Udienza 28 marzo 1879, Pres. Mirabelli, Est. Ciollaro, P. M. Conforti (Concl. conf.) —Ric.PassananteSource: Il Foro Italiano, Vol. 4, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1879), pp.117/118-125/126Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23084706 .
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117 GIURISPRUDENZA PENALE 118
distanza minore di 500 metri dalla linea daziaria di
Novara, e non fu preceduto dalla prescritta dichiara
zione ; Che quindi non sussistono i mezzi d'annullamento
dal medesimo dedotti, e sussiste invece la contravven
zione appostagli, non che l'impugnata sentenza con
fermativa della condanna contro di lui pronunziata dal
pretore di Novara; Per questi motivi, rigetta il ricorso, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA. Udienza 5 febbraio 1879, Pres. Ghiglieri, Est. Fer
reri, P. M. Spera — Ric. Murra Falqui Antonio e
Giovanili.
Corte <11 assise — Giudice traslocato — Giurisdi
zione prorogata dal primo presidente (Ord. giud.,
art. 80). Un giudice traslocato altrove può continuare a sedere
nella medesima Corte di assise se la giurisdizione
gli sia prorogata da una nota ufficiale del primo
presidente, cui l'art. 80 della legge sull'ordina
mento giudiziario conferisce l'ufficio di regolare ed
assicurare il servizio delle assise nel suo distretto. (1)
La Corte, ecc. — Sul secondo mezzo: « Violazione
dell'art 80 della legge sull'ordinamento giudiziario per
chè il giudice Felice Ortu, che con decreto del 5 agosto
era di già stato traslocato al Tribunale di Oristano,
non poteva più far parte della Corte d'assise di Nuoro,
in cui mancava di giurisdizione ».
Attesoché risulta agli atti che se il giudice Fe
lice Ortu con R. decreto del 5 agosto era stato tra
mutato al Tribunale di Oristano, gli si era però colla
nota del primo presidente della Corte d'appello, in data
del 16 agosto stesso, ordinato di non lasciare il posto
fino all'arrivo del suo successore
Attesoché dietro le premesse risultanze degli atti
il secondo motivo trovi una categorica risposta, per la
proroga della giurisdizione, nella nota ufficiale del
primo presidente della Corte di appello, a cui, giusta
l'art. 80 della legge sull'ordinamento giudiziario, spetta
in ogni caso di regolare ed assicurare il servizio delle
Assise nel suo distretto, e di surrogare, ove d'uopo, i
giudici mancanti od impediti;
Per questi motivi, rigetta, ecc.
(1) Confronta stessa Corte, 30 dicembre 1878. a col. 49 del presente
volume, e relativa nota, ivi.
CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA.
Udienza 29 gennaio 1879, Pres. Ghiglieri, Est. Fer
reri, P. M. Spera — Ric. Contessa Ugo.
Minaccio — Contravvenzione — Estremi — Mani
inermi (Cod. pen., art. 686, n. 2).
A costituire la contravvenzione di minaccie, preve
duta dall'art. 686, n. 2, Cod. pen., non è neces
savio V impugnamento di un'arma, potendo il giusto
timore ed il pericolo del danno altrimenti provenire da minacciate violenze alla persona con morsi od
anche solo a colpi di mano o di piede.
La Corte, ecc. — Il pretore di Terni dichiarò colpe vole Contessa Ugo del reato di minaccie, e in appli
cazione dell'art. 686 del Cod. pen. lo condannò a lire 5
di ammenda.
Il Contessa ricorse e denunziò la violazione degli articoli 686, n. 2, e 688 del Cod. pen. Esso dice che le
parole profferite: Lasciatemi: me la voglio mangiare,
nell'atto di farsi addosso alla Stefanini, non costitui
vano il reato di cui parla il citato art. 686, al n. 2,
tanto più, perchè pronunciate da un giovane inerme,
esse non potevano essere cagione di allarme; Attesoché il pretore di Terni colla denunciata sen
tenza abbia in sostanza pronunciato un giudizio di ap
prezzamento e di fatto che per sè sfugge ad ogni cen
sura in sede di Cassazione; Attesoché d'altronde non è cosa seria il sostenere,
contro il dettato del più comune buon senso, che nei
termini surriferiti dalle parole usate dall'imputato ri
corrente, nell'atto di avventarsi contro il suo avver
sario, non si contengano gli estremi legali di quella
semplice contravvenzione che è preveduta e punita
dal n. 2 dell'art. 686 del Cod. pen., per cui non è punto necessario l'impugnamento di un'arma, quando il giusto timore e il pericolo del danno possono ben altramente
provenire, come nella fattispecie, da minacciate vio
lenze alla persona, coi morsi, ed anche solo a colpi di
mano o di piede; Per questi motivi, rigetta, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE DI NAPOLI. Udienza 28 marzo 1879, Pres. Mirabelli, Est. Ciol
laro, P. M. Conforti (Conci, conf.) — Ric. Passa
nante.
Testimone — Giuramento — Nullità non sanabile
(Cod. proe. pen., art. 289). Parte lesa non denunziante — Giuramento (Cod.
proc. pen., art. 289 e 270). Attentato al Ile — Estremi (Cod. pen., art. 153).
Principio di esecuzione — Questione <li diritto o di
fatto (Cod. pen., art. 159). Giurati — Questioni — Modalità del fatto dedotto
in accusa — Doppia ipotesi — Unico quesito (Cod.
proc. pen., art. 494). Dibattimento — Deposizioni scritte — Lettura dopo
l'esame orale (Cod. proc. pen., art. 311). Perizie — Risposte dell'accusato — Lettura al di
battimento (Cod. proc. pen., art. 311).
Il giuramento dei testimoni vuoisi ritenere siccome
prescrizione di ordine pubblico, ed il silenzio delle
parti non basta a sanare la nullità derivante dalla
omissions di quella solennità. (1)
(1) Conformemente la stessa Corte con la sentenza 27 novembre 1876, ric. Izza (Rivista pen., V, pag. 460), decise che il silenzio della parte
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119 PARTE'SECONDA 120
Quegli che da un reato è stato offeso o danneggiato,
comunque non ne sia nè querelante nè denunziante
è comunque offeso o danneggiato per errore, va
udito in dibattimento senza la prestazione del giu
ramento. (1) ..e*
Sempre che si tenda a violare la integrità della sacra
persona del Re si commette il reato prevenuto dallo
art. 153 del Cod. pen.; riesce perciò indifferente che in quel rincontro si voglia uccidere o ferire.
E questione giuridica e non di mero fatto definire se nell'attentato l'agente sia giunto a dar principio ad un atto qualunque di esecuzione, nei sensi del
l'art. 159 del Codice penale. Non è vietato al presidente delle assise formolare
nelle questioni ai giurati una ipotesi che sia mo
dalità del fatto principale in accusa, quando la re
sponsabilità dell' accusato non è aggravata ed i ri
sultati del dibattimento vi si prestino. (2) Se due ipotesi di fatto menino alle stesse risultanze
di responsabilità penale, non è complessa la que stione che insieme le comprenda. (3)
Non vi ha nullità se taluni brani di dichiarazioni
scritte di testimoni siano letti dopo le dichiarazioni
orali dei testimoni medesimi.
Le risposte date dall'accusato ai professori alienisti
incaricati di dar giudizio sullo sti to mentale di
lui ed il parere dei professori medesimi sulle mo
dalità dei fatti imputati al giudicabile, facendo
parte integrante del lavoro peritale, vanno letti in
udienza, comunque non citati i periti.
La Corte, ecc. — Sul mezzo principale — Conside
rato che per siffatta lamentanza si deduce la viola
zione dell'art. 297 del Codice di procedura penale, pe rocché si sostiene che l'onor. signor Benedetto Cairoli,
non essendo stato nè querelante nè denunziante, doveva
essere udito in dibattimento con giuramento, e che, es
sendo questo richiesto pei testimoni a pena di nullità
e costituendo esso una prescrizione di ordine pubblico nei penali giudizi, a nulla vale in contrario il silenzio
delle parti. Ed in tal concetto tanto più si persiste in
quanto che, comunque in rubrica il Passanante figurava
imputato non solo del reato di fellonia, ma sì pure del
l'altro di mancato omicidio in persona dell'onorevole
signor Cairoli, che in quel rincontro riportato aveva
una importante ferita alla coscia destra con quel me
desimo coltello che leggermente aveva già ferito il Re
nel braccio sinistro, pure la Sezione di accusa nella
sua sentenza di rinvio disse pel secondo carico di non
farsi luogo a procedimento, ritenendolo compenetrato nel primo, per essere stato anche quel colpo diretto
alla persona del Re, comunque raggiugnesse invece il
Cairoli;
Considerato che nella lista del pubblico ministero
innanzi alle Assise il signor Benedetto Cairoli figura
quale parte offesa, e con tal veste egli comparve e
venne udito in dibattimento senza obbiezione alcuna da
parte della difesa, il che è argomento assai grave da
fare indurre che la difesa medesima vedeva bene at
tribuita al Cairoli quella qualità. Ma senza dubbio il giuramento vuoisi ritenere sic
come prescrizione di ordine pubblico, e ben si dice che
il silenzio delle parti non basti a sanare la nullità ove
questa avvenga; sì che tutta la quistione si riduce a
vedere se il Cairoli vada equiparato ad un testimone, ovvero ad un querelante o denunziante con interesse
personale nel fatto, perciocché nel primo caso egli, a
pena di nullità, doveva giurare per espressa sanzione
dello invocato art. 297, e nel secondo caso se per vece
avesse giurato vi era luogo a nullità, giusta l'art. 289
del Codice di procedura penale. È principio stabilito dallo art. 1 del Codice di rito
penale che ogni reato dà luogo ad un'azione penale e
può dar luogo ad un'azione civile pel risarcimento del danno arrecato.
Sanziona il susseguente art. 3 che l'azione civile ap partiene al danneggiato, e nello art. 569 del medesimo Codice è prescritto che nelle sentenze penali si con danneranno gli imputati od accusati ed i responsabili civili, se vi ha luogo, al risarcimento dei danni verso la parte civile e verso qualunque altro danneggiato, ancorché non si fosse costituito parte civile.
Finalmente è stabilito nello art. 104 del medesimo
sana la nullità derivante dal fatto del testimone il quale, non dovendo
giurare, nondimeno giuri ; ma non quella derivante dalla omessa pre stazione per parte del testimone capace di giurare. Lo stesso principio ha sanzionato recentemente la Cassazione di Torino con la sentenza 27 febbraio 1879, che riproduciamo nella nota seguente.
(1) Come fu avvertito nella nota a col. 99 del presente volume, la Cassazione di Napoli con la sentenza 7 marzo 1864 aveva ritenuto non esser sufficiente ad escludere dalla prestazione del giuramento la sola
qualità di danneggiato, se non vi concorre altresì quella di querelante o denunciante. Ma da questa massima, che, come è indicato nella ci tata nota, è accolta generalmente nella giurisprudenza, la Cassazione di Napoli ha receduto con posteriori sentenze, secondo essa medesima ci avverte nella importante decisione che annotiamo. Che anzi con la sentenza 7 febbraio 1877, ric. Cipullo, quel supremo Collegio stabilì che i figli dell'ucciso, benché non denunziami, sono sempre parti lese, che nulla hanno di comune con i testimoni i quali sono chiamati a
giurare, e che non si può quindi,senza sconoscere i vincoli del sangue, chiamarli in dibattimento e far loro prestare giuramento in qualità di testimoni (V. Massime di giurisprudenza generale della Corte di Cassazione di Napoli, raccolte da G. Calabria, anno 1877, pag. 22).
Tra le più recenti sentenze di altre Corti nelle quali è stabilito che la parte lesa che non sia denunziante debba essere intesa con giura mento, va ricordata quella della Cass. di Torino, 27 febbraio 1879, ric. Marcora, riportata nel Giornale dei trib. di Milano, a. c., n. 59, pag. 236, ove è pure stabilito che la relativa nullità non è sanata dal silenzio delle parti. « Attesoché (ivi) la sola qualità di parte lesa non dispensa i testimoni dall'obbligo di prestar giuramento, se con essa non concorre quella'pur anche di querelanti o denunzianti, e tali non essendo i tre testimoni prenominati, ne consegue che i medesimi non altrimenti potevano essere sentiti che previo loro giuramento, e che l'inosservanza di tale importantissima formalità è tale da viziare l'intero giudizio, essendo il giuramento dei testimoni prescritto sotto pena di nullità (art. 297, proc. pen.), senza che questa possa dirsi sa nata dal silenzio delle parti, potendo questo giovare nel caso soltanto in cui siasi deferito il giuramento a chi non era in obbligo di pre starlo, e ciò perchè in questo trattasi solo dell'interesse delle parti, cui queste possono rinunciare, mentre invece nel primo caso l'inte resse pubblico esige che le deposizioni dei testimoni seguano con tutte le maggiori garanzie possibili di verità, e siano conseguentemente nulle e di nessun effetto, se non furono fatte sotto il vincolo del giu ramento ».
(2-3) Giurisprudenza costante.
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121 GIURISPRUDENZA PENALE 122
Codice che ogni persona la quale si pretenderà offesa
o danneggiata da un reato potrà portarne querela avanti l'autorità designata dalla legge.
Or, premessi codesti legislativi precetti, non si può in genere vedere in colui che è stato ferito, tuttoché
per errore, una persona indifferente e scevra di preoc
cupazione nel dramma giudiziario svolto innanzi alle
Assise, quale indiscutibilmente convien che si presuma che sia, nello interesse soprattutto dello stesso accusato,
nei giudizi penali, chi vi deve esser chiamato siccome
testimone. Contro l'onorevole Cairoli l'accusato non
ebbe intenzione di ferire (è forza ritenerlo dopo la sen
tenza della Sezione di accusa), ma pure malgrado ciò
il Cairoli fu ferito nel reato perpetrato contro la sacra
persona del Re. Egli adunque da quel reato fu offeso
e danneggiato, e perciò gli competeva lo sperimento
dell'azione civile, la rivalsa del danno, il diritto alla
querela. Cosi è che bene il pubblico ministero gli dava
la caratteristica di parte offesa, e bene innanzi alle As
sise come tale era esaminato senza giuramento, in ob
bedienza dello art. 289 di sopra rammentato.
La obbiezione poi che il Cairoli in fatto non fu que
relante, perchè di uffizio venne esaminato dal consi
gliere della Sezione di accusa delegato per la istruzione,
non ha alcun valore, avendo questo supremo Collegio
ritenuto costantemente il principio che la potenzialità
alla querela fa considerare querelante quegli che sul
reato è chiamato a dichiarare. In molteplici rincontri
il Collegio regolatore ha emesso sentenze di annulla
mento ognora che, contro le istanze delle parti, si è
obbligato al giuramento chi nel reato aveva diritto di
sporgere querela-o che avesse potuto risguardarsi come
denunziante interessato personalmente nel fatto: valga
tra i più recenti arresti rammentare quello del 20 lu
glio 1877 nel ricorso di Nolfi.
Sui mezzi aggiunti. — Considerato che il primo dei
cennati mezzi si riferisce alla formolazione dell'unica
quistione sommessa alla votazione dei giurati e da co
storo affermata.
La doglianza può ripartirsi in tre proposizioni:
a) Si è snaturato il concetto dello art. 153 del Co
dice penale, relativo al reato di attentato contro la
sacra persona del Re, quando alla intenzione nello agente
di ucciderà si è alternativamente aggiunta la intenzione
solo di ferire;
b) Si è moncamente proposta la quistione, tosto
che si è obliato di domandare ancora ai giurati se
l'agente giunse a dar principio ad un atto qualunque
di esecuzione nel crimine di attentato.
Subordinatamente, se pure tale estremo del reato
dovevasi dai giudici togati proclamare, nella quistione
mancano gli elementi di fatto atti a farlo ritenere;
e) Si è violato l'art. 494 del Codice di procedura
penale, riformato dalla legge degli 8 giugno 1874, quando
la quistione è stata proposta difformemente dalla sen
tenza e dall'atto di accusa, i quali ritennero nello agente
la volontà omicida e non già la volontà soltanto di
ferire.
Subordinatamente, della ipotesi sulla volontà di fe
rire occorreva formolare quistione apposita, e non
fondere la ipotesi medesima nella stessa quistione in
ctii pur parlasi di volontà omicida;
Considerato che facile sia la soluzione della prima
disputa, perciocché, o che voglia uccidersi o che voglia
ferirsi la sacra persona del Re, si avrà sempre indu
bitatamente il reato preveduto dallo art. 153 del Co
dice penale. È unanime la opinione dei giuristi che
chiunque voglia violare in qualsiasi modo la integrità
della sacra persona del Re commetta il reato di at
tentato preveduto dalla citata disposizione di legge.
Una prova poi irrecusabile che il legislatore nel vo
cabolo attentare vuol significare qualunque azione che
tenda a ledere in qualsiasi guisa la incolumità della
persona vien posta dallo art. 528 del Codice penale,
ove è detto che la premeditazione consiste nel disegno
formato pria dell'azione di attentare ad una persona.
Ora nel foro e nella scuola non si è menomamente
dubitato che l'attentare dallo art. 528 si riferisca a
qualsiasi reato che offenda la incolumità personale,
sia l'omicidio, sia la ferita, sia ancora la percossa, ed
anzi è questo un esplicito concetto legislativo, come
dagli articoli 526, 540, 543, alinea, 545 e 550, ultimo
alinea, del Codice penale. Sarebbe illogico attribuire al
vocabolo stesso un diverso significato, allorché il me
desimo legislatore lo adopera nello art. 153;
Considerato che neppure ardua presentasi la solu
zione della seconda disputa, la quale si converte nel
l'altra - se cioè il definire se siasi dato principio ad un
atto qualunque di esecuzione di un crimine costituisca
più un indagine di diritto anzi che di fatto -, perciocché
è incontrastabile che nella prima ipotesi il presidente
della Corte di assise avrebbe disconosciuto l'attuale ar
ticolo 495 del Codice di rito penale, se avesse presen
tato nella quistione ai giurati una denominazione giu
ridica.
A risolvere il problema basti solo rammentare le
divergenze antiche, e forse tuttora perduranti tra i
cultori del giure penale, nel definire quali siano in un
reato gli atti meramente preparatori e quelli che co
stituiscano un principio di esecuzione; e se la materia
rientra nel dominio della scienza, la quistione è giu
ridica, e solo ai giudici togati si apparteneva di risol
verla, tenuto presente il verdetto.
Non si dica poi che il verdetto non porgeva gli ele
menti di fatto all'uopo necessari. Quando con l'affer
mativo monosillabo i giurati ritennero che Passanante
menò volontariamente colpi d'arme pungente e ta
gliente contro la sacra persona del Re, sia per uccidere,
sia solamente per ferire, bisognerebbe rinnegare la
ragione ed il senso giuridico il più volgare per non
vedere neppure un principio di atto qualunque di ese
cuzione in fatto cotanto eloquente e positivo. Né per
fermo il silenzio serbato nella quistione sulla direzione
dei colpi, se a parti vitali o non vitali, muta menoma
mente la ipotesi giuridica: perchè, siccome si è già di
mostrato, l'attentato sta anche quando si voglia ferire,
sia pure non mortalmente, la persona augusta del Re ;
Considerato che la terza disputa ricorda infinite di
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123 PARTE SECONDA 124
scussioni simili agitate al cospetto di questo medesimo
Collegio regolatore.
Sempre è stato ritenuto che al presidente delle as
sise, non ostante il disposto dell'attuale art. 494 del
Cod. di proc. pen., non sia vietato nelle quistioni di
presentare ai giurati il fatto principale di cui è accusa
sotto una modalità diversa, purché non si aggravi la
responsabilità del giudicabile, sempre che però i ri
sultati del dibattimento vi si prestino. Or nella specie, per fermo, la ipotesi della volontà di
ferire, comunque diversa da quella della volontà omi
cida ritenuta nella sentenza e nell' atto di accusa, non
aggravava la responsabilità dell'accusato, e anzi poteva
giovargli, perchè avrebbe più facilmente potuto dare
occasione al benefizio di circostanze attenuanti, se pure
la coscienza dei giudici popolari in reato di così su
prema importanza a quel benefizio potesse mai piegare. E che poi i risultati del dibattimento avessero offerto
al presidente della Corte di assise di discendere a quella
modalità, si ricava dal silenzio della difesa indi alla
lettura in udienza della quistione e dagli interrogatori
innanzi al presidente medesimo, confermati in pubblico
dibattimento, nei quali mutando linguaggio l'accusato
sostenne che egli non voleva uccidere il Re ma fargli
solo uno sfregio, e che se lo avesse voluto uccidere
avrebbe avvelenata la lama del suo coltello.
Corollario della idea premessa, di non costituire ipo
tesi di reato diverso e quindi di responsabilità diversa
quella della volontà di' ferire, si è che non vi ha vizio
alcuno se e questa ipotesi e l'altra della volontà di
uccidere veggonsi fuse in unico quesito ai giurati. Co
stantemente nelle Corti di assise, allorché si propone
la quistione di complicità secondo il n° 3° dell'art. 103
del Cod. di proc. pen., vi si comprende alternativamente
sia il caso dello sciente aiuto sia il caso della sciente
assistenza; ebbene, sempre questo Collegio regolatore
ha respinta la deduzione di complessità nella quistione,
appunto rilevando che e l'uno e l'altro caso menino
alla medesima responsabilità penale.
Non vi ha ragione nella causa presente di mutare
di giureprudenza basata su principi esatti di dritto;
Considerato che pel secondo mezzo aggiunto si so
stiene la violazione dell'art. 311 del Cod. di proc. pen.,
per la seguita lettura in dibattimento del rapporto del
Collegio dei cinque professori alienisti sullo stato men
tale dell'accusato, rapporto venuto fuori in seguito di
apposita istanza sporta dalla difesa al presidente delle
assise pria del dibattimento.
Anche codesta doglianza si ripartisce in tre propo
sizioni: а) Violato l'art. 311, perchè nel rapporto trovansi
riportati diversi brani di deposizioni scritte di testi
moni che erano stati già uditi in dibattimento, ma che
non avevano apportata variazione alcuna alla deposi zione scritta;
б) Violazione dell'art. 311, perchè nel rapporto sono riportate svariate risposte dell' accusato ai periti,
senza che costoro siano stati citati ad intervenire in
dibattimento ;
c) Violazione dell'art. 311, perchè i periti mede
simi non solo nel rapporto danno il giudizio loro ri
chiesto sullo stato delle facoltà mentali del giudicabile, ma si arbitrano di aggiungere il loro giudizio pure sulle
modalità dei fatti imputati al giudicabile. Sembra al ricorrente nei rilievi delle proposizioni
seconda e terza che i periti si mutino in veri testi
moni, e che come tali occorreva sentirli oralmente, non
leggere quanto essi avevano in iscritto dichiarato; Considerato che, innanzi tutto, riesce singolare lo at
tacco in esame, tosto che gli atti constatano che non
solo il P. M. ma la difesa stessa dell'accusato nella
sua lista a discarico chiese espressamente la lettura
di quello così importante documento, da essa doman
dato ed ottenuto.
Ma, checché sia di ciò, egli è opportuno sulla prima
proposizione ricordare ancora un'altra fiata la giure
prudenza di questa Corte di cassazione in tanti altri
rincontri, nei quali, come nella presente causa, è av
venuto che siansi lette deposizioni scritte di testimoni,
dopo la di costoro udizione in dibattimento.
Primieramente va rilevato che il verbale di dibatti
mento annesso agli atti non constata se quei testimoni
deposero uniformemente o difformemente alle dichia
razioni scritte, perchè ivi leggesi, in omaggio dell'ar
ticolo 317 del Cod. di proc. pen., che ciascun testimone
ha deposto sui fatti e circostanze della causa.
Ma, prescindendo da ciò, giova ripetere quanto in
altri arresti precedenti si è rilevato in diritto: che
cioè la mente del legislatore nel divieto sanzionato dallo
art. 311 sia stata quella di impedire che nei giudizi
penali i giudici del fatto ricevano le loro impressioni e basino la propria convinzione sulle prove testimo
niali scritte, anzi che su quelle orali.
Or quando il testimone ha deposto col vivo della voce
innanzi ai giudici, e poscia leggesi la sua dichiarazione
scritta, un dilemma non può sfuggirsi : se il testimone
è stato uniforme, la mente della legge nel divieto della
lettura della deposizione scritta vien meno, perchè già le impressioni nei giudici son formate sulle rese di
chiarazioni orali, e quelle scritte nulla aggiungono e
nulla tolgono; se per vece il testimone è stato difforme, ed allora il caso rientra appunto in una delle eccezioni
del divieto, e la lettura della dichiarazione scritta va
fatta per legge; Considerato che, relativamente alle altre due propo
sizioni, se senza un dubbio al mondo le diverse risposte dell'accusato riportate nella perizia sono relative ad
altrettante domande indirizzate dagli alienisti come
tanti esperimenti di fatto, i quali hanno poi sostanzial
mente servito al giudizio sulle facoltà mentali di lui, se i giudizi dati sulla modalità dei fatti imputati al
l'accusato indissolubilmente si connettono al giudizio sulla mente del giudicabile nei diversi stadi di sua vita, siccome appare incontrastabilmente dall' attenta lettura
di tutto il rapporto dotto e dettagliato e svolto in ben
quarantadue pagine, resta incomprensibile il concetto
messo in mezzo dal ricorrente che in quelle parti i periti cessino di esser tali ed assumano la veste di testimoni.
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125 GIURISPRUDENZA PENALE 126
I cinque professori, in seguito al solenne giuramento,
narrano, ragionano e giudicano sempre come periti ; il
loro rapporto perciò ben si chiese da ambo le parti
in giudizio di leggersi in udienza, ed il presidente di
sponendolo non fece che ubbidire all'art. 281, n. 2, del
Cod. di proc. pen. Ma vi ha di più: un sistema diverso di lettura, cioè
a brani, avrebbe reso poco comprensibile quel rapporto, ed i giudici del fatto non avrebbero avuto sott' occhio
tutti gli elementi necessari per dirlo o esatto od ine
satto; era adunque necessità imprescindibile di tutto
leggere.
Sotto ogni rapporto adunque inappuntabile si pre
senta cosi memorando giudizio allo esame sereno ed
imparziale del supremo Collegio, il quale, lungi di aver
ragione di censura, deve tributare plauso alla Corte di
merito pel procedimento strettamente legale serbato
in così grave rincontro; Per le quali ragioni, rigetta, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE DI FIRENZE. Udienza 29 gennaio 1879, Pres. Poggi, Est. Mori-Ubal
dini, P. M. Gloria — Ric. P. G. di Venezia c. N. C.
e L. A.
Libidine contro natura — Estremo dello scandalo —
Fatti che lo costituiscono — Indagine di fatto e
di diritto (Cod. pen., art. 425).
Vesaminare se i fatti ammessi costituiscono lo scan
dalo richiesto per la punibilità degli atti di libidine
contro natura involve una indagine di diritto de
ducibile in Cassazione.
Perchè lo scandalo sia elemento di criminosità basta,
che nasca immediatamente dal fatto, oggetto della
imputazione, indipendentemente dalla volontà del
colpevole di far mostra delle sue laidezze.
A costituire la pubblicità nei reati contro il buon co
stume basta l'essere il fatto avvenuto in luogo pub
blico, e la potenzialità di esser veduto da altri.
Laonde non toglie il carattere della pubblicità nè l'ora
inoltrata di notte, nè la tenebrosità, non togliendo
tali circostanze la possibilità di vedere.
La Corte, ecc. — Considerando che l'art. 425, Codice
penale sardo, disponga nella sua seconda parte : « Qua
lunque atto di libidine contro natura se non vi sarà
violenza, ma vi sarà intervenuto scandalo, o vi sarà
stata querela, sarà punito colla reclusione, e potrà la
pena anco estendersi ai lavori forzati per anni dieci,
a seconda dei casi »;
Considerando che l'esaminare se a senso di questa
disposizione di legge relativa al buon costume, e al
pubblico pudore, siano stati a ragione, o no, esclusi gli elementi giui'idicamente costituenti lo scandalo, involga una indagine deducibile alla Corte suprema;
Considerando che la denunziata sentenza, dopo avere
ritenuto in fatto che nella sera 14 giugno 1878 N. C.
e L. A. fossero stati veduti verso le ore 8 e mezza
pomeridiane transitare per il prato della Valle di Pa
dova in attitudine sospetta, e direttisi poi alla strada
di circonvallazione prossima alla porta S. Croce, attigua
a quella della caserma degli invalidi, compiere un atto
contro natura; e quindi, revocando la sentenza di primo
grado, dichiarava non esser luogo a procedere contro gli
appellanti, e ciò perchè la località predetta, quantunque
pubblica, era lontana dal movimento della popolazione,
specialmente nelle ore della sera; perchè in quella sera
il cielo essendo coperto di nubi rendevasi difficile l'uso
della facoltà visiva nel sito delle commesse laidezze,
e forse impossibile il discernerle a venti passi di di
stanza, per cui fosse a presumersi che' non potessero
essere osservate da chicchessia; e perchè infine, se
due testimoni eransi trovati presenti al fatto a soli
due passi di distanza, ed uniti poi ad altri due indi
vidui avevano potuto sorprendere gl'imputati, impos
sessandosi d'uno di essi, essendosi l'altro dato alla fuga,
questo era accaduto per avere i due primi testimoni,
venuti in sospetto., voluto tener dietro cautamente a
costoro, tutto appresso vedendo attraverso il foro d'una
siepe opportunamente allargato;
Considerando che all'effetto che lo scandalo figuri
come elemento di criminosità vuoisi che debba nascere
immediatamente dal fatto oggetto della imputazione,
indipendentemente dalla volontà del colpevole di far
mostra delle sue oscenità; ciò non suffragando, tutta
voltachè egli siasi posto in condizioni tali da produrre
alla morale pubblica quella offesa che ne determina la
pubblicità. E questo è lo scandalo che contempla il
predetto articolo, che, essendo stato immediata e ne
cessaria conseguenza del fatto ritenuto costante dalla
denunziata- sentenza, non poteva essere eliminato se
non violando manifestamente il senso giuridico di quella
disposizione ; Considerando che, quando anche pubblico dovesse es
sere lo scandalo, e cosi tale, come, a differenza dell'ar
ticolo 425 applicabile al caso, lo richiede l'art. 420 del
Codice stesso, il criterio giuridico della pubblicità del
fatto che aumenta lo scandalo non sarebbe escluso
dagli altri argomenti dedotti dalla denunziata sentenza.
Imperocché è indubitato che, dove un atto è compiuto in luogo pubblico, la pubblicità non cessa in ragione
del tempo notturno, per quanto l'ora fosse inoltrata,
e per quanto fosse tenebrosa la notte, essendovi sempre
possibilità di vedere (e nel caso in esame ciò appunto
avvenne), calcolandosi nei reati, alla cui specie appar
tiene quello che sopra, la potenza di vedere, e non la
effettiva veduta della moltitudine;
Considerando che fondato per conseguenza essendo
il ricorso interposto dal proc. generale, la denunziata
sentenza deve essere annullata; Per questi motivi, cassa, ecc.
CORTE DI CASSAZIONE DI TORINO. Udienza 13 marzo 1879, Pres. D'Agliano, Est. Talice,
P. M. Pozzi — Ric. Barbanti-Silva Filippo.
Amnistia — Reato punibile in concreto con pena
non eccedente sei mesi di carcere — Dichiara
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