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ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO - GUBBIO C/O SANTA MARIA AL CORSO
La lettera settimanale di Don A.M.Fanucci 7 ottobre 2018 www.ilgibbo.it
CHIESA E POVERI, UN AMORE LUNGO E PROBLEMATICO
(A. M. FANUCCI, PRO MANUSCRIPTO. LEZIONI ALLA LUMSA-GUBBIO, ANNO 1999 )
Cap. 12
Nella chiesa della prima parte del SECOLO BREVE
(1914-1958)
TRE PAPI VENUTI DAL PASSATO (VI)
Don Angelo M. Fanucci, Canonico Penitenziere e Rettore di Santa Maria al
Corso.
Comunità di Capodarco dell’Umbria. Residenza per disabili “Pierfrancesco”,
Via Elba 47, 06024 Gubbio (Pg) 075 922 11 50
XXVII domenica del tempo ordinario 07.10.2018
Gubbio Chiesa S. Maria dei Servi – Sabato 6 ottobre 2018 Lectio Divina alle ore 15.30
PIO XI: IL FUTURO È TUTTO NEL PASSATO
14.1.4 In tempo di guerra: la sporca guerra di Libia
Col primo Trattato di Losanna (1912) avrebbe dovuto finire la
contesa fra la Turchia e l‘Italia a proposito della collocazione
internazionale della Libia: la Turchia conservava la sovranità
formale sulla Libia, ma all'Italia toccava il controllo, anche militare,
della fascia costiera tra Zuara e Tobruk.
Ma, già prima che fosse firmato, il trattato era stato violato: il 28 settembre 1911 infatti il
nostro ambasciatore a Istanbul aveva consegnato di persona alla Sublime Porta un
ultimatum con il quale s’imponeva agli Ottomani di “dare gli ordini che occorrevano a
che l'occupazione militare della Tripolitania e della Cirenaica non incontrasse, da parte
loro, alcuna opposizione". Inizialmente il Gran Visir si rifiutò di leggerlo, ma il governo
turco fu estremamente accomodante, anche se rispose ad ultimatum scaduto.
***
La conquista italiana della Libia prese il via tra il 4 e il 5 ottobre 1911 con gli sbarchi delle
truppe italiane, rispettivamente a Tobruk e Tripoli: 35.000 uomini, saliti poi a 100.000 nei
mesi successivi.
Dura la resistenza dell'esercito turco prima e di diverse formazioni libiche irregolari poi.
Tra il 1913 e il 1914 occupammo la Tripolitania settentrionale, ma le sconfitte che
subimmo durante l'inverno successivo e lo scoppio della prima guerra mondiale ci
costrinsero a ripiegare sulla costa; mantenemmo il controllo di Tripoli, Zuara e Homs in
Tripolitania, di Bengasi, Derna e Tobruk in Cirenaica.
Anche per questo in Cirenaica il potere concretamente fu esercitato dalla Senussìa, una
confraternita musulmana, che mirava a riportare l'islamismo all'antico splendore e si
opponeva duramente ad ogni forma di penetrazione della civiltà occidentale in quel
mondo.
***
Terminato la guerra, nel 1919, alle due colonie fu concesso un proprio statuto, che
prevedeva di poter eleggere ognuna il suo parlamento. Ma a Tripoli il parlamento non
venne mai eletto mentre quello che nacque in Cirenaica ebbe vita breve e non combinò
nulla: in Cirenaica era il controllo dei senussiti che garantiva l'ordine, cosa che non
accadde in Tripolitania, dove causarono grandissima incertezza e confusione le lotte tra i
capi locali e il contrasto tra arabi e berberi. Anche in Cirenaica ci si affidò ai senussiti, il
capo dei quali, Mohammed Idris, riconobbe sia la sovranità italiana sulla Cirenaica, sia il
possesso della costa; a titolo di gratitudine il governo italiano gli riconobbe il titolo di
"emiro" e gli affidò l'amministrazione delle zone interne.
Nel 1921 fu istituito il Governatorato della Tripolitania e nominato governatore
Giuseppe Volpe, industriale e futuro Ministro delle Finanze, che occupò tra gennaio e
febbraio 1922, il porto di Misurata Marina. Tra aprile e maggio, grazie anche all'azione
decisa dell'allora colonnello Rodolfo Graziani, le forze arabe vennero respinte. Mentre in
Italia, si svolgeva la marcia su Roma, le truppe italiane in Africa continuavano ad
avanzare, occupando altro territorio.
***
Con l'arrivo di Mussolini al potere i suoi sgargianti sogni di conquista coloniale
acutizzarono i problemi che si erano creati fra Italia e i senussiti; al punto che l'emiro
Mohammed Idris, non sentendosi più sicuro della propria sopravvivenza, nel 1923 fuggì
in Egitto; lo sostituì il fratello Mohammed er-Ridà.
A Bengasi giunse il gen. Bongiovanni, cui Mussolini aveva chiesto di «pestare sodo». Ma
non fu necessario “pestare sodo” in Tripolitania: partendo dalla sua parte meridionale e
sfruttando i dissidi tra le varie tribù, l’Italia la conquistò tutta agevolmente nel 1926.
Ma la Cirenaica, grazie soprattutto alla forte presenza dei Senussiti, resistette. Solo grazie
ai famosi (o famigerati) ascari (soldati indigeni inquadrati nelle truppe coloniali)
Bongiovanni in marzo entrò ad Al Akdar, nell’altipiano del Gebel, dove vivevano
100.000 seminomadi, che, guidati del grande vecchio Omar al-Mukhtar, si organizzarono,
dando notevole filo da torcere agli italiani.
La risposta italiana fu micidiale: la strategia della "terra bruciata". Prima i rastrellamenti a
tappeto e le esecuzioni capitali a catena, poi i bombardamenti massicci indussero migliaia
di famiglie indigene a fuggire verso la Tunisia, l'Algeria, il Ciad e l'Egitto.
Nel 1928 la piccola oasi di Gife fu distrutta da bombe italiane, alcune delle quali caricate
a gas. Una aperta violazione del diritto internazionale, anche l'Italia fascista aveva firmato
a Ginevra, nel 1925, il "Protocollo per la proibizione di gas asfissianti”.
La distruzione di Gife venne raccontata come una gloria nazionale nel volume scritto
da una mezza calzetta che vi prese parte: Italo Balbo che lo elogiò come la
narrazione di un’impresa epica.
Ma nonostante quei bombardamenti la guerriglia senussita continuava. Nominato
Governatore delle due province (1929), Badoglio dapprima emise un bando che
garantiva l'amnistia ai ribelli che si fossero arresi e condannava a morte i recidivi; alla
fine, quando ormai le tribù nomadi erano state decimate grazie soprattutto alle colonne
di Graziani, la Tripolitania fu conquistata per intero.
Diversa la situazione in Cirenaica: i senussiti, ben organizzati da Omar, dominano ancora
il Gebel, l'altopiano centrale della regione e, sfruttando ingegnosamente gli anfratti del
terreno, evitano quello scontro diretto con gli italiani che li avrebbe visti perdenti.
Nel 1930 Mussolini, insoddisfatto di come andavano le cose in Cirenaica, inviò Rodolfo
Graziani come vice governatore con sede a Bengasi. Grande rastrellamento, ma i
"mujaheddin" di Omar al-Mukhtar potevano contare sull'appoggio morale e materiale
delle popolazioni locali e soprattutto sulle zavie senussite, veri e propri centri spirituali ed
assistenziali: Graziani ne fece sequestrare 49 (centinaia di abitazioni, 70.000 ettari di
buona terra), arrestandone i capi, che spedì a Ustica.
Badoglio, nel giugno 1930, chiese al suo vice di creare un distacco territoriale largo e ben preciso
tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo
provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è
stata tracciata… Da chi? Evidentemente da Mussolini.
Graziani non aspettava altro: solo cinque giorni dopo dette inizio adì un massiccio
spostamento di gente dall'altipiano verso la costa. E relaziona: Tutti i campi furono circondati
da doppio reticolato; i viveri razionati; i pascoli contratti e controllati; la circolazione esterna resa
soggetta a permessi speciali. Furono concentrati nel campo di el Agheila tutti i parenti dei ribelli, perché
più facilmente portati alla connivenza [...] I capi e le popolazioni refrattarie e sorde ad ogni voce di
persuasione e di richiamo ricevevano così il trattamento che si erano meritato. Il rigore estremo, senza
remore né tregua, cadeva inesorabile su di esse: erano anche omicidi di massa, lo ammette lo
stesso Graziani. E a Roma De Bono e Mussolini applaudono. Varie tribù, compresi
vecchi, donne e bambini furono obbligate a terribili marce forzate per centinaia di
chilometri: vere e proprie "marce di sterminio". Se uno si attarda nelle poche soste viene
immediatamente abbattuto. Numerosi gli episodi di crudeltà gratuita, come l'abbandono
di 35 indigeni, tra cui donne e bambini, in pieno deserto, senza acqua né viveri, a causa di
una rissa scoppiata tra loro. Maltrattamenti, fustigazioni. Molti i morti per sete. Ad
esempio, una delle tribù forzate a marciare raggiunse il campo di concentramento cui era
destinata percorrendo a piedi 350 km,a marce forzate. A 6.500 che avevano tentato di
ribellarsi fu riservata una marcia invernale di 1.100 chilometri. Perché 90.761 persone
potessero raggiungere i campi loro destinati, quasi 10.000 persone morirono durante la
marcia; morirono di stenti, di fame, di malattie, o abbattuti mentre tentavano la fuga.
Dopo le deportazioni e la creazione dei campi di concentramento Omar al Mukhtàr si
trovò sempre più isolato. I gruppi ribelli furono costretti a dividersi per sfuggire agli
accerchiamenti, le sconfitte minarono il morale; l’unica postazione che parve reggere fu
quella dell’oasi di Taizerbo, 250 km a nordovest di Cufra. Il 31 luglio 1930 quattro aerei
volarono su Taizerbo e sganciarono, tra l’altro, 24 bombe caricate a iprite. Cufra, città
santa dei senussiti, subì un attacco dal cielo prima di essere presa nel gennaio del 1931 da
una colonna di mercenari libici (i "meharisti") dotati di cammelli e autocarri: i sinussiti
fuggirono con le proprie famiglie, i meharisti li inseguirono e ne fecero strage grazie ai
loro reparti cammellati e all'aviazione.
Cufra fu sottoposta a tre giorni di saccheggi e violenze: ben 17 capi senussiti furono
impiccati, 35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, 50 donne stuprate; 50 le
fucilazioni e 40 le esecuzioni con ascia, baionette e sciabole. Le truppe vittoriose si
abbandonarono a ogni atrocità: alle donne incinte venne squartato il ventre e i feti
infilzati, le giovani furono violentate e sodomizzate con le candele, teste e testicoli
furono mozzati e portati in giro come trofei, tre bambini vennero immersi in calderoni
di acqua bollente, ad alcuni vecchi vennero estirpate le unghie per essere poi accecati.
Ma Omar al Mukhtàr continuò a resistere; allora Badoglio e Graziani decidono di isolare
del tutto i ribelli con una recinzione tra la Cirenaica e l'Egitto: una barriera di filo spinato
larga alcuni metri e lunga 270 chilometri! Mussolini dà il suo via libera. Il reticolato è
pronto a settembre.
E ai primi di settembre 1931 il settantatreenne capo della resistenza libica Omar al
Mukhtàr venne catturato. La condanna a morte fu pronunciata il 16 settembre. Ferito,
inutilmente tutelato dal diritto internazionale che avrebbe imposto un suo trattamento
come prigioniero di guerra, il vecchio leone fu impiccato e 20.000 beduini furono
costretti ad assistere all'esecuzione capitale.
In undici anni la popolazione della Libia diminuì di circa 83.000 persone: 20.000 rifugiate
in Egitto e ben 63.000 inghiottiti dalla guerra, la deportazione e la prigionia.
Anche il patrimonio zootecnico venne decimato: gli ovini da 800.000 (1926) si ridussero
a 98.000 (1933), i cammelli da 75.000 a 2.600, i cavalli da 14.000 a 1.000, gli asini da
9.000 a 5.000.
Una vera e propria carneficina, dunque, o, per meglio dire, un "genocidio" praticato a
cuor leggero dal "buon italiano". Gli italiani l’hanno rimosso, quell’obbrobrio,nonostante
gli sforzi di storici che l'additano all'attenzione di chi non ha paura della verità.
***
E LA CHIESA?
La Chiesa italiana, nel suo insieme, appoggiò la guerra; numerosi vescovi benedirono le
truppe in partenza per l’Africa: per loro quei giovanotti in divisa e col fucile a tracolla
erano missionari che andavano a portare la civiltà e (addirittura!) il vangelo a popoli
rozzi e bisognosi che qualcuno ne elevasse il livelli di vita umana e cristiana.
Gli stessi gesuiti, che in un primo momento avevano duramente avversato tutte quante le
campagne coloniali, comprese quelle italiane, in questa circostanza non si distinsero
nettamente dal resto del clero.
Fin dall’inizio la discesa in campo della Chiesa cattolica a favore dell'intervento ebbe un
effetto trascinante per una moltitudine di italiani. Fu anche con questa posizione assunta
dalla Chiesa che i cattolici, prima ancora del Patto Gentiloni, incominciarono a ritornare
alla politica italiana, dalla quale si erano volontariamente esclusi negli anni precedenti.
Gubbio, 2 settembre 2018
don Angelo M. Fanucci, Rettore della Chiesa di S. Maria de’ Servi
LA TEOLOGIA DI PAPA FRANCESCO, 14
LA DEBOLEZZA DI DIO PER L’UOMO
(AL: Amoris Laetitia; EG: Evangelii gaudium; EN: Evangelii nuntiandi; ES: Eserciti Spirituali;
GS: Gaudium et spes; LG: Lumen gentium; LS: Laudato si’; MeM: Misericordia et Misera;
RS:Ratio studiorum)
secondo
JÙRGEN WERBICK
CAPITOLO IX
IL MISTERO DELL’AMORE DI DIO
LA TRINITÀ
È la potenza di Dio che crea relazione; non solo, ma è nel creare relazioni che si
esprime la massima potenza di Dio1, che comunica a tutti gli esseri creati la forza di
vivere in relazione con Lui e la sua infinita potenza.
Si tratta di una potenza
che innanzitutto unisce le creature a Dio, in principio e dal principio:
che di conseguenza unisce irrevocabilmente gli uomini alla terra e agli
altri uomini e - contro le potenze dell’isolamento - li integra nella comunione
della signoria di Dio che salva e porta a perfezione.
La prospettiva teologica di fondo che abbiamo qui delineato, Papa Francesco la
esplicita in Laudato si’ (LS), là dove la vede radicata ed espressa nella fede trinitaria. Nel
capitolo intitolato «La Trinità e la relazione tra le creature», Francesco dice: Il Padre è la
fonte ultima di tutto, fondamento amoroso e comunicativo di quanto esiste. Il Figlio, che lo riflette, e per
mezzo del quale tutto è stato creato, si unì a questa terra quando prese forma nel seno di Maria. Lo
Spirito, vincolo infinito d’amore, è intimamente presente nel cuore dell’universo animando e suscitando
sempre nuovi cammini (LS, n. 238).
Si parla di Trinità, enunciano i tre modi con cui Dio
1. chiama il mondo all’esistenza,
2. si unisce a esso, redimendolo e liberandolo,
1 Questa idea è l’epicentro della pregevole opera della teologa CARTER HEYWARD, in Und sie riihrte
sein Kleid,Kreuz, Stuttgart 1986. Ma la teologa va molto oltre, e sbaglia, quando scrive: Credo che
Dio sia la nostra potenza in relazione tra noi, con l’intera umanità e la stessa creazione (n.49). In
un’ottica biblico-cristiana, definito così, Dio non sarebbe più trascendente
3. ispira gli uomini a farsi avviare sui cammini inaugurati per primo da Gesù
Cristo, nella vita in pienezza, nella signoria di Dio.
È l’economia della salvezza, che articola l’amore di Dio, che si propone di condurre gli
uomini alla pienezza della salvezza, accompagnandolo lungo ciascuna di queste tre
dimensioni tramite l’azione specifica di ognuna delle tre persone divine; un’opera che
ciascuna persona - in collaborazione con le altre - compie per portare a perfezione la
creazione e salvare gli uomini.
Nel linguaggio tecnico della teologia di oggi si parla di Trinità economico-salvifica; il
segreto dell’economia della salvezza è l’amore di Dio uno e trino che comunica se stesso.
Ma come comunica se stesso, Dio? Trascendendosi.
Questo autotrascendersi non è una delle tante attività possibili a Dio, ma è l’essenza del
suo agire: l’«atteggiamento di fondo» dell’amore consiste proprio in questo trascendersi (LS, n. 208).
Questo trascendersi di Dio ha il suo grande effetto nelle creature, perché
le rende aperte a tutto ciò che Dio ama,
investite dal suo amore, nessuna di loro può più voler isolarsi e far a meno
di qualcuno di loro.
È in questa chiave che si può e si deve parlare di Dio e del suo amore.
Oltre il Dio della Scolastica
Cosa che sarebbe impensabile se di Dio si conservasse l’idea metafisica che Aristotele ha
trasmesso a S. Tommaso, secondo la quale non ci può essere nulla «al di fuori» di Dio e
l’universo si sviluppa in Dio, che lo riempie tutto (LS, n. 233).
In questa impostazione ideale la capacità umana di rappresentarsi Dio incontra un limite,
un impoverimento della rappresentazione di Dio; questo impoverimento si può e si deve
superare.
La splendida metafisica, greco/cristiana, dell’Assoluto conosce solo l’interiorità, quella
vita ad intra in cui Dio è assolutamente perfetto, per sé e in sé, e non può trascendersi,
perché per autotrascendersi dovrebbe diventare un qualcosa di più di quello che è,
mentre Egli è sempre tutto quello che può essere. Per lui non esiste il «di più»
dell’autotrascendenza, un «al di fuori» in cui egli possa trascendersi. Un’operazione del
genere manifesterebbe una carenza che sarebbe costretto a superare trascendendo se
stesso. Contro questa concezione, l’esperienza dell’amore per il prossimo obietterà che
per la perfezione assoluta di Dio la vera carenza sarebbe il non essere in grado di
trascendere se stesso, facendolo non per una carenza, ma per la pienezza del suo essere,
che lui vuole condividere per conquistare altri co-amanti.
L’uscire da sé di Dio nell’economia della salvezza, però, non lo allontana da sé;
questo avviene perché, trascendendosi per autocomunicarsi, in realtà Dio riempie
di sé coloro che trascende, affinché possano essere suoi co-amati.
Nell’economia della salvezza Dio è Dio in quanto fa partecipare alla propria vita e a sua
volta partecipa alla vita di coloro che egli vuole riempire di sé, affinché in lui trovino la
loro piena salvezza.
Il fatto che Egli faccia partecipare alla sua vita le sue creature fa sì che ciascuna creatura
porti in sé un’impronta propriamente trinitaria, grazie alla quale essa può impegnarsi a
realizzare intorno a sé una rete di relazioni: ed è così che gli uomini possono partecipare
al dono in cui Dio dà se stesso.
Dio è il protagonista, ma le creature non possono essere ridotte a figure di mediazione,
secondarie, accidentali: se così fosse non potrebbero comunicare Dio stesso e vivere
l’essere di Dio con gli uomini.
Rimanendo pur sempre rigorosamente monoteisti
È qui che propriamente va posta la domanda che ognuno di noi, un po’ ingenuamente,
per conto suo,s’è posto: se il Figlio e lo Spirito Santo sono Dio tanto quanto lo è il
Padre, come possiamo parlare ancora di monoteismo?
I TEOLOGI DELLA CHIESA ANTICA hanno impiegato tutta la loro energia
speculativa per mantenere il monoteismo biblico nel discorso trinitario su Dio. Come
hanno fatto? Non di rado si è avuta l’impressione che abbiano potuto farlo per una loro
esperienza mistica che hanno vissuta – per così dire - all’interno di Dio.
Nel fare questo si è potuto avere talvolta l’impressione che essi avessero delle
conoscenze precise sull’«interno» di Dio e fossero in grado, per così dire, di ridescrivere
su questa base la Trinità del Dio immanente.
LA TEOLOGIA ATTUALE quasi unanimemente si è ritrovata nella formula che ha
proposto Kark Rahner: La Trinità “economica” è la Trinità “immanente” e
viceversa.
Scrive Marcelo Gonzalez su Città Nuova, nel 1912: «La Trinità "economica" è la
Trinità "immanente" e viceversa». Questa frase di K. Rahner, pregnante e densa di
significato anche se ermetica per i non addetti ai lavori, è stata chiamata l'assioma
fondamentale della teologia. Da più di tre decadi ha suscitato un serrato dibattito,
ancora in corso, tra molti dei più rappresentativi teologi cattolici ed evangelici. Tutti
comunque d'accordo che, nel modo di concepire la realtà che esprime questo assioma,
si gioca la novità, l'identità e la rilevanza del cristianesimo. L'articolo che presentiamo
ai nostri lettori affronta il tema, in un serrato dibattito con gli autori che più si sono
misurati con questo assioma. Offriamo la prima parte dello studio, la cui conclusione
sarà pubblicata in un numero successivo.
Trinità immanente e Trinità economica sono come due facce della stessa medaglia; si può
e si deve parlare di Trinità immanente solo se ci si permette di continuare a credere
che Dio partecipa alla vita umana nel Figlio, che è uguale a Lui,
che fa partecipare responsabilmente al suo amore divino nello Spirito Santo
che è uguale a Lui.
Che cioè allo stesso titolo per il quale Dio è Trinità Immanente, è anche Trinità
Economica.
Dio si apre nel suo intimo; e si comunica come egli è in modo da poter essere creduto
come colui che si è aperto e si è reso accessibile agli uomini nella creazione e nella storia.
In altre parole, “quanto Dio ha di «più interno” è al tempo stesso “quanto Dio ha di più
esterno”, cioè la sua debolezza per gli uomini, nella quale egli è molto più potente di tutte
le potenze di questo mondo.
Nel corso della storia della fede si è molto riflettuto su COME finalmente si possa
rendere umanamente comprensibile questo essere mosso nell’intimo di Dio. Sono stati
elaborati due modelli.
Nella tradizione agostiniana la concezione di Dio «monologica»: S. Agostino insegna
che Dio è Spirito Assoluto, e di per sé lo è solo in riferimento a se stesso; ma Egli si
riferisce a se stesso in un duplice modo: Dio si capacita perfettamente di se stessa e si
approva all’infinito
divenendo consapevole di sé conoscendo e approvando se stesso, prima di
fare riferimento agli uomini,
facendo riferimento agli uomini per essere riconosciuta da loro e avvolgerli
con la sua approvazione.
La teologia orientale, invece, vede Dio piuttosto come sorgente originaria e fine di ogni comunione
nell’amore, perché Egli stesso è comunione, in un senso a cui la comunione umana può
somigliare solo vagamente.
Le tre «persone» divine sono così intime tra di loro che di esse si può dire non solo che
sono unite, ma si deve affermare che sono una cosa sola, un solo Dio.
Dio è in sé autocomunicazione: del Padre al Figlio e attraverso il Figlio allo Spirito, dello
Spirito e del Figlio al Padre. Le tre persone si aprono una all’altra, in modo che ciascuna
sia perfettamente partecipe delle altre.
Nel suo riferimento al mistero della Trinità divina, papa Francesco si ricollega a
questo concetto della Chiesa orientale, che è stato recepito in occidente da
Bonaventura e da Riccardo di san Vittore. Egli mette in risalto che «il Dio Trinità è
comunione d’amore», «communio trinitaria» (Amoris laetitia, n. 11 e LS, n. 239). Dio è in
sé realtà di relazione eterna e originaria,
che si comunica già nella creazione alle creature e dà loro il loro essere-
relazione;
che con l’offerta di relazione e di perdono del suo Figlio vuole raggiungere
gli uomini caduti nella miseria e nel peccato per chiamarli di nuovo alla
comunione divina;
che, prima di tutto questo, nell’autorealizzazione ognuna delle tre persone
santissime è «realtà intrinseca» (in greco: hypòstasis), in relazione perfetta con le altre
ipostasi divine.
CONCRETAMENTE
Secondo papa Francesco, aprirsi all’offerta di relazione che Dio ci fa creandoci significa
impegnarsi a testimoniare che la relazione si avvererà proprio per quanti sono stati
esclusi e si escludono dalla vita: è a loro che in primo luogo lo deve testimoniare la
Parola, fondamento di una testimonianza fattiva che li aiuti a superare l’esclusione.
L’impegno missionario nel portare la gioia del Vangelo fino alle periferie, non vuole solo
guadagnare membri alla Chiesa, ma prima ancora, nel senso dell’apostolo Paolo (cfr.
2Cor 1,24), vuole essere al servizio della gioia degli uomini in modo che sperimentino la
volontà divina di relazione nella sua sostanza viva e liberatoria.
Per papa Francesco la dottrina su Dio non è una meta teologica autoreferenziale, ma
trova il suo perché nella vita con Dio che prende al suo servizio coloro che vivono con
Lui perché nessuno vada perduto con la scomparsa della relazione con Dio e gli altri
uomini.
La realtà di Dio dischiude agli uomini la realtà del loro essere uomini e li stimola a
mettersi al servizio dell’essere umano perché possa trovare la sua pienezza in una vita
piena di Dio.
Dal punto di vista autenticamente cristiano, parlare di Dio significa parlare della realtà
divina che ci sfida: lo accettiamo sì o no, questo Vangelo che annuncia il Dio disponibile
e in grado di creare relazioni, il Padre di Gesù Cristo che nel suo Spirito ci incoraggia a
credere, vuole ispirarci a sperare e ad «ardere» nell’amore?
14.a continua
***
ALLA RICERCA DELLA TEOLOGIA
CHE MOTIVA E ARTICOLA LA RADICALITÀ
DELL’IMPEGNO CRISTIANO CONTRO L’EMARGINAZIONE
I - 11
di don Angelo M. Fanucci
(EMARGINAZINE E SOCIETÀ)
11 L’ambito specifico: il Volontariato e il Privato Sociale
11.1 Il Volontariato
Il VOLONTARIATO si articola in
volontariato del tempo libero: il volontario è colui che, una volta adempiuto ai
doveri del proprio stato, con continuità e competenza dedica una parte significativa
del proprio tempo libero ad un qualche impegno di rilievo umanitario o sociale;
volontariato della cittadinanza: è il volontario che nel suo impegno, magari a
tempo pieno e quindi anche con una retribuzione, esplica una convinzione
personale all'interno della quale l'asse complessivo dei diritti e dei doveri è stato
spostato in avanti; egli si sente titolare di diritti e di doveri che non sono recepiti
come tali dalla generalità dei suoi concittadini, d'istinto (ben al di là dei suoi
"compiti istituzionali") innesca al massimo livello possibile i processi decisionali e
partecipativi tipici delle democrazie vere, e questa tensione di fondo dà il timbro
caratteristico non solo al suo lavoro ma a tutta la sua vita;
volontariato della condivisione: quando la richiesta dell'emarginato che hai
davanti è quella di prenderlo in carico, sul piano esistenziale, totale: assumere il
bisogno concreto dell'altro che hai davanti a te come elemento definitorio della tua
stessa vita, un nuovo scopo vitale accanto agli altri scopi vitali.. Nell' "operatore di
condivisione" il privato sociale dà il meglio delle proprie potenzialità: la capacità di
motivare sul piano personale l'operatore, ben al di là della sua pur insostituibile
professionalità.
La presenza di preti e di laici cattolici è di gran lunga la più consistente all’interno sia del
volontariato che soprattutto all’interno del privato sociale, queste eccellenti forma della
solidarietà moderna.
C’è anche chi, in ambito cattolico, fa notare che il termine prete (o cristiano) solidale è
riduttivo, quasi… slavato rispetto alla densa ricchezza del termine prete (o cristiano)
comunionale; non c’è da meravigliarsene – dicono - data l’origine illuminista, laica e
programmaticamente anti-carità, del termine solidarietà; la solidarietà non è una virtù
cristiana; per i cristiani quella che conta è solo la carità.
Affronteremo questa questione nella seconda sezione di questo corso. Per ora basti
ricordare che lo stesso Giovanni Paolo II ha bruciato queste false preoccupazioni,
utilizzando migliaia di volte il termine solidarietà, mentre i suoi predecessori s’erano ben
guardati dal farlo.
Certo è che realtà come quella della Comunità di Capodarco di questo hanno sofferto;
sono realtà che assolvono anche ad una funzione di servizio pubblico, e pertanto anche se
volessero non potrebbero caratterizzarsi come confessionali; ma soprattutto sono realtà
il cui punto di debolezza equivale esattamente al loro punto di forza, ed è nel fatto che
ad esse ci si aggrega il più delle volte non in base ad una scelta ideologica, ma
unicamente sulla base del bisogno, magari estremo, con la speranza che da quella
frontiera estrema nasca tanta vita. Tanta solidarietà, tanta libertà. E in ordine al
conseguimento di questi fini non c’è nessuna maieutica paragonabile in efficacia, a quella
ispirata al Vangelo.
11.2 Il privato sociale
Nello stesso alveo è nato il privato sociale: soprattutto nel settore nuovo e difficile della
tossicodipendenza il cattolicesimo sociale italiano ha saputo splendidamente rilanciarsi,
non tanto nelle mega/comunità di migliaia di giovani, quanto nelle migliaia di comunità
che accolgono 10/15 soggetti ognuna.
Il PRIVATO SOCIALE ha conosciuto in tempi recenti una grande fortuna. Tutte le
società occidentali hanno maturato, negli ultimi decenni, la convinzione del bisogno di
una più intensa partecipazione del privato alla realizzazione del bene comune,
soprattutto nel settore dei servizi alla persona.
Soprattutto dopo l’attivazione delle Regioni, che, sancite dalla Costituzione nel 1948,
entrarono effettivamente in azione nel 1970, in Italia si era verificato il monopolio dello
Stato (in questo caso le Regioni) nell’organizzazione dei servizi alla fasce deboli della
popolazione, parallelamente all’eccesso di intervento dello Stato che anni prima aveva
avuto luogo nei processi produttivi (le cosiddette Partecipazioni Statali, anche avevano anni
fa un proprio ministero nel governo italiano). Poi però una decina di anni dopo,
cominciarono a circolare slogans che andavano in senso contrario: Privato è bello.
Il privato speculativo chiede allo Stato di ritirarsi, com'è giusto, dai settori produttivi dei
quali i politici si sono impadroniti per mantenere a spese della collettività le legioni dei
loro clienti privati, ma vuol mettere le mani anche sulle "industrie infrastrutturali", quelle
che condizionano tutte le altre: su questo non siamo d’accordo, perché, quando
Lorsignori ci saranno riusciti, il potere politico si sarà svuotato del tutto, a vantaggio del
potere economico.
Il clima culturale di oggi enfatizza le privatizzazioni così come, nei primi anni ‘60,
venivano enfatizzate le nazionalizzazioni, e tutti erano convinti della loro "inderogabile"
necessità.
Era il rilancio del privato speculativo, che mescolava verità sacrosante a tentativi di abolire
alcune delle conquiste sociali più significative. Si diceva: solo chi è mosso da un interesse
concreto, solo che investe e guadagna deve prendere l’iniziativa, basta con
l'assistenzialismo, basta con la cassa integrazione che dura una vita, basta con le industrie
decotte tenute insieme come i busti delle attempate signore ottocentesche, con le stecche
di balena. Basta. Il liberismo ci salverà. E i Cristiani a questa richiesta si sono accodati in
maniera -a mio modo di vedere- troppo acritica.
Ma accanto a tutto questo si registrò il lancio del privato sociale Nel settore della lotta contro
l’emarginazione è certo che lo Stato moderno non può più presumere di gestire in
proprio tutta la gamma dei servizi alla persona che gli vengono richiesti, perché
o l'evoluzione storica gli ha scaricato addosso un quantità enorme e
complessa di compiti;
o le persone meno abbienti si sono ormai liberate dal ricatto dei bisogni
primari che hanno gravato per secoli su di loro, e reclamano equità nelle
prestazioni sociosanitarie;
o l'autocoscienza della società civile ha fatto passi da gigante;
o cresce la richiesta di personalizzazione dei servizi: le richieste che salgono
dalla gente verso lo Stato sono sempre più dettagliate ed esigenti.
"Lo Stato non ce la fa più": chi ne prenderà il posto?
E così da almeno una ventina di anni la speculazione punta come un cane da tartufo
impaziente più che al settore sociale, nel quale c'è poco da guadagnare, al settore
sanitario, dove razzolano galline dalle uova d'oro: in Umbria l’Assessore regionale alla
sanità è di gran lunga il più potente degli imprenditori, con i suoi 1.800 miliardi di
vecchie lire in bilancio. E, in coerenza piena con questo, il privato speculativo sta
spingendo con grande forza perché lo stato moderno tenga ben separati i due settori,
quello sanitario e quello sociale: il sociale è per poveracci ed è bene – dicono Lorsignori
– che lo gestiscano i poveracci; il sanitario è per tutti ed è bene che lo gestiscano coloro
che hanno fiato imprenditoriale per farlo nella maniera migliore, cioè favorendo chi può
pagare.
Su tutt'altro impianto ideale e morale è nato il privato sociale. Un fenomeno ricco e
complesso, a delineare il quale anche la dottrina sociale della Chiesa ha dato il suo
contributo con l’esaltazione del principio di sussidiarietà", grazie al quale dove possono
arrivare le aggregazioni minori, quelle più in presa diretta coi bisogni e le risorse della
gente non deve subentrare lo Stato, al quale peraltro competono sempre funzioni di
coordinamento, controllo, indirizzo generale. Soprattutto dove necessitano interventi
fortemente personalizzati s’impone la necessità del privato sociale; autorevoli studiosi di
sinistra hanno addirittura consigliato di chiamarlo Pubblico senza stato.
Sussidiarietà da subsidium = aiuto. Ma non è lo Stato che deve aiutare il privato
sociale, è il privato sociale che deve aiutare lo stato a mettere a punto e a
perseguire il bene comune. Lo Stato deve mettere in conto quest’aiuto prezioso e
sostenerne le realizzazioni.
A smantellare in Italia i servizi gestiti direttamente dal pubblico ha cominciato
l’Amministrazione di Bologna: Controllare di più e gestire di meno, fu il suo motto.
E in questa nuova temperie culturale il privato sociale s'è fatto avanti motivando la
propria candidatura con una duplice capacità:
capacità di mettere a fuoco, interpretare e animare i nuovi diritti di cittadinanza; il
progresso autentico muove sempre da un'accresciuta coscienza che nel tempo
l'uomo e il cittadino acquisiscono di se stessi, e conseguentemente anche dei
propri diritti e doveri.
Penso alle famiglie degli handicappati mentali che si aggregano perché per i
propri figli non accettano più la pura e semplice sopravvivenza; penso agli
anziani che fondano un'associazione perché vogliono ancora contare e agli
ecologisti che non intendono lasciare carta bianca al Ministero dell'Ambiente;
penso all'associazione dei familiari dei morti delle stragi di Ustica e di Bologna
che non intendono delegare in toto alla magistratura...
capacità di offrire alla persona servizi fortemente personalizzati; qui si collocano
tutte quelle associazioni nelle quali il servizio viene prestato da persona a persona,
e non da struttura a malato/disagiato: non è "IL direttore" o "IL funzionario" che
svolge un determinato servizio, ma è le rete delle relazioni interpersonali a venire
in primo piano, in un contesto fortemente umanizzato, dentro il quale le persone
ora s'incontrano e ora si lasciano, avvicinandosi e allontanandosi per rispondere al
meglio a bisogni non riproducibili in serie.
11.2.1 L’articolazione del privato sociale
Il privato sociale si articola in
associazionismo sociale
cooperazione sociale
economia “no profit”.
L’ ASSOCIAZIONISMO SOCIALE si chiama così per distinguerlo
dall’associazionismo tout court, che può anche essere di tipo speculativo, almeno in una
delle sue tre grandi branche, quella del cosiddetto 'associazionismo professionale (le altre due
branche sono le associazioni sindacali e le associazioni sociali)2. Ed è una branca il cui potere
2 AA. VV, Rapporto sull'associazionismo sociale 1993. IREF Roma 1994, 23
sta oggi crescendo in maniera a volte preoccupante, nel quadro del radicale
ridimensionamento dei partiti. L’associazionismo sociale
opera per la crescita armonica della società;
di conseguenza, in maniera anche diversamente impegnativa, si fa carico delle
fasce deboli della popolazione.
I settori nei quali queste associazioni operano sono oggi molteplici e tutti di grande
interesse:
educazione e formazione,
tempo libero,
promozione sportiva,
ecologia, protezione civile,
promozione consumatori e utenti,
assistenza sociale e promozione della salute,
emigrazione e immigrazione3.
Al vertice di questo tipo di risposta, l'operatività delle comunità d'accoglienza, che sono
delle associazioni autogestite, al cui interno la stessa persona da una parte collabora alla
gestione del servizio, dall'altra ne fruisce: ottima la garanzia per la personalizzazione della
prestazione cui il disabile ha diritto: è un po' come l'uovo di Colombo.....
La COOPERAZIONE SOCIALE: associazioni di lavoro che al tradizionale modulo
tipico delle cooperative, l'identificazione tra proprietario e prestatore d’opera,
aggiungono un impegno specifico a vantaggio delle fasce deboli della popolazione. Lo
Stato interviene con diverse agevolazioni, ad esempio accollandosi i versamenti
contributivi, quando ne ricorrono le condizioni.
L’ECONOMIA NON PROFIT, o TERZO SETTORE PRODUTTIVO è un’economia
a tutto tondo, un’attività che produce realmente manufatti o servizi, solo che mutua il
suo scopo non dal profitto ma dalla solidarietà. Oggi occupa poco meno di 1.000.000 di
addetti, e attira da parte degli altri settori produttivi un'attenzione che fino a ieri era del
tutto inopinabile; impegnandosi a valorizzare non solo sul piano umano, ma anche sul
piano produttivo, le risorse residuali di chi non regge il passo, da una parte gratifica
(anche tramite un reddito congruo) soggetti che altrimenti sarebbero rimasti ai margini,
dall'altra ha rilevanti vantaggi economici per la collettività.
11.2.2 Nel settore dell’handicap
Nel settore dell'handicap le varie Comunità di Capodarco sparse in Italia hanno reso
particolarmente incisivo questo modello.
"Handicap" è un concetto tutto negativo: indica il "non normale", e cioè del soggetto
che ne è affetto connota non il "chi è", ma il "che cosa non è".
3. AA.VV. Rapporto .., o.c., 121-371
"Handicappato" è lo spastico intellettualmente superdotato che regge da
anni un'università in Gran Bretagna, "handicappato" è il ritardato mentale
grave che a mala pena reagisce agli stimoli
Come potrà mai l'elefante-Stato, con le sue doverose rigidità, burocratico/operative,
entrare nelle pieghe di bisogni così estremamente differenziati, anche se rubricati nello
stesso paragrafo?
Lo Stato dovrà allora limitarsi a curare l'impostazione generale d'una politica
dell'handicap, controllare la sua corretta gestione, reperire risorse ed esigere il loro
corretto impiego.
A smantellare i servizi gestiti direttamente dal pubblico ha cominciato in Italia la più
rossa delle amministrazioni rosse, il Comune di Bologna: "Controllare di più e gestire di
meno" fu il motto del Sindaco Zangheri. In questa nuova temperie della problematica
sociale il privato sociale s'è fatto avanti motivando la propria candidatura con un'inedita
capacità di penetrazione nelle pieghe del bisogno.
Al punto che autorevoli uomini di sinistra hanno addirittura consigliato di adottare la
dicitura Pubblico senza stato. (già detto, vedi sopra)
11,continua