si tatuano sui polsi le rispettive “A”,
destinato appunto a durare, come dice Mo-
nica, “come un gatto in tangenziale “. L’in-
contro/scontro di Giovanni con Monica,
una Cortellesi a tratti esilarante, ma sempre
con umanità e amore per il personaggio e la
necessità di tuffarsi nel temibile Bastogi che
si apre con la scritta “Lassate ogni speran-
za o voi k’entrate”, saranno la sostanza della
narrazione successiva. Due personaggi, ap-
parentemente molto lontani tra loro, come
si evidenzia quando insieme portano i figli
al mare, una volta a Coccia de’ morto, spiag-
gia libera in pieno degrado, frequentata da
Monica, ex cassiera che lavora alla mensa di
una casa di riposo per anziani e Capalbio,
dove Giovanni frequenta gli intellettuali ra-
dical chic in vacanza; apparentemente lon-
tani, ma in realtà accomunati dalla condi-
zione di genitori separati; Giovanni perché
la moglie, una Sonia Bergamasco felicemen-
di Mariangela Arnavas
Come un gatto
in tangenziale
1820 GENNAIO 2018
CollineNob, Russian, Telegraph, Portrero sono Hills
(colline). Pacific è una aristocratica Heights.
Delle più o meno quarantatre , così si dice,
colline e collinette che formano la città di San
Francisco una le sovrappassa tutte per altezza.
Non è una “hill” né una “heights”, ma qualco-
sa di più: è un “peak”, anzi, molto di più, è un
Twin Peaks.
Pacific HeightsPacific Heights, high on the Pacific, con le
strade che scendono parallele verso l’acqua
della baia come solchi di un trattore in un cam-
po coltivato.
Pacific Heights è un altopiano da cui si può
ammirare il traffico di navi. Passano lente le
navi, isole in movimento, accanto ad Alcatraz,
isola vera dall’aspetto di una nave abbandona-
ta.
Sulle strade si alternano le ville in vari stili :
Tudor, Georgean, French Hotel, Palladian,
Coloniale. Sono belli i tramonti oltre le fine-
stre delle belle case, accesi i caminetti nei sa-
lotti decorati. Sono ben curati i fiori dei giar-
dini, lucide le Jaguar e Bmw’s dentro i garage.
Garage SaleLa parte più intoccabile della strada è dove il
cordolo dei marciapiedi (curb) si assottiglia e si
fa piatto per chiarire che lì non ci si ferma con
la macchina, lì c’è un garage! “Tow away , day
and night” è spesso ricordato da un cartello. Il
garage è spazio sacro, ancora più dell’ingresso
della casa. Questi edifici, anche se sembrano
di un’era pre-industriale, sono stati costruiti
quando l’automobile era diffusa.
Nelle strade non troppo commerciali ogni ca-
setta ha il suo garage. Per il proprietario è un
gran vantaggio, perché i posti sono due: uno
dentro e uno davanti sulla strada, dove solo lui
può parcheggiare. Il garage fa anche da stanza
deposito, una specie di cantina della casa e tal-
volta da negozio, il sabato o la domenica matti-
na quando durante il garage sale vi si accatasta
cianfrusaglie di ogni tipo. Questo spazio così
tenacemente protetto, chiuso e indisponibile,
diventa per un giorno spazio pubblico, esten-
sione della strada aperto a tutti: passanti, cu-
riosi, compratori.
Gated CommunitiesLungo le strade sinuose e ben tenute del Presi-
dio si incontrano spesso dei grandi portali che
indicano la presenza di esclusive “gated com-
munities”. Dalla definizione sembra quasi che
il divieto di passaggio non è tanto rivolto a chi
di Andrea Ponsi Mappe di percezione
sta fuori, quindi di entrare, ma un’ auto-impo-
sta reclusione per chi sta dentro, quindi di usci-
re. Le “gated communities” rappresentano una
delle forme estreme del “defensible space” ur-
bano. Sono il segno della voglia di mettere con-
fini, del desiderio di convivere con chi ci è più
simile, della insicurezza che trasmette la città:
la conseguenza è la progressiva erosione dello
spazio pubblico a favore del privato. Si dirà: è
un bisogno primordiale; tutte le porte, i cancel-
li, i ponti (levatoi) non hanno la stessa funzio-
ne? Non servono a proteggere dal pericolo, a
scoraggiare gli intrusi, a unire gli assediati?
Cable carsC’è un edificio all’angolo di Washington Street
e Mason Street che è il motore ( powerhouse)
di tutte le cable cars della città. Come in una
fabbrica di fiaba, in una grande sala all’inter-
no del palazzotto di mattoni, quattro immense
ruote girano con un assordante sferragliare ti-
rando tutti i cavi di acciaio che scorrono sotter-
ranei nelle strade. A quei cavi si aggrappano
le cable cars per scalare, e scendere, i colli più
scoscesi.
Nelle strade il cavo non si vede, ma si sente
ovunque passa la rotaia. Anche se non ci sono
in vista le vetture, si sente sempre questo con-
tinuo rombare del cavo sotterraneo, questo
brusio di fiume carsico, lo sferragliare nascosto
di una metropoli proto-industriale dell’800
che sembra non fermarsi mai.
Sotto l’ interstizio metallico largo pochi cen-
timetri ma lungo decine e decine di miglia,
che insieme alle rotaie segnano di luccicante
acciaio tante strade di San Francisco, scorre
quel filo comandato da un grande, unico mo-
tore. Un motore alloggiato in un piccolo edi-
ficio che della città è il cuore vivo e pulsante,
creatore di energia e movimento.
San Francisco
1920 GENNAIO 2018
Il gennaio del Teatro di Rifredi è decisamen-
te all’insegna di Serra Yilmaz, l’attrice icona
di Ferzan Ozpetec che da anni è una pre-
senza fissa della stagione di Pupi e Fresed-
de (in cartellone anche questa stagione per
l’undicesimo anno consecutivo) con l’Ultimo
Harem e da qualche anno anche con la Ba-
starda di Instambul, (che sarà in scena Roma
alla Sala Umberto dal 15 al 25 marzo).
Ai due successi ormai consolidati firmati An-
gelo Savelli quest’anno la compagnia di Ri-
fredi ha aggiunto il testo di Coraly Zahone-
ro, autrice e attrice della Comédie Française,
Grisélidis, memorie di una prostituta.
Un testo che l’autrice ha costruito sulle me-
morie e le interviste della prostituta fran-
co-svizzera Grisélidis Réal che visse la sua
“professione” come un’arte, costruendoci so-
pra una poetica che riversò in libri, quadri e
nella sua attività militante a favore dei diritti
delle prostitute.
Lo spettacolo ha ricevuto un’accoglienza
straordinaria in Francia e arriva nel nostro
Paese al Teatro di Rifredi dal 25 al 27 gen-
naio dopo essere andato in scena a Vicenza
nel dicembre scorso.
Serra Yilmaz regala una interpretazione
sentita, calandosi nella parte e portando
Il ministro Franceschini ha diffuso gli ultimi
dati incoraggianti sui nostri siti e musei mag-
giori. Dati che confermano il trend che, da
anni, cresce “naturalmente”, anche per una
generale crescita del turismo d’arte nel mon-
do. Ma questo deve misurarsi, forse, con altre
notizie di segno contrario. La notizia del flop
di iscrizioni ai corsi universitari in “Beni Cul-
turali”, nonché il documento assai critico verso
la politica ministeriale espressa da Franceschi-
ni, sottoscritto da sessantasei studiosi e specia-
listi del nostro patrimonio artistico, sembrano
far emergere una condizione di disagio ben
diversa da quanto prospettataci ufficialmente.
Il documento, ove appaiono firme autorevoli,
quali quelle di Andrea Emiliani, Francesco La
Regina, Licia Vlad Borrelli, Bruno Toscano,
Vezio De Lucia, parte da una considerazione
che, se vera, sarebbe piuttosto grave: il silenzio
imposto ai funzionari e al personale scientifi-
co-tecnico e ai soprintendenti, in particolare.
Il documento dei 66 si ferma su alcuni punti
in particolare: la spesa reale per i beni cultu-
rali che resta fra le più basse d’Europa a fronte
della dimensione del nostro patrimonio artisti-
di Michele Morrocchi
di Burchiello 2000
Serra Yilmaznei panni di Grisélidis,prostituta geniale
Che succede al Mibact?
dalle musiche eseguite in scena da Stefano
Cocco Cantini.
Uno spettacolo che in tempi di regressione
del discorso pubblico e privato sul corpo del-
le donne lo rimette al centro insieme alla sua
dignità e alla sua libertà da (ri)conquistare.
Non ultima, si ricorda la disapplicazione del
codice e della legge sul paesaggio da parte del
ministero che ha lasciato gran parte delle re-
gioni senza “piani paesaggistici”.
Ma altri hanno fatto notare come sia da consi-
derare una grave anomalia istituzionale quella
di stipulare “patti”, direttamente fra ministro e
autorità comunali, bypassando ogni program-
ma delle soprintendenze e depotenziandole
fin quasi ad emarginarle ; cancellando così
una norma fondamentale di buon governo che
ha sempre caratterizzato la programmazione
della spesa (modesta in verità) del ministero
dei beni culturali. Di ciò, un esempio calzan-
te sarebbe proprio Firenze, ove il patto diret-
to col Comune ha prosciugato le risorse delle
soprintendenze, concentrando la spesa sui soli
monumenti di proprietà comunale, abban-
donando la doverosa cura persino dei beni e
dei complessi monumentali demaniali, di pro-
prietà dello stato.
Insomma, il documento dei 66 lamenta una
conduzione del ministero che avrebbe “svuo-
tato la tutela”. Se così fosse, che ne sarebbe di
quel ministero che Giovanni Spadolini for-
temente volle per restituire dignità e ruolo al
nostro patrimonio artistico ?
in scena oltre al testo il suo impegno di in-
tellettuale e di donna mostrandoci questa
prostituta rivoluzionaria, l’approccio dei ma-
schi, la poesia che si può trovare anche nel
“mestiere”, senza però mai idealizzarlo. Una
presenza scenica cruda, diretta, sottolineata
co, l’impegnare risorse in obiettivi futili quali
le gare di canottaggio nella vasca monumen-
tale della Reggia di Caserta, le mostre del Na-
poli calcio nel Museo Archeologico, la valoriz-
zazione dei beni affidata prevalentemente a
fondazioni private. A tacere della sottomissio-
ne delle soprintendenze alle prefetture, dalla
singolare gestione di alcuni concorsi giudicati
in conflitto di interessi dall’autorità anticorru-
zione, del curioso investimento di 18 milioni
per consentire al Colosseo i giochi gladiatori,
ed altro ancora. L’autorevolezza della denun-
cia di ex-soprintendenti e di cattedratici uni-
versitari del settore non può non preoccupare,
soprattutto se si considera l’avvertibile politica
di depotenziamento della tutela e della conser-
vazione a favore di una dominante spinta ver-
so il turismo, mai affrontato con responsabilità
per la dimensione eccessiva e talvolta persino
“distruttiva” che questo ha raggiuto in alcune
realtà di centri storici e musei del paese.
2020 GENNAIO 2018
Mi ha sempre interessato nella Cappella
Capponi la presenza, discutibile per i più,
del cenotafio con reliquia dedicato a S.Car-
lo Borromeo. Non è fatto trascurabile ritro-
vare per volontà dei Capponi nella loro
Cappella questo Santo così legato al Conci-
lio di Trento e così operante in esso nella
sua Sessione conclusiva, Santo che “emanò
Decreti in ordine alla salvezza delle anime”
(cfr. Memoria del Martirologio Romano).
Nato nel 1538, sarebbe ovviamente assur-
do parlare di un suo influsso sulle opere di
Pontormo eseguite nella Cappella tra il
1525 e il 1528; come pure sarebbe anacro-
nistico intravedere il suo pensiero nella
nuova definizione dello spazio religioso che
la nobile famiglia si riservò in S.Felicita.
Eppure il suo legame con i Capponi, anche
se successivo, merita alcune riflessioni in
quanto il Cardinale Orazio Capponi - inse-
rendo nella Cappella il monumento a
S.Carlo - riconoscerà implicitamente un
programma teologico Tridentino dipinto
‘ante litteram’. Va sottolineato che il pensie-
ro teologico e spirituale del Concilio soggia-
ceva in seno alla Chiesa Romana e che non
si cominciò a edificare il suo gigantesco e
vigilante costrutto soltanto a partire dal
1545 (anno dell’apertura conciliare): infatti
la Riforma Cattolica si annunciava già da
prima del 1517 (anno della Pubblicazione
delle 95 Tesi di Lutero); certi punti fermi
che verranno raggiunti dal Concilio erano
stati posti in anticipo dal Savonarola: “l’in-
segnamento del Frate si palesa fecondissi-
mo sul piano etico e religioso, molto oltre la
morte di lui […]; l’incarnazione e la passio-
ne di Cristo aprono all’anima la porta della
felicità eterna” (in “Aspetti della Controri-
forma a Firenze”, di A.D’Addario, ed. Mini-
stero dell’Interno, Roma, 1972, pp.27-28).
Lo stesso esempio di A.Del Sarto si rivelò
fin dal 1523 “del tutto attuale nell’età della
Riforma cattolica […] conoscendo poi […] la
sua inclinazione per la spiritualità severa
del Savonarola” (A.Natali, “Il Cinquecento
a Firenze”, ed. Mandragora, Firenze, 2017,
p.89). Una Riforma Cattolica è dunque in
precoce movimento essendo i suoi effetti
‘retroattivi’ o, se si preferisce, ‘anticipatori’.
Anche nell’opera del Pontormo in S.Felici-
ta (1525-1528) si palesa questa anteprima
controriformata. I Capponi dimostrano con
il Cardinale Orazio che l’inserimento
cent’anni dopo del pur tanto discusso (allo-
ra come ora) monumento a S.Carlo Borro-
meo (1620) conferma come ancora icono-
graficamente valido il pensiero Tridentino
soggiacente alla macchina architettonica e
pittorica della Cappella, sottolineando così
il legame anticipato e a distanza dell’opera
del Pontormo con lo spirito del Concilio. Il
cenotafio del Santo permette di leggere sim-
bolicamente i dipinti del Pontormo nell’ot-
tica rovesciata dei valori conciliari: prova ne
è, ad esempio, che il vaso con i tre gigli - al-
lusivi alla “sempre Vergine Maria” - cancel-
lato dal monumento nella parete dell’An-
nunciazione, viene ‘recuperato’ in pietre
dure sull’apice del cenotafio stesso come
“vaso più piccolo, ma di gioie” (cfr. B.Pao-
lozzi Strozzi, “Di un ramo di gigli del Pon-
tormo”, Kunst, gennaio 2000, p.63). Fatte
queste premesse sarà possibile anche rico-
noscere nel nuovo assetto voluto dai Cap-
poni i riflessi anticipati del “Catechismo
Liturgico Tridentino” e, implicitamente di
S. Carlo Borromeo. Infatti il Santo presule
collaborò largamente alla stesura del Cate-
chismus Romanus che poi giungerà, quasi
immutato, alla versione del “Catechismo
Liturgico” del Padre Barin (1934) dal quale
sono tratte tutte le mie successive citazioni
relative alla lettura della Cappella e dei
suoi dipinti, lettura che mi accingo ora a
di M. Cristina François Tra Pontormo
Cappella Capponi: Monumento a San Carlo Borromeo (1620)
2120 GENNAIO 2018
fare (CATECHISMO LITURGICO, I
vol., Sac. Luigi Rodolfo Barin, Ed. Istituto
Padano, Rovigo, V ed.1945). Cominciamo
dall’ALTARE che da sempre custodisce la
doppia valenza di “mensa” e di “sepolcro”:
il “Catechismo” stigmatizza questi due si-
gnificati e vi si legge che “Nei primi secoli i
primi altari furono sul modello della tavola”
perché “per il culto erano obbligati a radu-
narsi in case private” (p.210). “Nell’Occi-
dente si mantenne qua e là l’uso degli alta-
ri-tavola fino all’XI sec.”. Invece per
l’altare-sepolcro il “Catechismo” fa riferi-
mento a S.Agostino il quale “ci parla (“De
Civitate Dei”, VIII, 27) di un Altare costru-
ito sopra il corpo di un martire” (pp.210-
211); [è questa una tipologia] che risale
all’uso dei primi cristiani rifugiati nelle ca-
tacombe per le adunanze liturgiche e che
celebravano sopra la tomba di un martire”.
Come pure a Roma, più tardi, “le sacre reli-
quie furono racchiuse in quelle preziose
vasche di granito, di porfido, o di basalto,
che avevano servito alle terme […] l’altare
così era bello e pronto in una forma di tom-
ba. L’altare a tomba fu abbandonato allora
che non si potevano avere corpi interi […] e
minuscole reliquie trovavano posto sotto le
pietre sagrate” (col rito segnato dal Pontifi-
cale) e quindi l’altare “si presentava o mas-
siccio o in forma di tavolo”. “L’Altare ricor-
da quello descrittoci nell’Apocalisse (VI,9)
sotto il quale si odono le voci di coloro che
vennero uccisi per la Fede; per questo nella
sua consacrazione si esigono reliquie di
Santi Martiri”, p.212. Si mantenne così la
relazione tra il sepolcro dei martiri e l’altare
che prendeva la forma di tomba: nella Cap-
pella del Pontormo il “Martire” per eccel-
lenza è Cristo, Agnello sacrificale, già più
volte descritto da A.Natali. Si ricorda che
l’altare sottostante la pala del Pontormo fu
più tardi distaccato dal muro, ma in origine
era - come richiederà formalmente il “Cate-
chismo Liturgico” - “ex murum confectum”,
p.218 (Decreto 3162); inoltre le parti che lo
compongono non devono essere disgiunte
tra di loro e dal sostegno”, p.219 (Decreto
3497) e “la lastra che serve da mensa deve
essere tutta di un pezzo (Decreto 2862)” ,
infine “ ‘altare debet esse lapideum’ (Miss.
Rubr. Ge. Tit. XX), regola che deve essere
intesa in senso rigoroso (Decreti 2862,
3674, 3962) […]. La mensa deve essere so-
stenuta da colonnine oppure da un ripieno
di marmo o di laterizi, dando all’altare col
primo modo la figura di tavola, col secondo
quella di sarcofago o tomba”, p. 215. Oggi,
purtroppo, vediamo questo altare Capponi
nella versione ottocentesca che si è rivelata
poco rispettosa di queste regole a causa di
interventi postumi (vedi il mio articolo in
“Cultura commestibile”, n.224, p.13). La
TOVAGLIA: “La materia per la tovaglia è
il lino, e, dove questo non si potesse avere, la
canapa […] e [le tovaglie] devono essere be-
nedette” pp.224-225 (Decreto 2600). “Mi-
sticamente rappresentano il sudario per il
Volto e gli altri lini con cui fu involto il cor-
po del Salvatore” (ibidem). “Secondo il
‘Pontificale’ (Ord. Subdiac.) esse significano
‘membra Christi’ (ibidem)”. Dunque, in sin-
tonia col “Catechismo liturgico”, dice bene
chi sostiene che il tessuto raffigurato dal
Pontormo per deporre sull’altare il Corpo
di Cristo, il tessuto che avvolse il Suo Cor-
po straziato (la Sindone) diventa simbolica-
mente tovaglia nel momento in cui il cele-
brante dice Messa e il Corpo di Cristo si
transustanzia. I CANDELABRI: il Cate-
chismo recita che sugli altari laterali i can-
delieri possono essere 4 o 2 (Decreto 3137),
ma “non possono essere suppliti da cande-
lieri a più bracci”, p.235 (ibidem). Prima del
Concilio di Trento, “dal sec.X al XVI, come
risulta dagli Inventari delle Chiese […] due
soli erano i candelabri, anche sull’altare
maggiore” (p.236). Così fu per la Cappella
Capponi e due candelabri con inciso lo
stemma familiare sono conservati ancor
oggi in S. Felicita. A parer mio, nella pala
del Pontormo i due candelabri sono raffigu-
rati, dai due Angeli in primo piano: basti
ricordare a questo proposito le innumerevo-
li raffigurazioni di Angeli reggi-candelabro,
sia in pittura (per es. di Rosso Fiorentino,
“Cristo morto fra gli Angeli” oggi a Boston)
che in scultura (per es. “l’Angelo reggi-can-
delabro” in marmo eseguito da Michelange-
lo, Arca di S. Domenico, Bologna). Sempre
due Angeli, perché sostituiscono i due can-
delieri di rito durante la Messa. Il “Catechi-
smo Liturgico” ricorda in proposito che pri-
ma, e cioè fino al sec XVI, i candelieri
“erano sostenuti da accoliti ai lati dell’altare
durante le sacre cerimonie”, p.234. La
LAMPADA: per gli altari laterali il “Ceri-
moniale dei Vescovi” (I vol., cap.XIII, 17)
prescrive che la lampada dovesse essere
una e sempre accesa durante le Messe (De-
creto 2890), (p.237). Una sola lampada
d’argento è documentata infatti in questa
Cappella, ma non più reperibile. L’ANTE-
PENDIUM o PALIOTTO dovrà essere di
materia “ne rugosa, aut sinuosa, sed extensa
et explicata”, p.225 (“Cerimoniale dei Ve-
scovi”, I vol., cap.XII, 11). Se ne farà uso
solo negli “altari a mensa” e non in quelli “a
sarcofago”: è questo il caso dell’altare Cap-
poni che ebbe un suo paliotto fisso facente
parte del programma iconografico dell’in-
sieme. È assai possibile che fosse da identi-
ficarsi con il noto “tondo” (poi ovale) custo-
dito presso Palazzo Capponi delle Rovinate,
raffigurante la “Madonna col Bambino”.
Questo Mistero dell’Incarnazione del Si-
gnore e di Maria Deipara, dipinto su di un
paliotto, è così ben esemplificato nel quadro
di Santi di Tito - opera giustamente più vol-
te citata da A. Natali (“Bene scripsisti de
me Thoma”, Uffizi, 1595) - da essere a mio
avviso emblematico così da potersi riferire
iconograficamente al paliotto della Cappel-
la Capponi. La CROCE: considerando che
“non sono permesse sull’altare più immagi-
ni dello stesso titolo”, p.214 (Decreto 3732),
nella pala di Pontormo la Croce non com-
pare perché si tratta di un dipinto simbolico
il cui messaggio non passava attraverso una
rappresentazione storico/narrativa, bensì
teologica. Questa credo sia la logica che sot-
tende alla mancanza di riferimenti materia-
li e contestuali, come la Croce. L’unico rife-
rimento materiale, una scala sul Golgota
appena accennata in un bozzetto, che fu poi
‘ripensata’ e sostituita dalla Nube (per il si-
gnificato teologico della Nube, vedi il mio
articolo in “Cultura Commestibile”, n.240,
p.19). Sull’altare stava di regola una Croce
perché “si vuole che ogni altare [la] abbia
qual primario ornamento”, anche se “non è
dato di precisare il tempo in cui fu reso ob-
bligatorio l’uso di essa”, pp.226-227. Vorrei
concludere questo testo con la lettura sim-
bolica del bianco tessuto svolto e tenuto fra
le mani dalla pia donna posta al vertice del
dipinto: per il fatto che si tratta di un lino
(?) bianco, quasi luminoso, come intatto e
posto nel punto più alto vicino al Cielo,
penserei che esso alludesse alla veste bian-
ca della Trasfigurazione o alla Resurrezio-
ne stessa annunciata da un Angelo “vestito
bianco come neve” (Mat. 28,3).
e San Carlo
2220 GENNAIO 2018
Dopo avere intervistato collezionisti di
bambole antiche, di giocattoli di latta, di Pi-
nocchi e dopo aver dedicato attenzione alle
vecchie bizzarrie oggettistiche di Rossano,
una mostra che si chiama “La trottola e il
robot”, Tra Balla Casorati e Capogrossi e
che espone antichi giocattoli e opere d’ar-
te in tema, mi sembra assolutamente da
non perdere. Si trova al Palazzo Pretorio
di Pontedera , paesone fra Firenze e Pisa,
che oltre a questa Istituzione che propone
interessanti Mostre temporanee, possiede il
Museo della Piaggo, la cui fabbrica princi-
pale qui si trovava e si trova, e un Teatro dal
programma di tutto rispetto. La collezione
di giocattoli d’epoca esposta appartiene
al Comune di Roma, quadri e sculture e
simili hanno la più varia, e spesso privata,
provenienza. Sono sei le sezioni tematiche
“La Casa” ,”Giochi all’esterno”, “L’Educa-
zione “, “Teatro Maschere e Circo”, “Gio-
chi senza età” ed “Automi”. Nella prima
sezione, quella della casa, oltre a deliziose
e più o meno semplici case per bambole, in
una di esse, in una stanza, solo minuscolis-
simi cappelli, c’è una vera cameretta color
giallo paglierino decorata ad opera del ce-
leberrimo Mussino con personaggi e scene
di Pinocchio che compaiono su spalliera del
letto, sedia, ante dell’armadio e del comodi-
no, tavolino, il lampadario è formato da un
girotondo di pinocchietti di legno che ten-
gono le lampadine. Nella sala campeggia
un grande ritratto, (A. Noci) , di una bella
bambina con in collo un cane. I giocattoli
che si vedono sono non solo molto belli, ma
anche disposti in modo da poterseli imma-
di Cristina Pucci
ginare all’opera, c’è una bellissima bambola
superelegante su un triciclo, vari cavalli a
dondolo, più o meno antichi, uno grande e
nero, uno bianco, perfetto, alcuni più pic-
coli, tutti splendenti, un dondolo di metallo
dall’aria vintage, i quadri ci mostrano bam-
bini che si dondolano , che fanno il giroton-
do, che saltano la corda, che giocano con i
birilli, che vanno al circo. In casa si studia
pure e molti quadri raffigurano eleganti ra-
gazzini che leggono, suonano, si impegnano
in attività didattiche. I trenini e i pupazzetti
di latta che saltano o comunque eseguono
qualche piccolo movimento, così come i
giochi da tavolo, sono perfettamenti conser-
vati e come consapevoli del proprio valore
e della loro età , dialogano sereni con noi,
direttamente dal secolo passato. Il gioco è
attività creativa per eccellenza vi regnano
fantasia ed immaginazione, ma anche re-
gole ed imitazione della realtà circostante.
Ogni bambino è un po’ come un artista in
fieri e ogni artista, che osserva l’ordinario
con sguardo staordinario, è un adulto che
ha conservato in sè il bambino che è stato.
In questa bella ed originale mostra ci sono
molte opere di Fortunato Depero, a me pia-
ce molto la fantasmagoria dei suoi colori e
la sua prorompente ed originalissima cre-
atività che nemmeno le linee rigidamente
geometriche che predilige riescono ad im-
brigliare. Dopo aver scritto insieme a Balla
un documento titolato “Ricostruzione futu-
rista dell’Universo” nel quale teorizzano di
occuparsi di ogni campo ed attività compre-
se moda, arredamento, scenografie e costu-
me teatrale, inventò il “complesso plastico”,
un equivalente polimaterico in salsa futuri-
sta della scultura da utilizzarsi anche nelle
rappresentazioni e nei balletti. Non sfondò
come collaboratore e realizzatore di sceno-
grafie per altri e ideò uno spettacolo tutto
suo e di cui curò regia ,scenografia, costumi
e realizzazione dei protagonisti, animaletti
di legno deliziosi. Erano i “Balli Plastici” ,
5 brevi pièces ricche di humour grottesco e
bizzarissima fantasia. Possiamo qui ammi-
rarne una intera scena abitata dai suoi ani-
mali stilizzati e coloratissimi, superbi direi.
La trottola e il robot
2320 GENNAIO 2018
Si dice che le donne, comprese le fotografe,
abbiano la visione periferica più sviluppata
degli uomini, compresi i fotografi. Non esiste
una prova scientifica di questa teoria, mentre
sembra facilmente dimostrabile che molte del-
le donne fotografe hanno, ed hanno avuto, un
tipo di visione più penetrante e più attenta di
quella di molti fotografi uomini, soprattutto in
quel genere di fotografia di strada che viene co-
munemente indicata come fotografia “sociale”.
Il lavoro di molte fotografe, messe a contatto
con la realtà sociale, con situazioni precarie e
con problematiche difficili, rivela la loro mag-
giore disponibilità all’avvicinamento ed all’em-
patia, e dimostra come i personaggi fotografati
dalle donne siano in genere meno propensi ad
erigere barriere, a trincerarsi dietro una ma-
schera, a nascondere pensieri ed emozioni. Fra
i lavori di documentazione sociale realizzati
dalle molte donne fotografe che hanno affron-
tato questo genere, non va trascurato quello di
Erika Stone, nata in Germania nel 1924 da una
famiglia ebrea rifugiata in America nel 1936, e
cresciuta nella New York degli anni Quaranta e
Cinquanta, praticando la fotografia da giovanis-
sima, dapprima con la Leica del padre, poi come
membro della famosa Photo League, una libera
associazione inserita nel 1947 nella lista nera
del ministero della Giustizia in quanto conside-
rata “sovversiva”, e sciolta nel 1951. Erika con-
tinua a studiare fotografia nella New School of
Social Research con Berenice Abbott e George
Tice, nel 1951 vince il concorso per giovani fo-
tografi di Life Magazine, pubblica le proprie im-
magini sul prestigioso U.S. Camera Annual nel
1952 e poi negli anni 1954, 1955 e 1956, e la-
vora come fotogiornalista per riviste come Time
e Der Spiegel fino al 1960, per dedicarsi poi alla
famiglia ed ai due figli, cambiando del tutto ge-
nere fotografico. Se per le riviste illustrate firma
numerosi servizi e fotografa molti personaggi
celebri, la parte più interessante della sua opera
viene realizzata nel tempo libero, nelle strade
di New York, fotografando la gente comune,
la vita di ogni giorno. Soprattutto frequenta i
quartieri popolari, quelli multietnici, in cui si
affollano i vecchi ed i nuovi immigrati, in cui la
vita è più difficile, al limite della sopravvivenza,
in cui la strada è l’elemento che accomuna tut-
ti, il luogo in cui la vita scorre più prepotente,
in cui ci si incontra e ci si scontra. Lavorando
per le riviste ha avuto modo di visitare anche
l’Europa ed altri paesi, riportandone immagini
paragonabili a quelle prese a New York. In una
recente intervista, alla soglia dei novant’anni,
Erika ha dichiarato: “Di solito prendevo un
pomeriggio alla settimana, mio marito curava i
figli, e io andavo a fare fotografie ed a cammina-
re. Ero sempre interessata a fare con le mie foto-
grafie qualcosa che potesse migliorare il mondo.
Ho provato a fotografare la natura, ma non ne
è uscito niente di buono. Non sono interessata
alla natura, perché sono interessata agli esseri
umani e alle loro storie. Tanti soggetti mi ispi-
rano, ma soprattutto è la gente che mi ispira. La
fotografia è la mia vita, è la ragione per cui vivo.
Amo parlare alla gente delle loro vite, delle loro
storie di vita. Ecco perché la mia macchina foto-
grafica le cercherà sempre.” Del suo lavoro han-
no detto: “La capacità unica di Erika di cattura-
re lo spirito umano è potente e va dritta al cuore.
Ci ricorda che ogni persona ha una storia unica
da condividere e le fotografie di Erika sono quei
momenti speciali. Queste iconiche fotografie in
bianco e nero catturano la semplicità del sogget-
to, il soggetto preferito di Erika: le persone. Ciò
che rende il lavoro di Erika così straordinario è
il modo in cui usa la sua macchina fotografica,
sia nei suoi primi anni come fotografa di strada
ad Harlem, sia in Bowery quando ha focalizzato
il suo obiettivo sul trionfo dello spirito umano,
o quando ha fotografato gli immigrati a Ellis
Island, o quando ha fotografato un transessuale
che documenta il suo viaggio, Erika ha sempre
avvicinato i suoi soggetti con dignità, compas-
sione e completa obiettività “. Nel 1982 Erika
Stone è stata una delle venti donne fotografe il
cui lavoro è stato pubblicato nell’antologia “Wo-
men of Vision”.
di Danilo Cecchi
Erika Stone fotografa sociale
2420 GENNAIO 2018
Sant’Agostino rispondeva, a chi gli chiede-
va cosa facesse Dio prima della creazione
del mondo, che preparava l’inferno a chi
faceva questo tipo di domande. Ed è in
fondo il tipo di domanda che ci facciamo
anche oggi: che c’era prima del mitico Big
Bang? Meno minacciosamente oggi possia-
mo rispondere che il Big Bang non è nato
nel tempo e nello spazio ma col tempo e lo
spazio, non c’è un prima.
I nostri parametri logici, da cui scaturisce
questo tipo di domanda nascono dopo, an-
ch’essi nel tempo e nello spazio. Del resto
oggi sappiamo che i nostri concetti di spazio
e tempo perdono il significato da noi cono-
sciuto nel vortice di un buco nero o nell’in-
finitamente piccolo oltre la cosiddetta co-
stante di Plank.
E sappiamo che circa 14miliardi di anni fa
una quantità inimmaginabile di energia è
scaturita dal “nulla” e ha prodotto centinaia
di miliardi di galassie, ognuna con centinaia
di miliardi di stelle che ancor oggi corrono
a velocità crescente allontanandosi l’una
dall’altra. I resti di quella esplosione sono
presenti nella radiazione elettromagnetica
di fondo, scoperta per caso negli anni 60,
che permea tutto il cosmo e la velocità di
fuga delle galassie è calcolabile ed è impre-
vedibilmente e illogicamente in continuo
aumento in proporzione alla distanza. Un
bel cambiamento per chi pensava ancora
poco tempo fa ad un Universo fondato sul-
la sola via Lattea ed in sostanziale equili-
brio. Il grande Einstein dovette inventarsi
la costante cosmologica per giustificare un
universo in equilibrio a controbilanciare la
forza distruttiva della gravità (ovviamente
anche su questo poi ha avuto ragione, solo
che quella forza avrà altra e più larga fun-
zione e spiegazione ed altro nome si chia-
merà energia oscura e ne parleremo). Inve-
ce molti eminenti scienziati hanno pensato
perfino ad una vittoria finale della gravità
tale da riportare indietro le galassie in cor-
sa fino al punto di partenza, come un film
al rovescio, fino all’esplosione successiva in
una sorta di ciclo eterno di rinascite, alla
maniera orientale solo, che qui rinasce e si
rincarna l’universo e non il singolo indivi-
duo.
Non è così. Tutto almeno oggi sembra dire
che l’Universo corre allontanando tutte le
galassie ed espandendosi a velocità crescen-
te e fra miliardi di anni la sua corsa finirà
disintegrando stelle e galassie e a prevalere
sarà il buio e il gelo e il nulla. Certo tra mi-
di Gianni Bechelli
liardi di anni, ma diciamolo, un po’ inquieta
questa apocalittica fine del mondo, più di
quanto la sia pur poco gradevole prospetti-
va di un sole gigante rosso che inghiottirà
ancor prima la Terra. Niente in realtà è
definitivo, considerando che siamo a cono-
scenza forse del 10% di ciò che c’è davvero
nell’universo di cui abbiamo nozione, il più
ci sfugge e quindi tutto può essere. Intan-
to, non sapendo cos’è questa energia oscura
che ci attrae inesorabilmente e altrettanto
cos’è la materia oscura che sappiamo esiste-
re per la sua forza attrattiva, che tiene insie-
me le galassie altrimenti destinate a spappo-
larsi per la forza della sola materia “chiara”,
possiamo tuttavia sperare in un concetto di
Infinito diverso da quello di Universo e Co-
smo regolato. Non sono la stessa cosa, o al-
meno non lo sono necessariamente. Questo
Infinito è l’indescrivibile degli infiniti mon-
di di Giordano Bruno, mai adeguatamente
apprezzato per le sue intuizioni sconvolgen-
ti anche per la teologia, ma è anche ciò a cui
sembrano portare per strade diverse alcune
delle varie attuali attività scientifiche e non
solo nel campo della fisica dell’astrofisica e
della fisica quantistica. Tutto questo potreb-
be riaprire la partita in modi imprevedibili
e anche un po’ fantasiosi. Ma la scienza ci
abitua sempre più alla meraviglia. E la me-
raviglia, sosteneva già Aristotele, è ciò che ci
rende attraente la conoscenza e la scienza.
Questa torsione, che porta la fisica vicina ai
limiti della metafisica (“l’altro” da sempre
per la scienza moderna) ha vari nemici tra
i fisici abituati a misurarsi con le cose e le
teorie e la loro concreta verificabilità, e tut-
tavia per la prima volta ,da secoli, il tema
dello sconfinamento tra i due campi si pone
concretamente e si cercano nuove risposte.
Prima del Big Bangnon c’era un prima
2520 GENNAIO 2018
Visitando il Museo degli Uffizi, ho notato
l’impegno profuso dalla Fondazione Friends
of Florence, da gli Amici degli Uffizi e da al-
tre figure per il restauro delle opere esposte e,
conservazione e riorganizzazione degli spazi
museali.
Il percorso, è costellato di targhe che accompa-
gnano le opere quasi senza soluzione di con-
tinuità. Nei corridoi, come nell’interno delle
sale più importanti e meno.
Una presenza quella degli sponsor, costante
nel tempo che parla di sensibilità e generosità.
Una presenza sempre più presente, sempre
più generosa, sempre più visibile.
Leggendo con attenzione le targhe, ho osser-
vato che le indicazioni riguardanti i donatori
presenti nelle didascalie, con il passare degli
anni, siano diventate sempre più grandi nelle
dimensioni e importanti.
Se nel 1993, le targhette di dimensioni di circa
13 cm x 18 cm riportavano per intero le indi-
cazioni descriventi l’opera: il titolo, il materiale,
l’epoca ecc. e in coda compariva il nome di chi
aveva contribuito al restauro, negli anni re-
centi, le targhette sono diventate delle targhe
di circa 30 cm x 30 cm tanto grandi da abbi-
sognare di una base autonoma per il loro sup-
porto, con una descrizione dell’opera ridotta al
titolo e un esteso ringraziamento alle persone o
aziende che hanno offerto il restauro e, ampio
spazio per il logo della fondazione.
Nei casi in cui il restauro non abbia investito
soltanto le opere, ma anche l’allestimento delle
sale, sono stati fissati alle pareti grandi pannelli
di dimensioni superiori ai 150 cm x 150 cm de-
dicati esclusivamente ai donatori e donatrici.
Mi pare che siamo lontani dai principi che
imponevano il cappuccio ai giornanti della
Confraternita di Misericordia, affinchè le loro
opere non fossero riconducibili alle persone.
Da Arezzo a Sansepolcro per vedere Pie-
ro, a Città di Castello per vedere Burri, si
traversano secoli. Sul profilo delle stesse
colline, sullo scabro delle stesse terre, sui
cretti.-.perfino.-. che il tempo ha fatto scop-
piare sull’intonaco e sulle tavole dell’uno,
apparentandolo, ancor più, all’altro. L’ oc-
chio che si posa sulle stesure consunte e sul-
le geometrie di San Francesco non fa fatica
a passare sulle trame lise o sulle sabbie di
certi “cellotex” delle pareti dei “Seccatoi”.
Non si sa che aspetto avesse Piero; possiamo
solo immaginare quanto fossero luminose le
pareti della Basilica appena dipinte da lui.
La cattedrale di Burri, invece, è negli ex ca-
pannoni della Fattoria Tabacchi di Città di
Castello. Un luogo, una cattedrale di oggi,
riattivata dall’Artista che l’ha fatta sua con
le pareti ‘affrescate’ dalle sue opere a rac-
contare un’unica, eterna avventura: quella
della materia, della luce, del colore e della
loro misura. Burri era medico e della scien-
za medica aveva conservato il gusto per la
dissezione, per l’impietoso scavo della real-
tà. ”Gli uomini sono cattivi”.-.diceva.-.”Ve-
de com’è crudele la natura; e gli uomini ne
fanno parte. Ci vogliono millenni per arri-
vare a un po’ di civiltà. Perciò non ci si può
permettere di compiere atti barbari.-.parlo
di pittura.-. e poi far finta che siano capo-
lavori. L’arte, la verità della pittura, sono
cose difficilissime ed esigono tutto”. Burri
ha costruito il suo tempio, che nella digni-
tà e spogliatezza delle sue architetture, non
è inferiore a quelli del passato. L’ha volu-
to con la sua azione solitaria e caparbia. E
ora i suoi cretti, le sue plastiche schiantate
e bruciate, i suoi monocolori in elegantissi-
me sequenze in nero, sono lì a testimoniare
le tragedie di un secolo, con un linguaggio
omologo fino all’estremo, dalla seconda
guerra mondiale alla guerra del Vietnam.
Tutto questo confermando la difficilissima
parola di Burri: che la materia, pur restando
tale, può trasformarsi in arte oggi.-.quando
è autentica.-.come cinquecento anni fa .
di Annamaria M. Piccinini
Da Piero e da Alberto, rivisitazioni
Valentino Moradei Gabbrielli
Art-è sponsor?
2620 GENNAIO 2018
Come è facile intuire, l’agenda di Mimmo D’A-
lessandro, nel periodo in cui il Summer Festival
2018 prende forma è fitta di impegni; questo
non gli ha impedito di trovare il tempo per que-
sta intervista e di presentarsi puntualissimo al
nostro appuntamento in un caffè del centro di
Lucca. Non a caso disponibilità e schiettezza
nei rapporti con le persone, sono tratti distintivi
che ho riscontrato in molti autorevoli personag-
gi che ho avuto la fortuna di intervistare per
libri e articoli. Fin dalle prime parole si perce-
pisce con chiarezza l’importanza che la musica
ha nella sua vita: anche solo parlarne, gli provo-
ca una gioia profonda e genuina.
Pare che diventare musicista fosse il suo grande
sogno di ragazzo e il suo rapporto con la musica,
al di là delle ovvie implicazione professionali,
sia sempre stato molto stretto, viscerale: ce lo
può raccontare?
Sono nato a Napoli e chi nasce a Napoli ha la
musica dentro. Tutti i ragazzini hanno questo
sogno; tutti i miei amici (Bennato, Pino Daniele,
Teresa De Sio, Enzo Avitabile) suonavano (era
la prima cosa che ci univa) e questo volevo fare,
fino a che mi sono reso conto che non era la mia
strada. Ho fatto altre cose, sempre guidato dalla
passione e dall’amore per la musica: produttore
discografico e televisivo, gestore d’importanti
locali, manager di artisti come Giorgia, Pino
Daniele e altri. Amore e passione sono alla base
della filosofia con la quale mi avvicino a tutto
quello che faccio.
Da musicista a produttore e organizzatore di
eventi, con la musica sempre al centro della sce-
na: quali sono state le tappe principali di questo
percorso?
Sono moltissime ed elencarle tutte porterebbe
via tutto il pomeriggio. Sono cresciuto con il
mito della Bussola; il locale del grande Sergio
Bernardini dove passavano tutte le star era il
mio “sogno americano”, così, quando mi sono
trasferito a Viareggio, la prima cosa che ho fatto
è stato entrare in quel locale. Ho cominciato da
lì, anche se avevo già fatto qualcosa a Napoli e
ho vissuto tutti i cambiamenti che hanno carat-
terizzato questo mestiere fino a oggi, quando ci
si trova a combattere con un nemico implaca-
bile: la burocrazia. Quella con la burocrazia è
davvero una lotta che sfinisce e toglie energie
che potrebbero essere usate per scopi molto più
utili.
E’ vero che a farle scoprire Lucca, fu nienteme-
no che Joan Baez?
Verissimo. Lei mi faceva una testa così sulle
bellezze della città e mi vergognavo a confessar-
le che, pur vivendo a 20 chilometri, conoscevo
Lucca solo superficialmente. Dopo il concerto
di Monica Innocenti
di Joan alla Bussola l’ho accompagnata in cen-
tro (mi ero fatto dare delle dritte da un amico) e
lei, alle 2 di notte, completamente rapita dall’at-
mosfera, si mise a cantare a cappella in piazza
Anfiteatro. Sono rimasto senza fiato ed è anda-
ta a finire che ho comprato casa in quella piaz-
za! Poi è arrivato il Summer Festival! L’allora
presidente della Provincia di Lucca, grande
appassionato di musica, mi telefonò chieden-
domi se fossi interessato a proporre dei concerti
in città. Ne discutemmo, cominciai a lavorare
al progetto e il 6 luglio 1998 Bob Dylan suonò
in piazza Napoleone: la grande avventura era
cominciata!
Il Summer è diventato parte integrante della
vita (e dell’economia) di Lucca, ma il rapporto
con alcune componenti della città e delle sue
istituzioni è stato, nel corso degli anni, un po’
tormentato: ce ne può parlare?
E’ stata una corsa a ostacoli, ma mi ha caricato
moltissimo. Credo che quando sei convinto di
fare la cosa giusta, niente ti deve spaventare.
Ho seguito la mia strada e ancora oggi quando,
dopo vent’anni, non mi sento completamente
accettato, beh: me ne sbatto se mi passa la fra-
se. Il Summer Festival è ormai un brand che ha
una notorietà mondiale e da Lucca è passata la
storia della musica: ho realizzato un libro foto-
grafico sul festival e quando scorro le pagine e
leggo i nomi, quasi non ci credo nemmeno io.
E comunque credo che i lucchesi, anche quelli
che ci criticano, apprezzino che il nome della
loro città faccia il giro del mondo: che una pic-
cola città sia entrata nel grande giro della mu-
sica internazionale dalla porta principale ha
dell’incredibile! Secondo me anche Puccini è
felice, perché Puccini è rock!
Nell’edizione del ventennale c’è stata anche
l’incredibile novità del mega evento sugli spalti
delle mura: è stato più complicato convincere
chi di dovere della bontà e della fattibilità del
progetto o i Rolling Stones a suonare in quella
che era, probabilmente, la città più piccola dove
si esibivano dai tempi del liceo?
Portare gli Stones a Lucca è stato meno compli-
cato di quanto pensassi perché, sulla mia strada,
ho trovato solo persone intelligenti. Ho faticato
un po’ a convincere il gruppo, ma quando metti
in campo, in rapida successione, Italia, Toscana
e Lucca, schieri una squadra vincente, non c’è
storia! A Lucca ho trovato un personaggio alla
Sovrintendenza, il professor Luigi Ficacci, che
non esito a definire un fuoriclasse: la città è for-
tunata ad avere personaggi di questo spessore.
Ha compreso il progetto da subito e mi ha sup-
portato in ogni modo. E alla fine, dopo qualche
titubanza iniziale, anche l’Amministrazione
Comunale ha fatto la sua parte. L’unica nota
stonata sono i rosiconi di professione e in mala-
fede ma, semplicemente, li compiango.
Se l’edizione del ventennale è stata indimenti-
cabile, quella del 2018, con Roger Waters come
evento speciale e una serie di concerti davvero
straordinari, non sarà da meno. Il Summer è
un figlio maggiorenne da un bel po’: quali sono
state le emozioni più grandi e quali i ricordi in-
cancellabili?
Mi ero detto che il giorno in cui sarei riuscito
a portare Steve Wonder a Lucca avrei raggiun-
to il massimo e avrei potuto smettere: mi sba-
gliavo! Eric Clapton, Leonard Cohen che era
sparito dalle scene da vent’anni, un musicista a
cui sono molto legato come Paco De Lucia, fino
ad arrivare al momento da brividi in cui si sono
spente le luci e gli Stones sono saliti sul palco:
sono innumerevoli le incredibili emozioni che
ho provato e che voglio continuare a provare,
perché quando non mi emozionerò più, allora
sarà il momento di smettere sul serio! E forse
l’emozione più grande è vedere il pubblico feli-
ce di quello che sta vivendo e pensare che sono
stato un ingranaggio che ha contribuito a far
funzionare quello straordinario meccanismo
dispensatore di felicità che è la musica.
Nei mesi invernali, il Summer ritroverà un pa-
rente stretto, il Winter Festival: ci sono anticipa-
zioni su questo progetto?
Sono molto legato al Winter, perché credo ab-
bia un potenziale incredibile e portare grandi
artisti come James Taylor, Nash, De Gregori
o Fiorella Mannoia in un teatro da 600 posti è
un’altra, grandissima emozione. L’anticipazio-
ne è quella che, ancora una volta, proveremo
a vincere la scommessa di proporre qualcosa
all’altezza di ciò che lo ha preceduto, capace di
emozionare e farsi amare allo stesso modo.
Il Summer di Mimmo
2720 GENNAIO 2018
Da lunedì 8 gennaio 2018 l’ingresso al Battiste-
ro di Firenze diventa gratuito per i fiorentini e
per tutti i residenti della Provincia di Firenze,
lo ha annunciato il Presidente dell’Opera di
Santa Maria del Fiore, Luca Bagnoli, in con-
clusione del discorso tenuto in occasione della
Cavalcata dei Magi. “In accordo con l’arcive-
scovo cardinale Giuseppe Betori - ha spiegato
Bagnoli - l’Opera di Santa Maria del Fiore ha
deciso di rendere accessibile anche questo luo-
go di culto, oltre
alla Cattedrale, ai
fiorentini e a tutti
i residenti della
provincia. L’obiet-
tivo dell’Opera è
di essere un’istitu-
zione sempre più
vicina alle esigen-
ze delle persone e
della città”.
Gian Lorenzo BerniniMuseo Borghese
Si può viaggiare nel tempo e nello spazio. Que-
sto ci dicono i lavori di Giampaolo Di Cocco
che formano una mostra polifonica e ben arti-
colata, scandita in tre gruppi di opere. Le carte
sono delle mappe oppure delle antiche scritture
riversate nel mondo attuale attraverso un’ope-
razione di recupero metastorico. Configurano
racconti che provengono da paesi immaginari,
mettono insieme luoghi e città forse legati dal
niente o da oscure connessioni. La cartografia
di Giampaolo Di Cocco offre poche certezze,
compaiono linguaggi di popoli sconosciuti,
simboli di difficile interpretazione, monumenti
limpidi come giornate lustrali. Ma vi sono an-
che delle presenze animali che consentono di
navigare tra le immagini come in un arcipelago
fantastico. Oppure potrebbe essere che le carte
non sono mappe, ma scritture figurate, testi di
una civiltà abbandonata dalla storia e ai margi-
ni della geografia.
I lavori chiamati “Tempio delle barche” infatti
mettono in scena in viaggio. La nave porta in
una direzione spirituale, gli specchi moltiplica-
no l’immagine dell’uomo in un gioco riflessivo
in cui il movimento è statico: è puro pensiero.
La “nave nel tempio” è un ossimoro, ma ricorda
l’etimologia delle navate, il simbolismo di una
salvezza a cui l’arca offre i suoi servigi e l’uomo
di Valerio Dehò
i suoi pensieri. Navigare necesse est, vivere non
est necesse.
I marmi graficamente scarnificati con l’acido,
presentano invece un tempo che collassa sul
presente. I decori pompeiani entrano in con-
tatto con le silhouette di bottiglie del Campari
soda o della Coca cola, in una sorta di elogio del
tempo. Tutto converge verso una artisticità che
non può esimersi dal confrontarsi con il con-
sumo, con lo specchio dei tempi. Le bevande
inebrianti dei nostri tempi sono lontane dalle
coppe del Falerno. Di Cocco mette insieme
grafica e scultura, passato e presente, rivelan-
doci un mondo senza età verso cui viaggiare
con gli strumenti che abbiamo a disposizione,
la mente e la cultura innanzi tutto.
Viaggi straordinari
Foto diPasqualeComegna
Corpidi marmo
Il Battisteroa ingresso gratuito per i fiorentini
2820 GENNAIO 2018
Se “tenete” per la Tebaldi lasciate perdere
questo libro. Per un fan della soprano pe-
sarese, infatti, sfogliare “Il melomane do-
mestico” di Alessandro Duranti (Ronzani
Editore, Vicenza 2017) presentato nei gior-
ni scorsi al Gabinetto Vieusseux, sarebbe
come per un suiveur di Coppi infliggersi
masochisticamente l’elogio di Bartali (e vi-
ceversa). Infatti nel primo e più lungo dei
saggi raccolti nel volumetto (versioni am-
piamente rielaborate di altrettanti scritti
usciti tra il 1981 e il 2007 su altre pubblica-
zioni) il professore fiorentino di Letteratura
italiana all’Università di Firenze non fa che
confessare con le formule più appassionate
e convinte il suo amore, musicale s’intende,
per la “divina” Callas, quella Anna Maria
Cecilia Sophia Kalogeropoulos, soprano
drammatico d’agilità, di cui nell’anno ap-
pena trascorso ricorreva il quarantennale
della morte.
Duranti è intrattenitore competente, anali-
sta acuminato, non privo di una rinfrescan-
te cattiveria. Dice quello che pensa, con
spontaneità, “a caldo”, non lesina sberleffi
o stoccate irriverenti quando gli sembrano
meritate: ai tenori imbolsiti e mai domi, alla
“torva musa verista” di Mascagni & c, alla
razza detestabile e becera dei loggionisti, ad
alcune trovate registiche contemporanee
(la Sonnambula con il nuovo finale è per
lui una “trovatina da supermercato”). Ma
nelle sue pagine Callas, oh Callas si erge,
letteralmente, come una furia della natura,
non solo per pienezza e onnipotenza di una
voce dall’estensione e uguaglianza fuori del
comune, ma soprattutto per intelligenza da
stratega, di potenza e aggressività mostruo-
se. Un fulgore e una pienezza irripetibili,
sovrumane, una voce spavalda e onnipoten-
te, unica nello sfrontato coraggio, fiammeg-
giante, portentosa, aggressiva, ubriacante,
marziana. Un indimenticabile filo d’oro.
Tanto entusiasmo, del resto ampiamente
motivato, ha qualcosa di commovente, se si
pensa che il professor Duranti (un po’ per
età un po’ per l’atteggiamento descritto nel
titolo del libro) non ha mai visto e ascoltato
la Callas dal vivo e che questa trascinante
passione se la porta dietro dalla nascita, da
quando cioè suo padre nel 1948, folgorato
dalla edizione fiorentina di Norma, acqui-
stò un disco con una selezione da La forza
del destino. Un amore il suo, quindi, tutto
coltivato da lontano, cesellato tra i fruscii
dei vecchi vinili, le registrazioni lacunose, i
ricordi narrati “a veglia” circa le meraviglio-
di Susanna Cressati
se performance di un mito.
Così leggendo queste abili pagine si viene
come rassicurati. Quanti amanti del melo-
dramma e del bel canto hanno oggi sentito
mai la Callas cantare dal vivo? E quanti
hanno sentito dal vivo altri nomi di spicco
del mondo operistico? L’evoluzione tecno-
logica, che restituisce versioni più fedeli
(anche se forse più piatte) delle esecuzioni
in teatro, consegna tanto più oggi tutti co-
loro che raramente o anche mai possono
attingere alle esperienze di una prima della
Scala o del Maggio allo stesso rango di colo-
ro che, invece, possono farlo.
Il libro si dipana divertente anche nei sag-
getti successivi dedicati rispettivamente:
ad una analisi della capacità di Giuseppe
Verdi di “cambiar maniera”; ad una taglien-
te galoppata tra i “nemici della musica” (i
veristi, fatto salvo Puccini); ad una rispet-
tosa considerazione di Puccini a dispetto
della sua “facile commestibilità”; allo stile
di Toscanini (compresa la sua “disastrosa
rigidità” nel dirigere Mozart); alle discutibi-
li cronache musicali del baritono mancato
Eugenio Montale. Ultimo ma non disprez-
zabile merito di Duranti quello di essere ri-
uscito a contenere la pratica della laudatio
temporis acti, così frequente a Firenze e nel
suo mondo culturale (ma non solo).
Storia di un melomane