sezione lavoro; sentenza 4 novembre 2000, n. 14426; Pres. Trezza, Est. Vidiri, P.M. Pivetti(concl. conf.); Fagà (Avv. C. e M. Miletto) c. Twa-Trans World Airlines Inc. (Avv. Marazza).Conferma Trib. Napoli 5 maggio 1998Source: Il Foro Italiano, Vol. 124, No. 3 (MARZO 2001), pp. 945/946-951/952Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23196478 .
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
Il diverso modo di prodursi dell'effetto non toglie che all'ori
gine v'è lo stesso fenomeno di programmazione di quel mede
simo effetto, che deve essere tradotta in atto scritto, perché l'ef
fetto è rappresentato dal trasferimento della proprietà di un bene
immobile. 3.2.3. - La terza ipotesi, quella che tra le parti sia concluso un
contratto di mandato ed il mandante dia procura al mandatario,
anziché la prevalenza di uno dei due principi enunciati all'ini
zio, ne richiama l'applicazione congiunta, che si traduce dunque nella necessità dell'atto scritto per la procura, ma nella libertà di
forme quanto al mandato.
La forma scritta della procura a vendere, seguita dal contratto
concluso dal rappresentante, parimenti per iscritto, è in grado di
assolvere alla funzione di far acquistare al terzo il bene vendu
togli e di realizzare un programma in cui il proprietario ha con
sentito.
La regolamentazione dei rapporti nascenti dal mandato non
necessita di forma scritta, perché la base della disciplina della
vicenda traslativa sta nella procura. 4.1. - La giurisprudenza della corte sembrerebbe avere sin qui
seguito un principio di diritto diverso. La motivazione delle sentenze in tema di forma del mandato
riproduce non infrequentemente l'enunciato, poi ripreso nelle
massime, per cui «il mandato, con o senza rappresentanza, per concludere un negozio per il quale sia richiesto, ad substantiam,
l'atto scritto, deve essere rilasciato per iscritto a pena di nulli
tà».
Questa formula è presente nella motivazione della sentenza 9
febbraio 1965, n. 211 (Foro it., Rep. 1965, voce Mandato, n.
4), che dichiara di riprenderla dalle precedenti sentenze 30 otto
bre 1956, n. 4074 (id., Rep. 1956, voce cit., n. 60), e 22 ottobre 1959, n. 3024 (id., Rep. 1959, voce cit., n. 23); ritorna nelle sen
tenze 23 ottobre 1965, n. 2217 (id., Rep. 1966, voce cit., n. 6);
13 dicembre 1978, n. 5939 (id., Rep. 1979, voce cit., n. 5), e 19 novembre 1982, n. 6239 (id., Rep. 1983, voce cit., n. 4).
Se non che il suo significato non sta nell'imporre la forma
scritta per il contratto di mandato, anche quando al mandatario
sia stata conferita procura per iscritto, ma nell'estendere la stes
sa necessità di forma scritta, prevista per la procura a vendere
od acquistare un bene immobile, al contratto di mandato non ac
compagnato da procura conferita per iscritto.
La sentenza richiamata per prima, all'enunciato che si è ri
prodotto fa seguire queste considerazioni: «La difesa dei ricor
renti trova erroneo il richiamo dell'art. 1392 c.c., in quanto, es
sendo esso dettato per la rappresentanza diretta e cioè per il
mandato con rappresentanza, non può valere per il mandato
senza rappresentanza. Sennonché, come è stato osservato in
dottrina e in giurisprudenza, nell'un caso o nell'altro, si ha pur
sempre che il mandante trasferisce al mandatario il potere di
manifestare per conto suo il proprio consenso; sicché, ove per il
negozio da compiersi sia richiesto l'atto scritto, anche il trasfe
rimento del potere ad attuare la volontà del mandante deve farsi
ugualmente per iscritto. In sostanza, la volontà che dà vita al
mandato è la stessa che dà vita al negozio giuridico, che per conto del mandante, il mandatario dovrà compiere. Ed allora, se
per questa è necessaria la forma scritta, anche l'atto con il quale il mandante dichiara la sua volontà deve essere rivestito della
medesima forma. Si tratta, in sostanza, dell'applicazione di una
regola comune (necessità dell'atto scritto per le convenzioni
relative ad immobili) che si trae da molteplici disposizioni (art. 1351, 1392, 1403) per cui, sussistendo V eadem ratio, il vigore della forma si impone anche nella rappresentanza indiretta. Da
ciò la conferma del principio che, pur in mancanza di una norma
espressa relativa al mandato senza rappresentanza, il mandato
stesso sia rivestito della forma scritta. E se ciò vale per il man
dato ad acquistare, lo stesso è a dirsi per l'ipotesi inversa del
mandato ad alienare in nome proprio beni immobili, dovendosi
scorgere nel mandato il mezzo per far acquistare al mandatario
la titolarità del bene, premessa indispensabile per l'esplicazione del potere di alienare».
Conviene aggiungere, che nel caso allora deciso, non era stata
conferita procura, come non lo era stata, in base alla motivazio
ne delle decisioni edite, nei casi in cui sono state pronunciate le
sentenze 23 ottobre 1965, n. 2217, 13 dicembre 1978, n. 5939, e
19 novembre 1982, n. 6239.
Così come conviene considerare che, quando è data procura
per iscritto, già per effetto di questa è trasferito al mandatario il
Il Foro Italiano — 2001.
potere di manifestare al terzo il consenso del mandante alla
vendita.
4.2. - Analogo è l'orientamento di larga parte della dottrina.
5.1. - Le considerazioni appena svolte rendono ragione del ri
getto del primo motivo.
La corte d'appello, al comportamento del nipote, che si è av
valso del potere rappresentativo conferitogli con la procura ed
ha venduto gli immobili, ha attribuito la portata di consentire
con la volontà manifestata dalla zia nella procura, che le fosse
reso il conto dell'operazione e perché il consenso fosse valido e
ne scaturisse l'obbligo non era necessario, per quanto si è visto,
che la volontà del nipote fosse manifestata per iscritto.
5.2. - Il secondo motivo è infondato già per la ragione che le
parti non avevano chiesto al giudice che fosse loro assegnato un
termine per indicare il nome delle persone da far interrogare: nel
motivo non se ne fa menzione.
Sicché il giudice poteva rigettare l'istanza, in applicazione dell'art. 244 c.c., senza dover spiegare perché non riteneva di
avvalersi del potere di assegnare il termine.
6. - Il ricorso è rigettato.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione lavoro; sentenza 4 no
vembre 2000, n. 14426; Pres. Trezza, Est. Vidiri, P.M. Pi
vetti (conci, conf.); Fagà (Avv. C. e M. Miletto) c. Twa
Trans World Airlines Inc. (Avv. Marazza). Conferma Trib.
Napoli 5 maggio 1998.
Lavoro (rapporto di) — Licenziamento — Impugnazione —
Secondo licenziamento — Conseguenze (L. 20 maggio 1970 n. 300, norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di
lavoro e norme sul collocamento, art. 18; 1. 11 maggio 1990 n.
108, disciplina dei licenziamenti individuali, art. 1).
Al datore di lavoro è consentita la reiterazione del licenzia
mento dichiarato nullo per vizio di forma o per altro vizio
procedurale, a ciò non essendo di ostacolo la necessità della
sussistenza del requisito della tempestività del recesso, men
tre la reiterazione stessa, se il vizio da cui è inficiato il primo
licenziamento riguarda la configurabilità della giusta causa o
del giustificato motivo, è consentita solo se basata su nuova
ragione giustificatrice, altrimenti essendo preclusa dal giudi
cato, o, se non si è ancora pervenuti alla formazione di que st'ultimo, dovendosi procedere, a seconda della situazione
processuale in cui si versa, o alla riunione dei procedimenti, o alla dichiarazione di litispendenza, o alla sospensione del
secondo giudizio, salva sempre, nelle more, l'esperibilità della procedura cautelare. (1)
Il licenziamento dichiarato illegittimo (nella specie, per inos
servanza delle garanzie di cui all'art. 7, 2° comma, l. 20
maggio 1970 n. 300) non estingue il rapporto di lavoro, sul
quale quindi possono avere definitivo effetto estintivo diffe
renti cause sopravvenute, tra cui un successivo recesso che
diviene privo di causa a seguito della pronunziata legittimità del primo licenziamento. (2)
(1-2) Tra le decisioni di legittimità più recenti, cfr., in senso confor
me, circa la reiterabilità del licenziamento nullo per vizio di forma o
altro vizio procedurale e sull'irrilevanza del principio di tempestività con riguardo ai fatti contestati, Cass. 23 giugno 1999, n. 6408, Foro it.,
Rep. 1999, voce Lavoro (rapporto), n. 1784; 6 settembre 1995, n. 9386,
id., Rep. 1995, voce cit., n. 1530; cfr., però, Cass. 19 agosto 1991, n.
8908, id., Rep. 1992, voce cit., n. 1681, per la quale, premessa la reite
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PARTE PRIMA 948
Nel caso in cui, dopo un primo licenziamento, ne sia intervenuto
altro non tempestivamente impugnato, il giudice, chiamato a
pronunziarsi sulle conseguenze del primo licenziamento, di
chiarato illegittimo, deve limitarsi alla condanna del datore
di lavoro, ai sensi dell'art. 18 l. n. 300 del 1970, quale sosti
tuito dall'art. 1 l. 11 maggio 1990 n. 108, al risarcimento dei
danni subiti dal dipendente nel periodo corrente tra il primo ed il secondo licenziamento, salva in ogni caso l'indennità
minima di cinque mensilità, ma non può ordinare la reinte
grazione nel posto prima occupato del lavoratore, cui quindi non compete neppure il diritto all'indennità sostitutiva di cui
all'art. 18, 5° comma, l. n. 300, cit., introdotto dall'art. 1 l.
n. 108, cit. (3)
rabilità di un precedente licenziamento nullo, in punto di tempestività deve trovare applicazione il criterio della relatività, rispetto alla quale l'indagine del giudice di merito, per escludere l'immediatezza, deve es
sere mirata alla ricerca di elementi o di situazioni oggettive tali da in
dividuare in essi la volontà del datore di lavoro di non irrogare sanzio
ni, oppure da rendere incompatibile il provvedimento con la stabilità del rapporto (per lo stato della questione, anche con riguardo alla pre cedente, contrastante giurisprudenza, cfr. M. D'Onghia, Il licenzia mento disciplinare, in AA.VV., Diritto del lavoro. Commentario diretto da F. Carino, III. Il rapporto di lavoro subordinato: garanzie del red
dito, estinzione e tutela dei diritti a cura di M. Miscione, Torino, 1998, 341 ss.).
Secondo Cass. 16 aprile 1994, n. 3633, Foro it., Rep., 1994, voce
cit., n. 1371, la rinnovazione, che, risolvendosi nel compimento di un
negozio diverso dal precedente, esula dallo schema dell'art. 1423 c.c.
(sull'impossibilità della convalida di un contratto nullo), è possibile an che se non sia ancora avvenuta la reintegrazione del lavoratore colpito dal primo licenziamento ed anche se la questione della validità di que sto sia ancora sub iudice.
Circa la possibilità di intimare nuovo licenziamento, dopo un prece dente licenziamento intimato per ragioni sostanziali, solo per diversa causa giustificatrice, cfr., in senso conforme, Cass. 15 gennaio 1996, n.
281, id., Rep. 1996, voce Cosa giudicata civile, n. 22; 18 novembre
1994, n. 9773, id., Rep. 1995, voce Lavoro (rapporto), n. 1412, e, per esteso, Riv. it. dir. lav.. 1995, II, 662, con nota di M. Caro, Rinnova
zione del licenziamento in base a fatti già conosciuti, ma non contesta
ti, dal datore di lavoro al momento dell'intimazione del primo licen
ziamento poi annullato; cfr. altresì Vobiter dictum in Cass. 25 ottobre
1997, n. 10515, Foro it., Rep. 1998, voce cit., n. 1744, e, per esteso, Giust. civ., 1998, I, 1387, con nota di M. Cattani, Sul licenziamento
illegittimo e sulla reintegrazione di un lavoratore subordinato ex art. 18 l. n. 300 del 1970 (con consequenziale diritto al risarcimento dei
danni) e sulla facoltà del datore di lavoro di esercitare lo «ius varian di» in sede di assegnazione del posto di lavoro', invece, secondo Pret. Roma 19 novembre 1997, Foro it., Rep. 1999, voce cit., n. 1920, il li cenziamento reiterato, quando è ancora sub iudice la legittimità del
primitivo recesso datoriale, è nullo perché privo di causa. Circa l'inidoneità del licenziamento illegittimo, soggetto al regime
della stabilità reale, ad estinguere il rapporto, e circa la mera sospen sione della prestazione dedotta nel sinallagma fino a quando il provve dimento del giudice, che disponga la reintegrazione del lavoratore nel
posto di lavoro, non ripristini la situazione materiale antecedente al li
cenziamento, cfr. Cass. 10515/97, cit., in via di obiter dictum; 19 no vembre 1987, n. 8540, id., Rep. 1988, voce cit., n. 1900.
(3) Nell'escludere, con la sentenza in epigrafe, che possa ordinarsi la
reintegrazione nel posto di lavoro di cui all'art. 18 1. 20 maggio 1970 n.
300, quale modificato dalla 1. 11 maggio 1990 n. 108, la Corte di cassa zione fa applicazione ad un'ipotesi di ragione giuridica ostativa alla
reintegrazione, riguardo alla quale non si rinvengono precedenti negli esatti termini, di principi più volte enunciati relativamente al caso di
sopravvenuta cessazione totale dell'attività aziendale: cfr. Cass. 6 ago sto 1996, n. 7189, Foro it., Rep. 1996, voce Lavoro (rapporto), n. 1560, e 13 febbraio 1993, n. 1815, id., Rep. 1993, voce cit., n. 1580; nella
giurisprudenza di merito, cfr., ad es., Trib. Milano 4 ottobre 1997, id.,
Rep. 1998, voce cit., n. 1753. Giova rimarcare, quanto all'esclusione anche del diritto all'indennità
sostitutiva della reintegrazione affermata da Cass. 14426/00, in epigra fe, sulla scorta di Cass. 13 agosto 1997, n. 7581, id., 1997,1, 2799, e 21 dicembre 1995, n. 13047, id., 1996, I, 2155 (e Mass. giur. lav., 1996, 76, con nota di G. Mannacio, Gli effetti della «revoca» del licenzia mento sul risarcimento ex art. 18, 4° comma, statuto dei lavoratori e sulla indennità in luogo della reintegrazione), entrambe con nota di ri chiami, la prima riguardante un caso di lavoratore reintegrato a seguito di provvedimento ex art. 700 c.p.c., e la seconda un'ipotesi di ripristino di funzionalità del rapporto mediante revoca del licenziamento, che, appunto in caso di revoca senza tale ripristino, la Corte di cassazione sia orientata in senso opposto: cfr. Cass. 12 giugno 2000, n. 8015, Foro it., Mass., 724; 16 ottobre 1998, n. 10283, id., 1999, I, 121, con nota di richiami.
Il Foro Italiano — 2001.
Motivi della decisione. — 1. - Con il primo motivo il ricor
rente addebita alla sentenza impugnata la disapplicazione del di
sposto di cui al 1° comma dell'art.. 18 1. n. 300 del 1970, come
modificato dalla 1. 11 maggio 1990 n. 108, e conseguente viola
zione del disposto di cui al 5° comma. In particolare, sostiene il
ricorrente che dalla declaratoria di illegittimità del licenzia
mento non poteva che scaturire anche la declaratoria di reinte
gra del lavoratore licenziato nel suo posto di lavoro. Precisa al
riguardo il Fagà che, anche a volere ritenere che l'esistenza di
un nuovo atto risolutorio può incidere sul piano dell'entità del
risarcimento (nel senso che quest'ultimo potrebbe ritenersi li
mitato al solo intervallo temporale tra recesso annullato e suc
cessivo atto estintivo), in nessun caso detto atto può però impe dire l'emanazione da parte del giudice dell'ordine di reintegra, cui è ricollegato il diritto potestativo del lavoratore di optare per l'indennità sostitutiva della reintegra stessa ex 5° comma del
l'art. 18 statuto dei lavoratori; diritto sul quale in nessun modo
possono interagire le eventuali cause di ineseguibilità dell'ordi
ne di reintegra. Con il secondo motivo il ricorrente deduce falsa applicazione
del combinato disposto degli art. 1325, 1418 e 2119 c.c. e 18 1.
20 maggio 1970 n. 300, nonché omesso esame di un punto deci
sivo della controversia, consistente nell'eccezione di illegitti mità costituzionale della presunta «norma vivente» posta dal
tribunale di Napoli a principale fondamento della sua decisione
(eccezione sollevata all'udienza di discussione). In particolare sostiene il ricorrente che la conclusione data dal tribunale alla
fattispecie in esame non è condivisibile, in quanto l'opinione secondo cui il lavoratore che abbia già impugnato il licenzia
mento intimatogli abbia poi l'onere — sempre a pena di deca
denza — di riformulare per la seconda volta la propria impu
gnazione conterrebbe una grave «zona d'ombra». Ed invero, una volta risolto il rapporto di lavoro con un primo licenzia
mento, un secondo recesso non sarebbe più sorretto da alcuna
causa perché non potrebbe avere alcun effetto pratico. Ed inve
ro, l'annullabilità del licenziamento, secondo l'esplicita formu
lazione usata dal legislatore, attesta che il recesso privo di moti
vazione è valido ed efficace (seppure claudicante) ma sottoposto alla condizione che non sia stata esercitata l'azione di impugna zione (o che la stessa sia stata dichiarata infondata), sicché, avendo il primo recesso già prodotto l'effetto della risoluzione
del contratto, il secondo è privo di causa o, a tutto concedere, è
sottoposto alla condizione che sia esperita e che abbia esito po sitivo l'azione di annullamento. Per di più l'interpretazione del
tribunale presenterebbe l'inconveniente di risultare in contrasto
con il principio della parità tra i lavoratori atteso che — risol
vendo il licenziamento illegittimo il rapporto di lavoro solo nel
l'ambito dell'area della tutela reale — solo il dipendente cui si
applica la tutela forte sarebbe costretto ad un onere di doppia
impugnazione a pena di decadenza, in violazione così del dispo sto degli art. 3 e 24 Cost.
Con il terzo motivo il ricorrente denunzia omesso esame di un
punto decisivo della controversia. Deduce che il tribunale non
ha tenuto conto che il secondo licenziamento doveva conside
rarsi nullo perché era stato determinato da motivi illeciti, per avere la società richiamato in detto atto gli addebiti posti a base
del primo licenziamento, inducendo in tal modo esso ricorrente
a considerare inutile una seconda impugnazione. 2. - I tre motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per
importare la risoluzione di questioni tra loro strettamente con
nesse, vanno rigettati perché privi di fondamento.
Ai fini di un ordinato iter motivazionale appaiono necessarie
alcune precisazioni sulla ripetizione del licenziamento, cui il
datore di lavoro, in caso di applicabilità della tutela reale, ricor
In tema di mancato invito a riprendere servizio rivolto dal datore di lavoro al dipendente che, ottenuta sentenza di reintegrazione nel posto, abbia optato per l'indennità sostitutiva, cfr. Cass. 1° settembre 2000, n.
11464, id., 2000,1, 3105, con nota di richiami, e Mass. giur. lav., 2000, 1320, con nota di N. De Marinis, Esercizio tardivo dell'opzione ex art.
18, 5° comma, statuto dei lavoratori e «perpetuatio» dell'obbligo di
reintegra. In dottrina, per problemi applicativi vari in tema di indennità sostitutiva della reintegrazione, cfr. le sintesi di A. Niccolai, in
AA.VV., I licenziamenti. Commentario a cura di O. Mazzotta, 2a ed., Milano, 1999, 834 ss., e di L. Ioele, in AA.VV., Diritto del lavoro. Commentario diretto da F. Carinci, IH. Il rapporto di lavoro subordi
nato, cit., 245 ss.
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
re frequentemente con l'intimazione di un secondo licenzia
mento nelle more del giudizio sul primo o anche dopo la senten
za, non passata in giudicato, che ne abbia riconosciuto l'invali
dità. Questa corte ha affermato che un licenziamento nullo per vi
zio di forma o per altro vizio procedurale può essere (anche più
volte) reiterato per le stesse ragioni poste a base del primo li
cenziamento e nel rispetto della forma e della procedura in pre cedenza violati, non potendo costituire ostacolo a detta reitera
zione la necessità della sussistenza del requisito della tempesti vità del recesso, dovendosi tale tempestività esclusivamente ri
ferirsi non già ai fatti contestati ma alle vicende che impongono il rinnovo ed alla mancanza di inerzia del titolare del potere di
sciplinare (cfr., al riguardo, Cass. 6 settembre 1995, n. 9386,
Foro it., Rep. 1995, voce Lavoro (rapporto), n. 1530, cui adde,
per lo stesso orientamento, tra le tante, Cass. 16 aprile 1994, n.
3633, id., Rep. 1994, voce cit., n. 1371, che ribadisce che l'inef ficacia di un licenziamento irritualmente intimato, impedendo l'estinzione del rapporto di lavoro, rende ammissibile la reitera
zione di un secondo recesso per gli stessi motivi). 3. - Se il vizio da cui è inficiato il primo licenziamento è, in
vece, sostanziale per riguardare la configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo, il nuovo licenziamento è con
sentito solo se basato su di una nuova ragione giustificatrice, concretizzantesi in una diversa condotta inadempiente del lavo
ratore o in una diversa ragione attinente all'organizzazione aziendale (cfr., al riguardo, ex plurimis, Cass. 25 ottobre 1997,
n. 10515, id., Rep. 1998, voce cit., n. 1744; 15 gennaio 1996, n.
281, id., Rep. 1996, voce Cosa giudicata civile, n. 22; 18 no
vembre 1994, n. 9773, id., Rep. 1995, voce Lavoro (rapporto), n. 1412), mentre, se il licenziamento è reiterato per lo stesso
motivo già ritenuto insufficiente dal giudice, il nuovo giudizio è
precluso dal formarsi del giudicato sul punto o, se ancora non si
è pervenuto alla sua formazione, dovrà, in ragione della situa
zione processuale in cui si versa — e come si è avuto occasione
di puntualizzarsi in dottrina —, procedersi o alla riunione neces
saria dei procedimenti, o alla dichiarazione di litispendenza o,
infine, alla sospensione del secondo giudizio, e facendo sempre salva nelle more l'esperibilità della procedura cautelare.
4. - Orbene, nel caso di specie la società, essendo venuta a
conoscenza di nuove infrazioni dopo l'intimazione del licen
ziamento, ben poteva procedere ad emettere un successivo
provvedimento di risoluzione del rapporto lavorativo, contra
riamente a quanto dedotto dal ricorrente, che ha sostenuto, inve
ce, la nullità di tale provvedimento. Ed invero, il licenziamento dichiarato illegittimo (nella fatti
specie in oggetto, per inosservanza delle garanzie previste dal
l'art. 7, 2° comma, statuto dei lavoratori), non estingue il rap
porto lavorativo, che invece sopravvive con l'ulteriore conse
guenza che su tale rapporto possono avere un definitivo effetto
estintivo diverse cause sopravvenute (quali, ad esempio, dimis
sioni, morte del lavoratore, nuovo licenziamento non tempesti vamente impugnato).
Va ricordato al riguardo che, per la disciplina posta dall'art.
18 statuto dei lavoratori, il licenziamento illegittimo non è ido
neo ad estinguere il rapporto di lavoro al momento in cui è stato
intimato, determinando unicamente una sospensione della pre stazione dedotta nel sinallagma a causa del rifiuto del datore di
lavoro di ricevere la prestazione stessa, sino a quando, a seguito del provvedimento di reintegrazione del giudice, non venga ri
pristinata la situazione materiale antecedente al licenziamento
stesso (cfr., al riguardo, tra le altre, Cass. 25 ottobre 1997, n.
10515; 19 novembre 1987, n. 8540, id., Rep. 1988, voce cit., n.
1900, e, da ultimo, sempre per l'inidoneità del licenziamento
illegittimo ad estinguere il rapporto lavorativo, Cass., sez. un.,
27 luglio 1999, n. 508/SU, id., 1999,1, 2818). Solo la pronunziata legittimità del licenziamento rende privo
di causa il successivo recesso per essersi il rapporto lavorativo,
su cui esso dovrebbe incidere, già estinto (cfr., sul punto, Cass.
22 aprile 1976, n. 1428, id., Rep. 1976, voce cit., n. 820, cui ad
de, in epoca meno risalente, Cass. 16 maggio 1994, n. 4757, id.,
Rep. 1994, voce cit., n. 1606, per la rilevanza del giudicato di
legittimità del primo licenziamento nel giudizio diretto a far
valere l'illegittimità del secondo recesso).
5. - Né ha fondamento la pretesa del lavoratore di ottenere nel
caso di specie l'ordine da parte del giudice di uno specifico
provvedimento di reintegra, da ricollegarsi necessariamente nel
II Foro Italiano — 2001.
l'area della tutela reale ad ogni declaratoria di illegittimità del
licenziamento.
Ed invero, contrariamente a quanto ritiene il ricorrente, un
siffatto ordine deve ritenersi precluso —
pur nei rapporti stabili,
garantiti cioè dalla tutela reale — ogniqualvolta sopravvengano,
dopo l'impugnativa di licenziamento, per fatti non imputabili al
datore di lavoro, ragioni di carattere oggettivo (ad esempio, morte del lavoratore; cessazione dell'attività imprenditoriale per il venir meno del complesso aziendale, ecc.) o ragioni mera
mente giuridiche (ad esempio, conseguimento del diritto a pen sione allorquando non risulti provato che il lavoratore versi
nelle condizioni previste dalla legge per l'esercizio del diritto di
opzione; soppressione a seguito di procedura di mobilità del po sto a cui dovrebbe essere reintegrato il lavoratore licenziato,
sempre che non sia possibile una sua diversa utilizzazione), che
ostano all'accoglimento della chiesta reintegra, dovendo in tali
casi il giudice limitarsi alla sola condanna risarcitoria sino al
momento della sopravvenuta causa estintiva del rapporto. Ne consegue che, nel caso in cui, dopo un primo licenzia
mento, ne sia intervenuto altro, non tempestivamente impugna
to, il giudice, chiamato a pronunziarsi sulle conseguenze del
primo licenziamento, dichiarato illegittimo, deve limitarsi alla
condanna dei danni subiti dal lavoratore nel periodo corrente tra
il primo ed il secondo licenziamento, con esclusione di qualsiasi risarcimento per il periodo successivo, salva in ogni caso l'in
dennità minima di cinque mensilità. Lo stesso giudice non può,
invece, ordinare ex art. 18 statuto dei lavoratori la reintegra nel
posto di lavoro, essendosi il rapporto lavorativo ormai definiti
vamente estinto per effetto della mancata impugnativa del se
condo provvedimento di recesso.
Una siffatta conclusione si pone in linea con quanto già sta
tuito, in una fattispecie analoga a quella in oggetto, da questa
corte, che ha infatti riconosciuto alla cosiddetta tutela risarcito
ria, prevista dall'art. 18 statuto dei lavoratori per il caso di li
cenziamento illegittimo, un carattere autonomo rispetto a quella
ripristinatoria, contemplata dal 1° comma della summenzionata
norma, così da potere essere riconosciuta anche al dipendente che (non voglia o) non possa ottenere la reintegra nel posto di
lavoro (cfr., in tali sensi, Cass. 13 febbraio 1993, n. 1815, id.,
Rep. 1993, voce cit., n. 1580, secondo cui, qualora nelle more
del giudizio promosso dal lavoratore si verifichi un accadimento
che renda impossibile per causa non imputabile ad una delle
parti ai sensi degli art. 1256 e 1463 c.c. la reintegrazione —
come avviene in caso di cessazione totale dell'attività aziendale — il giudice, che accerti l'illegittimità del pregresso licenzia
mento, non può disporre la reintegra, dovendosi limitare ad ac
cogliere la sola domanda di risarcimento del danno con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della
sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto). 6. - L'impossibilità di una pronunzia giudiziaria reintegrato
ria comporta il venir meno del diritto del lavoratore all'inden
nità sostitutiva di cui al 5° comma dell'art. 18 1. 20 maggio 1970 n. 300, introdotto con la 1. n. 108 del 1990.
Questa corte ha già statuito che, in caso di licenziamento e di
successiva impugnazione dello stesso in sede giurisdizionale, ove la funzionalità di fatto del rapporto sia stata —
prima della
sentenza che dichiari l'illegittimità del licenziamento — ripri stinata dal datore di lavoro (tramite revoca del disposto licen
ziamento), non può più essere riconosciuto il diritto del lavora
tore licenziato all'indennità pari a quindici mensilità di retribu
zione, che detto lavoratore ha la facoltà di chiedere al datore di
lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro
(cfr., in tali sensi, Cass. 13 agosto 1997, n. 7581, id., 1997, I,
2799; 21 dicembre 1995, n. 13047, id., 1996, I, 2155). A soste
gno di tale statuizione la corte ha posto l'assunto che la scelta
del lavoratore alla monetizzazione del posto di lavoro, correlan
dosi ad una obbligazione con facoltà alternativa, della quale
l'unico oggetto è costituito dalla reintegrazione, presuppone ne
cessariamente l'attualità dell'obbligo di reintegrazione, per cui
la richiesta stessa non può essere accolta quando il lavoratore
abbia già ripreso servizio, manifestando pertanto in tal modo (e
confermando con la prosecuzione dell'attività lavorativa) una
volontà incompatibile con la rinunzia alla prosecuzione del rap
porto implicita nel suddetto potere di scelta (cfr., ancora, Cass.
13 agosto 1997, n. 7581, e 21 dicembre 1995, n. 13047). 7. - Dalla qualificazione dell'obbligazione datoriale ex 5°
comma dell'art. 18 statuto dei lavoratori come obbligazione con
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PARTE PRIMA 952
facoltà alternativa dal lato del creditore lavoratore, qualificazio ne condivisa anche dai giudici delle leggi (cfr., infatti, Corte
cost. 4 marzo 1992, n. 81, id., 1992, I, 2044, per la testuale af
fermazione che «anziché la prestazione dovuta in via principale, cioè la reintegrazione nel posto di lavoro, il creditore ha facoltà
di pretendere una prestazione diversa di natura pecuniaria, che è
dovuta solo in quanto dichiari di preferirla, e il cui adempi mento produce, insieme con l'estinzione dell'obbligazione di
reintegrare il lavoratore nel posto, la cessazione del rapporto per
sopravvenuta mancanza dello scopo»), consegue che in tutti i
casi in cui — come quello oggetto della presente controversia —
l'obbligazione reintegratoria sia divenuta impossibile per causa non imputabile al datore di lavoro, non è dovuta neanche
l'indennità sostitutiva in esame.
È noto che nell'obbligazione alternativa sono dovute due (o
più) prestazioni ma solo un adempimento (duae, vel plures res
sunt in obligatione, una autem in solutione), mentre nell'obbli
gazione facoltativa (o con facoltà alternativa) è invece dovuta
una prestazione, con facoltà di scelta di altra prestazione da
parte del debitore (obbligazione facoltativa passiva) o da parte del creditore, come nel caso di specie (obbligazione facoltativa
attiva) (una res in obligatione, duae autem in facultate solutio
nis). La distinzione tra questi due diversi tipi di obbligazione si
manifesta soprattutto in materia di impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Ed invero, mentre nell'obbligazione alternativa l'impossibi lità sopravvenuta di una delle prestazioni, non imputabile alle
parti, converte l'obbligazione alternativa in obbligazione sem
plice, con l'effetto di concentrare il suo oggetto nell'altra pre stazione ancora possibile (art. 1288 c.c.), nell'obbligazione fa
coltativa invece, che configura una obbligazione semplice per essere dovuta una sola prestazione, se detta prestazione diviene
impossibile, l'obbligazione stessa si estingue, senza che abbia
alcuna rilevanza la possibilità di esecuzione della prestazione rimessa alla facoltà del debitore, e rimanendo travolta la facoltà
di scelta del creditore che non sia già stata esercitata.
Per concludere sul punto, va, dunque, ribadito che, resasi im
possibile la reintegra nel posto di lavoro, il lavoratore non può
pretendere l'indennità sostitutiva ex 5° comma dell'art. 18 sta
tuto dei lavoratori, per essersi estinta l'obbligazione gravante sul datore di lavoro. (Omissis)
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza 3 otto
bre 2000, n. 13062; Pres. Annunziata, Est. Felicetti, P.M.
Gambardella (conci, diff.); F. De Ferri (Avv. Fiocca, Ge
niola, Leone) c. P. De Ferri (Avv. Varano, Fantini). Cassa
App. L'Aquila 4 novembre 1997.
Adozione e affidamento — Adozione ordinaria — Vizi del consenso — Annullamento — Pubblico ministero — Legit timazione — Esclusione — Intervento obbligatorio —
Estremi (Cod. civ., art. 296, 306; cod. proc. civ., art. 70,
354).
Il pubblico ministero non è legittimato a proporre l'azione di
annullamento dell'adozione (ordinaria) per vizio del consen
so, ma deve obbligatoriamente intervenire nel giudizio; per tanto, deve essere cassata la sentenza pronunciata in esito a
procedimento d'appello nel quale il pubblico ministero non sia intervenuto e, comunque, non sia stata disposta alcuna
comunicazione a detto ufficio. (1)
(1) I. - Sulla sufficienza, per l'osservanza delle norme che prevedo no l'intervento obbligatorio del p.m. nel processo civile, della comuni
II Foro Italiano — 2001.
Motivi della decisione. — (Omissis). 3. - Il p.g. presso questa corte ha dedotto in udienza che, trattandosi di causa nella quale era stata chiesta la dichiarazione di nullità di un'adozione per vizio del consenso dell'adottante, vertendosi in materia attinente
allo stato delle persone, a norma dell'art. 70 c.p.c. era richiesto
l'intervento obbligatorio in causa del p.m. Essendo questo man
cato in entrambi i gradi del giudizio, ha chiesto la cassazione
della sentenza con la rimessione degli atti al giudice di primo
grado.
cazione degli atti all'ufficio di tale organo, per consentirgli di interve nire nel giudizio, v. Cass. 3 marzo 2000, n. 2381, id., Mass., 284; 19
gennaio 2000, n. 571, ibid., 50 (in tema di querela di falso); 10 novem bre 1999, n. 12456, id., Rep. 1999, voce Pubblico ministero civile, n. 1
(relativa ad una fattispecie in cui si lamentava che il p.m. era rimasto assente dallo svolgimento della fase istruttoria di un procedimento di ammissibilità dell'azione ex art. 274 c.c. e se ne inferiva la conseguen za della nullità dello stesso); 4 giugno 1996, n. 5119, id., Rep. 1996, voce cit., n. 4.
Tali sentenze rilevano che la concreta partecipazione del p.m. al pro cedimento della cui esistenza è stato ufficialmente informato (ad esem
pio, formulando richieste anche istruttorie e conclusioni) è rimessa alla sua diligenza, e non è pertanto necessario informarlo della data delle
singole udienze ovvero degli atti formatisi nel procedimento. Pertanto non rileva, né può in alcun modo essere oggetto di censura e motivo di nullità processuale, il modo dell'intervento di tale organo e l'uso fatto del potere di intervento a lui attribuito (e quindi anche l'eventuale iner zia totale del p.m.).
II. - Nei giudizi civili per i quali sia obbligatorio l'intervento del
p.m. la legittimazione alla partecipazione al giudizio di gravame appar tiene esclusivamente all'ufficio del p.m. presso il giudice ad quem, e non all'ufficio presso il giudice a quo: v. Cass. 14 gennaio 1998, n.
261, id., Rep. 1998, voce Perizia penale, n. 19 (per esteso, Giust. civ., 1998, I, 1306, in tema di impugnazione del provvedimento di liquida zione del compenso al perito del p.m.); 27 luglio 1998, n. 7352, Foro
it., Rep. 1998, voce Pubblico ministero civile, n. 2; 23 aprile 1998, n.
4179, ibid., voce Impugnazioni civili, n. 118.
Inoltre, nelle cause di separazione personale dei coniugi, l'art. 70, 1°
comma, n. 2, c.p.c., sull'obbligatorietà dell'intervento del p.m., trova
applicazione fino a quando sia in discussione il vincolo matrimoniale, e non anche, pertanto, nel giudizio d'appello, ove inerente ai soli rapporti patrimoniali; v. Cass. 24 febbraio 1997, n. 1664, id., Rep. 1997, voce Pubblico ministero civile, n. 8.
III. - Sulla non rilevabilità di ufficio in ogni stato e grado del proces so della nullità della sentenza derivante dalla mancata partecipazione del p.m. al giudizio di primo grado, nei procedimenti in cui sia pre scritto l'intervento in causa di tale organo, in quanto tale vizio si con
verte, ex art. 158 e 161 c.p.c., in motivo di impugnazione, che può esser fatto valere soltanto nei limiti e secondo le regole dell'appello, v. Cass. 23 febbraio 2000, n. 2073, id., Mass., 254 (in tema di brevetti).
IV. - Sulla nullità della sentenza di primo grado, conseguente alla mancata partecipazione del p.m., in causa nella quale ne è obbligatorio l'intervento ai sensi dei nn. 2, 3 e 5 dell'art. 70 c.p.c., pronunciata dal
giudice d'appello, e sull'obbligo per questi di trattenere la causa presso di sé e deciderla nel merito, senza possibilità di rimetterla al primo giu dice, v. Cass. 27 gennaio 1997, n. 807, id., Rep. 1997, voce cit., nn. 5, 7
(per esteso, Giust. civ., 1997,1, 1276), richiamata dalla sentenza in ras
segna. La nullità in parola non si estende agli atti anteriori alla deliberazio
ne della sentenza nulla, validamente formatisi anche senza la partecipa zione del p.m., in quanto ai fini di tale partecipazione è sufficiente che
egli spieghi intervento all'udienza di discussione innanzi al collegio: v. Cass. 15 novembre 1997, n. 11338, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 6; 27 gennaio 1997, n. 807, cit.
La mancata partecipazione del p.m. (sempre in violazione dell'art.
70, nn. 2, 3, 5, cit.) in fase d'appello, investe, interamente, tale grado di
giudizio nonché la sentenza pronunciata alla sua conclusione, trattando si di vicenda attinente alla regolare costituzione del rapporto proces suale: v. Cass. 10 giugno 1998, n. 5756, id., Rep. 1998, voce cit., n. 3
(la sentenza rileva che, a fronte di tale nullità, non può in contrario «le
gittimamente invocarsi una presunta (ma in realtà insussistente) modi fica del citato art. 70 quale effetto dell'entrata in vigore della 1. n. 74 del 1987 che, all'art. 23, si è soltanto limitata ad estendere, ai giudizi di
separazione, le regole di cui all'art. 4 1. n. 898 del 1970, senza alcun ri ferimento all'intervento del p.m. (definito, per converso 'obbligatorio' nel successivo art. 5). Ne consegue la necessità di rinnovare l'intero
giudizio d'appello, con l'intervento obbligatorio del p.m., non essendo
ipotizzabile il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, stante l'effetto conservativo dell'impugnazione a suo tempo ritual mente e tempestivamente proposta»).
V. - Sull'incostituzionalità dell'art. 70 c.p.c., nella parte in cui non
prescrive l'intervento obbligatorio del p.m. nei giudizi tra genitori natu rali che comportino «provvedimenti relativi ai figli», nei sensi di cui
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