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C’è un solo modo per dare una bella sferzata al metabolismo: l ... · che spiega come il pepe di...

Date post: 05-Oct-2020
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1 1 C’è un solo modo per dare una bella sferzata al metabolismo: l’esercizio fisico. Lo capisco mentre sto rivedendo un articolo che spiega come il pepe di Cayenna, l’estratto di cannella e dosi massicce di caffè potrebbero ingannare il tuo corpo, forzandolo a bruciare più calorie (ma forse no). Sto riflettendo su come dire in maniera carina al mio capo che il pezzo è un ammasso di scemenze impubblicabili, quando squilla il telefono. Odio il telefono. Del resto, odio anche questo articolo, quindi rispondo. «Parlo con Marissa Rogers, l’esperta mondiale di dima- grimento?» «Ciao, Jules», rispondo sollevata. È la mia migliore amica e non un addetto stampa che cerca di rifilarmi l’ultimo stre- pitoso ritrovato sciogli-grasso. «Non hai idea della robaccia su cui sto lavorando.» «Fammi indovinare… una ricetta vegana di biscotti al cartone?» «No, quella ha almeno l’aria di essere commestibile», rido, riferendomi all’incessante battaglia di Julia per mantenere una linea da grissino. «Fuochino, comunque. Fai un altro tentativo.»
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C’è un solo modo per dare una bella sferzata al metabolismo: l’esercizio fisico. Lo capisco mentre sto rivedendo un articolo che spiega come il pepe di Cayenna, l’estratto di cannella e dosi massicce di caffè potrebbero ingannare il tuo corpo, forzandolo a bruciare più calorie (ma forse no). Sto riflettendo su come dire in maniera carina al mio capo che il pezzo è un ammasso di scemenze impubblicabili, quando squilla il telefono.

Odio il telefono. Del resto, odio anche questo articolo, quindi rispondo.

«Parlo con Marissa Rogers, l’esperta mondiale di dima-grimento?»

«Ciao, Jules», rispondo sollevata. È la mia migliore amica e non un addetto stampa che cerca di rifilarmi l’ultimo stre-pitoso ritrovato sciogli-grasso. «Non hai idea della robaccia su cui sto lavorando.»

«Fammi indovinare… una ricetta vegana di biscotti al cartone?»

«No, quella ha almeno l’aria di essere commestibile», rido, riferendomi all’incessante battaglia di Julia per mantenere una linea da grissino. «Fuochino, comunque. Fai un altro tentativo.»

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«Uhm… centoquarantadue modi per perdere gli ultimi due chili e mezzo?»

«Fuocherello, ma niente da fare», le dico. «Trucchi me-tabolici.»

Julia grugnisce. «Non posso crederci… ancora questa storia?»

«Lo so. Quest’anno è già la quinta, sesta volta», ribatto, e non sono lontana dalla realtà. La rivista Curve, come molte altre che si occupano di benessere, ripete gli stessi dieci articoli allo sfinimento: ogni volta differiscono in misura millimetri-ca dalla versione precedente, così da non sembrare proprio identici. I servizi sul metabolismo, ho stabilito, vanno su e giù, nella classifica dei nostri argomenti più ripetuti: posizionan-dosi prima dei clisteri (esplosivi, ma efficaci) e dopo i segreti dei divi per dimagrire (dieta ed esercizio, che nel linguaggio di Hollywood sta per anfetamine e anoressia).

L’avviso di un’e-mail fa capolino nell’angolo destro del mio computer. Appena la chiudo, eccone un’altra, e poi un’altra ancora. «Senti, devo darmi una mossa, se voglio uscire di qua prima di notte», spiego a Julia. «Tutto ok per il nostro appuntamento?»

«Certo», risponde. «È proprio per questo che ti chiamo. Ti va bene anche alle sei e mezzo? Sono in lievissimo ritardo.» E poi aggiunge nel suo tono più dolce: «Devo solo passare a prendere una cosina».

«Niente regali!» la rimprovero. «Stasera offro io. Sei tu quella che è stata promossa, giusto?» le dico riferendomi alla sua recente promozione ad agente pubblicitario senior per il City Ballet di New York.

«Non è un regalo, testa di rapa.»«Julia.»«Marissa», mi scimmiotta. Riesco praticamente a im-

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maginarmela mentre sorride all’altro capo del telefono. «Ci vediamo. Non fare tardi!»

Due ore – e mezzo bicchiere di Cabernet – più tardi sono seduta a un tavolo accanto alla vetrata di un ristorante, cer-cando di non essere irritata, anche se sono quasi le sette e Julia non accenna a farsi viva. Se stessi aspettando chiunque altro, me ne sarei andata già da un quarto d’ora: cresciuta da una madre ritardataria cronica, sull’argomento sono assolutamente intollerante. Ma in questo caso posso solo prendermela con me stessa, perché so benissimo che le chance che Julia si pre-senti all’ora stabilita sono pari a quelle di vedere orsi polari che sguazzano nell’Hudson.

Sorseggio un altro po’ di vino e giocherello con il pezzettino di formaggio che mi ha portato un cameriere come aperitivo (senza pensare al fatto che, con nove grammi di grasso per ogni minuscola porzione, non posso nemmeno avvicinarlo alla bocca). Al di là della vetrata, Gramercy palpita di vita. Adoro questo quartiere, con i rami delle magnolie che arrivano quasi a terra e le vecchie facciate di arenaria. C’è ancora un po’ di luce, e, come spesso accade a settembre a New York, fa ab-bastanza caldo da poter andare in giro in sandali e abiti corti.

Scorgo in lontananza una brunetta dall’aria familiare che attraversa a grandi passi Irving Place e sono punta da un fugace moto di invidia; a differenza di Julia, non sarò mai il tipo di donna che gli altri pedoni si voltano a guardare. Non che abbia un aspetto da indossatrice – in una città piena di modelle sarebbe poco degno di nota. È il suo volto a forma di cuore e i suoi occhioni grigi che sono strabilianti, e il fatto che si muove con tale scioltezza da attirare gli sguardi. Quando usciamo, la gente la ferma per chiederle da dove viene. Ogni volta si inventa una nuova provenienza – Honduras, Ucraina,

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Siria – con il suo migliore accento del Midwest, e poi si piega in due dalle risate.

Nel momento in cui riesco a metterla a fuoco, mi accorgo dell’enorme mazzo di peonie bianche che ha sottobraccio, sicuramente per me. Fuori stagione, quei fiori devono esserle costati una fortuna, ma è abbastanza improbabile che si sia posta il problema di chiedere il prezzo al fiorista prima di porgergli la carta di credito. Una volta le ho detto che mi sentivo in colpa: mi sembrava che lei fosse sempre obbligata a portarmi qualcosa. «Il mio linguaggio affettivo è fatto di doni, il tuo di momenti preziosi che mi regali», mi aveva spiegato in modo molto diretto, e così ho finito per smettere di protestare quando si presentava con un pacchetto di caffè preso a San Juan, o con un soprammobile di vetro soffiato trovato su una bancarella, o, come oggi, con dei fiori.

Julia percorre la strada a tempo di record, ha ben presente che la sto aspettando. Arriva all’angolo, mi vede dietro la vetrata e mi lancia un enorme sorriso. Sollevo il mio calice in segno di saluto e lei mi fa un cenno di risposta, poi fa un piccolo passo verso di me e attraversa la strada.

Ancora prima che io riesca a riappoggiare il bicchiere sul tavolo, un taxi la investe.

Tutto succede così velocemente che faccio a malapena in tempo a registrare la saetta di metallo giallo che colpisce Julia facendola rimbalzare sul cofano e poi sull’asfalto.

Non grido. A dire il vero, non faccio nulla finché non mi accorgo di essermi bagnata i pantaloni: ho rovesciato il vino dappertutto. Mi alzo di colpo e corro fuori, facendomi largo tra la piccola folla che si è radunata. Le voci si accavalla-no, e colgo spaventosi mozziconi di frasi uno dopo l’altro. «Davvero impressionante», «Frattura del cranio», «Natasha Richardson», «Morta».

Cercando di riprendermi dallo shock, mi preparo a una

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scena tremenda. Quando finalmente raggiungo Julia, però, non solo è cosciente, ma sta anche cercando di mettersi a sedere. Ha i capelli scompigliati davanti al viso, e il suo gi-nocchio destro, che fa capolino dalle calze rotte, sanguina. A parte questo, non sembra più turbata di una persona che è semplicemente inciampata.

Alza lo sguardo verso di me, poi fissa con ansia i petali bianchi sparsi tutto attorno a lei. «I tuoi fiori.»

«Julia! Tutto bene?» ho la bocca secca, e sento un sapore metallico sulla lingua. «Non preoccuparti dei fiori. Leviamoci dalla strada.»

Una signora anziana punta il dito verso Julia. «Ha battuto la testa, e anche forte. Farebbe meglio ad andare in ospedale.»

«Ho chiamato un’ambulanza», sta dicendo il tassista, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Ha gli occhi arrossati, e capisco che ha pianto.

«Niente ospedale», risponde Julia alzandosi lentamente in piedi. «Sto bene.» Indica debolmente il tassista. «Potevi ammazzarmi.»

Devo avere un’aria preoccupata, ma Julia mi rassicura. «Sto bene. Mi sento solo un po’ molle.»

«Certo. Perché non ti rimetti a sedere?» Raccolgo la sua borsetta da terra. «Vado a prendere i dati del tassista.»

«Grazie», mi risponde, e lascia che un tizio con l’aria da bancario, palesemente colpito dalla sua avvenenza, la accom-pagni sottobraccio fino a una panchina di fronte al ristorante.

«Quella signora ha ragione, tesoro. Dovresti farti dare un’occhiata», mi rivolgo a lei mentre frugo nella borsa in cerca di carta e penna – e non è affatto facile, visto che non riesco a smettere di tremare. Mi sto rendendo conto che per un pelo la mia migliore amica non è stata stirata dalle auto che arrivavano dietro al taxi, e non è affatto bello. «Non

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vorrai mica scoprire di esserti rotta qualcosa domani, alla lezione di danza.»

La folla si dirada rapidamente, e aspetto sul marciapiede che il tassista recuperi il suo libretto di circolazione e l’assi-curazione. Dopo aver controllato e ricontrollato i dati che ho scarabocchiato, mi giro di nuovo verso il ristorante.

Mi accorgo subito che c’è qualcosa che non va. Julia è accasciata sulla panchina, con le mani sulle orecchie. «Mi fa male la testa», dice. Ondeggia leggermente mentre cerca di guardare verso di me, e mi accorgo di un sottile rivolo di sangue sotto la narice destra. Poi si lamenta. «Ho la nausea.»

Non riesco a fare a meno di ritrarmi – proprio non sop-porto la vista o l’odore del vomito. Ma anziché rigettare, Julia crolla lunga distesa sulla panchina prima che il bancario possa afferrarla.

«Ambulanza… arriva?» riesce a biascicare.E poi sviene.

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A quattordici anni, dopo una serie incessante di pressioni, riuscii a convincere mia madre a iscrivermi al liceo superesclu-sivo di Ann Arbor. Le medie erano state un inferno, e volevo dare un taglio netto alle mie scarse e sfigatissime amicizie, ma soprattutto ai bulli che mi tormentavano senza tregua. Sapevo anche che il liceo a cui sarei dovuta andare a Ypsilanti, dove vivevamo, era uno dei peggiori dello Stato. Avevo trasmesso con noncuranza l’informazione a mia madre, che immedia-tamente mi aveva sfilato di mano la penna e aveva firmato il modulo di richiesta di trasferimento che mi ero già presa la libertà di compilare.

Mi pentii della mia decisione nell’esatto istante in cui varcai le porte del liceo Kennedy. I ragazzi nell’atrio sembravano essere usciti direttamente da una versione deluxe di Beverly Hills 90210. Le ragazze erano tanto truccate da avere un’aria trash, ma non sgradevole, e indossavano camicette con vo-lant e leggings che non solo non mi sarei potuta permettere, ma che addosso a me, bassotta e rotonda, sarebbero stati ridicoli. E a differenza dei ragazzi del mio quartiere, la cui idea di «stile» consisteva in magliette dai colori sgargianti e jeans con il cavallo al ginocchio, il liceo Kennedy sembrava

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brulicare di ragazzoni dall’aria atletica con felpe dai toni pa-stello e pantaloni che – aiuto! – calzavano davvero a pennello. Chiaramente, non era un posto per me.

Il sospetto divenne certezza già alla prima ora: nemmeno un’anima viva mi rivolse la parola. Cercai di sorridere e di lanciare allegri «ciao!» più di una volta, ma persino l’adole-scente alla mia sinistra, fasciato da pantaloni attillati e con una mega-capigliatura afro, si limitò a fissarmi senza dire nulla.

All’ora di pranzo ero ormai convinta di aver fatto l’errore più colossale della mia breve vita. Cercai di assumere la mia espressione migliore mentre prendevo il vassoio di plastica blu e ciondolavo in fila, ma non appena entrai nell’affollata sala mensa – e capii di non avere nessuno accanto a cui sedermi – faticai a ricacciare indietro le lacrime.

Di colpo, sentii: «Ehi, vieni qui!»Ed ecco Julia, che mi faceva cenno di raggiungerla al suo

tavolo. Ero così stupita che – non scherzo – mi voltai per con-trollare che non stesse parlando a qualcun altro. «No, proprio tu, sciocca», si mise a ridere, indicando la sedia accanto alla sua. «Marissa, giusto? Ti ho vista alla lezione di biologia.» Fissavo il vuoto con aria assente. Avevo notato Julia, che troneggiava in mezzo a una corte di bambole perfettamente pettinate, ma non pensavo assolutamente che mi avesse de-gnato di uno sguardo. Continuò: «Stavo giusto dicendo a Jen, qui», la bionda accanto a lei, certo, «che secondo me hai i capelli più belli della scuola! Cosa ci metti?»

Sorrisi, imbarazzata e lusingata allo stesso tempo. Avevo capito, già un bel pezzo prima del liceo, che il mio aspetto era assolutamente ordinario. L’unica cosa degna di nota, in me, sono i miei capelli: folti, ondulati, di color castano ramato, sono la mia parte migliore, e ne sono sempre stata vanitosa-mente orgogliosa.

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«Oh, cavolo. Grazie», risposi. «Niente di speciale, davvero. Shampoo, un po’ di balsamo e via.»

«Fa-vo-lo-so! Sono invidiosa», aggiunse. Che una come Julia, a quattordici anni già uno schianto, potesse essere invi-diosa di me era assolutamente ridicolo. Anche se non l’avrei fatto notare. Mi appoggiò un braccio su una spalla. «Vieni, siediti, ti presento in giro. Le ragazze ti adoreranno.»

Come previsto, ovviamente, le bamboline non mi adoravano affatto. Ma, con mio grande stupore, Julia sì. «Sei davvero fortissima», disse ridacchiando a un paio di mie battute, e fulminando con lo sguardo Jen S., fino ad allora nota come «la divertente del gruppo», per aver osato alzare gli occhi al cielo quando aveva sentito il complimento.

Mi fu presto chiaro che, per quanto l’incantevole e ca-rismatica Julia amasse essere circondata da ammiratori, le mancava l’unica cosa che volesse davvero: una confidente. Si era stufata, mi aveva confessato, della totale assenza di curiosità dei suoi amici per qualsiasi argomento al di fuori del football o della moda. «Ma tu e io, Marissa», mi aveva detto con tono da cospiratrice, «ora potremo parlare di tutto.» E così facemmo. Stavamo sveglie fino all’alba a discutere se Emily Dickinson fosse contenta di stare da sola, se le meren-dine del supermercato valessero davvero la pena, con tutte quelle calorie, quanto la vita sarebbe stata migliore quando finalmente saremmo diventate adulte e saremmo scappate dal Michigan per pascoli più verdi – più di preciso, a New York, dove lei avrebbe sfondato nel mondo del balletto e io sarei diventata la più giovane capo redattrice nella storia dei settimanali.

Non ci volle molto tempo per diventare inseparabili. Essere la migliore amica di Julia era come avere sempre in tasca un

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biglietto per un mondo divertente, pazzesco e ultraprivilegiato, e i primi sei mesi non furono altro che un corso intensivo di recupero. «Non hai mai sentito parlare dei Pearl Jam?» esclamò Julia accorgendosi della mia ennesima inadeguatezza. Poco male: trascorse i due giorni successivi a iniziarmi al mondo del grunge. Quando le confessai la mia totale ignoranza in tema di anatomia maschile, colmò le lacune che le lezioni di educazione sessuale avevano lasciato. E, senza che lei pro-ferisse un solo commento sul mio guardaroba pietoso, ben presto cominciammo a dedicarci a sabati di shopping in cui mi insegnava a scegliere i capi migliori nei negozi di vestiti usati e a indossarli in modo da valorizzare i miei fianchi generosi.

Julia era un cavo ad alta tensione, e tutto quello che toc-cava si elettrizzava – me compresa. Mi sentivo come se mi avesse risvegliata dopo anni di sonno profondo. Come avevo fatto a non capire che la mia vita, fino ad allora, era stata così noiosa? E tuttavia, appartenevamo a galassie talmente diverse che non riuscivo a scuotermi di dosso la sensazione che provasse pietà per me.

Con il passare dei mesi, incominciai a rendermi conto che sotto la vernice dorata, Julia nascondeva un interno irregolare e imperfetto. Figlia unica di genitori ricchi, era abituata ad averla sempre vinta e, a differenza di me, non si faceva scru-poli a fare una scenata se non ci riusciva. Nonostante fosse la persona più sicura di sé che avessi mai conosciuto, era anche estremamente possessiva. «Tu ed Heather avete già passato fin troppo tempo assieme», mi disse una volta mettendo il broncio e riferendosi alla mia compagna del corso di biologia. E io, non volendo rischiare di mandare tutto all’aria, non feci altro che chiedere all’insegnante di mettermi in coppia con qualcuno che «chiacchierasse di meno», lasciando la povera Heather con un palmo di naso. Generalmente, però, sapevo

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calmarla e confortarla, aiutandola a tenere nascosti al resto del mondo i suoi spigoli più affilati.

Una volta, durante il primo anno, mi chiamò in lacrime a tarda notte. «Mari, vieni subito, non ce la faccio.» Preoccupa-tissima, sgattaiolai fuori di casa, saltai su un autobus, e mi feci a piedi quasi un chilometro dalla fermata a casa Ferrar, dove mi intrufolai in silenzio. La stanza di Julia era vuota, e così andai a perlustrare la biblioteca che i suoi genitori avevano trasformato in una sala di danza. La trovai lì, in maglietta, calzamaglia e scarpette a punta, con il viso solcato di lacrime.

«Oddio, cos’è successo?» le chiesi. Il cuore mi batteva a mille all’ora. Non l’avevo mai vista in quello stato.

«Sono i miei genitori», disse asciugandosi la guancia con il dorso delle mani. «Non mi capiscono. A volte sembra che mi odino.»

Le passai il braccio dietro la schiena in una stretta im-provvisata. «I tuoi ti adorano. Non hai idea di quanto tu sia fortunata.»

«No!» esclamò in un gemito. «Sono ciechi. Papà dice che devo andare ad Harvard, e non alla Juilliard. Io non voglio! Si è mai vista una ballerina, ad Harvard? Il suo cervello di avvocato è così ossessionato dalla logica che non è capace di vedere qual è il mio destino.» Riprese a piangere.

Non lo avrei detto ad alta voce nemmeno per sogno, ma non capivo perché Julia ce l’avesse tanto con i suoi. Mia madre, che si era sobbarcata il ruolo di genitore unico fin da quando io e mia sorella Sarah eravamo alle elementari, lavorava con orari massacranti, e quando era in casa la sua idea di maternità consisteva nel dirci dove sbagliavamo. «Marissa, non credo che quella gonna ti faccia esattamente un favore», mi diceva per salutarmi quando, la mattina, ci incrociavamo in bagno. A volte cercavo di attirare la sua attenzione dicendole qualcosa di esagerato, per esempio che sarei stata stata fuori la sera

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fino alle due, e che probabilmente alla festa a cui andavo ci sarebbe stata della birra: la sua reazione era guardarmi da dietro le pagine del romanzo rosa che stava leggendo e mor-morare: «Sei una ragazza intelligente. Usa la testa, ed evita i ragazzi che ti ricordano tuo padre». E per quanto riguarda l’università, mi aveva chiaramente detto che se mai avessi voluto frequentarla sarebbe stata una scelta unicamente mia, il che rendeva gli istituti più prestigiosi un miraggio.

I genitori di Julia, invece, sembravano credere non ci fos-sero limiti per nessuna di noi due. «Scommetto che sarai la prossima Katherine Graham», mi incoraggiava Grace quando, nel loro soggiorno, le raccontavo dei voti che prendevo in lettere. A differenza di mia madre – lei sembrava conoscere così poco di me: ogni volta che le dicevo che non mi piaceva la maionese cadeva genuinamente dalle nuvole – Grace sapeva che amavo le scienze, sebbene fossi un disastro, e che avevo un debole per le barrette di cioccolato al burro di arachidi. Era al corrente addirittura della mia cotta per Adam Johnson, un ragazzo di un anno più grande, che io sospettavo essere innamorato di Julia. La questione era semplice: Grace e Jim davano l’impressione di adorare la loro figlia, e anche me. Se gliel’avessimo permesso, Grace avrebbe chiacchierato con noi per ore. Jim fingeva di essere severo: «Niente danza finché non hai finito i compiti», si raccomandava. Ma mentre la rimproverava sorrideva sempre, sembrava credere davvero poco a quello che stava dicendo. I Ferrar mi piacevano così tanto che quando mi svegliavo a casa loro, dopo essermi fermata a dormire da Julia, entravo a passi felpati nella loro enorme cucina e mi versavo il caffè, fingendo di essere a casa.

«Jules, hai ancora tre anni per fargli cambiare idea», la consolai. «E inoltre, non importa che università frequenterai. Sarai una star, sicuramente.»

«Lo pensi davvero?» mi chiese dopo un minuto.

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«Certo», le risposi spostandole con dolcezza i capelli dagli occhi. «E così tutti gli altri.»

«Oh, Marissa. Cosa farei senza di te? Proprio nel momento in cui sto per buttarmi di sotto, ecco che arrivi tu a portarmi via dal cornicione.»

«È a questo che servono gli amici, no?» la tranquillizzavo. «Inoltre, tu faresti lo stesso per me. E ora smettiamola di preoccuparci dei tuoi genitori e concentriamoci sul fatto che diventerai la più grande ballerina del mondo. Perché non mi fai vedere quella scena da Giselle che stavi provando?»

«Va bene», disse con un sorriso abbozzato, allacciandosi i nastri delle scarpette. «Comincio da capo.»

Quella notte capii che la sua non era pietà. La verità era che Julia aveva bisogno di me tanto quanto io ne avevo di lei.

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