GLI STRUMENTI E I MODI DELLA
COMUNICAZIONE INTERNA FORMALE
Modulo 3A: Comunicazione interna: il clima aziendale e
il ruolo professionale
Maria Cristina Moresco
Counseling, formazione, organizzazioni
Introduzione. La comunicazione interna e il clima aziendale
In questa parte del corso introduciamo alcuni concetti come quelli di
motivazione, clima dell’organizzazione, senso di appartenenza,
ruolo professionale e senso di autoefficacia, che molto hanno a che
fare con la comunicazione interna di un’azienda.
Diciamo che la comunicazione tra dirigenza e collaboratori non è una delle
principali leve della motivazione, però è certo che un buon uso della
comunicazione può facilitare, enfatizzare o annullare l’effetto di altre leve
motivanti quali gli incentivi economici o l’avanzamento di carriera. Diverso è
il discorso che riguarda la comunicazione alla pari, tra colleghi del proprio
reparto o delle altre strutture dell’organizzazione: tra i principali valori
professionali di molte persone rientrano proprio le interazioni sociali e le
relazioni. Allora la comunicazione diventa fondamentale per aumentare il
livello di soddisfazione verso il proprio lavoro.
Introduciamo qui il concetto di clima e, semplificando, potremmo definirlo
come “l’insieme delle emozioni e delle percezioni che un gruppo condivide
relativamente al contesto nel quale è inserito e alle attività che svolge” (C.
Bisio, “Comunicare in azienda”, Francoangeli). Entrano in questo concetto le
relazioni con i propri superiori, con i propri colleghi, il livello di retribuzione, la
percezione del proprio ruolo professionale rispetto al ruolo assegnato
formalmente, la consapevolezza della propria efficacia e controllo nelle
situazioni, il senso di sicurezza e appartenenza, l’immagine dell’azienda
all’esterno e la sua eticità e coerenza con la missione ufficialmente dichiarata
ed altri fattori ancora.
Clima aziendale e emozioni
Abbiamo anticipato che i fattori sopra elencati hanno a che fare con la
comunicazione, ma non necessariamente con un tipo di comunicazione che
pretenda di mantenere costantemente alto il morale dei dipendenti e di
infondere ottimismo e allegria. Viceversa, è dal riconoscimento e dalla
gestione delle emozioni diverse che emergono in azienda o nel singolo
gruppo di lavoro che si valutano la comunicazione e il clima efficace.
Comunicare aiutando la formazione di un clima positivo significa quindi
riuscire a sollecitare emozioni e pensieri coerenti con lo stato interno e la
situazione del momento, preoccupazione, euforia, stanchezza, senso di
perdita, voglia di crescere, conflitti irrisolti, bisogno di relazione. Quali sono le
emozioni che lavorano all’interno delle organizzazioni e nei gruppi?
Elenchiamone alcune per fare una riflessione personale che può aiutarci a
comprendere meglio i concetti sopra espressi.
• L’amore, innanzitutto, con le sue sfumature e accezioni diverse che
sono l’innamoramento, la gelosia, la sensualità, la seduzione, il
corteggiamento, l’amicizia, il calore, la solidarietà, la stima, l’affetto e
altre ancora; i suoi effetti sono spesso positivi, come si può capire, e
possono apportare energia, voglia di coinvolgersi e di collaborare,
sostegno, ma anche delusione, tristezza, rabbia;
• La paura, che però non ha nulla di positivo e non muove energia ma,
al contrario, la blocca trasformando la vita organizzativa in mera
sopravvivenza. Paura del cambiamento, paura di perdere il lavoro, di
non farcela, di essere scavalcati, di essere inadeguati, ma anche di
avere successo, paura come alibi per non impegnarsi mai;
• La rabbia, derivante spesso da un senso percepito di ingiustizia, di
mancato riconoscimento del proprio lavoro, da promesse fatte e non
mantenute, dall’essere scavalcati, da richieste reiterate e mai prese in
considerazione, da un contratto psicologico non dichiarato
esplicitamente con sufficiente chiarezza, da una scarsa consapevolezza
dei propri bisogni e conseguente attribuzione ad altri delle
responsabilità. La rabbia muove energia se correttamente riconosciuta
e incanalata, devasta e blocca se vissuta senza consapevolezza e senso
di controllo;
• La felicità, con le sue sfumature un po’ meno impegnative di
soddisfazione, contentezza, benessere, allegria, voglia di esserci. A
cosa è legata la felicità? Ciascuno ha i suoi bisogni e relativi motivi di
soddisfazione, chi lo stipendio, chi la carriera, chi la solidarietà di alcuni
colleghi, chi la gioia della propria missione e competenza professionale,
chi trova nei colleghi la sua famiglia …..
• La tristezza, che non è disperazione o depressione ma,
semplicemente, emerge dalle incomprensioni quotidiane, dai piccoli
incidenti di relazione irrisolti, da una critica ingiustificata, dal dover
subire la scortesia di chi è stressato o preoccupato o non in grado di
ragionare lucidamente, dalle delusioni di qualcosa sul quale avevamo
contato e che poi non funziona come avremmo sperato;
• L’invidia, non è bello riconoscerla in noi stessi, non vorremmo mai
attribuirci una tale emozione, ci fa vergognare, eppure esiste e fa
danni a tutti i livelli. Diventa a volte una comoda scusa per giustificare i
problemi di relazione con qualcuno, invece di riflettere sul nostro
atteggiamento ci diciamo che lui o lei sono solo invidiosi di noi. Spesso
è il motore dei pettegolezzi, delle voci di corridoio e può spegnere
l’entusiasmo e l’energia di tutti gli attori;
• La rassegnazione, il senso di impotenza appresa, quel “tanto non
serve” che blocca e impedisce di reagire e migliorare. Meglio la rabbia,
la rassegnazione non è mai sana e provoca disinvestimento, i contributi
cessano, si procede per inerzia e ci si convince che la vita vera è quella
fuori dal lavoro, come se noi fossimo persone diverse nei diversi ambiti
della nostra esistenza ….
Per spiegare meglio il concetto di emozione al lavoro e della sua importanza
nella costruzione di un clima aziendale vitale e positivo, dobbiamo anche fare
riferimento alla teoria dei sistemi quando ci avverte che ignorare una
qualsiasi categoria di informazioni e dati significativi significa limitare la
comprensione dei fenomeni e la conseguente reazione ad essi. Il caso che
ora raccontiamo ne è un esempio lampante. Si svolge nell’ambito di una delle
maggiori compagnie per la raffinazione del petrolio e della benzina:
“ In quel periodo gli uomini che lavoravano agli impianti per la benzina
avevano avuto una serie di incidenti, alcuni dei quali fatali. Scoprii (chi parla è
il consulente di organizzazione chiamato in aiuto) che nella cultura maschilista
tipica del settore petrolchimico, la gente non ammetteva mai i propri
sentimenti. Se qualcuno arrivava al lavoro con i postumi di una sbornia,
preoccupato per la malattia di un figlio o dopo una lite con la moglie, i
colleghi non gli chiedevano mai cosa avesse quel giorno, né se fosse
abbastanza in forma per essere ben lucido sul lavoro. Di conseguenza, il tipo
in questione sarebbe stato disattento e avrebbe causato un incidente.
Avevano bisogno di comprendere che dovevano prendersi cura l’uno
dell’altro , che facevano un favore a se stessi e agli altri se dicevano come si
sentivano. E il livello di sicurezza sarebbe migliorato” (D. Goleman, “Lavorare
con intelligenza emotiva”, BUR).
E ancora un esempio tratto da esperienze di consulenti chiamati a tastare il
polso delle organizzazioni riguarda proprio il settore infermieristico. “In un
grande ospedale, nelle infermiere impegnate nelle unità di degenza, la
presenza dei classici sintomi dell’esaurimento, cinismo, sfinimento e
frustrazione nei confronti delle condizioni di lavoro, era direttamente
correlata al livello di insoddisfazione dei pazienti relativamente al soggiorno
ospedaliero. Quanto più esse erano soddisfatte del loro lavoro, tanto meglio i
pazienti giudicavano, nel complesso, il proprio periodo di degenza. In uno
studio condotto negli Stati Uniti su 12000 lavoratori impegnati nel settore
sanitario, i dipartimenti e gli ospedali nei quali erano più frequenti le
lamentele per lo stress sul lavoro erano anche quelli più spesso oggetto di
cause legali per imperizia o negligenza” (D. Goleman, “Lavorare con
intelligenza emotiva”, BUR).
Oggi si parla molto di benessere organizzativo all’interno dei contesti
lavorativi. Ciò perché tutti coloro che si occupano di organizzazione e di
gestione delle risorse umane sanno che un’organizzazione per essere efficace
e produttiva deve essere in grado innanzitutto di promuovere e mantenere un
adeguato livello di benessere fisico e psicologico di coloro che sono i veri
attori protagonisti della crescita e dell’evoluzione dell’organizzazione stessa.
Situazioni di scarsa produttività, assenteismo, mancanza di impegno, scarsa
motivazione e difficoltà ad offrire servizi di qualità sono spesso la
conseguenza di un generale malessere individuale e collettivo dei lavoratori.
Da queste situazioni generali, la necessità per qualunque azienda di indagare
il “clima” presente all’interno dell’organizzazione. Nella denominazione
utilizzata vi è un richiamo di derivazione geografico-meteorologico in quanto
si tratta di un riferimento mentale immediato per la comprensione del
concetto: come si pala di clima marino, montano, mediterraneo, ecc, allo
stesso modo si parla di clima motivato, autoritario, partecipativo, sereno,
ostile. Il clima rappresenta quindi il modo con cui ogni individuo, facente
parte di un gruppo di appartenenza, percepisce l’organizzazione nel suo
complesso. Cercare di fare una diagnosi del clima che si respira nell’azienda
significa quindi prendere in considerazione le dimensioni soggettive e dei
piccoli gruppi che tradizionalmente vengono trascurate quando si affrontano
analisi organizzative volte al cambiamento e ad miglioramento. Considerare il
clima significa considerare centrale nelle scelte strategiche e nei valori
dell’organizzazione anche la qualità della vita e del benessere delle persone
che vi lavorano.
Quanto detto è tanto più vero per i lavoratori di una azienda a carattere
ospedaliero: sottoposti a sempre più pressanti sollecitazioni e a continui
mutamenti, oggi viene chiesto loro di esprimere una professionalità sempre
maggiore, ben visibile nell’offerta di servizi ai cittadini e costantemente
monitorata sia all’interno che all’esterno. Oggi tutti i dipendenti sono sempre
più “in prima linea” nel percorso del miglioramento, trovandosi a dover
fronteggiare nuove complessità e nuove contingenze oltre che a cogliere
quotidianamente i segnali nuovi che provengono dall’interno e dall’esterno.
In un contesto organizzativo così complesso, pertanto, a fianco delle variabili
“hard” (tecnologia, aspetti normativi e di adempimento, organizzazione del
lavoro) assumono sempre più peso le variabili “soft” legate alle persone
(comunicazione, relazioni, trasmissione e gestione delle conoscenze,
condivisione dei valori, motivazione).
Il senso di appartenenza
Uno dei fattori ai quali abbiamo accennato nell’introduzione è il “senso di
appartenenza” al proprio gruppo di lavoro e alla propria organizzazione.
Vediamo di capire meglio a cosa si riferisce e da cosa può derivare. Se
riflettiamo sui gruppi ai quali abbiamo scelto volontariamente di appartenere,
di amici, di persone che condividono le nostre passioni, di volontariato,
potremmo scoprire che quello che ci spinge a coltivare tale appartenenza è
che ci sentiamo meglio per il fatto di far parte di questi gruppi, come se la
nostra identità personale ne uscisse rafforzata, come se ci sentissimo migliori
per il fatto di farne parte, e possiamo dichiarare questa nostra appartenenza
con un senso di contentezza di noi stessi e di orgoglio, persino.
La nostra autostima ne esce rafforzata e la comunicazione che trasmette alle
persone il messaggio “Tu vai bene, ti apprezzo, sei OK” è quella che è quella
che ci immaginiamo di percepire all’interno dei nostri gruppi di elezione.
Questo può e dovrebbe accadere anche nel nostro gruppo di lavoro, nella
nostra azienda. Questo tipo di messaggio che ci conferma e ci rafforza, che ci
trasmette il messaggio “Tu esisti e ti vedo”, permette di accettare talvolta le
difficoltà e far fronte alle richieste più impegnative ed onerose, di assumere le
proprie responsabilità, di investire energia in vista dei risultati.
La comunicazione interna, informale e formale, è una delle leve che aiutano
la strada verso il senso di appartenenza, l’intelligenza sociale e il sistema dei
ruoli chiaro ed esplicito idem, il sistema premiante e la capacità di gestione
della valutazione professionale del nostro operato (e di comunicarla
correttamente) anche.
L’intelligenza sociale
Di intelligenza sociale, tra le varie definizioni, possiamo citare quella che la
definisce “Capacità di adattarsi/rispondere a circostanze mutevoli per
raggiungere i propri obiettivi di sviluppo, o più semplicemente, come l'abilità
di sopravvivere e prosperare», precisando che essa «è sociale, nel senso che
ogni attore sociale dipende dagli altri per qualsiasi nuova conoscenza.
L'interazione e lo scambio, diretti o mediati, sono attività sociali”. Ma in che
senso questa capacità di adattamento e comprensione del contesto viene
definita intelligenza?
Fino a qualche anno fa la ricerca neurologica sosteneva la teoria delle diverse
funzionalità dei due emisferi cerebrali, il sinistro che controllava le abilità
logiche, sequenziali e verbali, il destro che rispondeva delle capacità creative,
solistiche e spaziali dell’individuo. Secondo alcuni l’intelligenza, essendo di
origine genetica, non è migliorabile con l’educazione; secondo altri invece
l’intelligenza è in gran parte merito dell’ambiente, dell’educazione e delle
stimolazioni ricevute. Al di là di queste polemiche, oggi sotto accusa sono i
test di Quoziente Intellettivo, QI, tarati su performance quasi del tutto
scolastiche e limitati a produrre risultati quasi esclusivamente all’interno di
questo ambito.
A differenza dell’ipotizzata capacità predittiva del successo personale
assegnata al QI, attualmente per raggiungerlo sembrano molto più importanti
la capacità di superare le frustrazioni, di controllare le emozioni, di andare
d’accordo con gli altri. Inoltre gran parte dei ricercatori sostiene che non
esiste una sola intelligenza ma molte, e che tutte possono essere coltivate e
migliorate (Teoria di Gardner, 1983). Il classico QI misura un’intelligenza di
tipo linguistico o matematico, ma non evidenzia il talento per la musica o
l’abilità per gli sport, per la pittura e la scultura, per la recitazione o la
progettazione e direzione di un gruppo di lavoro. Non esistono due persone
che abbiano esattamente la stessa combinazione di intelligenze e lo sviluppo
di queste abilità dipende molto dal tipo di educazione ricevuta e dagli stimoli
offerti dall’ambiente in cui si vive. Gardner sostenne che oltre le tradizionali
intelligenze misurate dal QI, quella linguistica e logica, esistessero almeno
altre sei intelligenze: quella musicale, quella spaziale che consiste
nell’abilità di valutare gli spazi allo stesso modo di un pilota o di un
navigatore, di orientarsi, di riuscire ad immaginare la rotazione di figure
solide complesse, quella cinestesica corporea, che è l’intelligenza del
ballerino, dell’atleta, dell’artigiano e dell’attore, quella interpersonale, che
consiste nella comprensione delle altre persone, come esse lavorano, come
motivarle, come andare d’accordo con loro, quella intrapersonale, che
consiste nella comprensione di se stessi, di ciò che si è, delle mete che
cerchiamo di raggiungere, di quello che si può fare per avere maggiore
successo nella vita. Intelligenza naturalistica e intelligenza esistenziale
sono aggiunte più recenti.
Ciò che maggiormente interessa il campo della comunicazione è quella che è
stata definita intelligenza emotiva. E’ la capacità di automotivarsi, di
tollerare le frustrazioni, di perseguire un obiettivo nonostante le difficoltà, di
controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di conoscere i propri stati
d’animo minimizzando le difficoltà di pensiero razionale causate dalla
sofferenza. Significa essere empatici. Possedere intelligenza emotiva è
fondamentale nella gestione del proprio lavoro(D. Goleman, “Lavorare con
intelligenza emotiva”, BUR), nonché nella gestione dei rapporti umani, e la
sua importanza è almeno pari al possesso di competenze tecnico-
specialistiche. L’intelligenza emotiva è ulteriormente analizzabile scindendola
in competenza personale e competenza sociale. La prima si fonda sulla
conoscenza di sé, cioè la capacità di percepire, ascoltare e dare senso ai
propri sentimenti più profondi; ciò consente di ampliare ed approfondire
l’attribuzione di senso alle nostre esperienze e, di conseguenza, di
apprendere in maniera diversa, più consapevole, dalle nostre esperienze. Tale
circolo virtuoso è alla base della costruzione di un senso personale di
autoefficacia, cioè la percezione soggettiva di riuscire ad affrontare e
controllare le situazioni con successo. La sensazione di possedere capacità
per affrontare una specifica situazione, unita alla consapevolezza che le
proprie azioni produrranno gli effetti desiderati, , porta ad anticipare scenari
di riuscita, ad impegnarsi , di conseguenza, ad ottenere buoni risultati.
Chi ha un alto senso di autoefficacia si aspetta di avere successo e mette in
pratica azioni e comportamenti che lo condurranno a buoni risultati. La
percezione della propria autoefficacia è alla base del processo di presa di
decisioni, assunzione di rischio, espressione delle proprie opinioni
indipendentemente dalla loro desiderabilità e accettabilità sociale.
La competenza sociale è invece legata al modo in cui gestiamo le relazioni
con gli altri. E’ la capacità di riconoscere emozioni e motivazioni altrui, di
essere empatici, di avere consapevolezza organizzativa cioè di condividere il
significato degli accadimenti nel proprio gruppo di lavoro e
conseguentemente mettere in atto strategie sintoniche.
Questa competenza consente di comprendere i fondamentali rapporti e giochi
di potere in atto, di individuare le reti sociali basilari, di percepire le situazioni
interne ed esterne alle organizzazioni o al gruppo di lavoro. Tale
comprensione consente di utilizzare stili relazionali adeguati alle situazioni e
ai tipi di clima diversi che si sono stabiliti e conferisce abilità nel
• Comprendere gli altri
• Comprendere e soddisfare i bisogni del cliente, esterno e interno
• Promuovere il bisogno di crescita altrui
• Valorizzare le diversità
• Avere consapevolezza politica
• Impiegare tattiche di persuasione efficaci
• Comunicare inviando messaggi chiari e convincenti
• Capacità di leadership
• Saper cavalcare il cambiamento
• Gestire i conflitti
• Costruire reti relazionali utili
• Cooperare verso obiettivi comuni
• Saper lavorare in team
Organizzazione interna e ruolo professionale.
“La pratica della medicina è sempre stata connessa al tentativo di salvare le
vite e ridurre la pena e la sofferenza. Questo unico e straordinario set di
abilità – curare le malattie, far nascere i bambini, monitorare la salute, dar
consigli ai pazienti, prescrivere appropriate medicine e terapie e anche
rendere meno dolorose le malattie terminali – è ciò che tiene la pratica della
medicina distante dagli altri lavori e da altre imprese professionali.
Idealmente, questa realtà dovrebbe creare un alto senso di missione tra tutto
lo staff. Se comunicato e convogliato adeguatamente, il nobile compito della
medicina può favorire, a tutti i livelli, la coesione e la cooperazione tra i
medici altamente specializzati e i membri dello staff in un centro medico.”
(American Medical Association “Comunicare col tuo staff”, Il Pensiero
Scientifico editore).
Quali sono gli elementi che contribuiscono alla creazione dell’armonia
all’interno del gruppo di lavoro? Notiamo bene che armonia e differenza non
sono termini antitetici, viceversa un risultato armonioso si ottiene proprio
mettendo insieme e valorizzando le differenze tra gli individui. Certamente,
anche durante l’attuale ristrutturazione della sanità, i medici rimangono in
cima alla piramide. La comunicazione e l’organizzazione che informeranno
l’ambiente medico del futuro, tuttavia, non saranno rappresentate dalle sole
capacità dei medici, ma devono essere prodotto delle competenze dell’intero
staff di collaboratori.
Negli ultimi anni le innovazioni legislative, quali ad esempio la creazione del
profilo professionale, l’abrogazione del mansionario, l’obbligo di formazione di
livello universitario, il codice deontologico, hanno generato una concezione
dell’infermiere come di un professionista dotato di ampia autonomia e
discrezionalità, che svolge un’attività basata sulle evidenze, che persegue gli
obiettivi di efficacia clinica nei confronti degli assistiti, assume su di sé la
responsabilità di assistenza alle persone che gli vengono assegnate in carico,
il tutto perseguendo il miglioramento costante e continuo della qualità del suo
operato. Questo sulla carta. Quando tale concezione innovativa si scontra con
la dura realtà presente in alcune aziende sanitarie, quella di una cultura
semiprofessionale, legata ancora al mansionario, con una visione
dell’infermiere come semplice esecutore di direttive impartite da altri, allora è
possibile che la prestazione professionale infermieristica si limiti ad una
assistenza tecnica anche accurata, e manchino tutte le altre competenze
sancite dal profilo professionale quali quelle relazionali ed educative.
Può essere che tale deficit derivi da una errata percezione e senso del proprio
ruolo da parte dell’infermiere, può darsi che all’innovazione formale del ruolo
non sia poi di fatto corrisposta un’innovazione organizzativa e gestionale delle
strutture. Parliamone.
Struttura formale di base e ruolo professionale.
Per struttura formale di base si intende un’impalcatura, un disegno, all’interno
del quale vengono inseriti e organizzati, dando loro sistematicità, fattori quali:
La struttura gerarchica dei ruoli
La divisione, all’interno dei ruoli, in funzioni, attività e compiti
Le interdipendenze tra le parti che compongono il sistema,
ed altri elementi ancora quali spazi e tecnologie, allocati come risorse
all’interno del sistema stesso.
La struttura gerarchica dei ruoli permette di definire la linea di comando,
ovvero chi comanda su chi, quali responsabilità e decisioni competono, e a
chi. La struttura gerarchica formale all’interno di un reparto di cura è
relativamente stabile e non modificabile nel breve periodo e definisce
l’articolazione dei ruoli all’interno di tale microsistema. Spesso succede che,
accanto a tali strutture formalmente definite, emergano forme di gestione del
potere e di responsabilità assolutamente informali, e tuttavia in questo caso
non parleremo più di comportamenti sanciti dal ruolo ma semplicemente di
comportamenti di tipo sociale.
In generale è la “linea” che definisce la gerarchia, il primario e, sotto di sé,
gli aiuto e gli assistenti, per quanto riguarda i medici; caposala, infermieri
professionali, generici, OTA e ausiliari per quanto riguarda la linea delle figure
infermieristiche. La linea, abbiamo detto, stabilisce differenze gerarchiche e
possibilità formale di prendere decisioni alle quali i livelli inferiori devono
uniformarsi. Sui vari livelli della linea, posti sullo stesso piano orizzontale,
possiamo anche individuare funzioni di “staff”, ovvero di supporto, che
appartengono alla linea gerarchica di un altro sistema (medici specialisti
coinvolti come consulenti, fisioterapisti, dietologi, assistenti sociali ed altri
ancora).
Vediamo ora la definizione di ruolo così come la fornisce il Dizionario di
Sociologia: ruolo, ovvero “le aspettative che convergono su un determinato
individuo in quanto occupa una determinata posizione all’interno di un
sistema”. Parlando di una azienda ospedaliera, il ruolo definisce proprio
quello che l’azienda e la società in generale si aspettano dalla persona che
occupa la posizione di medico, infermiere, caposala etc. La prima aspettativa,
ovviamente, riguarda l’assolvimento di funzioni per mezzo di competenze e
responsabilità proprie della figura professionale in questione, funzioni che
sanciscono la divisione del lavoro. Le funzioni delle quali possiamo trattare
nel nostro caso sono proprio quelle preventive, curative, riabilitative delle
quali si parlava precedentemente. Ma abbiamo anche parlato dell’evoluzione
della pratica assistenziale, sociale e sanitaria, evoluzione che ha allargato il
concetto di funzione a settori quali l’organizzazione del proprio sistema
lavorativo, la programmazione degli interventi e la pianificazione della cura, la
formazione del personale, la ricerca scientifica, la funzione amministrativa.
Le differenze di posizione all’interno della struttura gerarchica della quale
abbiamo parlato conferiscono alle persone livelli di potere e di status che
sono alla base delle dinamiche del gruppo di lavoro, ivi comprese le differenti
modalità comunicative formali ed informali e , soprattutto, il livello di
integrazione dei comportamenti di ciascuno degli attori con quello di tutti gli
altri, livello che determina il raggiungimento, o meno, degli obiettivi
professionali del gruppo stesso. La stabilità del gruppo risiede proprio nella
corretta e chiara definizione dei ruoli che, in prima analisi, consente di
assolvere alle funzioni sotto elencate:
• Dividere il lavoro tra le varie componenti del gruppo facilitando così il
raggiungimento dell’obiettivo
• Rendere noto a tutti cosa possono e devono aspettarsi da quella
particolare figura professionale, portando così ordine e prevedibilità
all’interno del gruppo
• Incrementare il senso di appartenenza dei singoli a quel gruppo di
lavoro, favorendo la consapevolezza di quello che il gruppo rappresenta.
Per questi e per altri motivi che citeremo più avanti, la pratica dell’analisi
del ruolo assume in azienda un’importanza sempre più critica.
L’analisi del ruolo professionale consiste nell’esaminare i processi operativi,
cioè funzioni, attività e compiti che un individuo assume in carico quando
viene investito della responsabilità attinente il ruolo stesso per corrispondere
alle aspettative professionali e sociali corrispondenti. Abbiamo già definito
cosa siano le funzioni, possiamo sintetizzare definendole il contributo che
ciascun sottosistema apporta al sistema generale perché questo possa
raggiungere i propri obiettivi o mantenere un determinato equilibrio.
Le attività sono concetti immateriali, astratti, corrispondono al fare pratico
dell’operatore che le mette in atto per assolvere alle funzioni assegnategli. La
funzione curativa, per esempio, è articolata nelle diverse attività di
soddisfazione dei bisogni base del paziente, somministrazione della terapia,
esecuzione dei trattamenti prescritti dai medici etc.
Il compito professionale spacca l’attività in una serie di operazioni che
consentono di adempiere al mandato insito nel ruolo. Riprendendo la
funzione curativa, l’attività di somministrazione della terapia al paziente, i
compiti corrispondenti vanno dalla lettura della cartella clinica alla
preparazione del medicinale, dalla relazione con il paziente alla
somministrazione del farmaco e relativa registrazione, con verifica finale circa
le scorte di farmaco presenti in reparto e così via. Ai fini della comunicazione
formale e informale, assume particolare rilevanza la valenza relazionale del
compito (tranquillizzare, informare, ascoltare il paziente …), mentre quelle
pragmatiche e cognitive risultano decisamente in secondo piano.
Il compito è ulteriormente segmentato in una serie di operazioni, atti veri e
propri, sequenze di azioni, che richiedono massima esecutività e nessuna
discrezionalità mentre le azioni ne contemplano di più o meno ampia, per
esempio nella modalità relazionale con il paziente.
L’analisi del ruolo consiste quindi in una job description con la specificazione
delle funzioni, attività e compiti compresi in una determinata mansione.
Quali condizione di base sono davvero necessarie per una corretta, realistica
descrizione del ruolo?
Una configurazione ideale e razionale degli obiettivi del servizio, cioè
quello che davvero deve essere attuato per rispondere efficacemente ai
bisogni dell’azienda e dei clienti. Parliamo qui di bisogni
dell’organizzazione;
Un profilo delle competenze tecniche, relazionali, trasversali
dell’operatore che evidenzi punti di forza e aree di miglioramento,
bisogni formativi e motivazionali;
Un bilancio delle risorse effettivamente disponibili che possano
consentire la realizzazione del compito.
Si tratta in ultima analisi di realizzare un accoppiamento tra esigenze e
bisogni del reparto o dell’azienda o del mercato di riferimento con quelli della
persona che è stata selezionata a ricoprire quel ruolo, calando tale
accoppiamento nel contesto lavorativo e di vita, con le loro barriere e risorse
(tempi, spazi, tecnologie, skills, remunerazione).
Tuttavia le descrizioni dei ruoli professionali sono spesso difettose in un modo
o nell'altro, e, persino le aziende che provvedono descrizioni dettagliate, di
solito non le forniscono per tutte le posizioni occupazionali.
Vero è, al contrario, che dedicare un po' di tempo alla redazione di descrizioni
dei ruoli professionali ben definite, è uno sforzo remunerativo perché esse:
• Forniscono i criteri attraverso i quali sarà possibile definire quali tipi di
capacità, formazione ed esperienza un candidato ideale dovrebbe avere
• Identificano il tipo di professionista ideale per il ruolo, se dovrà essere
inserito mediante un contratto temporaneo, full-time, di collaborazione
a progetto, di consulenza o altro
• Forniscono i criteri per avviare la ricerca e la selezione, interna
all’azienda. Si può decidere se far crescere e formare una persona già
disponibile, se spostarla da una funzione ad un’altra, se cercare
nell’ambito della concorrenza o altrove e con quali modalità e strumenti
di comunicazione, proponendo quali leve motivazionali
• Descrivono il ruolo professionale alle persone che si candidano a
ricoprirlo, così che esse sanno già cosa aspettarsi quando vengono
assunte e comprendono meglio, e in modo più veloce, che tipo di lavoro
faranno quando inizieranno la loro attività.
• Minimizzano l’insoddisfazione e il turn-over perché le attese sono state
rispettate e soddisfatte
• Chiariscono le interrelazioni tra una posizione lavorativa all'interno di
una azienda e le funzioni minimizzando così ogni possibilità di attrito
per invasione del campo di competenza altrui.
• Definiscono le relazioni di riferimento e stabiliscono linee e modalità di
comunicazione e promozione.
• Anticipano eventuali esigenze di formazione aggiuntiva, come, per
esempio, quando c'è un certo divario tra la preparazione e l'esperienza
di un dato impiegato e le capacità richieste e definite nella descrizione
del ruolo in questione.
• Forniscono un mezzo per esaminare le prestazioni lavorative: uno
standard definito attraverso il quale la persona può essere valutata i
maniera più accurata e oggettiva
• Minimizza le opportunità di conflitto in tutte le direzioni
• Le descrizioni dei ruoli professionali possono essere strumenti utili per
analizzare l'organigramma aziendale e mettere in risalto così eventuali
punti deboli, come, ad esempio, la presenza di funzioni per le quali
poche persone o nessuna detengono la responsabilità, mentre altre
aree operative sono curate da troppi professionisti
• Esse possono essere uno strumento utile per rivedere come il lavoro
scorra da un dipartimento all'altro e quanto siano razionali le linee di
comunicazione interne.
• Rivedendo periodicamente le descrizioni dei ruoli professionali i dirigenti
possono monitorare i cambiamenti avvenuti nell'affidamento delle
responsabilità e apportare le dovute correzioni se ce n'è bisogno, per
esempio concedendo retribuzioni adeguate a tali cambiamenti o
aggiungendo nuove figure lavorative là dove l'innalzamento di
responsabilità è stato particolarmente significativo.
• Per aiutare l'organizzazione ad adeguarsi ai cambiamenti dell'ambiente
e a gestire la complessità.
Diciamo, come ultima osservazione, che la descrizione del ruolo si applica a
quello che viene definito “ruolo prescritto”. Poi, ciascuno di noi in qualsiasi
contesto sociale si muova o si relazioni, deve essere consapevole che il ruolo
che ivi giochiamo è come un prisma a 5 facce, la comprensione delle quali è
necessaria per essere una persona e un professionista più consapevole e
integrato, capace di operare scelte coerenti con la propria motivazione e i
propri obiettivi reali e realistici:
• Il ruolo prescritto è quello che l’organizzazione si attende da noi, è
l’ufficialità del ruolo dentro a quel particolare contesto lavorativo;
• Il ruolo atteso, formato dalle aspettative dei singoli interlocutori di
ruolo nei nostri confronti, aspettative che spesso non sono espresse in
maniera palese e non sono rilevabili immediatamente;
• Il ruolo percepito, da noi stessi, come noi lo interpretiamo e quali
significati gli attribuiamo, come entra nella nostra identità personale e
professionale;
• Il ruolo praticato quotidianamente, quello che facciamo e come ci
comportiamo realmente dentro quel ruolo
• Il ruolo vissuto, che è la sintesi personale delle 4 facce precedenti.
La valenza relazionale del compito dell’infermiere.
Per concludere questo esame sui ruoli professionali e sulla loro importanza
dal punto di vista relazionale, vorremmo prendere alcuni spunti dalle teorie
formulate da un’autrice, Hildegarde Peplau, che si è occupata della relazione
infermiere paziente teorizzando un percorso assistenziale che mirasse alo
sviluppo della persona collaterale all’esperienza di malattia/guarigione. Due
sono gli assunti di base della sua teoria: la personalità dell’infermiere
determina una differenza sostanziale riguardo a ciò che il paziente può
imparare durante l’esperienza della malattia; l’infermiere ha la funzione
aggiuntiva di contribuire allo sviluppo della personalità della persona malata,
nel senso della sua maturità. Il nursing, quindi, come strumento educativo di
sviluppo della personalità. Nella sua teoria si occupa anche di ruolo nella
relazione infermiere/paziente e parte dall’assunto che i ruoli non siano fissi
bensì possano essere variati, affermazione che concettualmente sembra
molto facile da comprendere ma che poi nella realtà quotidiana della
relazione smentiamo puntualmente, comportandoci con gli altri come se
avessimo altre possibilità che quelle consentiteci e previste dal ruolo “attivo”
in quel preciso momento. Eppure potenzialmente siamo molto di più, molti
ruoli sono attivi contemporaneamente in noi mentre ne agiamo uno che è
quello “atteso” o prescritto, come più sopra elencavamo. Nulla ci impedisce,
mentre facciamo l’infermiere, di essere genitore, consolando, accudendo o
provocando una reazione, così come la nostra parte di genitore può arricchirsi
di un ascolto accettante senza che sia contaminato dal compito di correggere
o moralizzare, e mentre siamo nella nostra coppia potremmo fare gli amici
che semplicemente scherzano e giocano senza necessariamente condividere
impegno e progettualità e così via. Ma il limite imposto dal ruolo spesso è
solo nella nostra testa e ci chiude la possibilità di scegliere se giocare
secondo le sue regole formali o secondo meccanismi più flessibili e dinamici.
Nella relazione con il paziente, per esempio, di fronte a difficoltà che
sembrano insormontabili, potremmo provare a cedergli il ruolo di leader e
porci semplicemente in ascolto, diventando meno direttivi e più consulenziali,
confidando che l’essere umano conosca se stesso e le sue risorse meglio di
chiunque altro. I ruoli rigidamente fissati spingono il nostro partner nella
relazione ad una complementarità rigida e tuttavia anche la nostra flessibilità,
se non attentamente calibrata osservando la relazione, può provocare errori
grossolani perché magari l’altro non è in grado di assumersi, in quel
momento, la responsabilità delle proprie decisioni.
La Peplau inoltre distingue sei ruoli propri dell’infermiere nella relazione con il
paziente, ruoli che il paziente stesso gli attribuisce o che l’operatore può
attribuirsi da sé, ruoli che determinano e influenzano i messaggi che vengono
scambiati, veri o presunti che essi siano:
Il ruolo di persona estranea: presuppone interesse e rispetto verso il
paziente, cortesia, la stessa che si userebbe ad un estraneo qualsiasi
nel corso del nostro primo incontro, incontro del tutto particolare,
durante il quale la persona viene introdotta in un ambiente per lui
completamente nuovo e carico di valenze poco rassicuranti. Fermi
restando l’accettazione, l’empatia e l’autenticità che mi consentiranno di
rispettare il suo schema di riferimento diverso dal mio
Il ruolo di persona affidabile: occorrono coerenza, competenze tecniche,
conoscenza della patologia e della relativa cura, manualità, rispetto
delle procedure etc …. E’ il ruolo da sempre presente nell’immaginario
collettivo quando si associa la figura dell’infermiere alla parte sanitaria
della sua missione
Il ruolo di insegnante: ha a che fare con la capacità di educare a trarre
insegnamento, valorizzazione, crescita e risorse dalla propria condizione
di malattia, momentanea o cronica. Ha a che fare con la fiducia e con la
voglia e la capacità di trasmettere conoscenza
Il ruolo di leader democratico: è un ruolo più direttivo che può essere
meglio espresso nelle situazioni di urgenza o di scarsezza di
informazioni o di novità assoluta e può essere rivolta al paziente ma
anche alla nostra equipe di lavoro. Fondamentale che, una volta
terminata la situazione che ha generato l’esigenza di leadership, le
persone vengano gradualmente ricondotte all’assunzione della
responsabilità che compete loro
Il ruolo di sostituto: non è un ruolo comodo, è frutto delle parti che il
paziente può proiettare su di noi in questi momenti di paura, difficoltà,
solitudine, senso di perdita del controllo. Allora possiamo diventare
madre o fratello o sorella e diventare il ricettacolo per tutti i contenuti
emotivi che il paziente investe su di noi. E’ uno strumento di crescita se
utilizzato correttamente, con empatia, con le tecniche della
riformulazione, con la capacità di entrare e uscire e rimanere se stessi e
riconoscere le risonanze
Il ruolo di consigliere: possibile solo a partire da un ascolto accurato e
attivo del bisogno latente, non manifestato, sepolto e mascherato da
atteggiamenti di difesa e richieste altre che sviano dal cuore della
richiesta autentica.
Riferimenti bibliografici: C. Bisio, “Comunicare in azienda”, Francoangeli; R. Gallo, P. Erba, “Amore e paura nelle organizzazioni”, Francoangeli; D. Goleman, “Lavorare con intelligenza emotiva”, BUR; Articoli diversi da Google alla voce “Clima e comunicazione” e “Ruolo professionale”; Dispense del corso in Mental Coaching dell’A.S.P.I.C. Roma; American Medical Association “Comunicare col tuo staff”, Il Pensiero Scientifico editore; C. Calamandrei, A. Pennini, “La leadership in campo infermieristico”, Mc Graw-Hill; S. Coraglia, G. Garena, “Professioni infermieristiche e pensiero organizzato”, NIS; A. De Santi, I. Simeoni, “I gruppi di lavoro nella sanità”, Carocci Faber; G. Giacomelli, S. Bacherini, “La relazione con il paziente”, Caroccci Faber.