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DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL ... · La nostra scuola nasce e si fonda su...

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DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL’ESPERIENZA UNA PROPOSTA DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL’ESPERIENZA UNA PROPOSTA Renata Rava PREMESSA “Un gigante che va verso l’infinito”: è con questa sintetica espressione di Rebora, citata dal prof. Grassi lo scorso anno, che intendo iniziare la mia riflessione intorno all’origine, ai fondamenti di una scuola come quella in cui lavoro, da cui derivano i suoi connotati: per delineare l’offerta formativa della scuola non posso non partire da ciò che desidero per me, da ciò che motiva e sostiene la mia persona e quella di chi mi è affidato. In primo piano dunque, prima di calare il discorso in termini più specifici è il riconoscimento del valore della persona e quindi di quel bambino, di quel “gigante” che, già ricco di tutte le sue potenzialità, cammina verso il suo destino. Ma da dove ha origine quella potenzialità, quel suo essere un gigante che va verso l’infinito? Perché è così che dobbiamo guardare ogni nostro alunno. Solo una concezione della persona che ne riconosce il valore nell’essere legame, rapporto con Dio Creatore è ultimamente vera, cioè realista, perché parte da ciò che la persona è, dalla sua originaria natura. Ed è solo una concezione così che permette all’educazione di non scadere nell’esercizio di un potere coercitivo e alla scuola di ridurre il suo orizzonte entro il dettato di norme e aspettative prestabilite sul cammino di quel piccolo gigante La nostra scuola nasce e si fonda su una concezione che guarda la persona nel rapporto col suo destino, con la totalità, dentro una promessa di bene e di riuscita; una scuola e degli adulti capaci di quella creatività e immaginazione necessarie per intravedere e sviluppare le potenzialità che ogni bambino ha inscritte nella propria natura. Lo esprime bene Collodi attraverso la figura di Geppetto che, contrariamente a mastro Ciliegia, intravvede nel pezzo di legno che ha davanti un burattino capace di saltare. Così infatti il card. Biffi commenta nel suo libro “Contro Maestro Ciliegia”: “Maestro Ciliegia è un uomo senza grilli sotto la parrucca. Attende al suo lavoro e non si lascia incantare da divagazioni che tentino di spingere il suo interesse oltre ciò che vede e che tocca (…). Per lui un pezzo di legno è solo un pezzo di legno, in tutto uguale a quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e riscaldare le stanze. Sicché non gli potrà toccare sorte diversa (…) Le prospettive di maestro Ciliegia sono le più convenzionali (…). I progetti di Geppetto sono (invece) così arditi che noi – di solito più vicini alla scolorita saggezza di maestro Ciliegia – li ascoltiamo stupefatti: egli vuol trarne un burattino meraviglioso che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Ci vuole molta immaginazione e molta fiducia (…) per credere di poter liberare da un tronco inerte un personaggio tanto mobile e vivo, così come ci vuole uno sguardo divino per vedere nell’opacità della materia il futuro luminoso dello spirito”. In qualche modo se siamo qui, se siamo insieme, è perché collaboriamo a questa riuscita che solo è nelle mani di un Altro. Facciamo scuola per questo: perché un altro cresca. 1. In questo senso si apre il POF della nostra scuola che sottolinea questo primo criterio educativo: R. RAVA 6 marzo 2004 1
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DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL’ESPERIENZA UNA PROPOSTA

DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL’ESPERIENZA UNA

PROPOSTA Renata Rava

PREMESSA

“Un gigante che va verso l’infinito”: è con questa sintetica espressione di Rebora, citata dal prof. Grassi lo scorso anno, che intendo iniziare la mia riflessione intorno all’origine, ai fondamenti di una scuola come quella in cui lavoro, da cui derivano i suoi connotati: per delineare l’offerta formativa della scuola non posso non partire da ciò che desidero per me, da ciò che motiva e sostiene la mia persona e quella di chi mi è affidato. In primo piano dunque, prima di calare il discorso in termini più specifici è il riconoscimento del valore della persona e quindi di quel bambino, di quel “gigante” che, già ricco di tutte le sue potenzialità, cammina verso il suo destino. Ma da dove ha origine quella potenzialità, quel suo essere un gigante che va verso l’infinito? Perché è così che dobbiamo guardare ogni nostro alunno.

Solo una concezione della persona che ne riconosce il valore nell’essere legame, rapporto con Dio Creatore è ultimamente vera, cioè realista, perché parte da ciò che la persona è, dalla sua originaria natura. Ed è solo una concezione così che permette all’educazione di non scadere nell’esercizio di un potere coercitivo e alla scuola di ridurre il suo orizzonte entro il dettato di norme e aspettative prestabilite sul cammino di quel piccolo gigante

La nostra scuola nasce e si fonda su una concezione che guarda la persona nel rapporto col suo destino, con la totalità, dentro una promessa di bene e di riuscita; una scuola e degli adulti capaci di quella creatività e immaginazione necessarie per intravedere e sviluppare le potenzialità che ogni bambino ha inscritte nella propria natura.

Lo esprime bene Collodi attraverso la figura di Geppetto che, contrariamente a mastro Ciliegia, intravvede nel pezzo di legno che ha davanti un burattino capace di saltare. Così infatti il card. Biffi commenta nel suo libro “Contro Maestro Ciliegia”:

“Maestro Ciliegia è un uomo senza grilli sotto la parrucca. Attende al suo lavoro e non si lascia incantare da divagazioni che tentino di spingere il suo interesse oltre ciò che vede e che tocca (…). Per lui un pezzo di legno è solo un pezzo di legno, in tutto uguale a quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e riscaldare le stanze. Sicché non gli potrà toccare sorte diversa (…) Le prospettive di maestro Ciliegia sono le più convenzionali (…). I progetti di Geppetto sono (invece) così arditi che noi – di solito più vicini alla scolorita saggezza di maestro Ciliegia – li ascoltiamo stupefatti: egli vuol trarne un burattino meraviglioso che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Ci vuole molta immaginazione e molta fiducia (…) per credere di poter liberare da un tronco inerte un personaggio tanto mobile e vivo, così come ci vuole uno sguardo divino per vedere nell’opacità della materia il futuro luminoso dello spirito”.

In qualche modo se siamo qui, se siamo insieme, è perché collaboriamo a questa riuscita che solo è nelle mani di un Altro. Facciamo scuola per questo: perché un altro cresca.

1. In questo senso si apre il POF della nostra scuola che sottolinea questo primo

criterio educativo:

R. RAVA 6 marzo 2004 1

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DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL’ESPERIENZA UNA PROPOSTA

“Primo e principale bene è la persona del bambino. Egli è, pur piccolo, già uomo e deve essere accolto, stimato e guidato perché le sue potenzialità crescano, la sua ragione si sviluppi, la sua libertà si realizzi”.

La scuola è totalmente dominata da questo compito in tutte le sue declinazioni, da quelle più sostanziali fino ai minimi particolari della sua organizzazione: sia cioè che si guardi al compito dell’insegnante quando insegna come quando è in ricreazione, sia alla distribuzione dell’orario settimanale, alla valutazione o ai compiti assegnati; la scuola fa scelte che si misurano con ciò che serve alla crescita di un bambino. In sostanza, la domanda che sottende tale intenzione è: come questo particolare è più funzionale, più adeguato a creare le condizioni di questo sviluppo?

Del resto, la possibile diversità della nostra scuola non è tanto in quello che affermiamo, ma in quanto questo è tenuto presente e determina tutta la nostra proposta e il nostro agire.

Lo scopo della scuola è la crescita della persona: certo la diversità è nella coscienza dello scopo, ma questa coscienza prende volto nel modo concreto con cui affronto le cose: quando stabilisco che cosa fare quel giorno o come fare una lezione a che cosa tengo? Quando faccio una verifica o correggo, quando lodo o quando sgrido che cosa mi sta a cuore?

Prendiamo ad esempio la questione della verifica: cosa può renderla funzionale alla crescita di un bambino? Che essa sia un momento ricorrente nel corso dell’anno e non rimandato invece allo scadere di certi tempi, come quello della valutazione quadrimestrale; che sia un’occasione prima di tutto per il bambino di capire a che punto è, cosa ha imparato, cosa deve correggere e migliorare; che sia infine un’occasione di rapporto tra il maestro e l’alunno, in cui l’adulto faccia intravvedere o suggerisca modalità, strategie, risoluzioni, un momento cioè che abbia un valore formativo e non definitorio, nel senso di voler tradurre rigidamente l’esperienza dell’apprendimento in voti e profitti raggiunti.

Allo stesso modo, l’attenzione alla crescita del bambino si declina anche negli aspetti più semplici; ad esempio, non è banale l’essere in classe, che i bambini siano in classe.

Questo è anche il nostro lavoro: mettere al primo posto non il nostro ruolo ma quel bambino per cui la scuola è fatta.

2. La domanda sostanziale che occorre porsi è: Cosa serve a quel bambino per

crescere? Ritornando al POF del nostro istituto si legge: “La visione della realtà che la scuola propone nasce dall’esperienza cristiana

che è all’origine della sua fondazione e del suo operare. Da essa ne consegue un criterio di positività e di valore per la persona, per tutto quanto

esiste e accade nella vita personale e scolastica”.

Cosa serve alla crescita? Un’ipotesi positiva: non si può insegnare, non si può far scuola avendo come tensione lo sviluppo della persona, la crescita dell’altro, se non si riconosce quel dato così espresso: “Tutto è bene”. Occorre vivere cioè un’opzione positiva, che ci investa e vinca anche dentro le condizioni negative, dentro le contraddizioni di cui la vita è fatta.

Scriveva Pavese in una drammatica espressione che si legge fra le pagine de Il mestiere di vivere:

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DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL’ESPERIENZA UNA PROPOSTA

“Non è già chiaro tutto il suo destino in un bambino di tre anni che, mentre lo vestono, pensa inquieto a come farà da grande, lui che non sa”.

E’ un’ipotesi positiva che irrompe nella realtà dell’esistenza umana come promessa di bene, di bellezza, di verità, che serve all’adulto che sta davanti a quel bambino che non sa, e che gli permette di suggerirgli la via, di comunicargli che ciò a cui è chiamato è un compimento, è un destino buono.

La funzione dell’adulto è testimonianza che un senso c’è, che vale la pena incontrare e conoscere, che c’è al mondo una realtà da investigare, che vale la pena iniziare e ripartire sempre. Lo stesso Pavese non ha potuto fare a meno di riconoscerlo quando scrive:

“L’unica gioia al mondo è cominciare. E’ bello vivere perché vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante”. Il lamento sulla realtà non è educativo. Ciò che invece contraddistingue chi veramente

educa è una passione per il lavoro, un’apertura e una dipendenza da qualcosa di più grande di sé.

E’ una dimensione di benevolenza, di comunicazione del proprio sguardo, della propria persona, per cui per l’educatore non è tanto determinante il “che cosa fare”, quanto il “chi essere”. Come diceva don Milani:

“Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola.

Ho badato a edificare me stesso, a essere io come avrei voluto che diventassero loro”. La scuola si riconosce e si giudica per: la capacità che ha di essere tentativamente

espressione di queste due tensioni: l’amore alla persona e alla realtà. Ci interessa fare una scuola, e vogliamo essere messi nelle condizioni di poterla fare perché prenda forma nella realtà il valore che riconosciamo.

Non esiste un valore separato da una forma: la coerenza ideale è per noi, perciò, anche una provocazione, una domanda aperta nella proposta concreta, negli innumerevoli e particolari aspetti che la mettono in atto e senza i quali anche una scuola libera verrebbe meno al suo compito.

2. CARATTERE PRINCIPALE DELLA SCUOLA ELEMENTARE: L’UNITARIETA’

C’è ora un passaggio che dobbiamo fare perché quanto detto riguarda complessivamente il rapporto educativo: occorre cioè sottolineare quale sia l’apporto della scuola nello specifico del livello elementare, nella fase iniziale, quella che la Riforma definisce come scuola primaria.

Mi pare di poter identificare nel carattere dell’unitarietà la condizione descrittiva del livello categoriale di un bambino, per cui egli conosce la realtà secondo una percezione unitaria e globale e non secondo una sua suddivisione in segmenti.

Allo stesso modo il carattere dell’unitarietà descrive la percezione prevalente che la realtà stessa contiene nel suo multiforme mostrarsi.

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DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL’ESPERIENZA UNA PROPOSTA

Il carattere unitario della proposta, che non si perde mai nel proseguo scolastico dei livelli successivi, ha negli anni che ci riguardano un peso, uno spessore determinante e un valore irrinunciabile.

Dunque abbiamo definito due livelli: l’unità della persona e l’unità della realtà da conoscere. Ciò vuol dire che la proposta scolastica deve rispondere all’unità della persona in tutte le sue dimensioni e attenersi all’unità della realtà secondo tutti i suoi nessi. “Introduzione alla realtà totale; è interessante notare il duplice valore di quel “totale”: educazione significherà infatti lo sviluppo di tutte le strutture di un individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle strutture con tutta la realtà”.

Mi permetto di sottolineare che non sono scontate tali definizioni, soprattutto se si pensa al tempo in cui viviamo e al contesto culturale che lo caratterizza, in cui domina una concezione che relativizza tale valore sia per la persona che per la realtà.

3. LA FORMA DELLA SCUOLA:

1) Il maestro e gli specialisti

1. E’ utile a questo punto chiedersi: come l’ipotesi culturale che vogliamo sostenere determina le scelte della scuola? Quali offerte la concretizzano dentro la dimensione scolastica?

“La crescita del bambino nel cammino scolastico, - suggerisce ancora il POF - è resa possibile dalla figura del maestro. Il maestro, partecipando all’esperienza di conoscenza del reale insieme al bambino, pone un’ipotesi di aiuto e di risposta alle domande che egli ha: la figura del maestro è perciò autorevole, proprio in funzione di questa prospettiva di spiegazione della realtà”.

La scelta del maestro è la forma più adeguata a far prevalere “di fatto”, concretamente, efficacemente, questa inerenza all’unitarietà. Che cosa favorisce il maestro? Una totalità, una responsabilità ultima sul bambino e la possibilità di ricercare i nessi tra la persona e le cose. Non è che sia impossibile questo se ci sono due maestri, come nel tempo pieno, ma è più difficile che sia così perché è immediata una suddivisione di compiti, né è di per sé garantita, perché questa divisione di ruoli e competenze è una mentalità che ci invade, ma l’unità è nella natura della persona.

Ci possono essere più modelli, ma deve essere chiaro perché non rinunciamo al valore del maestro di classe, per cui intravediamo nella figura del tutor, introdotto dalla Riforma, una possibilità più attenta e determinata.

Mi pare che possa essere chiaro che, se da una parte la figura del maestro di classe gioca un ruolo importante dal punto di vista affettivo-relazionale, come condizione di sviluppo e di crescita per il bambino, essa rappresenti dall’altra una decisiva scelta culturale, in quanto fattore fondante e sintetico sia rispetto ad una responsabilità sulla persona sia rispetto all’esperienza di conoscenza della realtà.

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2. Come tale scelta si concretizza nella scuola, considerando anche la presenza di più insegnanti, quali i maestri specialisti, che rappresentano una condizione necessaria per l’insegnamento di certe discipline, quali la lingua straniera, l’educazione motoria o musicale?

Occorre privilegiare una struttura di scuola che favorisca una responsabilità unitaria, come è scritto ancora nel POF:

“Ogni insegnante opera in un comune orizzonte culturale ed educativo. La sua funzione si esplicita in una capacità di rapporto, in una competenza professionale, in una corresponsabilità”.

Qual è il valore dei maestri specialisti?

- Innanzitutto, esso consiste nel far vedere in ambiti e modi diversi la stessa ipotesi, la stessa intenzione educativa.

- In secondo luogo, il valore degli specialisti consiste nel garantire tutte le capacità e le dimensioni della persona, secondo una competenza specifica che viene trasmessa attraverso un gusto, tramandata come propria passione.

Quali invece le condizioni che favoriscono quel comune orizzonte culturale ed educativo?

- che prevalga uno sguardo sulla persona, prima che una preoccupazione sull’insegnamento di ogni specifica disciplina.

- che l’insegnamento specifico, che sia la lingua inglese o la ginnastica, sia pertinente all’educazione, cioè abbia un valore formativo, e nello stesso tempo che sia valido nello specifico dei contenuti e dei metodi della disciplina.

- la formazione di un organico stabile all’interno della scuola. Ciò significa un’implicazione totale dell’insegnante specialista nella vita di quella particolare scuola, nei diversi aspetti che la caratterizzano: la partecipazione ai momenti di festa comuni, alle gite della classe, all’interrogazione agli esami, a momenti organizzati di vacanza e convivenza. Così inteso e vissuto, il compito dell’insegnante specialista acquista una valenza maggiore nel comune progetto educativo che lo distingue dall’essere semplicemente l’esperto, il tecnico di quella particolare disciplina.

In questa collaborazione tra maestro di classe e insegnanti specialisti è necessario però salvaguardare una gerarchia di valori che pone il maestro di classe in una posizione centrale, come colui che coordina e sintetizza i diversi interventi, che garantisce cioè quel carattere unitario dell’educazione, sia nei confronti della persona che della realtà. In questo senso, ad esempio, sia la compresenza che il sostegno sono da vedersi come supporti del compito del maestro e non come una ripartizione di competenze o come delega del maestro. In tale prospettiva è possibile maturare tra il maestro e gli specialisti un rapporto di reciproco scambio e di ricchezza.

4. IL SAPERE ELEMENTARE: ESSENZIALITA’

Vorrei ora declinare un altro carattere della scuola elementare che è quello dell’essenzialità.

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Il POF lo enuncia così: “Carattere principale della scuola elementare è l’essenzialità della proposta

educativa e didattica, intesa come approccio globale, totale e immediato alla realtà”.

Di cosa si tratta? Quale criterio introduce questa sottolineatura dell’essenzialità? In sostanza quale strada indica?

1. La scuola rappresenta un’esperienza significativa per il bambino, ma non coincide con la totalità della sua esperienza, non copre la totalità della sua vita: per questo è equivoca la corrispondenza “più scolarizzazione più apprendimento”.

L’essenzialità è una dimensione che investe non solo gli aspetti sostanziali della proposta formativa della scuola, ma anche quelli di carattere strutturale. E’ in questa direzione che si è mossa la Riforma, rispetto ad esempio all’orario settimanale, sia dal punto di vista della riduzione alle 27 ore, sia rispetto all’introduzione della facoltà di scelta di alcune attività scolastiche: garantire un orario che sia delimitato e sufficiente alla funzione della scuola e permettere alla famiglia la scelta di attività e iniziative scolastiche è miglior servizio che proporre tutto a tutti. Tutto può servire, ma non tutto serve.

Che la scuola si assuma realmente la responsabilità di un compito, invece di formulare risposte generiche alle esigenze della famiglia, è segno di chiarezza del proprio operare, al contrario di quella forma di sussidiarietà scolastica che tende a uniformare bisogni e offerte.

Analoga attenzione è suggerita nella proposta che la scuola fa delle attività opzionali. Per noi il criterio è che esse siano in sintonia con l’impostazione generale: innanzitutto, evidentemente, non rendendole obbligatorie ed aiutando la famiglia ad una scelta motivata, in secondo luogo, privilegiando una qualità educativa e quindi un approfondimento legato al percorso comune delle classi che, rispetto ai bambini che ne usufruiranno, possa diversificarsi in attività che mirino a consolidare apprendimenti o in attività che, utilizzando le conoscenze acquisite, favoriscano consapevolezza e comunicazione. Proprio l’inerenza all’esperienza scolastica suggerisce una corresponsabilità di tutti i maestri anche sulle attività opzionali

Allo stesso intento risponde la formulazione di un orario settimanale che, rispettando l’efficacia di tempi adeguati, consideri il tempo libero come necessario e utile alla crescita del ragazzo. Interessante è, a questo proposito, l’articolo di Piero Citati su Repubblica “Elogio del tempo vuoto” in cui l’autore scrive, ricordando la sua infanzia, del suo “gioiosissimo ritorno a casa”e della ricchezza di quelle “due ore e mezzo di libertà assoluta”, e, sfatando un luogo comune sull’esigenza delle famiglie,: “…per metà delle famiglie italiane il “tempo pieno” non è necessario…. Ma in realtà le famiglie italiane vi ricorrono sempre più spesso…….. In primo luogo perché considerano i bambini noiosissimi, invece che una delle ultime cose divertenti rimaste sulla terra. Poi perché sono succubi di una strana venerazione per alcuni pedagogisti, i quali vogliono che tutti i bambini stiano a scuola sempre, in ogni istante, che vivano insieme sempre, ogni minuto, e che nessuno di loro sia lasciato da solo, mai, a nessun costo. Nulla è più pericoloso-essi credono-: perché la solitudine potrebbe persino indurli a pensare…”.

I momenti liberi sono infatti quelli più veri, in cui cioè la persona si muove per quello

che è, rendendo possibile la verifica di quanto sono cresciute e maturate come consapevolezza le ragioni di un’esperienza e di una educazione ricevuta.

Nella nostra scuola la proposta di un orario che si articola in cinque mattine e due pomeriggi rende possibile attività ed esperienze vissute in famiglia e in altri ambiti educativi e comunque liberamente scelti secondo gli interessi e le attitudini del bambino. Nello stesso tempo, favorendo la frequenza di certi tempi della vita scolastica, quali la mensa e la

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ricreazione, permette ai maestri di condividere con gli alunni momenti liberi ed esperienze significative legate alla loro vita quotidiana, dal rapporto col cibo alla scelta dei giochi e delle amicizie. E’, infatti, dentro la condivisione di queste esperienze che il compito educativo del maestro trova spesso un campo fertile, poiché esse sono occasioni irrinunciabili per suggerire, attraverso le situazioni normali e quotidiane, una modalità vivente di rapporto con il reale.

2. Ma c’è un altro passaggio fondamentale che entra nel vivo del sapere elementare. POF: “Il rapporto educativo si attiva principalmente nella proposta didattica”. Tale affermazione apre la questione del rapporto tra educazione e istruzione.

Abbiamo detto all’inizio che oggetto di conoscenza è la realtà nella sua totalità e di fatto che cosa può, vuole e deve conoscere un bambino? Tutto. Non c’è nulla della realtà che non lo riguardi. Ma che cos’è allora una conoscenza elementare? Che cosa è adeguato ad un bambino? Che cosa risponde al suo desiderio di conoscere, alla sua capacità di impatto col reale?

Sarà utile partire da questa definizione: “Elementare non vuol dire generico, ma piuttosto preciso nei suoi elementi sostanziali e libero di fronte a qualsiasi traduzione”. (L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza)

Le occasioni da cui partire, le strade da percorrere sono molte e diverse, ma c’è qualcosa di preciso che è sostanziale. Ci sono esperienze più adeguate di altre. Ci sono materie più importanti di altre. Dobbiamo distinguere la facoltatività di alcune esperienze e l’irrinunciabilità di altre. Occorre conoscere quello che in ciò che insegno è sostanziale, è strutturale, è irrinunciabile in quanto è occasione intrinsecamente legata alla crescita, allo sviluppo di una consapevolezza di sé, del proprio pensiero, del proprio rapporto con il mondo. Ciò che è essenziale è ciò che è costitutivo per la persona. Non significa che ci sono poche cose da imparare, pochi mattoni da mettere insieme ai quali se ne aggiungeranno in seguito sempre di più, non si tratta cioè di trasmettere un sapere sommativo, ma di identificare che cosa è importante che un bambino impari in questa età, perché sia garantito il suo sviluppo.

E’ il “molto poco e molto bene” che Madame Curie desiderava per sua figlia nel realizzare una scuola.

In tal senso allora occorre chiedersi quali discipline rispondono meglio a questa prospettiva.

Ci sono delle discipline che, per costituzione, hanno un prevalente carattere formativo, nel senso che accrescono una consapevolezza, favoriscono la crescita della stessa attitudine: innanzitutto la lingua e subito dopo la matematica. In tal senso l’attenzione posta dalla Riforma Moratti su queste due discipline e, in particolare, sui contenuti della grammatica e della geometria rappresenta un’importante scelta di valore. Entrambe le discipline offrono al bambino un’occasione continua di sviluppo della consapevolezza di sé e della propria esperienza:

Il prof. Rigotti esprime in questo modo il valore dell’esperienza linguistica:

“Attraverso il linguaggio cresce l’esperienza del ragazzo e la qualità, l’intensità, la vitalità, la genialità dell’esperienza sono la qualità, l’intensità, la vitalità, la genialità del linguaggio. Nominare è dare un posto nella propria autocoscienza al concetto che nasce dall’esperienza”.

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Dobbiamo allora riflettere e chiederci: “Quanto parlano i nostri alunni? Quanto scrivono?”

La testualità, infatti, è paziente sviluppo della coscienza. Per questo, nella nostra scuola riteniamo irrinunciabile dare uno spazio prioritario alla scrittura fin dalla prima elementare, affinché essa diventi esperienza quotidiana e familiare per i bambini, mentre lasciamo in secondo piano strumenti diversi quali schede di carattere compilativo.

Allo stesso modo, la matematica ha in sé un valore formativo rispetto alla crescita della conoscenza e consapevolezza della realtà.

“La realtà è complessa e molteplice, ma [c’è] una “ratio”, un ordine destinato ad un fine”: gradualmente si costruisce una consapevolezza della ragione come domanda aperta alla realtà. Il percorso e il metodo che seguiamo perciò nell’insegnamento della matematica nella nostra scuola è quello che privilegia la scoperta da parte del bambino dei concetti matematici che egli inizia ad usare nell’esperienza, ad esempio del gioco, in modo casuale e spontaneo, come quando conta, somma o sottrae. L’insegnamento della matematica ha come scopo quello di ordinare e rendere espliciti tali concetti, attraverso la loro individuazione e rappresentazione simbolica. E’ cioè un’esperienza di crescita e consapevolezza di un certo tipo di esperienza della realtà.

3. C’è un’ulteriore osservazione che riguarda le discipline: è il passaggio che avviene nel percorso dalla Prima alla Quinta e che caratterizza la distinzione dei Bienni: dalla globalità dell’esperienza conoscitiva agli approcci disciplinari. Che cosa significa questo passaggio? Che fino ad un certo anno si incontra, si opera, si agisce e poi (purtroppo) si studia? O che prima va bene la maestra e poi diventa predominante l’esperto, cioè subentra la competenza in un ambito?

La materia è l’occasione preziosa attraverso la quale il bambino che riconosce un certo dato e dice: “E’ così”, incontra, dà nome e distingue, cioè inizia a capire e a scoprire perché “è così”. Ad un certo punto, cioè, nel percorso della conoscenza della realtà circostante, il bambino ha bisogno di scoprire e far sue le ragioni delle cose che vede: è un’apertura della realtà, è un manifestarsi delle ragioni, della sua struttura.

Le materie sono uno strumento per incrementare il rapporto del bambino con la realtà e per scoprire, attraverso contenuti e metodi diversi, quella “connessione attiva” nominata prima e l’adeguatezza fra la struttura del pensiero e la struttura del mondo naturale. L’affronto delle materie di studio da un certo punto in poi non può essere perciò solo seguire e attuare un programma, non si tratta di fornire un cumulo di nozioni.

È l’osservazione di Peguy sulla mummificazione della realtà: “Non sarebbe facile trovare cinquanta insegnanti e neppure trenta, e neppure quindici, che si propongano qualcosa di diverso dall'ossificare e mummificare la realtà, le realtà a loro imprudentemente affidate, e seppellire la materia del loro insegnamento sotto montagne di schede”.

C’è il rischio di opporre ad una elaborazione perfetta degli obiettivi educativi una pratica didattica dettata o dall’enciclopedismo propinato dalle case editrici dei nostri sussidiari o da spunti artificiosi che danno apprendimenti generici, spesso di matrice costruttivista.

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Spesso si propongono lavori fantasiosi, suggeriti da un entusiasmo, da una genialità del docente, ma senza riuscire a proporre un passo conoscitivo sintetico che getti luce sul lavoro di apprendimento sistematico.

Nella stesura e nelle verifiche delle nostre programmazioni didattiche ci preoccupiamo più spesso di una insufficienza quantitativa (“siamo indietro”), mentre si tratta di una questione qualitativa perché non miriamo a sviluppare la conoscenza, a comprendere e a indagare la realtà per scoprirne i diversi linguaggi.

Per questo il lavoro fra insegnanti è e deve essere innanzitutto un lavoro sulla didattica per capirne sempre di più le ragioni ed essere un sostegno reciproco a prendere iniziative che vadano nella direzione di rendere evidente il nesso fra ciò che si studia e la vita, non come affermazione ma in esperienze coinvolgenti e sensate.

4. IL METODO: COME SI IMPARA

A questo punto è importante aprire una riflessione che riguardi il metodo, cioè “come si impara”. Individuo a proposito quattro aspetti, con cui vorrei definire il cuore della questione del metodo e nello stesso tempo le possibili direzioni:

1. Secondo il nostro POF “la scuola è elementare come metodo in quanto comunica in modo semplice, cioè in modo che le parole rimandino immediatamente a ciò che si vuole comunicare”.

Per noi è innanzitutto l’essenzialità del modo di porsi della maestra, che è semplice in quanto rivela:

- la certezza dell’esperienza che l’insegnante fa e che comunica

- la capacità di conoscere il valore di quello che si propone sapendo comprendere e valorizzare quello che emerge come sviluppo.

- la pazienza e la benevolenza che evitano complicazioni ed eliminano inutili fatiche

- la capacità di esemplificare, di far intravedere la totalità nel particolare che si incontra

2. Il metodo poi riguarda l’educazione di alcune dimensioni della persona: noi non siamo per lo spontaneismo, per il “fai da te” o per il “di’ con le tue parole”, perché non si cresce spontaneamente, ma liberamente e la libertà come energia va educata. Se è chiaro lo scopo, imparare una forma, un modo è un grande guadagno. Ci sono aspetti, nel modo di lavorare, ma anche nel modo di essere, che vanno educati, il cui sviluppo rappresenta un’occasione di crescita della libertà del bambino:

- l’attenzione, come condizione necessaria per conoscere: sia che si tratti di imparare ad essere attenti a salutare, a guardare chi hai davanti e ti sta parlando, sia che si tratti di un’osservazione scientifica con il microscopio.

- l’apertura come capacità di incontrare la realtà così come accade, come disponibilità ad impegnare la propria persona e le proprie capacità di fronte al dato: dal compagno con cui ti è chiesto di stare, al mettersi in gioco in un lavoro e tener conto dei dati del problema

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- occorre educare alla domanda, come forma di apertura e curiosità: che sia la domanda per esprimere un bisogno o quella volta a capire di più, anche il motivo dell’errore.

3. Far crescere la libertà dell’altro vuol dire, nel concreto, favorire quelle modalità che fanno crescere la consapevolezza dei bambini e provocano la loro iniziativa.

Ogni apprendimento non possiede valore in quanto ha di puramente meccanico, al contrario, sminuisce la persona, addestra al momento e non tiene nel tempo.

Ma allora come si fa?

Occorre che l’altro a cui mi rivolgo sia tenuto presente nella sua realtà psico-fisica e secondo la sua capacità di pensiero. Nello scorso convegno il Prof. Grassi riprendeva:

“Il mondo categoriale dell’alunno determina in gran parte la comprensione che egli può avere di ciò che vede e sente dire, è origine dei suoi fraintendimenti o della sua difficoltà a capire”. Quando, ad esempio, la maestra si trova a correggere il lavoro di un alunno, che sia la risoluzione di un problema o un testo scritto, deve avere l’accortezza di considerare tutti i fattori in gioco presenti nella logica del bambino: egli ha infatti ragionato secondo le proprie categorie, secondo una logica che riteneva corretta, cosicché in ciò che risulta a prima vista solo scorretto o confuso si può nascondere in realtà un procedimento, un pensiero che, per il bambino, ha la propria ragion d’essere. E’ da lì allora che l’insegnante deve partire nella sua correzione.

Tener conto del bambino nell’insieme delle sue dimensioni vuol dire che la scuola deve fare la scelta di attività che facilitino il suo impegno e la sua iniziativa, che valorizzino abilità per lui interessanti.

In questo senso l’introduzione dei laboratori, voluta dalla Riforma, è l’espressione e la traduzione di una particolare articolazione della proposta che tenga conto di modalità pratiche.

Il laboratorio, in quanto modalità di insegnamento basato sul “fare per imparare”, si configura come modello alternativo a quello della lezione frontale che è la modalità più utilizzata nella scuola.

Per noi nella scuola si tratta di dare maggior spazio all’imparare facendo, ad attività che siano spunti di metodo nel percorso dell’apprendimento.

Nondimeno, occorre volgere l’attenzione verso la strutturazione di attività sportive, musicali ed espressive che contengano una motivazione ed una sfida a crescere, che trovino immediata corrispondenza nel vissuto del bambino.

4. Un ultimo accenno a riguardo di questa essenzialità o semplicità del metodo interessa nuovamente la singola persona. Qualsiasi modello, anche il più perfetto, non garantisce l’“avere a cuore” la persona. Per questo, un certo modo di lavorare attento al cammino concreto di ciascuno è una responsabilità che chiede una cura del minimo particolare, dal correggere ogni quaderno al sentire leggere ciascuno o a sostenere quello che non vuole giocare o che non ha fatto il compito.

La proposta, quanto più è rivolta a quel bambino preciso, tanto più è vera ed efficace. Nessuno, infatti, muove la sua libertà semplicemente perché preso dentro ad un contesto, ma in quanto accolto nella sua unicità e originalità.

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4. IL CONTESTO POF: “Il contesto disciplinato, fatto di regole precise ed essenziali, in cui il

bambino vive, comunica osmoticamente una concezione: per questo la forma che la scuola assume ha un’importanza determinante.

La cura del particolare è tesa a fare emergere sempre una ragione, un senso, sia in classe che nella scuola, sia nei rapporti con le persone che nello svolgimento dei propri compiti”.

Ogni particolare nel contesto scolastico concorre a creare le condizioni favorevoli perché avvenga un cammino di conoscenza.

È anzi evidente che per il bambino ha particolare importanza tutto ciò che gli viene presentato in forma implicita.

1. Il primo aspetto che voglio mettere in luce è quello della struttura della scuola: “L’ordine della persona, del luogo,del proprio materiale scolastico sono alcuni degli aspetti formali ai quali si pone attenzione”.

Nel predisporre aule, spazi, oggetti, strumenti è sempre necessario aver presente il rapporto fra il singolo particolare e lo scopo, che è sempre uno scopo di carattere didattico: non è indifferente che si tenda a fare scelte coerenti con quanto detto prima.

Mi ha confermato in questo la lettura di un articolo della rivista Difficoltà d’apprendimento (Erickson 7/4) sull’influenza che l’ambiente classe può avere nello sviluppo dell’attenzione e della partecipazione al lavoro. In esso è elencata una serie di suggerimenti per una soluzione ideale: il valore del banco, di come e dove è posto, ma anche il valore dell’ordine rispetto a contesti iperstimolanti, o la differenziazione degli spazi rispetto agli scopi.

Un altro fattore che merita tutta la cura possibile è l’orario, perché il valore che abbiamo attribuito a tutto ciò che riguarda la dimensione spaziale, ha uguale peso anche per la dimensione temporale.

La prima condizione da salvaguardare sempre è quella del rispetto dell’orario, dalla puntualità dell’entrata, ai cambi fra gli insegnanti, al rispetto dell’intervallo. Occorre comprendere bene quale sia il contenuto di questa attenzione, sia per quanto riguarda gli insegnanti, sia per gli alunni.

Il punto è che la forma che diamo al nostro agire nel tempo scolastico determina il far prevalere o l’equilibrio della persona o la sua istintività, il suo parere.

Luigi Giussani così ricorda un particolare della sua esperienza quando a dieci anni frequentava il seminario: “Scattare in piedi quando suonava la campana che rompeva i quarti d’ora e le mezz’ore e scandiva così intensamente il tempo delle nostre giornate, interrompendo tutto quello che si stava facendo, gioco o studio che fosse; e poi seguire con intensità leale, questo rendeva cosmicamente grande, utile e fecondo il gesto che si compiva, anche il più piccolo”. È molto significativo il contesto dal quale è tratta questa citazione: si tratta di un commento ad un brano musicale. Viene dunque messa in relazione il rispetto dell’oggettività di alcuni “segni” che cadenzano l’ordine del tempo - come il suono della campana - al valore e alla bellezza dell’armonia che i singoli suoni, le singole frasi musicali determinano quando si succedono nella musica.

C’è un ulteriore aspetto che rende essenziale e non facoltativa l’osservanza puntuale dell’orario, ed è un fattore particolarmente adeguato alle esigenze dei bambini della scuola primaria.

Lo coglie l’autore de Il Piccolo Principe in un passo famoso: “Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe, “se tu vieni, per esempio, tutti i

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pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore” disse la volpe”.

Il valore di un tempo strutturato mostra dunque tutta la sua evidenza nel predisporre al meglio il bambino, di fronte alle sue attese, così come di fronte alle sue responsabilità.

2. Una seconda declinazione è svolta nel POF: “ La classe rappresenta un contesto di rapporti stabili che favorisce l’identità personale. La vita della classe costituisce infatti un importante apporto alla formazione umana e sociale del bambino: le relazioni, il confronto nelle differenze, la solidarietà sono contenuto esplicito e concreto dell’educazione civica, nelle dimensioni personale e comunitaria. La presenza di un gruppo classe non ridotto numericamente è un apporto significativo nell’esperienza sia dal punto di vista relazionale che conoscitivo.”

Aspetto essenziale del contesto scolastico è il gruppo, inteso come classe, ma anche come intera comunità scolastica.

L’appartenenza alla scuola e, nella quotidianità, alla classe è favorita da una stabilità nelle relazioni che ci fanno decisamente rinunciare ad estendere la forma dei gruppi di livello alle attività di laboratorio e a valutare tale possibilità solo relativamente a mirate occasioni. La presenza di bambini diversi nelle capacità è una possibilità e una risorsa.

Tuttavia, non abbiamo mai seguito l’eccessiva sottolineatura che una cultura a noi estranea ha sempre fatto e continua a fare della socializzazione come finalità della scuola.

La comunità, il gruppo, gli amici sono la condizione che facilita il percorso in quanto l’aiuto che deriva da relazioni positive sostiene il rischio e la fatica di un impegno.

“Fare con l’altro” immediatamente riconduce la nostra persona a non essere determinata da sé; lavorare in gruppo ci pone in una prospettiva positiva. Non si impara da soli: la validità di gesti di relazione, come quelli che proponiamo quando favoriamo una responsabilità dei bambini più grandi verso i piccoli o allarghiamo i rapporti delle classi in momenti curati di gioco o di lavoro, è evidente perché svolge dimensioni utili alla crescita.

Occorre però porre attenzione per non confondere la condizione con lo scopo: difficilmente, direi eccezionalmente, si danno nella scuola gesti finalizzati alla convivenza, piuttosto si cura la convivenza perché questa crea la condizione per il gesto.

La scelta di momenti comunitari come le gite o le feste è determinata decisamente dal valore didattico per cui nella scuola si decide quell’iniziativa, anche se è evidente la motivazione diretta che la compagnia dei coetanei suscita nei bambini.

Una gita, per questo, non può essere decisa in base ad un generico spunto didattico ma deve essere pensata, preparata e condotta perché tutto concorra a realizzare lo scopo per cui la si propone.

Si precisa nel POF: “Nella scuola le uscite didattiche, pur nella diversità delle diverse proposte, hanno come scopo un’esperienza di incontro diretto con un aspetto della realtà relativo al contenuto didattico svolto o da svolgersi”

In questo senso la responsabilità della proposta è chiesta ai docenti: è opera loro la preparazione del materiale, la verifica della pertinenza e l’attenzione alla ripresa; non può essere delegata ad esperti, a guide o animatori, ancor meno affidata alle famiglie.

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DALL’IPOTESI CULTURALE ALL’OFFERTA FORMATIVA: DALL’ESPERIENZA UNA PROPOSTA

“Nella scuola elementare il rapporto con la famiglia assume un ruolo fondamentale per l’incidenza che tale riferimento implica nell’educazione del bambino.

Questo rapporto si esplica quotidianamente nella cura che la famiglia pone nell’accudire il bambino, nell’accompagnarlo nell’esperienza scolastica, nell’attivarlo ad una iniziativa e responsabilità personale. L’attenzione alle comunicazioni, la tempestività delle osservazioni e la reciproca stima sono semplici espressioni di un rapporto finalizzato al bene della persona”.

Il rapporto della famiglia accompagna il bambino, ma non entra direttamente in gioco nell’esperienza scolastica; la relazione e il dialogo fra insegnanti e genitori è finalizzato al bene della persona e la distinzione di ruoli e la non equivocità delle relazioni è preziosa: la “mia” maestra è tale per il rapporto che io, bambino, ho con lei e non in relazione ai rapporti amicali fra adulti fra i quali la stima è data dalla diversa funzione e si precisa in una comunicazione cordiale ed ordinata.

Ho delineato, spero con sufficiente adeguatezza, l’esperienza di scuola in cui siamo

implicati e la realizzazione, la messa in atto di un’ipotesi educativa: non c’è nessuno di questi aspetti che non chieda a me ogni mattina di essere sincera umanamente di fronte a coloro che devono essere educati e di impegnarmi attraverso questo lavoro con la mia vita.

L’opera di una scuola è opera di uomini e donne la cui umanità è continuamente sollecitata, per questo il desiderio di paragonarsi e confrontarsi con chi nella scuola svolge una funzione guida è sempre indice di intelligenza e, nel tempo, di cuore.

Mettiamoci all’opera perché il collegio, quello del Sacro Cuore come quello di tutte le vostre scuole, sia una comunità in cui ciascuno possa crescere nella conoscenza e nella responsabilità.

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