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Guida (intergalattica) al Jobs Act

Date post: 06-Apr-2016
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cosa prevede il Jobs Act? La legge delega di riforma del lavoro spiegata punto per punto. un opuscolo a cura di ACT! agire, costruire, trasformare nell'ambito della campagna #nonèungioco
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Guida intergalattica al Jobs act la legge delega punto per punto
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1 www.act-agire.it

Guida intergalattica

al Jobs actla legge delega punto per punto

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Guida intergalattica al jobs act 2

della legge delega sul lavoro, il cosiddetto Jobs Act, continua esattamente sulla strada percorsa dai precedenti governi: togliere diritti, tagliare risorse, livellare verso il basso. Il contratto a tutele crescenti toglie l’articolo 18 a protezione dai licenziamenti ingiustificati e, al tempo stesso, non garantisce alcuna nuova opportunità alla generazione precaria. Invece di prevedere un ragionevole canale di accesso a un contratto dignitoso, il governo ha già legalizzato la precarietà prolungandone la durata. È lo stesso disegno portato avanti negli ultimi 20 anni da chi ha preceduto Renzi: prima si peggiorano le condizioni di vita e di lavoro dei giovani, grazie all’uso e all’abuso dei contratti precari, e poi, con la scusa di ridurre le differenze, si livellano verso il basso anche quelle di tutti gli altri.

È per questo che l’opposizione sociale al Jobs Act dev’essere un punto centrale per tutti quelli che hanno interesse nel futuro del nostro paese. Ma sappiamo che non ci si può fermare qui. Riempire le piazze nella speranza che qualcuno, nel palazzo, ne assuma i messaggi e li traduca in politica è una cosa che non siamo più disposti a fare, perché non funziona. Non possiamo più permetterci nessuna politica dei due tempi: c’è bisogno qui e ora che nell’opposizione sociale al Jobs Act, allo Sblocca Italia e alla legge di stabilità, si concretizzi già un’alternativa politica al governo Renzi. Un’alternativa che si manifesti sul piano dei contenuti, delle pratiche, della costruzione dal basso di un nuovo modello di società.

#nonèungioco

È troppo corta la coperta con cui il governo Renzi vuol coprire il vero volto delle sue politiche. La crisi si fa sempre più dura e rende sempre più evidente, qualora qualcuno avesse avuto dubbi, che non siamo tutti sulla stessa barca. Non si può stare contemporaneamente dalla parte di chi subisce gli effetti della crisi e da quella di chi la crisi ha contribuito a crearla. Non si può stare allo stesso tempo con Marchionne e gli operai, con gli speculatori finanziari e i precari, con chi licenzia senza giusta causa, chi non paga il lavoro, chi usa i contratti precari come arma di ricatto e allo stesso tempo con chi rivendica il diritto a condizioni dignitose di lavoro e di vita.

Per questo ci siamo riuniti in assemblea all’indomani della grande manifestazione nazionale promossa dalla CGIL. Una manifestazione enorme, come non se ne vedevano da anni, una piazza con un milione di lavoratori e lavoratrici, che è impossibile per tutti ignorare.

Piazza San Giovanni è stata una piazza sindacale, piena di lavoratori, di vertenze, di persone disponibili a una lotta dura e continuativa, e ciò può segnare un cambio di passo anche nel sindacato. Al contempo è stata una piazza politica, non solo per la presenza di numerosi esponenti dei partiti, ma soprattutto per l’indignazione e l’insofferenza nei confronti del governo Renzi.

La battaglia del sindacato contro il Jobs Act va sostenuta, ampliata e moltiplicata, perché è la battaglia di tutti. In particolare di chi, come noi lavoratori e lavoratrici precari, autonomi, parasubordinati, free lance, disoccupati, in formazione, è stanco di essere utilizzato strumentalmente come pretesto nel tentativo, da parte del governo, di scardinare ciò che resta del diritto del lavoro. La nostra vita non è un gioco, lo scambio proposto da Renzi è per noi inaccettabile, anche e soprattutto perché non ci facciamo prendere in giro, e sappiamo che il testo

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La campagna “La vita non è un gioco”, che promuoviamo in forma aperta nel tentativo di costruire coalizioni territoriali e sociali basate sulla costruzione comune di contenuti e pratiche, vuole essere il nostro contributo a quest’alternativa. Inizieremo dalla costruzione di appuntamenti territoriali di discussione, proposta e coordinamento, a partire dall’11 e 12 novembre, per individuare insieme il terreno su cui, in ogni parte d’Italia, si possono proporre esperimenti di lotta concreta alla precarietà del lavoro, di costruzione di un nuovo welfare universale, di percorsi di uscita dalla crisi basati sulla giustizia sociale e ambientale. Questo stesso percorso ci porterà allo sciopero sociale del 14 novembre, appuntamento centrale per sperimentare nuove forme di organizzazione e di conflitto nell’epoca della precarietà, e poi allo sciopero generale che, ci auguriamo, dovrebbe essere proclamato nelle prossime settimane, all’interno del quale dovremo essere in grado di portare un punto di vista precario, generazionale e sociale, che ne arricchisca e ne approfondisca il ruolo nella nostra società.

L’opposizione sociale deve andare di pari in passo con la sperimentazione in tutti i territori sia di forme di organizzazione e mutualismo all’altezza dei nostri tempi sia di vertenze sociali e politiche, che sappiano coinvolgere gli amministratori locali più aperti alla cooperazione con la società, con l’obiettivo di dare risposte concrete, per quanto limitate, alle istanze che poniamo.

Intorno a questi temi, a questi contenuti, a queste pratiche, e alle tante altre idee ed energie che riusciremo a condividere in questo percorso aperto e partecipato, può e deve nascere un pezzo dell’alternativa di cui c’è bisogno, per cambiare questo paese. Lo dobbiamo a noi stessi e al nostro futuro. La nostra vita non è un gioco, e non possiamo più stare a guardare.

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La riforma del mercato del lavoro, anticipata in prima battuta dal decreto Poletti 1 che liberalizza i contratti a termine, sta infiammando il dibattito politico dell’autunno, acceso prima di tutto dalla volontà del governo di accelerare il più possibile l’approvazione della legge delega – il cosidetto Jobs Act – a cui il Senato ha dato il via libera con voto di fiducia nella notte dell’8 ottobre.

Nonostante l’acceso dibattito – che vede la contrarietà della Cgil e un confronto talvolta schizofrenico interno al Pd – il governo ha deciso di non lasciare spazio alla discussione e di procedere in maniera spedita attraverso un voto di fiducia che ha, ancora una volta, svuotato la funzione rappresentativa di un parlamento che, tra decreti, diktat e voti di fiducia, si limita a ratificare le scelte politiche dell’esecutivo. Non è un caso che, per la prima volta nella storia della Repubblica, il parlamento abbia votato la fiducia su un disegno di legge delega sui temi del lavoro, un testo generico e fumoso, dal perimetro sfumato, una sorta di delega in bianco, sulla cui legittimità costituzionale da più parti sono stati sollevati seri dubbi. 2

Adesso la palla passa alla Camera. Nel caso in cui quest’ultima approvasse il testo della legge delega senza modifiche – anche in questo caso è molto probabile il ricorso al voto di fiducia – il Governo avrebbe la facoltà nei successivi sei mesi di approvare i relativi decreti attuativi senza dover passare dal parlamento, al massimo chiedendo un parere alle commissioni competenti.

1 http://www.act-agire.it/index.php/i-blog-act/154-il-jobs-act-di-matteo-renzi-e-la-stabile-pre-carieta

2 http://ilmanifesto.info/articolo-18-la-dele-ga-in-bianco-e-incostituzionale/

Jobs Act: cosa prevede la legge delega sul lavoro

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Nonostante il Governo abbia sostituito il disegno di legge delega discusso e approvato in commissione Lavoro con un unico maxiemendamento, i contenuti dell’articolato rimangono di fatto intatti, se non peggiorati.

Si conferma la scelta di restare in piena continuità con le ricette neoliberiste che in questi anni hanno generato e peggiorato lo stato di crisi in cui versa il nostro Paese, ricette che sembrano rispondere più ai memorandum della Troika1 che all’esigenza di affrontare e risolvere annose questioni come la disoccupazione giovanile, la precarietà strutturale e le nuove povertà. Evidentemente non è bastato l’intervento del governo Monti, attraverso la riforma Fornero, sulle stesse materie. Anche in quel caso si parlò di un provvedimento atto ad estendere i diritti e creare nuova occupazione, per poi trovarsi al cospetto di un testo che ha indebolito gli istituti di sostegno al reddito per i lavoratori, modificato in senso peggiorativo le tutele (art. 18 compreso) e innalzato l’età pensionabile (creando il fenomeno degli esodati e bloccando il turn over nel mercato del lavoro).

Parallelamente all’esame parlamentare del testo, in estate il governo Renzi ha intrapreso una campagna comunicativa serrata, tesa a promuovere contenuti (nuove opportunità di lavoro, estensione degli ammortizzatori in chiave universale, nuove tutele crescenti per i precari, modernizzazione del sistema) di cui però nel testo non vi è traccia, contenuti che continuano a comparire solo ed esclusivamente negli spot televisivi del premier e nella propaganda delle forze politiche che sostengono il governo delle

1 http://ec.europa.eu/economy_finance/publi-cations/occasional_paper/2010/op61_en.htm

larghe intese. Dato per acquisito il tema – per stessa ammissione della compagine governativa – che non è con un riforma di riordino del mercato del lavoro, ma con investimenti pubblici mirati a valorizzare i settori maggiormente strategici per la nostra economia, che si creano nuovi posti di lavoro, il governo ha tenuto a precisare che qualsiasi intervento per l’attuazione delle legge delega verrà effettuato senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato, il che già basterebbe per porre dei seri dubbi sul fatto che qualsiasi intervento sarà estensivo, che si parli indistintamente di tutele e/o accesso universale agli ammortizzatori.

Ma entriamo nel merito dei contenuti della legge delega e del maxiemendamento approvato al Senato.

***

“Per ognuno di questi sette settori, il JobsAct conterrà un singolo piano industriale con indicazione delle singole azioni operative e concrete necessarie a creare posti di lavoro: Cultura, turismo, agricoltura e cibo; Made in Italy; ICT; Green Economy; Nuovo Welfare; Edilizia; Manifattura”

Matteo Renzi, Enews, 8 gennaio 2014.

Erano queste le premesse di partenza dell’attuale Presidente del Consiglio che, non ancora insediatosi a Palazzo Chigi, con la sua newsletter dello scorso 8 gennaio annunciava l’intenzione di presentare il suo Jobs Act. A pochi mesi dall’invio del decalogo delle buone intenzioni,2 nulla di tutto ciò è inserito nel testo, che al contrario vede confermate tutte le disposizioni relative alla semplificazione dei licenziamenti per motivi economici.

2 http://www.ilcorsaro.info/in-crisi/jobs-act-cosa-dice-la-proposta-renzi.html

Cosa dice il testo approvato dal Senato?

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Cosa prevede il testo?

Come nel caso della delega approvata in Commissione, anche il maxiemendamento nella sua prima parte si concentra sul riordino degli ammortizzatori sociali.

1. Si prevede (prendendo in considerazione solo i punti salienti), con riferimento agli strumenti di tutela in costanza di lavoro:

a) l’impossibilità di ricorrere alla CIG (cassa integrazione guadagni) nel caso in cui l’azienda cessi la propria attività; b) regolare l’accesso alla CIG solo in caso di esaurimento della diminuzione dell’orario di lavoro (part-time e/o contratti di solidarietà);c) maggiore compartecipazione delle aziende che utilizzano CIG;d) revisione dei limiti di durata e riduzione degli oneri contributivi in funzione dell’effettivo utilizzo nei diversi settori;e) revisione dei fondi di solidarietà previsti dalla riforma Fornero in merito alle aziende che non hanno il diritto di accedere alla CIGO/CIGS (cassa integrazione guadagni ordinaria o straordinaria);f) revisione dell’ambito di applicazione e delle regole di funzionamento dei contratti di solidarietà.

2. Si prevede, invece, nei casi di disoccupazione involontaria:

a) rimodulazione dell’indennità di disoccupazione ASPI rapportando la durata dei trattamenti alla storia contributiva del lavoratore;b) estensione dell’ASPI ai co.co.co;c) eventuale introduzione, dopo la fruizione dell’ASPI, di un altro ammortizzatore in relazione alla condizione reddituale del disoccupato.

Ammortizzatori sociali

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È noto quanto il nostro sistema di accesso agli ammortizzatori sociali, sia che ci si trovi in costanza di rapporto di lavoro, sia in caso di disoccupazione involontaria, non preveda criteri universali, né tanto meno strumenti differenziati di sostegno al reddito. Il nostro è un sistema duale, c’è chi può e chi no. Il Governo, nel merito delle misure proposte, non #cambiaverso a questo sistema, introducendo nei fatti una compressione degli strumenti di sostegno al reddito in favore dei lavoratori. È il caso dell’impossibilità di ricorrere alla CIG in caso di cessazione di attività (punto 1, lettera a) e della rimodulazione dei fondi di solidarietà destinate alle aziende sotto i 15 dipendenti. Non si prevede di estendere la CIG alle piccole imprese e agli artigiani, ma si prova a incentivare lo strumento dei contratti di solidarietà. Obiettivo certo lodevole, che stride però con la previsione del “costo zero”. I contratti di solidarietà, come già accade attualmente, possono essere anche utilizzati per le imprese al di sotto dei quindici dipendenti, ma solo ed esclusivamente sotto autorizzazione del Ministero del Lavoro e fino ad esaurimento fondi. Insomma se da un lato si restringono le causali di accesso alla CIG per chi è al di sopra dei 15 dipendenti, e contemporaneamente non è previsto un finanziamento aggiuntivo nel caso dei contratti di solidarietà per le piccole imprese, come si fa a parlare di estensione? In sostanza si rischia di restringere la platea dei beneficiari, a fronte della definitiva scomparsa della CIG in deroga prevista dal 2016 in poi, così come previsto dalla riforma Fornero.

Molto vaga è la parte della delega chiesta dal governo in merito alla ridefinizione dei criteri per l’utilizzo dei contratti di solidarietà, contratti già modificati dalla legge Fornero (2012) e dal Decreto Sviluppo (2012), ma il richiamo alla modifica è davvero troppo generico per esprimere un giudizio compiuto, molto dunque dipenderà dalla stesura dei decreti attuativi.

La seconda parte riguarda invece gli ammortizzatori sociali previsti in caso di disoccupazione involontaria. A questo riguardo, il primo provvedimento (punto 2, lettera a) intende ridisegnare il trattamento di disoccupazione in base alla storia contributiva del lavoratore. L’idea alla base è discriminatoria e non inclusiva: di fatto impone una discriminazione sulla base non tanto dei bisogni e della condizione materiale di coloro che hanno perso il lavoro, quanto sulla base della capacità contributiva degli stessi. Ma la capacità contributiva dipende dal tipo di contratto lavorativo (che, come è noto da alcuni anni non deriva da una trattativa ma da calcoli di convenienza del datore di lavoro). Un’altra beffa rischia di nascondersi dietro all’estensione dell’Aspi ai co.co.co: la norma parla esplicitamente di subordinare questa possibilità (anzi meglio citare il testo che parla di sperimentazione…) alla disponibilità di finanziamenti aggiuntivi (tutta da verificare nel contesto della legge di stabilità e comunque non prevista dalla delega), e comunque si parla di una platea estremamente limitata, ovvero che esclude altre forme di lavoro atipico (a chiamata, associazione in partecipazione, lavoro accessorio, etc) piuttosto che le partite IVA.

Un altro limite, che svela l’inganno che si nasconde dietro la propaganda governativa, è rappresentato dai criteri per l’accesso all’ASPI. Fino a quando resterà invariata la previsione (che non vede un intervento da parte della delega) dei criteri di accesso all’ASPI, ovvero 52 settimane di contribuzione nel biennio, saranno davvero pochi i lavoratori atipici che potranno aspirare a un intervento di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, a prescindere dai finanziamenti che il Governo metterà a disposizione. Insomma di universale non sembra esserci proprio nulla.

Cosa succederà agli ammortizzatori sociali?

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Cosa prevede il testo?

In merito a questi punti il testo prevede:

a) razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti e per l’autoimpiego;b) istituzione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione;c) misure sperimentali che siano in grado integrare il sostegno al reddito con iniziative di inserimento lavorativo;d) varie misure che delineano i confini di azione dell’Agenzia e degli enti locali preposti alle politiche attive per il lavoro.

Politiche attive per il lavoro: cosa cambia

Il secondo articolo della legge delega ambisce a occuparsi di politiche attive, argomento nevralgico e prioritario considerati i dati imbarazzanti che di trimestre in trimestre caratterizzano il mercato del lavoro in Italia e le percentuali di disoccupazione in vertiginoso aumento. Risulta davvero complesso esprimere un giudizio tecnico al testo della delega. Essa è talmente generica che alcune sue formulazioni potrebbero dire tutto e allo stesso tempo niente. Premesso ciò, una considerazione è doverosa: il contenuto dell’articolo non è coerente con l’annunciato titolo, limitandosi a stabilire la creazione di un’Agenzia unica per l’occupazione e a definire come riorganizzare in base al principio di efficienza (minimizzazione dei costi) gli incentivi/finanziamenti alle imprese

per l’assunzione e per l’autoimprenditorialità. Quanto agli incentivi all’occupazione, il governo intende rivederne la distribuzione intervenendo a favore di quei settori o contesti produttivi che manifestano maggiore debolezza. Per favorire l’autoimprenditorialità, quindi la nascita delle start up, nel testo della legge delega si parla esclusivamente dell’introduzione di un testo unico che definisca il quadro giuridico, ma non esiste il minimo argomento sulle intenzioni sostanziali in merito.E l’Agenzia unica per l’occupazione? Questa dovrà occuparsi di servizi per l’impiego, politiche attive e Aspi. Al fine di non duplicare queste attività, gli uffici che finora si sono occupati di politiche attive e servizi per l’impiego all’interno del Ministero del lavoro e/o delle Politiche Sociali saranno soppressi, mentre il loro personale e gli uffici confluiranno nella nuova Agenzia. Va da sé che la riorganizzazione dei centri per l’impiego sarà effettuata a costo zero. Dovremo quindi parlare dell’ennesima riforma dei centri per l’impiego fatta senza investimenti, dato che nell’ultimo decennio le riorganizzazioni di questi istituti si sono susseguite senza enormi risultati, anzi con dei clamorosi fallimenti. Uno studio dell’Isfol ha comparato l’efficacia dei nostri servizi per l’impiego con quelli di altri paesi europei. Bene, i risultati sono impietosi: l’Italia investe solo lo 0,03% del Pil in politiche attive, a fronte di una media UE dello 0,25%. Il nostro Paese investe appena 500 milioni di euro l’anno, la Germania 8 miliardi, la Francia 5, stanziamenti ‒ in questi ultimi due Paesi – ulteriormente cresciuti in questi anni di crisi, mentre da noi le politiche di austerity e la spending review hanno messo in ginocchio i servizi per l’impiego con un taglio di circa 200 milioni. Si può continuare a parlare di politiche attive senza uno straccio d’investimento? Si può continuare a fare propaganda mentre in Italia la Garanzia Giovani si è dimostrata un bluff?1

1 http://www.garanziagiovani.gov.it/Monito-raggio/Pagine/default.aspx

Agenzia nazionale per il lavoro

e politiche attive

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Cosa prevede il testo

La parte più controversa della delega prevede: a) di individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti (…) in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali;b) di promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma privilegiata di contratto di lavoro;c) di introdurre, per le nuove assunzioni, un contratto a tutele crescenti;d) di rivedere la disciplina delle mansioni (…), contemperando l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro;e) la revisione della disciplina del controllo a distanza;f) l’introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo;g) la possibilità di estendere il ricorso al lavoro accessorio per le attività discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi (i cosiddetti voucher);h) la semplificazione dell’attività ispettiva,

con l’unificazione degli attuali servizi in un’unica Agenzia senza oneri aggiuntivi per lo Stato.

Delega al governo in materia di riordino

delle formecontrattuali

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È la parte più attesa (e controversa) della legge delega sul lavoro: quella sulla riforma e riordino di tutte le tipologie contrattuali esistenti in base alla loro “effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale”. Dal pacchetto Treu fino ai giorni nostri sono più di 40 le tipologie di contratti formalmente previste nel nostro ordinamento1 di cui imprese e amministrazioni pubbliche hanno fatto largo uso ed abuso negli ultimi decenni, determinando la crescita esponenziale di quella generazione precaria denunciata a lungo dai movimenti, dal sindacato, e oggi anche dalle statistiche ufficiali (si veda il Rapporto annuale Istat 2014, capitoli 3 e 42). Una drastica semplificazione dei contratti è quindi urgente ed è una delle più grande necessità proprio per contrastare la precarizzazione del lavoro come incentivo per le imprese a scaricare sui salari e sui diritti dei lavoratori tutto il peso di una contrazione dei profitti aziendali, rinunciando così a ogni programmazione di medio-lungo termine, a ogni investimento sulla formazione dei lavoratori e sulla ricerca, e finendo per riprodurre continuamente le cause del proprio declino. Proprio per questo anche il miglior intervento di semplificazione sul mercato del lavoro non può che inquadrarsi in una prospettiva di sistema più ampia che interessi in primo luogo un ripensamento delle politiche industriali e del

1 http://www.cgil.it/news/Default.aspx?ID=180762 http://www.istat.it/it/archivio/120991

modello stesso di sviluppo per ridare al Paese un orizzonte oltre la crisi.

Purtroppo non è questo il caso della delega sul mercato del lavoro del governo Renzi che rischia, anzi, di promuovere provvedimenti simili a quelli che hanno creato l’attuale giungla contrattuale. Vediamo in che modo.

In primis risulta quantomeno imbarazzante leggere che il governo abbia bisogno di tempo per “analizzare tutte le forme contrattuali esistenti”, visto il numero così alto di esperti che è impegnato quotidianamente a promuovere l’operato del governo senza mai accettare un confronto di merito. Allo stesso tempo la delega non indica nessun criterio, cioè nessuna tipologia di contratto che sarà oggetto della razionalizzazione, il che conferma seri dubbi sulla volontà di eliminare davvero contratti atipici. Leggendo infatti il testo della delega il tutto viene rimandato ai decreti attuativi. In secondo luogo, come chiarito anche dal Governo, il perimetro di riferimento è quello individuato dalle istituzioni europee, ovvero di puntare sul contratto a tempo indeterminato come contratto prevalente. Già questo basterebbe per smontare l’intera retorica (che ha visto il governo e il premier Renzi impegnati a reti unificate) che vorrebbe un mercato del lavoro sempre più flessibile e dinamico per rispondere all’esigenze produttive delle imprese.

Come cambiano le tipologie

contrattuali

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In questo contesto, già di per sé contradditorio, il governo inserisce la proposta del contratto unico a tutele crescenti, ovvero di un contratto che per i primi anni (non viene chiarito quanti) non prevede nessun regime di tutele (art. 18 compreso). Ciò non è deducibile dal testo votato al Senato, ma solo dalla propaganda e dalle dichiarazioni del Ministro Poletti in sede di votazione, sede nella quale il Ministro ha chiarito il punto:

«Per semplificare, superare elementi d’incertezza e discrezionalità, per ridurre il ricorso ai procedimenti giudiziari, nella predisposizione del decreto delegato relativo al contratto a tutele crescenti, e quindi per le nuove assunzioni, il governo intende modificare il regime del reintegro così come previsto dall’articolo 18, eliminandolo per i licenziamenti economici e sostituendolo con un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità»

Pur non essendo chiaramente specificato nella legge delega, ma solo nelle dichiarazioni a margine, la logica alla base suonerebbe all’incirca così: il lavoratore assunto con tale contratto matura in un certo lasso di tempo le tutele che spettano a un lavoratore dipendente. Nei primi due/tre anni questo lavoratore avrà un salario basso, scarse tutele previdenziali e lavorative, potendo venire licenziato in qualsiasi momento dall’azienda anche senza giusta causa. Una volta superato il periodo di prova e dimostrate le sue virtù e fedeltà all’azienda, questi otterrà finalmente la stabilità del lavoratore dipendente (ovvero accederà a un pieno regime contributivo, avrà accesso alle tutele previste in caso di malattia, alle ferie, al diritto di sciopero e di organizzazione sindacale, e, perché no, anche all’articolo 18 così come modificato dalla riforma Fornero).

La domanda, però, sorge spontanea: senza la cancellazione delle forme contrattuali introdotte

con il pacchetto Treu e soprattutto dalla legge 30/2003, ovvero le forme contrattuali atipiche che hanno creato un esercito di precari nei settori pubblici e privati, come si pensa di rendere il contratto a tutele crescenti uno strumento deterrente nei confronti della precarietà lavorativa? È qui che emerge la più grande contraddizione della retorica renziana, che a parole dice di voler eliminare le forme contrattuali precarizzanti e nei fatti liberalizza i contratti a termine (come nel caso del decreto Poletti), introduce un nuovo contratto senza tutele (seppur crescenti nel tempo) e non indica nessuna forma contrattuale atipica da eliminare. In sostanza il contratto a tutele crescenti, nell’attuale contesto legislativo così come ridisegnato dopo l’approvazione della delega, è il quarantasettesimo contratto di lavoro previsto dal nostro ordinamento.

Un altro tema è la convenienza economica di questa tipologia contrattuale. Fino a quando non verranno cancellati i contratti atipici, questi ultimi continueranno ad essere di gran lunga più convenienti dal punto di vista economico per l’impresa: da un regime di minor contribuzione dal punto di vista previdenziale ai pochissimi vincoli che il precariato offre all’impresa, i contratti atipici continueranno ad essere molto più convenienti, il che potrebbe determinare un limbo di diversi anni di precarietà attraverso il combinato disposto costituito dalle collaborazioni, dalla liberalizzazione dei contratti a termine e dal contratto a tutele crescenti. Utilizzando questi strumenti l’impresa potrebbe ottenere fino a nove anni consecutivi di precarietà, e il lavoratore ne trarrebbe solo ed esclusivamente un regime di minor tutela e esposizione al ricatto (se sei fuori dalla disciplina aziendale ti posso licenziare come e quando voglio...).

Contratto a tutele crescenti

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In sostanza, uscendo dalla propaganda e analizzando gli effetti concreti della delega sul mercato del lavoro, si rende tipico quello che per anni è stato definito atipico, stabile ciò che fino ad ora è stato definito precario, diventa regola ciò che per anni è stata definita l’eccezione (ovvero l’utilizzo dei contratti precari). Si ridisegna il nostro mercato del lavoro, livellando verso il basso il regime delle tutele lavorative, estendendo a tutte le nuove assunzioni quello che per anni è stato sperimentato sulle pelle di alcuni. Certo bisognerà aspettare i decreti delegati, ma il disegno di legge delega proposto dal governo va in questa direzione.

È il caso dell’articolo 18, tema su cui è emersa tutta l’ipocrisia del Governo. Valutandolo nel concreto, lasciando ai liberisti le argomentazioni ideologiche, è facile intuirne la funzione deterrente, ovvero: nel momento in cui si viene licenziati apparentemente per motivi economici (cioè la motivazione che viene sempre usata dalle aziende per tagliare personale) mentre in realtà la motivazione del licenziamento è il frutto di una discriminazione (sindacale, politica, religiosa, di genere, di orientamento sessuale, etc) non sarà più possibile essere reintegrati, ma solo ottenere un risarcimento economico. È chiaro a tutti che la volontà non è quella di attrarre investitori stranieri (che sembrano essere più preoccupati dalla corruzione endemica del nostro tessuto d’impresa, piuttosto che dalla norma del reintegro vigente in gran parte delle legislazioni europee) ma di istituire una nuova disciplina che sottomette le classi lavoratrici all’impresa, proprio come nei vari casi Fiat e Alitalia. Facciamo fatica a pensare che sarà questo il modo per rilanciare la nostra economia e uscire dalla crisi che stiamo attraversando.

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Un tema di cui si parla troppo poco è la volontà, inserita nella delega al governo, di modificare l’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, che attualmente vieta al datore di lavoro di demansionare il profilo professionale del lavoratore, con una ripercussione sia qualitativa che quantitativa (ovvero di retribuzione). Il demansionamento, inoltre, è stato un tema già affrontato dalla Cassazione, che con una sentenza (n. 8827/2003) ne ha chiarito l’incostituzionalità, perché contrario all’articolo 2 della nostra Costituzione, che afferma il pieno sviluppo della persona umana nel contesto sociale di riferimento.

Ovviamente, anche in questo caso, l’esigenza del governo è quella di assicurare all’imprenditore totale libertà nell’organizzazione, nonostante quella libertà possa sfociare nella violazione della libertà altrui (in questo caso del lavoratore, che attraverso questo strumento potrebbe essere utilizzato a uso e consumo del proprio datore di lavoro). È evidente che il demansionamento potrebbe essere un altro strumento di ricatto nei confronti dei lavoratori (se non fai il bravo io mortifico la tua professionalità…), un altro atto teso a limitare le libertà sindacali.

C’è da specificare che già adesso vi sono alcune eccezioni: il demansionamento è infatti possibile attraverso un accordo sindacale. L’accordo sindacale si è reso necessario per verificare la necessità di attuare demansionamenti per far fronte a situazioni di crisi e evitare licenziamenti, ed evitare che questo strumento venga utilizzato come sanzione disciplinare a danno dei lavoratori. Se nei decreti attuativi venissero confermate le intenzioni del Governo, ci troveremmo di fronte ad un ulteriore strumento di limitazione delle libertà di sindacali. Nulla a che vedere con la competitività delle imprese, anche perché è chiaro a tutti che utilizzando profili professionali sempre meno qualificati difficilmente potranno aumentare i livelli di produttività e competitività.

Demansionamento

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Sempre nella delega è presente la volontà del Governo di modificare l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che impedisce al datore di lavoro di sorvegliare a distanza i lavoratori attraverso strumenti digitali quali telecamere, microspie, etc. C’è da dire che la delega è molto vaga su questo punto, perché se da un lato si fa

riferimento alla tutela della privacy dei lavoratori, contemporaneamente si fa riferimento alle necessità produttive dell’impresa. Francamente, con tutto lo sforzo di comprensione possibile,

non si capisce dove si voglia andare a parare. Anche in questo caso, come per

il demansionamento, i sistemi tecnologici di controllo dei lavoratori (badge di entrata/uscita, telecamere per garantire sicurezza dell’impresa, etc) sono già utilizzati e autorizzati in caso di accordo tra datore di lavoro e rappresentanze dei lavoratori con l’intento di creare un equilibrio tra esigenze dell’impresa e divieto di controllo a distanza. Così come scritto nella legge delega l’equilibrio salta, lasciando totale libertà all’impresa di decidere come controllare a distanza e installare sistemi di videosorveglianza senza consultare i lavoratori.

Controllo a distanza e videosorveglianza

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Premesso che il tema del “salario minimo” sarà oggetto di un approfondimento ad hoc, in questa sede ci si limita a commentare quello che è previsto dalla legge delega sul mercato del lavoro. È abbastanza noto che questo strumento è utilizzato in diversi sistemi europei (ultimamente è stata la Germania a introdurre tale misura), nonostante ciò va ricordato che il nostro paese (per fortuna, ci sentiamo di aggiungere) è uno dei pochi che ha un modello di contrattazione verticale (nazionale) e orizzontale (aziendale), il che ha permesso nei decenni di individuare nei compensi minimi previsti dai contratti nazionali (rinegoziati mediamente ogni tre anni) il minimo di retribuzione in relazione ai diversi livelli di inquadramento.

Dettò ciò, un problema si è posto in merito all’uso (meglio dire abuso) dei contratti atipici, in particolar modo delle collaborazioni, che spesso mascherano impieghi omologhi a quelli previsti dai contratti tipici. Capita sempre più spesso, dunque, di trovare due lavoratori, uno atipico e l’altro tipico, che svolgono la stessa funzione con livelli di retribuzione diversi, un contesto nel quale il lavoratore con contratto atipico è penalizzato notevolmente sia in termini di retribuzione, di contribuzione pensionistica e accesso a diritti e tutele. Nella delega si prevede di introdurre – il testo afferma testualmente “in via sperimentale” – forme di compenso minimo orario previste per legge per tutte le tipologie

contratti (ovvero tipici e atipici) che non hanno contratti nazionali di riferimento sottoscritti dalle parti. In sostanza se c’è un lavoratore atipico che svolge un lavoro equivalente a quello di un lavoratore tipico potrà consolarsi con un minimo di retribuzione previsto per legge.

Fin qui, l’obiettivo del governo sembra onorevole. Si potrebbe in questo modo intervenire per contrastare gli abusi relativi a paghe da fame, come spesso avviene nel caso dei collaboratori, degli associati in partecipazione, etc. Va però specificato che un compenso orario minimo fissato per legge non risolverebbe il tema degli abusi degli strumenti contrattuali, ma allevierebbe di poco (davvero poco vedendo i salari minimi tedeschi) la sofferenza dello sfruttamento. In sostanza, se ci sono abusi vanno sanzionati in quanto tali, e non è pensabile di rendere l’abuso regola, individuando per legge una retribuzione minima per lo sfruttamento. Se un lavoratore contrattualizzato con una collaborazione (ad. es. co.co.pro) svolge un lavoro da subordinato, deve essere contrattualizzato da subordinato e non basta semplicemente dirgli che guadagnerà qualche decina di euro in più rimanendo in una condizione di sfruttamento.

Cosa diversa, invece, come già previsto dalla riforma Fornero, è assicurare pari retribuzione a eguale mansione, una norma già in essere che però ha trovato scarsa applicazione anche a fronte delle diverse scorciatoie contrattuali che i datori di lavoro hanno a disposizione sulla base delle norme previste dalla legislazione vigente. In sostanza, il dibattito su questo tema è aperto, anche se l’intento del Governo di individuare delle “vie sperimentali” è davvero fumoso, dunque anche in questo caso sarà necessario aspettare la stesura dei decreti delegati per capire meglio la sostanza di tale proposta.

Compenso orario

minimo

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I voucher, o ‘buoni lavoro’, nell’idea originaria del 2003, nacquero con l’obiettivo di favorire l’emersione di fenomeni di lavoro sommerso, con particolare riguardo a piccole prestazioni lavorative in ambito domestico o agricolo, con una disciplina piuttosto rigida per i settori di applicazione.

Tale strumento, invece, è stato spesso utilizzato per mascherare forme di sottoinquadramento salariale, ovvero per pagare poco ma in modo legale. Una prima liberalizzazione c’è stata con la riforma Fornero, che di fatto ha esteso l’utilizzo dei buoni a tutti i settori, lasciando alcuni vincoli solo ed esclusivamente relativi all’utilizzo dei voucher in agricoltura (che possono essere destinati solo a pensionati e studenti). Va ricordato che il voucher può essere utilizzato per prestazioni lavorative che nell’ambito dell’anno solare non superino i 5000 euro di compenso, e che il valore nominale del Voucher (10 euro) è comprensivo di contribuzione previdenziale presso la gestione separata INPS e assicurazione INAIL.

Il problema, però, è che l’attuale normativa non prevede che il voucher corrisponda ad un compenso orario (cioè un buono non vale un’ora di lavoro) e dunque l’eccessiva liberalizzazione di tale strumento ha spesso mascherato forme di lavoro nero e/o di minore retribuzione del lavoratore in termini di salario e previdenza.

La delega del governo Renzi afferma di voler estendere questo strumento a tutte le prestazioni occasionali e/o discontinue, non chiarendo però se si vogliono rivedere i criteri come il tetto massimo di retribuzione (5000 euro). Così scritta, la norma sembra aprire ad un’ulteriore liberalizzazione di uno strumento nato con l’obiettivo di combattere il lavoro nero e di fatto utilizzato come possibilità per perpetrare abusi e distorsioni contrattuali, con l’aumento di forme di lavoro grigio nei diversi settori nel quale è stato utilizzato.

Voucher e lavoro

accessorio

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Se c’è una buona notizia nel disegno di legge delega è la volontà del governo di estendere il diritto alla maternità (nonché dei congedi parentali) a tutte le tipologie di lavoro. Allo stato attuale, sulla base del testo approvato, non è ancora chiaro se l’indennità di maternità sarà estesa indistintamente a tutte le tipologie contrattuali oppure ci sarà una differenza relativa al grado di contribuzione della lavoratrice. Certo è che uno dei punti della delega assicura l’estensione del diritto di maternità anche alle lavoratrici parasubordinate (ripetiamo che però in discussione è se questa indennità sarà di pari livello di quelle subordinate).

Positiva, poi, la volontà di rendere più flessibili i congedi parentali, in modo da assicurare una maggiore conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, punto già previsto da diversi contratti nazionali e che sarebbe auspicabile estendere a

tutti/e. Per incentivare l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro le legge delega prevede poi un tax credit per le imprese che assumano lavoratrici “con figli minori e che si trovino al di

sotto di una determinata soglia di reddito complessivo”.

Anche sul tema della maternità e dei congedi parentali bisognerà leggere bene ciò che sarà previsto dai decreti delegati, ma in generale serve a tal proposito provare ad aprire una discussione seria (e non caritatevole) sulla genitorialità e mondo del lavoro. Altri sistemi europei hanno immaginato totale sostegno alla genitorialità attraverso un welfare sia diretto (assegni familiari, indennità di maternità, etc) che indiretto (asili nido pubblici e aziendali, assistenza alla persona). Per determinare una vera svolta servirebbe dirigerci in tale direzione. Chissà se il Governo – almeno su questo tema – è disposto a portare davvero l’Italia in Europa.

Maternità e genitorialità

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Nella sua parte conclusiva la legge delega chiari-sce – ancora una volta – che qualsiasi intervento previsto non deve comportare un onere mag-giore per le casse dello Stato, e che qualsiasi decisione estensiva che non trova copertura nei finanziamenti già previsti sarà rimandata solo a fronte di coperture certe. In sostanza, se un decreto delegato affronterà il tema dell’esten-sione della maternità o degli ammortizzatori nel caso dei co.co.co, esso sarà emanato solo dopo provvedimenti legislativi che ne determineranno la copertura finanziaria. Un dettaglio non da poco, e che lascia un margi-ne di dubbio molto forte in merito alla possibilità di attuare alcune delle misure annunciate e che stanno caratterizzando una propaganda gover-nativa, che quasi vuole far passare l’idea che queste misure siano già legge. In realtà, si dovrà non solo aspettare la stesura dei decreti delega-ti, ma anche verificare che tali decreti abbiano l’adeguata copertura finanziaria, in un contesto dove il fiscal compact ci sta imponendo tagli alla spesa pubblica di circa 20 miliardi l’anno. Insom-ma la delega sul mercato del lavoro rischia di essere un assegno in bianco firmato dal parla-mento al governo (per di più con voto di fiducia), ma quanto quest’ultimo sarà in grado di mettere in campo le misure annunciate (siano esse posi-tive o negative) è tutto da verificare.

Oneri per lo stato

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