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Sentenza 4 maggio 1960, n. 30; Pres. Azzariti P., Rel. Manca; D'Angelo c. Lepre; interv. Pres.Cons. ministri (Avv. dello Stato Salerni)Source: Il Foro Italiano, Vol. 83, No. 5 (1960), pp. 705/706-709/710Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23174892 .
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705 GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE 706
CORTE CliSriTUZlONALE.
Sentenza 18 maggio 1960, n. 33 ; Pres. Azzariti P., Rei.
Cassandro ; Oliva (Avv. Mortati) c. Min. interni
(Aw. dello Stato Tracanna) ; interv. Pres. Cons,
ministri.
Concorso ad un impiego — Esclusione delle donne
da uffici pubblici — Incostituzionalità della norma
(L. 17 luglio 1919 n. 1176, capacità giuridica delle donne,
art. 7 ; Costituzione della Repubblica, art. 51).
È incostituzionale l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176,
che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che impli cano l'esercizio di diritti e potestà politici. (1)
La Corte, ecc. — Nell'ordinanza la questione di costi
tuzionalità sembra prospettata principalmente, se non
esclusivamente, sotto un profilo particolare : quello, cioè,
secondo il quale la norma «contenuta nell'art. 7 legge 17
luglio 1919 n. 1176 si porrebbe in contrasto col precetto
del 1° comma dell'art. 51 Cost., per il fatto che attribuisce
al regolamento la potestà di specificare gli impieghi pub
blici che implicano l'esercizio di diritti e di potestà politi
che, l'ammissione ai quali è preclusa alle donne. E anche le
parti hanno trattato prevalentemente questo punto e negli
scritti difensivi e nella discussione orale.
Senonchè la Corte non può non osservare che la norma
imp ugnata, dispone in primo luogo l'esclusione delle donne
da tutti i pubblici uffici che comportano l'esercizio di diritti
e potestà politiche, riservando alla legge di determinare
i casi eccezionali di ammissione delle donne a taluno di essi, e,
viceversa, al regolamento di specificare quali siano quelli
ricompresi nella categoria generale : una riserva che ine
risce strettamente al precetto principale posto dalla norma
e che ha senso appunto in ragione di questo legame. La Corte
deve pertanto portare il suo esame sulla norma tutt'intera,
così del resto come l'ordinanza stessa l'ha enucleata dal
l'art. 7, non già soltanto su una sua parte. Ora, non può
essere dubbio che una norma che consiste nell'escludere le
donne in via generale da una vasta categoria di impieghi
pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l'ir
rimediabile contrasto in cui si pone con l'art. 51, il quale
proclama l'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive
degli appartenenti all'uno e all'altro sesso in condizioni di
eguaglianza. Questo principio è stato già interpretato dalla
Corte nel senso che la diversità di sesso, in sè e per sè consi
derata, non può essere mai ragione di discriminazione legisla
tiva, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli
appartenenti all'uno o all'altro sesso davanti alla legge.
Una norma che questo facesse violerebbe un principio fon
damentale della Costituzione, quello posto dall'art 3, del
quale la norma dell'art. 51 è non soltanto una specificazione,
ma anche una conferma.
Senonchè, l'Avvocatura dello Stato ritiene che la Corte
abbia dato dell'art. 51 un'interpretazione che consenti
rebbe al legislatore di stabilire esclusioni o ammissioni a
pubblici uffici, muovendo dall'appartenenza all'uno o
all'altro sesso di coloro che aspirano ad accendervi. Ma
rion è questa, così genericamente definita, la portata della
sentenza n. 56 del 13 ottobre 1958 (Foro it., 1958, I,
1393). L'art. 51 o, più esattamente, l'inciso « secondo i re
quisiti stabiliti dalla legge » non sta punto a significare che
il legislatore ordinario possa, senza limiti alla sua discre
zionalità, dettare norme attinenti al requisito del sesso,
ma vuol dire soltanto che il legislatore può assumere, in
casi determinati e senza infrangere il principio fondamen
tale dell'eguaglianza, l'appartenenza all'uno o all'altro
sesso come requisito attitudinario, come condizione, cioè,
che fàccia presumere, senza bisogno di ulteriori prove, la
(1) L'ordinanza 12 giugno 1959 della XV Sezione del Consiglio
di Stato, che ha rimesso alla Corte costituzionale la questione
di legittimità ora riconosciuta fondata, è massimata in questo
volume, III, 48, con nota di richiami.
Il Fobo Italiano — Volume LXXXIII — Parte 7-46.
idoneità degli appartenenti a un sesso a ricoprire questo o quell'ufficio pubblico : un'idoneità che manca agli appar tenenti all'altro sesso o è in possesso di costoro in misura
minore, tale da far ritenere che, in conseguenza di codesta
mancanza, l'efficace e regolare svolgimento dell'attività
pubblica ne debba soffrire. Ora che questo non sia il caso
della norma impugnata è di tutta evidenza. In essa, infatti,
il sesso femminile è assunto come tale a fondamento di inca
pacità o di minore capacità, non già a requisito di idoneità
attitudinale, per una categoria amplissima di pubblici uf
fici (e, ch'è più, di incerta definizione e in conseguenza di
vaghi confini), in via di regola, non già in via di eccezione
e con riferimento concreto a particolari situazioni, ponen
dosi, anzi, in via d'eccezione e con rinvio alla legge, il caso
di ammissione delle donne a taluno degli uffici ricompresi
nella categoria generale di esclusione. La sua illegittimità
costituzionale è pertanto evidente al lume della giurispru
denza di questa Corte.
Con che, peraltro, si è anche detto come il legislatore
possa intervenire a regolare l'ammissione ai pubblici impieghi
in ragione dell'appartenenza all'uno o all'altro sesso, per dare
all'intera materia la necessaria disciplina richiesta dal so
pravvenuto precetto costituzionale.
Stando così le cose, la questione, intorno alla quale si
sono affaticate le parti, perde ogni rilievo nel presente giu
dizio. Poco importa, infatti, ricercare la legittimità di una
disposizione che attribuisce al potere regolamentare la po
testà di elencare gli uffici che « implichino l'esercizio di diritti
e di potestà politiche », e che pertanto respingono da sè
le donne, quando è in primo luogo illegittima la norma,
della quale quella disposizione è parte inscindibile, che
esclude le donne da quella categoria di uffici pubblici e in
ragione di siffatta esclusione. E poco importa, in conse
guenza, esaminare il questito proposto dalla difesa della
dott.ssa Oliva se e come una norma di procedimento o una
norma attributiva di competenze possa assumere il valore
e l'efficacia di una norma sostanziale e, in quanto tale,
spiegare i suoi effetti anche in confronto di norme anteriori
all'entrata in vigore della Costituzione. Nè, infine, la Corte
può pronunciarsi sull'altro quesito, proposto dall'Avvo
catura dello Stato, che è della validità di un regolamento
emanato in base a una norma promulgata prima dell'en
trata in vigore della Costituzione e poi dichiarata illegit
tima, quesito che è di competenza del giudice ammini
strativo. Per questi motivi, dichiara l'illegittimità costituzionale
della norma contenuta nell'art. 7 legge 17 luglio 1919 n. 1176,
che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che impli
cano l'esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferi
mento all'art. 51, 1° comma, della Costituzione.
CORTE COSTITUZIONALE.
Sentenza 4 maggio 1960, n. 30 ; Pres. Azzariti P., Rei.
Manca ; D'Angelo c. Lepre ; interv. Pres. Cons, ministri
(Avv. dello Stato Salerni).
Lavoro (rapporto) — Conglobamenti c perequazioni
salariali ili Savore dei portieri — Permanenza
della discriminazione tra capi famiglia e non
capi-famiglia — Incostituzionalità della norma
tiva — Questione infondata (Costituzione della Re
pubblica, art. 36, 37 ; 1. 4 febbraio 1958 n. 23, conglo
bamento e perequazioni salariali in favore dei portieri,
art. 1).
È infondata la questione d'incostituzionalità dell'art. 1 della
legge 4 febbraio 1958 n. 23, consistente in ciò che, nel
'procedere al conglobamento, in una unica voce contribu
tiva, uguale per uomo e per donna, i minimi salariali
e le indennità di contingenza, di carovita e di caropane,
avrebbe lasciato sopravvivere la discriminazione tra por
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707 PARTE PRIMA 708
tieri capo-famiglia e portieri non capo-famiglia, istituita nella precedente normativa legislativa e collettiva. (1)
La Corte, ecc. — L'art. 1 della legge 4 febbraio 1958 n. 23 stabilisce che sono conglobati, a tutti i fini contrat tuali e di legge, in un'unica voce retributiva, uguale per uomo e donna, oltre i salari minimi spettanti ai portieri ed ai lavoratori addetti, con rapporto continuativo, alla
pulizia degli immobili urbani, anche le indennità di caro
vita, di caropane e quella di contingenza, di cui all'art, unico del decreto legisl. 22 aprile 1947 n. 285, aumentata da altre leggi successivamente emanate. In relazione ap punto a questa indennità è stata proposta la questione di
legittimità costituzionale dell'accennata disposizione della
legge del 1958. Il Tribunale di Napoli infatti ha sollevato il dubbio che la disposizione stessa sia in contrasto con il 1° comma dell'art. 36 e con l'art. 37 Cost., in quanto, nel
disporre il conglobamento delle varie voci retributive, avrebbe mantenuto ferma, riguardo alla misura dell'in dennità di contingenza, la distinzione fra capo famiglia e non capo famiglia, contenuta nella tab. A allegata al de creto legisl. 22 aprile 1947, già ricordato, richiamato espres samente dalla legge del 1958.
Ora, l'interpretazione in tal senso di detta legge, come
presupposto logico della questione di costituzionalità, deve ritenersi esatta. È da premettere infatti che il congloba mento di per sè non porta necessariamente a ritenere sop pressa la distinzione di cui si è fatto cenno, dato che, nella determinazione della retribuzione unificata da attribuire
rispettivamente al capo famiglia e al non capo famiglia, possono confluire elementi differenziati, in dipendenza della diversa misura delle varie indennità e quindi anche di quella di contingenza.
Risulta d'altra parte dai lavori preparatori che la leggo del 1958, ora in esame, ha testualmente riprodotto l'art. 1 di una delle tre proposte di legge di iniziativa parlamen tare, presentate per favorire i portieri e gli altri lavoratori addetti alla pulizia e custodia degli immobili urbani. Non ha invece riprodotto l'art. 2 della proposta stessa, che, allo
scopo di uniformare e rendere omogenee le retribuzioni, stabiliva minimi salariali a carattere nazionale, da valere
per uomini e donne, eliminando anche per l'indennità di
contingenza ogni distinzione, compresa quella fra capo fa
miglia e non capo famiglia, com'è precisato nella Relazione; e stabilendo soltanto un diverso trattamento salariale in relazione alle due zone nelle quali era, al riguardo, diviso il territorio nazionale, e tenuto conto delle qualità di por tiere addetto alla pulizia e custodia degli stabili, o di lavo ratore addetto soltanto alla pulizia. Se ne può fondatamente desumere che, nella legge del 1958, per quanto attiene al
conglobamento, si è seguito un sistema diverso da quello adottato nell'accennata proposta. Con la conseguenza quindi che, essendosi, nella predetta legge, soppressa la distinzione relativa al sesso, ed essendosi consentita, riguardo ai por tieri che esercitano altro mestiere, una riduzione non supe riore al 20% della retribuzione complessiva, in luogo di una diversa misura dell'indennità di contingenza, riman
gono tuttora operanti le altre differenziazioni prevedute, per l'indennità stessa, dal decreto legislativo del 1947, e, in particolare, quella inerente alla qualità o meno di capo famiglia. Il che del resto, secondo quanto risulta dalla circolare del Ministero del lavoro e della previdenza sociale n. 17381/41 G del 15 settembre 1958, corrisponde all'inter
pretazione che le organizzazioni sindacali interessate hanno dato pacificamente quasi ovunque alla citata legge del 1958.
Come si desume inoltre dall'ordinanza, il Tribunale ha ritenuto che la questione circa la legittimità costituzionale di tale distinzione sia rilevante per la definizione del giu dizio principale (riguardante le indennità dovute ad una donna che esercitava il mestiere di portiera), osservando esattamente dal punto di vista giuridico che, data la parifi
(1) La massima della ordinanza 19 giugno 1959 del Tribunale di Napoli, che ha sollevato la questione d'incostituzionalità ora riconosciuta infondata, leggesi in questa raccolta, 1959, I, 1624.
cazione delle donne agli uomini stabilita dall'art. 1 della
legge del 1958, sopra ricordata, la qualità di capo famiglia o di non capo famiglia riguarda, in base a tale disposizione, anche le donne. E ciò a differenza di quanto stabiliva il
decreto legisl. del 1947 (tab. A), che commisurava l'in
dennità di contingenza all'esistenza o meno di tale qualità soltanto per gli uomini, mentre per le donne prevedeva una diversa indennità esclusivamente in relazione all'eser
cizio o meno di altro mestiere.
La questione per altro non può ritenersi fondata. Il 1°
comma dell'art. 36 Cost, attribuisce al lavoratore il diritto « ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa ». La re
tribuzione quindi deve rispondere a due fondamentali e
diverse esigenze. L'una si ricollega al rapporto di scambio tra prestatore d'opera e datore di lavoro, considerando la
prestazione di lavoro nella sua consistenza quantitativa e
qualitativa ; l'altra si riferisce alla situazione familiare del lavoratore. Ciò è pure ammesso,dal Tribunale, il quale pone in rilievo che, nel precetto costituzionale, sono contenuti due principi relativi all'elemento di carattere obiettivo e
a quello subiettivo, che si integrano a vicenda, di guisa che la retribuzione del lavoratore « va riguardata nello stesso tempo sotto duplice aspetto : quello della propor zionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro
prestato e quello dell'idoneità della retribuzione al sosten tamento del lavoratore e della sua famiglia ». Esprime tuttavia il dubbio che, con la diversa misura della retribu
zione, derivante dalla qualità o meno di capo famiglia, si verrebbe a stabilire « a parità di lavoro un'imparità della retribuzione stessa », in contrasto con la norma costitu zionale.
Senonchè il criterio di proporzionalità all'entità della
opera prestata, che condiziona la misura del salario base, non può essere richiamato per determinare anche quella parte della retribuzione che deve assicurare al lavoratore un dignitoso tenore di vita, poiché, sotto tale aspetto, si deve tener conto del fatto che il lavoratore abbia o no
famiglia. Ciò si può desumere sia dalla formulazione della norma costituzionale, sia dai precedenti storici della norma stessa. La quale, per quanto attiene al tenore di vita libero e dignitoso che la retribuzione deve assicurare, considera
separatamente la persona del lavoratore e la sua famiglia. È pure da tener presente che, nella discussione svoltasi nell'Assemblea costituente a proposito dell'art. 32 del pro getto, fu rilevato che commisurare la retribuzione alle
esigenze oltreché del lavoratore anche della famiglia, avrebbe dato luogo a discriminazioni fra lavoratori che compiono un identico lavoro. Ma l'Assemblea approvò l'art. 32 (che corrisponde, con lievi modificazioni di forma, all'art. 36
Cost.) secondo il testo proposto dalla Commissione ; il cui Presidente aveva insistito sulla necessità che il salario debba corrispondere, oltreché alle esigenze personali del
lavoratore, anche a quelle della famiglia. Ora, in base a siffatta distinzione, si giustifica che il
corrispettivo, dovuto al prestatore d'opera, possa essere diverso nell'ammontare complessivo, in relazione alla situa zione personale del medesimo. Poiché la retribuzione, di una certa misura, può essere sufficiente per le esigenze della vita di un lavoratore non avente familiari a carico, ma non esserlo nell'ipotesi contraria.
Pertanto, dato che, come ha già ritenuto questa Corte (sentenze n. 1 e n. 6 del 1960, Foro it., 1960, I, 201 e 353), il fatto che la Costituzione attribuisca, come nel caso, un diritto subiettivo perfetto, senza rinvio ad una legge ordinaria, non esclude che questa possa inter venire per regolare in concreto l'esercizio del diritto
medesimo, ne consegue che la disposizione del decreto
legisl. del 1947, richiamata dall'art. 1 della legge del 1958 ora in esame, che stabilisce una misura diversa del l'indennità di contingenza in relazione alla qualità o meno di capo famiglia dei portieri, per quanto si è detto, non appare in contrasto, ma si adegua alla norma del l'art. 36, 1° comma, Cost. E si adegua altresì al principio dell'uguaglianza, contenuto nell'art. 3 : principio che, ha
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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE E CIVILE
più volte ritenuto questa Corte, non esclude che il legisla tore ordinario possa dettare norme diverse per regolare situazioni considerate diverse.
Appena occorre aggiungere, in fine, che nessuna vio
lazione può ravvisarsi dell'art. 37 Cost., del resto inciden
talmente richiamato nell'ordinanza, poiché alla parifica zione delle donne agli uomini, per quanto riguarda la retri
buzione nel caso di uguali prestazioni, ha espressamente
provveduto, come si è in precedenza accennato, l'art. 1,
ultimo comma, legge 4 febbraio 1958 n. 23. Con la conse
guenza, riguardo all'attuale controversia, che le retribuzioni
dovute ai portieri di entrambi i sessi, devono essere equi
parate, anche quando essi abbiano rispettivamente la
qualità di capo famiglia o di non capo famiglia. Per questi motivi, dichiara non fondata la questione,
proposta con ordinanza del 19 giugno 1959 del Tribunale
di Napoli, sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 della
legge 4 febbraio 1958 n. 23 (contenente norme per il conglo bamento e perequazioni salariali in favore dei portieri ed
altri lavoratori addetti alla pulizia e custodia di stabili
urbani), in riferimento agli art. 36 e 37 della Costituzione.
SORTE COSTITUZIONALE.
Sentenza 4 maggio 1960, n. 29; Pres. Azzariti P., Rei.
Petrocelli ; imp. Baldi e Ginori Conti (Avv. Sabatini,
Sermonti) ; interv. Pres. Cons, ministri (Avv. dello
Stato Salerni).
Sciopero e serrala — Serrata — Incostituzionalità
della normativa (Costituzione della Repubblica, art.
39, 40 ; cod. pen., art. 502).
Per contrasto con gli art. 39 e 40 della Oostituzione sono di
chiarati illegittimi l'art. 502, 1° comma, cod. pen., che
punisce con la multa non inferiore a lire diecimila Vivi
prenditore, il quale, al solo scopo d'imporre ai suoi dipen
denti modificazioni ai patti stabiliti o di opporsi a modi
ficazioni di tali patti, ovvero di ottenere o di impedire una
diversa applicazione dei patti o usi esistenti, sospende
in tutto o in parte il lavoro nei suoi stabilimenti, aziende o
uffici, e il 2° comma dolio stesso articolo, che punisce con
la multa sino a mille lire i lavoratori, addetti a stabili
menti, aziende o uffici, i quali, in numero di tre o più,
abbandonano collettivamente il lavoro, ovvero lo prestano in
modo da ridurne la continuità o la regolarità, col solo scopo
di imporre agli imprenditori patti diversi da quelli
stabiliti, ovvero di opporsi a modificazioni di tali patti o,
comunque, di ottenere o impedire una diversa applica
zione dei patti o usi esistenti. (1)
La Corte, ecc. —- La questione di legittimità costitu
zionale, proposta con le ordinanze del Giudice istruttore
presso il Tribunale di Pisa, ba per oggetto di stabilire se
l'art. 502, 1° comma, cod. pen., posto con altre norme a
tutela dell'ordinamento corporativo istituito con la legge
3 aprile 1926 n. 564, sia in contrasto col sistema di libertà
sindacale e col sistema di libera iniziativa economica, sanciti
negli art. 39, 40 e 41 della Costituzione.
È noto che, anteriormente al sistema corporativo, la
serrata e lo sciopero, in conformità di quanto era stabilito
in quasi tutti gli ordinamenti democratici dell'epoca, costi
tuivano illecito penale solo se attuati con violenza o minac
(1) Il Giudice istruttore penale del Tribunale di Pisa, con
le ordinanze 2 e 4 marzo 1959 (Le Leggi, 1959, 332), aveva ri
messo alla Corte costituzionale la questione d'incostituzionalità
del 1° comma dell'art. 502 cod. pen., ma la Corte, in applicazione
dell'art. 27 legge 11 marzo 1953 n. 87, dichiara l'incostituzio
nalità anche del 2° comma ; successivamente, il Giudice istrut
tore penale del Tribunale di Vicenza, con ordinanza 18 gennaio
1960 (in questo volume, II, 111, con nota di richiami) ha
rimesso alla Corte costituzionale la cognizione della questione
d'illegittimità del 1° comma dell'art. 502.
eia, sì da trascendere in impedimento o restrizione della
libertà del lavoro. La dottrina penalistica, infatti, in rela
zione alle fattispecie prevedute negli art. 166 e segg. cod.
pen. del 1889, considerava oggetto della tutela penale l'in
teresse della libertà individuale sotto l'aspetto della libera
esplicazione del lavoro ; come del resto si deduceva dal
fatto che quegli articoli erano compresi nel capo denominato
appunto dei delitti contro la libertà del lavoro.
Ben diverso sistema fu instaurato con la ricordata legge del 3 aprile 1926. Il regime di libera competizione fu sosti
tuito con una « disciplina giuridica dei rapporti collettivi
di lavoro» (tale fu il titolo della nuova legge), disciplina della quale uno dei criteri fondamentali fu quello espresso nell'art. 13 della legge, cioè che tutte le controversie relative
ai rapporti collettivi di lavoro, concernenti, sia l'applicazione dei contratti collettivi e di altre norme esistenti, sia la ri
chiesta di nuove condizioni di lavoro, divenivano di compe tenza delle corti di appello funzionanti come magistrature del lavoro ; criterio che trovò il suo suggello nell'art. 22
della legge, il quale configurava come delitto la mancata
esecuzione delle decisioni del magistrato del lavoro. Di
fronte a tale sistema la serrata e lo sciopero apparvero come forme di ribellione alla nuova disciplina giuridica, la quale, essendo fondata sulla risoluzione giudiziaria dei
conflitti del lavoro, non tollerava atti che ne costituissero
sostanzialmente un rifiuto, traducendosi, nell'ambito di
quel sistema, in una vera e propria forma di ragion fattasi.
Ne veniva di conseguenza il divieto della serrata e dello
sciopero, divieto che si volle presidiare con la sanzione pe
nale, trasformando in reato fatti che erano stati libera
espressione delle competizioni del lavoro. Al qual proposito è particolarmente significativo un passo della Kelazione
ministeriale al progetto definitivo per il cod. pen. del 1931
(vol. II, pag. 289), dove si sostenne che il divieto della ser
rata e dello sciopero si rendeva necessario « per segnare un
netto trapasso fra due regimi, e porre un energico discono
scimento del principio democratico, che, all'opposto, am
metteva la libertà di coalizione e di sciopero ».
Il sistema posto su queste basi non poteva soprav vivere al ripristino dell'ordinamento democratico. Infatti,
ancor prima dell'avvento della Costituzione, col decreto
legge 9 agosto 1943 n. 72, e poi col decreto legisl. Iuog. 23
novembre 1944 n. 349, si volle subito, non ostante qualche
sopravvivenza di carattere non fondamentale, incidere
radicalmente sulle strutture essenziali di quel sistema.
Il problema del divieto penale dello sciopero e della serrata
non tardò a presentarsi, ma assunse il suo preciso rilievo
con l'entrata in vigore della Costituzione, la quale nell'art. 40,
mentre dichiarava essere lo sciopero un diritto del lavora
tore, da esercitarsi nell'ambito di leggi regolatrici, taceva
del tutto della serrata. A parte le questioni sul diritto di
sciopero, presto suscitate dalla larga enunciazione dell'art.
40, relativamente sia al carattere stesso della norma e
alla sua estensibilità o meno allo sciopero non economico,
sia alla esistenza di limiti già nel vigente ordinamento, per ciò che riguarda la serrata, la dottrina e la giurisprudenza si
manifestarono prevalentemente nel senso che anche quel divieto penale dovesse considerarsi caduto col vecchio
sistema. Significativa a tal proposito è una sentenza della
Corte di cassazione (18 giugno 1953, Foro it., 1954, I, 34), la quale statuì essere la serrata un atto penalmente lecito,
sebbene non, a differenza dello sciopero, esercizio di un di
ritto. All'incirca nello stesso ordine di idee venne a trovarsi
quella parte della dottrina che ritenne di qual'f carela serrata
come un diritto di libertà, assumendo genericamente tale
espressione nel senso di facoltà giuridica di fare tutto ciò che
non è vietato dalla legge. Bullo sfondo di questi precedenti va appunto esa
minata la questione propriamente devoluta all'esame di
questa Corte, se cioè la norma del 1° comma dell'art. 502
cod. pen. sia in contrasto con gli indicati articoli della Co
stituzione.
È da ritenere in primo luogo non esatta la impostazione iniziale dell'Avvocatura dello Stato, enunciata sin dal
l'atto di intervento del 20 aprile 1959, secondo la quale il
problema della legittimità o meno del divieto penale della
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