Sezione II civile; sentenza 29 aprile 1982, n. 2709; Pres. Palazzolo, Est. Albanese, P. M. Catelani(concl. conf.); Lamanna (Avv. Coderoni, D'Agostino) c. Soc. Agnesi (Avv. Contaldi, Piccini).Cassa App. Genova 5 luglio 1979Source: Il Foro Italiano, Vol. 106, No. 5 (MAGGIO 1983), pp. 1381/1382-1385/1386Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23175525 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
getto pretermesso con la conseguenza che l'avviso dell'ordinanza di sospensione della procedura esecutiva non era idoneo a salva
guardare la posizione della banca. Questa, infatti, aveva il di ritto di ottenere la declaratoria d'inefficacia, perché avrebbe po tuto realizzare direttamente, ove fosse intervenuto in sede divi
sionale, sia che il bene ipotecato fosse pro quota attribuito al de bitore esecutato ovvero che la garanzia ipotecaria venisse trasfe
rita sul cespite (fondo rustico) allo stesso assegnato. Dal difetto di chiamata era avvenuta, pertanto, una lesione
del diritto dell'istituito la quale faceva scattare il suo interesse a
far accertare dal giudice il fatto generatore del pregiudizio la
mentato e ottenere la conseguente condanna dei condividenti al
relativo risarcimento.
Le anzidette considerazioni tolgono rilevanza ai mezzi secondo
e terzo di ricorso articolati in più censure con i quali, partita
mente, si sostiene: 1) l'istituto bancario non poteva cumulativa
mente richiedere l'inefficacia della divisione e il ristoro dei dan
ni; 2) in ogni caso difettava di interesse ad agire dal momento
che, essendo stata eseguita la vendita forzata, non era possibile
procedere a nuova divisione, essendovi ostacolo nel ricostituire la
massa; 3) la carenza di interesse era da ricondurre anche alla
circostanza che non era stato approvato il progetto di distribu
zione e, comunque, l'asserito danno sarebbe stato bensì' provo cato dalla banca, la quale non avrebbe ottemperato al disposto dell'art. 2825, 2° comma, c. c. che disciplina l'ipoteca su beni
indivisi. I motivi che, per connessione, è opportuno esaminare congiun
tamente non sono fondati.
Prima di procedere al loro esame è, tuttavia, necessario meglio puntualizzare l'iter del processo allo scopo di delimitare il thema decidendi e il decisum onde sgomberare il campo da ele menti ad essi estranei, e ricondurre le esposte censure e l'inda
gine relativa entro gli esatti confini del quid disputandum. Com'è dato evincere dagli atti processuali e dalla parte esposi
tiva, la Banca della provincia di Napoli a suo tempo richiese:
a) la declaratoria di inefficacia della divisione per non essere
stata l'istante posta in grado di prendervi parte attiva; b) pre messa tale declaratoria, la condanna dei condividenti e della Banca
nazionale del lavoro al risarcimento dei danni, quale equivalente economico di quanto avrebbe potuto essa istante realizzare ove
fosse stata chiamata ad intervenire alle operazioni divisionali,
equivalente indicato in lire 6.523.112.
Com'è di tutta evidenza, la prima domanda era strumental
mente collegata alla seconda, quale mezzo al fine.
Nessuna richiesta di rinnovo della divisione, di impugnativa della stessa per frode, e a fortiori di caducazione della vendita
forzata fu mai introdotta nel giudizio di merito neppure impli citamente.
II tribunale, in accoglimento della domanda, dichiarò ineffi
cace, ex parte qua, la divisione e, riconosciuta l'esistenza del la
mentato danno, ritenne non sufficientemente istruita sul punto la
causa, disponendo con separata ordinanza la prosecuzione del
processo dinanzi a sé.
Di questa sentenza, gravata da appello dal Sanseverino, l'isti tuto appellato si limitò a chiedere la conferma, e la corte di Na
poli, sugli stessi sostanziali presupposti della pronuncia di primo grado, respinse l'impugnazione.
Orbene, tali essendo i termini della controversia, è evidente l'ultroneità dei rilievi espressi nel ricorso per contestare l'interesse ad agire — in specie circa la possibilità o meno di rinnovare la divisione, sul fatto che il progetto di distribuzione non fosse
stato approvato e sull'osservanza, da parte dell'attuale resistente, del disposto di cui all'art. 2825 c. c.
I limiti delle censure sul dedotto difetto di interesse ex art. 100
c. p. c. vanno, infatti, stabiliti con puntuale riferimento all'og
getto della contestazione e delle statuizioni dei giudici di merito, con la conseguenza che l'interesse ad agire, nella fattispecie, de
ve essere considerato, esclusivamente, in rapporto al pregiudi zio economico dedotto dalla banca per non essere stata messa in
grado, in difetto della chiamata obbligatoria ex art. 1113, di
partecipare al giudizio di divisione e onde potere fare valere ivi
le proprie ragioni.
E anche il prospettato problema di un eventuale comporta mento omissivo dell'istituto di credito, in relazione al precetto di cui all'art. 2825 c. c., si pone come un elemento che il tribu
nale, investito dell'istruttoria sul danno (ora sospeso in attesa del
l'esito del presente ricorso), dovrà valutare in quella sede, tenuto
conto che il giudice di primo grado si è limitato, come si è visto,
ad una mera declaratoria iuris rimettendo le parti in prosieguo
per l'opportuna istruzione.
Fatte queste precisazioni, deve anzitutto sottolinearsi l'assoluta
inconsistenza della censura tratteggiata sub 1) in quanto, sul
piano strettamente processuale, non si scorge la ragione per cui la Banca della provincia di Napoli non potesse cumulare nello stesso giudizio le due domande tra loro collegate da un evidente nesso strumentale.
Del pari deve ritenersi fuori discussione l'interesse ad agire dell'istituto ora negato dal ricorrente.
Su questo profilo la corte d'appello ha reso una motivazione
adeguata al caso concreto ed esente da vizi logici e errori di diritto incensurabile, quindi, in sede di legittimità.
Ha osservato, infatti, che la prova di detto interesse era più che sufficientemente acquisita, perché era innegabile il diritto del l'istituto di richiedere, nella sede opportuna, la tutela del credito attraverso i mezzi consentitigli dalla legge (assegnazione di quo ta dell'immobile ipotecato al debitore, trasferimento dell'ipoteca sul terreno, ecc.), e che non si poteva contestare ex post la man cata possibilità del creditore di fare valere anche le proprie ra
gioni sul conguaglio in denaro.
E, con perspicua argomentazione, la corte ha rilevato che l'eventuale indimostrata possibilità di rimediare in sede esecutiva a quanto non era stato possibile fare nel giudizio di divisione
non eliminava l'interesse della parte a partecipare a quest'ulti mo, dovendosi l'attualità dell'interesse riferirsi al momento in cui
la tutela (nella specie la chiamata ad intervenire) viene accor
data dalla legge. Tutte le altre considerazioni svolte sono estranee al tema del
decidere e non hanno rilievo sulla decisione adottata contro le
quali si appuntano le censure del ricorrente.
Alla luce degli esposti rilievi il ricorso deve essere rigettato. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione II civile; sentenza 29 apri le 1982, n. 2709; Pres. Palazzolo, Est. Albanese, P. M.
Catelani (conci, conf.); Lamanna (Avv. Coderoni, D'Ago
stino) c. Soc. Agnesi (Avv. Contaldi, Piccini). Cassa App. Genova 5 luglio 1979.
Tributi in genere — Commissione tributaria — Patrocinio — Ra
gionieri — Disciplina (Cod. civ., art. 2233; d. p. r. 25 gennaio 1959 n. 42, approvazione della tariffa professionale dei ragionie ri e dei periti commerciali, art. 38).
Non contrasta col divieto di patto di quota lite l'art. 38 del re
golamento sulle tariffe professionali dei ragionieri per il patroci nio nelle controversie tributarie, alla cui stregua i compensi so
no liquidati in ragione percentuale del tributo risparmiato. (1)
Diritto. — Con il primo articolato motivo — con il quale denuncia erronea, contraddittoria e insufficiente motivazione cir
ca un punto decisivo della controversia, con violazione e falsa
applicazione dell'art. 38 d. p. r. 25 gennaio 1959 n. 42, dell'art.
2233, 3° comma, c. c., dell'art. 3 e dell'art. 14 disp. sulla legge
(1) Alla corte è stata prospettata la questione di legittimità di una
fonte secondaria — il regolamento sulle tariffe dei ragionieri — in
relazione all'art. 2233 c. c. La Cassazione ha ritenuto la legittimità del regolamento, in quanto l'art. 2233 c. c. riguarda il patto indivi
duale di quota lite, mentre il regolamento sulle tariffe professionali ha
carattere di generalità ed astrattezza, valevole per un numero indefini
to di rapporti col professionista. In questi termini non constano
precedenti. In altra occasione, con la sentenza 3 luglio 1971, n. 2073, Foro it., 1971, I, 2958, la corte dichiarò illegittime le norme contenu
te nel regolamento 8 aprile 1958 n. 520, approvazione della tariffa delle prestazioni professionali dei dottori commercialisti, poiché esse
violavano sia l'art. 2233 c. c., sia l'art. 47 d. p. r. 27 ottobre 1953 n.
n. 1067, delega al governo per la regolamentazione delle tariffe dei
professionisti intellettuali. Sulla natura regolamentare delle norme in materia di tariffe profes
sionali, v. Cass 24 aprile 1981, n. 2454, id., Rep. 1981, voce Profes sioni intellettuali, n. 65; Corte cost. 22 giugno 1976, n. 139, id., 1976, I, 2544.
La Cassazione con la sentenza in epigrafe ha inoltre precisato: a) che il compenso computato sul valore della pratica, ed in percentuale sull'imposta risparmiata dal contribuente al termine del giudizio non è in violazione del divieto di fatto di quota lite ma configura una
ipotesi di palmario; 6) il riferimento al valore della controversia costituisce un parametro per misurare sia l'importanza delle prestazio ni, ai sensi del 2° comma dell'art. 2233 c.c., sia l'apprezzamento per l'opera svolta dal professionista.
In tema di divieto di patto di quota lite, v. Cass. 20 gennaio 1976, n. 167, id., 1976, I, 1002.
In dottrina si veda Musatti, Palmario, voce del Novissimo digesto, XII, 345; Pezzano, Onorario, voce dell'Enciclopedia del diritto, XXX, 175.
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1383 PARTE PRIMA 1384
in generale, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5, c. p. c. — il
ricorrente chiede l'annullamento del capo della sentenza impu
gnata con il quale, per ritenuto contrasto con il divieto legislati vo del patto di quota lite (art. 2233 c. c.), è stata dichiarata
illegittima e in suo pregiudizio disapplicata la norma regolamen tare della tariffa professionale per i ragionieri e i periti commer
ciali (art. 38 d. p. r. 25 gennaio 1959 n. 42) per la quale l'attivi
tà di patrocinio davanti alle commissioni del contenzioso tributa
rio compiuta dal ragioniere e compensata mediante onorario
determinato, secondo percentuali decrescenti a scaglioni, « con
riferimento al valore della pratica misurato sull'imposta, tassa o
contributo risparmiato per effetto della definizione » dal cliente,
nell'attribuzione di tale onorario ravvisandosi appunto l'attribu
zione di parte del bene costituente l'oggetto della controversia
tributaria.
Deduce in relazione il ricorrente, anzitutto, che con più esatto
giudizio avrebbe dovuto riconoscersi, secondo la tesi da lui
sostenuta, che il divieto, sancito per i professionisti legali, di
stipulare patti relativi ai beni che formano oggetto della contro
versia per la quale il patrocinio è prestato non può operare
quando il professionista, in relazione a una domanda giudiziale intesa a conseguire per conto di un creditore insoddisfatto il
pagamento di una somma di denaro, abbia con il cliente conve
nuto un compenso in ragione di una percentuale dei pagamenti
realizzati, venendo ostativamente in rilievo al riguardo l'essenziale
« antonomastica » fungibilità del denaro, che fa apparire ar
tificioso l'implicito presupposto di quasi identificazione della mo
neta del compenso con quella del credito realizzato.
E certamente, riconosciuta, come il ricorrente sostiene doversi, la liceità di simile patto per il professionista legale, non può revocarsi in dubbio la legittimità della previsione della tariffa
per i ragionieri, per cui il compenso è ragguagliato all'importo del tributo, cioè al denaro, fatto risparmiare al cliente,
quand'anche si ammetta, nonostante la loro diversità per ragioni
soggettive e oggettive, la valutabilità con egual metro delle due
ipotesi.
Peraltro, indipendentemente dall'esame del suo contenuto, la
rilevata illegittimità della norma tariffaria è da escludere, secon
do ulteriore concorrente deduzione formulata con il motivo in
esame, perché il divieto del patto di quota lite, apportando limitazione alla generalmente garantita libertà contrattuale, ha
carattere eccezionale e non può in via analogica farsi operare oltre i limiti espressi e rigorosi di sua enunciazione, in particola re in confronto di soggetti diversi dai professionisti legali, ai
quali soltanto è testualmente riferito.
Sostiene poi il ricorrente, sotto diverso profilo, che nella as sunzione dell'importo del tributo fatto risparmiare al cliente a criterio per la determinazione del valore della controversia cui
adeguare la liquidazione del compenso non poteva e non può riconoscersi l'attribuzione al professionista (di una parte, o
quota) dei beni formanti oggetto della controversia medesima, cosi come ciò, pacificamente, non si riconosce nel caso in cui il valore anzidetto sia determinato con altro criterio, qual è, per i
professionisti legali, il riferimento alla domanda proposta o al
l'imposta, tassa o contributo richiesti, per le prestazioni in giudi zio o, rispettivamente, in materia stragiudiziale, operato da pre visioni legislative la cui compatibilità con il divieto del patto di
quota lite non è mai stata, e non può essere, messa in dubbio:
perché in ogni caso i beni formanti oggetto della controversia
vengono sempre egualmente in considerazione non per sé, nella loro materiale concretezza, ma invece, come parametro, per il loro valore, al fine della determinazione del valore della con troversia che li ha ad oggetto.
Deduce infine il ricorrente, sempre nell'ambito del primo mo tivo in esame, che comunque, per la decisione della particolare controversia, la rilevata illegittimità della norma tariffaria, quan do anche sussistente, avrebbe dovuto riconoscersi affatto priva di
effetto, perché il compenso a lui spettante era stato calcolato, e dal
collegio professionale liquidato, in base a previsione diversa da
quella negativamente apprezzata, con il diverso criterio del « ca so per caso», applicabile quando l'importo risparmiato superi la metà della pretesa tributaria, come appunto nella specie, con riferimento a diversi prestabiliti elementi (natura della pratica, importanza della stessa, responsabilità assunta dal professionista, benefìcio procurato al cliente, importanza della sede in cui il
professionista opera), indipendentemente dall'importo di tributo fatto risparmiare.
Cosi riferite le ragioni addotte a sostegno del primo motivo del ricorso, deve anzitutto osservarsi che la questione prospettata per ultima, di carattere preliminare e di potenziale rilievo as
sorbente, non può essere presa in esame, perché dopo essere
stata senza esito sottoposta al giudizio del tribunale non fu dal
ricorrente riproposta in appello, e non è oggetto di pronuncia contenuta nella sentenza impugnata. Ciò, anche a non tener
conto di ipotizzabile preclusione da giudicato interno, comporta che per la parte considerata il ricorso difetta di qualsiasi riferi
mento a un giudizio di cui si chieda il controllo sotto il profilo della legittimità; difetta cioè di un presupposto (di ammissibili
tà) nel caso invece essenziale, dato che con esso non si prospet ta una questione di mero diritto, liberamente deducibile per la
prima volta in sede di cassazione. Invero la proposta indagine sulla applicabilità e sulla effettiva correttamente attuata applica zione dell'uno o dell'altro criterio di liquidazione degli onorari
professionali del ragioniere, in relazione alle diverse previsioni della norma di tariffa, comporta la verificazione della ricorrenza
dell'una o dell'altra situazione cui ciascuna previsione è correlata
e dei modi di calcolo e di liquidazione dei discussi onorari: si
che in realtà inammissibilmente si chiede un giudizio su fatti
invece riservato alla competenza del giudice del merito.
Ciò premesso si osserva che, oltre alla risalente giustificazione
collegata al disfavore verso il commercio di beni attualmente
oggetto di controversia in giudizio e alla considerazione della
posizione di particolare vantaggio al riguardo del patrocinatore della controversia, il sancito divieto del patto di quota lite ha
certamente tra i suoi presupposti essenziali l'esigenza della sog
gezione a uniforme disciplina, garantita da preventivi controlli
pubblicistici, dell'aspetto patrimoniale del rapporto, di normale
necessaria costituzione, tra cliente e patrocinatore, a concorrente
tutela del primo (per tradizione, parte debole) e della dignità e
moralità della categoria dei professionisti legittimati al patroci nio, e quindi indirettamente a tutela del singolo patrocinatore, nonché, ancora e soprattutto, a tutela della funzione giurisdizio nale, ad evidenza suscettibile di pregiudizievole compromissione
per effetto di apporti di difesa che, in contrasto con l'istituziona
le scopo di collaborazione, siano effettivamente o potenzialmente, o anche soltanto appaiano, viziati da innaturale commistione di
interessi personali diversi, per la natura e l'oggetto, da quelli coerenti a un adeguato svolgimento del patrocinio.
Cosi non è dato alle parti del rapporto di patrocinio di
validamente volere (solo contestualmente alla costituzione del
rapporto, peraltro, o nel suo corso) la particolare deroga alle
normali modalità, qualitative, di determinazione del compenso,
questo assumendosi a oggetto negoziale di limitata disponibilità, tanto che, in qualche modo correlativamente, per prestazioni
legali giudiziali, la deroga è espressamente inibita anche sotto
l'aspetto quantitativo, per ciò che attiene ai minimi di tariffa
(art. 24 1. 18 giugno 1942 n. 794), per analoga, se pur non del
tutto identica, ragione di tutela della categoria professionale, e,
indirettamente, della funzione giurisdizionale.
Coessenziale alla nozione di quota lite, per la giuridica rile
vanza agli effetti del divieto sancitone, è pertanto, in uno con
l'elemento oggettivo, quello soggettivo: per cui il divieto opera quando, e soltanto quando, ricorra la particolare deroga, per singoli rapporti di patrocinio, alla generale disciplina data nel
l'ordinamento, per l'aspetto patrimoniale, a tali rapporti, e, in
sieme, simile deroga abbia origine pattizia, da apposita conven zione posta in essere, nei già indicati limiti temporali, tra il
patrocinatore e il cliente, per il singolo rapporto considerato.
Ciò posto, per un verso sembra che di deroga a una disciplina generale, nel senso che qui rileva, non possa parlarsi con riferi mento a una tariffa professionale, approvata dalla competente autorità governativa e avente natura di atto amministrativo rego lamentare, che per tutti i rapporti di patrocinio degli apparte nenti alla categoria, relativi a specificata materia controversa, stabilisca i criteri di determinazione dei compensi, con carattere di generalità, eguaglianza e astrattezza, cosi' essa stessa ponendo per i rapporti considerati una autonoma comune disciplina, cui, per la fonte e il modo di realizzazione, mal si addice un
raffronto, per il controllo di legittimità, con la norma civili stica di divieto del patto individuale di quota lite; e, per altro
verso, è certo che l'adozione dell'anzidetta tariffa per la discipli na di un singolo rapporto non integra né presuppone la stipula zione di una singolare individua convenzione, che per la validità
possa essere apprezzata in base al metro del sancito divieto del
patto di quota lite.
Peraltro, più attenta rinnovata lettura della norma di tariffa della cui applicazione si controverte consente di escludere che
per essa si violi il divieto di quota lite.
La norma invero, come si è detto, prevede, a compenso del
l'opera di patrocinio in controversia tributaria, prestata davanti alle competenti commissioni, un onorario « determinato con rife rimento al valore della pratica » « computato sull'ammontare del
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
l'imposta risparmiata conseguentemente allo decisione », con ap plicazione di diverse percentuali (di minimo e di massimo) de crescenti per scaglioni di valori crescenti.
In relazione, certamente non è censurabile, sotto il profilo che
qui interessa, l'operato riferimento al valore, in denaro o tradot to in denaro, della pratica, o controversia, alla cui stregua è ad evidenza apprezzata la « importanza dell'opera prestata » cui, enunciando i criteri per la determinazione del compenso del
professionista, fa riguardo l'art. 2233, 2° comma, c. c.: perché
eguale riferimento è fatto dal legislatore per la tariffa dei pro fessionisti legali (art. 3, 5 e 9 1. 13 giugno 1942 n. 794, e
richiami, ivi, delle norme del codice di procedura civile in tema di determinazione del valore della causa).
E parimenti non è censurabile l'adottato criterio di calcolo
dell'onorario mediante variabili percentuali espressamente indica
te, perché ad evidenza analogo rapporto di proporzionalità può essere istituito, con facile calcolo successivo, per ogni compenso in denaro ragguagliato a un valore espresso egualmente in dena
ro, variabile in relazione al variare del valore di riferimento,
quale è appunto il compenso legislativamente previsto per la
categoria dei professionisti legali (art. 19 1. n. 794 del 1942; note ai § III, IV e V della tabella A § li, nn. 37 e 38, della
tabella B, allegate alla medesima legge).
L'assunzione, poi, a valore della controversia, per la deter
minazione dell'onorario del ragioniere, del valore del risultato
utile per il cliente della controversia medesima, anzi che di
quello (peraltro, di norma, maggiore) della pretesa tributaria
contestata — la « domanda » alla quale secondo la previsione dell'art. 9 1. n. 794 del 1942 è fondamentalmente ragguagliato l'onorario dovuto dal cliente al professionista legale — non
comporta, ad evidenza, l'attribuzione in un caso, e non invece
nell'altro, di una quota del bene che forma oggetto della contro
versia, perché comunque sempre a un medesimo bene, per una
sua parte o per la totalità, si ragguaglia la misura dell'onorario.
E del resto, con previsione di indiscussa legittimità, variandosi
rispetto a quella originaria ricordata, le tariffe per i professioni sti legali successivamente emanate (da ultimo quella approvata con d. m. 26 settembre 1979, all'art. 6) fanno anch'esse riferi
mento, per la determinazione dell'onorario dovuto dal cliente al
professionista, al valore del concreto risultato della causa, piut tosto che a quello della domanda, in conformità a quanto è
previsto per la liquidazione dell'onorario a carico della parte soccombente.
Né, infine, può opinarsi che, in base alla tariffa per i ragio
nieri, il diritto del professionista a conseguire compenso di ono
rario per le prestazioni in controversia tributaria sia condizionato
e subordinato all'esito utile per il cliente della controversia me
desima, e che, pertanto, possa restare priva di quel compenso
l'opera prestata in controversia definita sfavorevolmente, senza
quell'utile esito: e invece deve aversi per certo che in tali casi al
ragioniere competano gli « onorari per prestazioni varie di con
cetto » previste dall'art. 15 della medesima tariffa per attività
di seguito non specificamente contemplate, tra le quali appunto
deve indubbiamente ritenersi compreso il patrocinio in contro
versia tributaria sfavorevolmente definita, non contemplato dal
l'art. 38 della tariffa in quanto in esso si ha riguardo all'imposta
risparmiata.
Si che il più elevato onorario in questa norma previsto si
giustifica considerando che per essa si attribuisce al professioni sta una integrazione di compenso per apprezzamento concreto
del vantaggio conseguito dal cliente mercé la sua prestazione, con criterio analogo a quello legislativamente accolto nei riguar di dei professionisti legali (art. 5 1. n. 794 del 1942): e per ciò
sembra più pertinente al caso il riferimento al tradizionale istitu
to del palmario, che ha certo legittima cittadinanza nell'ordina
mento, restando comunque esclusa l'ipotizzata assimilazione al
non consentito patto di quota lite.
Merita appena, in ultimo, rilevare che le concorrenti conside
razioni esposte fanno apparire priva affatto di fondamento la
ravvisata disparità di trattamento tra professionisti legali e ra
gionieri, e non configurabile l'illegittimità della norma di tariffa
in esame per contrasto con il principio di eguaglianza sancito
dall'art. 3 Cost.
In accoglimento quindi, nei termini risultanti dalla premessa
motivazione, che dà sufficiente fondamento alla decisione adotta
ta, consentendo di prescindere da ulteriori deduzioni del primo
mezzo del ricorso sin qui esaminato, la sentenza impugnata, che
dalla disciplina del caso sottoposto ha avuto errata comprensione
pervenendo a ingiusta decisione, deve essere integralmente cassa
ta, con statuizione per cui resta assorbito l'esame del secondo
mezzo, con il quale si censurano sotto diversi profili i criteri
adottati dal giudice del merito per la liquidazione del discusso
onorario, a seguito della affermata inapplicabilità della particola re previsione di tariffa; e la causa va rinviata, per rinnovato
giudizio conforme ai principi identificati ed enunciati, alla Corte
d'appello di Torino.
CORTE DI CASSAZIONE; Sezione 1 civile; sentenza 14 aprile 1982, n. 2222; Pres. Sandulli, Est. Scanzano, P. M. Leo
(conci, conf.); Istituto mobiliare italiano (Avv. Zito, Scia
luca) c. Fall. soc. D. C. Servos (Avv. Cersosimo, Mari
netti). Conferma Trib. Asti, decr. 5 marzo 1981.
Ipoteca — Terzo acquirente del bene ipotecato — Interessi —
Responsabilità — Limiti (Cod. civ., art. 1193, 1194, 2855).
Il terzo acquirente del bene ipotecato non risponde degli interessi
che, ai sensi dell'art. 2855 c. c., devono ritenersi sottratti alla
prelazione perché relativi ad annualità non assistite dalla ga ranzia (nella specie, è stato escluso che il creditore, avendo già realizzato nell'ambito della procedura fallimentare a carico del
debitore quanto era ricompreso nella garanzia ipotecaria, potesse pretendere dal terzo le ulteriori somme relative agli interessi di
annualità non garantite, imputando, ex art. 1193 e 1194 c.c., il pagamento coattivo già conseguito agli interessi esclusivi della
garanzia). (1)
Svolgimento del processo. — La IBI s.p.a., a garanzia di un
finanziamento di lire 730.879.000 accordato alla IB Mei s.p.a. dall'Istituto mobiliare italiano, concesse a quest'ultimo ipoteca su
vari immobili agricoli civili ed industriali siti in comune di Asti.
Una parte di tali immobili venne poi trasferita dalla IB Mei
(che intanto ne era divenuta proprietaria per avere incorporato la IBI) alla s.p.a. D.C. Servos.
Dichiaratosi dal Tribunale di Asti, con distinte sentenze del 6
ottobre 1977, il fallimento della IB Mei e della D.C. Servos,
l'I.M.I, oltre ad insinuare il proprio credito nel fallimento IB
Mei, presentò domanda di ammissione al passivo anche nel
fallimento della s.p.a. D.C. Servos per l'identico credito di lire
952.858.949, per residuo capitale ed interessi dal 1° gennaio 1977, oltre agli ulteriori interessi dalla data del fallimento in
poi, ai sensi degli art. 54 e 55 1. fall, e 2855 c. c., facendo
valore la garanzia cui la detta ultima società era tenuta quale terza acquirente di beni ipotecati. Il giudice delegato ammise il
credito in via di prelazione ipotecaria in conformità della ri
chiesta.
(1) Non constano precedenti specifici in termini. La corte, tuttavia, non ha avuto la benché minima difficoltà ad adattare la soluzione già prescelta da Cass. 30 marzo 1981, n. 1815, Foro it., Rep. 1981, voce
Ipoteca, n. 10 e 3 dicembre 1979, n. 6282, id., Rep. 1980, voce
Fallimento, n. 255, relativamente alla responsabilità del terzo datore
d'ipoteca, alla fattispecie del terzo acquirente. Se si ammette dunque l'operatività dei limiti di cui all'art. 2855
c. c. nei confronti del terzo datore, a fortiori — afferma il collegio — tale limite varrà per l'acquirente dei beni ipotecati, in quanto la sua responsabilità è ancor meno autonoma rispetto a quella del terzo datore, avendo titolo esclusivamente nell'iscrizione del vincolo ipoteca rio (sui limiti della responsabilità del terzo acquirente nel caso di
espropriazione promossa nei suoi confronti, cfr. anche Cass. 9 no vembre 1959, n. 3312, id., Rep. 1961, voce Ipoteca, n. 14; e per il caso di pagamento volontario, Cass. 5 gennaio 1967, n. 47, id., 1967, I, 994).
Sull'applicabilità dei criteri di imputazione ex art. 1193 e 1194 c.c. soltanto ai pagamenti volontari, valendo, per quelli coattivi, le regole legali della graduazione, v., oltre le sentenze già citate, Cass. 2 marzo
1976, n. 688, id., Rep. 1976, voce Obbligazioni in genere, n. 34, nonché 24 agosto 1962, n. 2646, id., Rep. 1962, voce Pagamento nelle
obbligazioni, n. 7. In dottrina, nel senso della limitazione della responsabilità del terzo
alla sola somma iscritta (più gli accessori ex art. 2855), anche se
mipore del credito, v. Rubino, L'ipoteca immobiliare e mobiliare, in
Trattato, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1956, sia nel caso di
espropriazione (p. 427), sia in quello di pagamento integrale (p. 446);
analogamente Gorla, Pegno. Ipoteca, in Commentario, a cura di
Scialoja e Branca, 1963, 391; Tamburrino, Delle ipoteche, in Com
mentario Utet, 1976, libro VI, tomo III, 271; Maiorca, Ipoteca (dir.
civ.), voce del Novissimo digesto, 1963, IX, 100; Degni, Tutela dei
diritti, in Commentario D'Amelio e Finzi, 1943, 763. Non v'è invece unanimità di consensi sull'operatività della limita
zione di responsabilità nel caso assimilabile del terzo datore: favore
vole alla soluzione accolta in giurisprudenza (v. le sentenze sopra
cit.) è Rubino, op. cit., 476; contrario è invece Gorla, op. cit., 391.
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