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IL GIARDINO DEI DUE MONDI - Aracne editricezione del mais, il quale era tutto bianco, si...

Date post: 24-Jun-2020
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IL GIARDINO DEI DUE MONDI Francesco Di Ludovico Un viaggio nell’esperienza erboristica della Mesoamerica e dell’Italia
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IL GIARDINO DEI DUE MONDI

Francesco Di Ludovico

Un viaggio nell’esperienza erboristicadella Mesoamerica e dell’Italia

Copyright © MMIXARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2516–1

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: maggio 2009

5

INDICE

PRESENTAZIONE. A cura del Prof. Gian Gabriele Franchi 7

INTRODUZIONE. L’incanto botanico Passeggiando nei parchi del Vecchio Mondo 13

Scienza e tradizione di erbe vicine e lontane 19

Motivazioni e organizzazione di questo manuale 27

PARTE PRIMA. L’uomo e la natura della Mesoamerica Simbolo e mito della flora preispanica 33

La concezione mesoamericana del mondo 47

Antropologia medica nella terra dei Nahua 59

PARTE SECONDA. Le piante Dalla pianta al disturbo

Premessa 73

Indice delle piante citate

Riscontro dei nomi botanico e comune 199

PARTE TERZA. I disturbi Dal disturbo alla pianta

Premessa 217

Apparato digerente 218

Apparato cardiovascolare 242

6

Apparato respiratorio 252

Dermatologia 260

Endocrinologia, Ginecologia e Andrologia 280

Ortopedia 290

Nefro–urologia 294

Psichiatria e Neurologia 300

Immunologia 308

Odontostomatologia 312

Varie 316

Indice dei disturbi e delle indicazioni 327

RINGRAZIAMENTI 333

BIBLIOGRAFIA 335

PARTE PRIMA

L’UOMO E LA NATURA DELLA MESOAMERICA

33

Simbolo e mito della flora preispanica

La leggenda del dono degli dèi.

All’inizio vi furono le divinità primordiali, e il loro pensiero: periodo estatico,

momento primigenio di caos; poi: tempo ciclico, dinamicità dello spazio; e

suono, colore, materia e vegetazione1. Dissero «Terra» — gli dèi progenitori — e bastò perché questa si mate-

rializzasse all’improvviso come una fitta nube che cominciò rapidamente a

prendere forma. Spuntarono i monti, si formarono vallate e pianure, fluirono

ruscelli e si ritirarono le acque del mare.

Le divinità adornarono, poi, questa loro creazione con una moltitudine di

piante e animali. L’unione del dio della Terra, Tlazolteotl, con la dea dei fiori,

Xochiquetzal, generò Centeotl. Egli fu dio del mais. Ma appena nato fu se-

polto nel terreno. Dalla sua capigliatura spuntò il cotone; da un suo orecchio

germogliò un seme buono che fu chiamato “testa pelosa”2; dall’altro orecchio

un altro seme detto “uova di pesce”3, mentre dalle dita nacque il tubero della

patata; dalle unghie il mais di tipo lungo, e dal resto del suo corpo mille altri

frutti si dischiusero4.

1 Questa è, in estrema sintesi, la cosmogonia maya. Si noti come per i Maya i concetti di

spazio e di tempo non erano separati: costoro consideravano, infatti, il tempo come un’eterna attività dinamica dello spazio, un trascorrere ciclico in cui ogni cambiamento — inclusi i cam-biamenti dell’uomo — obbedisse alla stabile legge del movimento periodico del Sole; concezio-ne che, nella base, è affine a quella di spazio–tempo della moderna teoria fisica della relatività.

2 Amaranthus hybridus, chiamato Bledo o Quelite in spagnolo messicano.

3 Argemone mexicana, chiamato in italiano Papavero messicano o Papavero spinoso, Chi-calote in spagnolo messicano e Chicálotl in lingua nahuatl.

4 Mito azteco che narra la germinazione dei vegetali. Centeotl, dio azteco del mais, è un nome composto di centli, mais (o pannocchia, in senso lato), e teotl, dio o Signore. Cogliamo

34 PARTE PRIMA. L’UOMO E LA NATURA DELLA MESOAMERICA

In seguito, gli dèi chiesero agli animali cui diedero vita di parlare, di invo-

care i loro nomi e di lodarli. Ma da questi essi non riuscirono a ottenere che

versi ferini: ruggiti, schiamazzi, urla, guaiti, tutto tranne un discorso articolato.

Allora i progenitori si dissero: «Non hanno parlato; non siamo riusciti a far sì

che invocassero il nostro nome. Questo non va bene». Si rivolsero, quindi, a

loro dicendo: «Dobbiamo assolutamente cambiarvi con qualcun altro».

Fecero perciò un secondo tentativo per creare altri esseri che a loro ob-

bedissero, offrissero preghiere e rispetto, nutrimento e memoria. Progettaro-

no di fare un esperimento con la creazione umana. Plasmarono l’uomo dal

fango; ma si accorsero presto che non andava bene: si disfaceva, era molle,

con la testa rigida, la vista limitata; non era capace di camminare né di ripro-

dursi. Presto s’inumidì nell’acqua e si dissolse. Essi, allora, disfecero questa

loro opera.

Ancora regnavano le tenebre in questo mondo primordiale, ma gli dèi

avvertivano con urgenza che il tempo dell’alba si stava avvicinando. Per-

tanto smantellarono in fretta il loro disegno, e nuovamente discussero.

Occorreva trovare presto un’altra materia. Si consultarono con gli indovini,

e il responso fu di intagliare manichini di legno.

Questi fantocci, dotati di un cuore, furono la prima stirpe sulla faccia della

terra. Ma ecco ancora un’umiliazione, una distruzione. Gli umanoidi di legno

perirono in un diluvio invocato dal loro scultore, adirato poiché essi non furo-

no in grado di proferirgli parola. Per questo motivo caddero in disgrazia, e

contro di loro si ritorse la vendetta anche degli animali, della vegetazione e

perfino degli oggetti che essi avevano utilizzato. (Dicono che le scimmie che

vivono nelle selve siano i loro discendenti).

quest’occasione per ricordare che il mais odiernamente conosciuto non è il medesimo che colti-vavano gli antichi popoli amerindi. Quello attuale è, infatti, il risultato di numerosi incroci creati dall’uomo in centinaia di anni con lo scopo di ottenerne una specie più produttiva; il prodotto primo d’ibridazione, la cui spiga e i cui grani erano molto più piccoli di quelli del mais propria-mente detto, si ritiene derivato da due piante erbacee: una che nell’antichità centroamericana si chiamava “teosinte” (Euchlaena mexicana; detta teocentli in nahuatl, vale a dire “pannocchia divina”) — peraltro ancora esistente — e l’altra di genere Tripsacum.

SIMBOLO E MITO DELLA FLORA PREISPANICA 35

I Progenitori dovevano venire a capo del problema. Ancora non splendeva

la luce degli astri, ma l’alba pareva adesso davvero imminente; pertanto fu an-

cora nell’oscurità e con sollecitudine che essi si riunirono per trovare la mate-

ria più adatta a formare la carne dell’uomo. Stavolta decisero per il mais. A ri-

ferire del luogo ove si trovava il cereale richiesto dagli dèi furono quattro ani-

mali: la volpe, il coyote, il pappagallo e il corvo. Anche l’acqua fu implicata nel-

la creazione umana: le divinità creatrici la usarono per formare il sangue

dell’uomo. Queste furono le due materie prime che composero l’essere umano.

In tal modo entrò il mais nella creazione umana per opera degli dèi Pro-

genitori5.

Ci fu, successivamente, un tempo in cui il mais, nascosto agli occhi degli

esseri viventi per volere divino, era tutto immagazzinato sotto una grande

montagna di dura roccia. A scoprirvelo furono per prime le formiche. Esse

riuscirono a scavare una galleria fino al nascondiglio, e cominciarono a por-

tar via il mais caricandoselo sul dorso chicco per chicco. Quando la volpe,

curiosa come sempre dei fatti dei vicini, vide le formiche portare quel grano

sconosciuto ne rubò loro un chicco per assaggiarlo. Così, poco a poco, altri

animali lo scoprirono, e finalmente anche gli uomini vennero a sapere del

nuovo cibo. Ma soltanto le formiche continuavano a poterlo raggiungere nel

deposito sotterraneo.

Allora gli uomini pregarono gli dèi della pioggia affinché li aiutassero a rag-

giungere quel magazzino dove era custodito il mais. Tre di questi dèi, a turno,

tentarono di far saltare la roccia con le loro saette, ma invano. Così andarono

dal loro signore, l’anziano capo degli dèi della pioggia di nome Chac6, e lo

convinsero a cimentarsi lui in questa impresa.

Il vecchio dio Chac accettò e chiamò in soccorso un picchio perché bat-

tesse sulla superficie della roccia finché non vi trovasse il punto più vulnera-

5 Passo liberamente tratto dal Popol Vuh, il massimo testo religioso dei Maya Quiché.

6 Chac, divinità maya della pioggia, è l’equivalente dell’azteco Tláloc.

36 PARTE PRIMA. L’UOMO E LA NATURA DELLA MESOAMERICA

bile. Scoperto il punto di minore resistenza e comandato al picchio di allon-

tanarsi, Chac con tutta la sua forza vi scagliò un poderoso fulmine, e la roc-

cia si spaccò. Una scheggia colpì la fronte del picchio, che non volle mettersi

al riparo, ferendolo (è per questo che esso ha ancora un ciuffo di piume ros-

se sulla fronte). Il calore sprigionato dal fulmine fu così intenso che una por-

zione del mais, il quale era tutto bianco, si abbrustolì: parte dei grani si roso-

lò, parte si annerì dal fumo, mentre alcuni chicchi rimasero di colore giallo.

Di qui le quattro varietà del granoturco: nera, rossa, gialla e bianca.

Così si traduce in una leggenda maya l’idea che il mais è stato il dono che gli dèi concessero all’uomo quand’egli cominciò ad impegnarsi per meri-

tarlo.

Ancora sconosciuto al vecchio continente, il granoturco era l’epicentro del

mondo dei Maya e degli Aztechi. Nutrivano, costoro, nei confronti della terra

e dei suoi frutti un amore mistico ed intenso; e tra questi prodotti, il mais ha

sempre occupato un posto privilegiato. La milpa, il campo coltivato con tale

pianta, era ciò che li teneva più occupati. Insieme agli altri vegetali, il mais si

faceva esempio di rigenerazione e simbolo del ciclo e della vita dopo il de-

cesso (elementi tanto cari e caratteristici del pensiero mesoamericano): esso

muore dopo la raccolta per poi rinascere dall’humus prodotto dal mais pre-

cedente7. I Maya lo ritenevano una pianta degna di essere valorizzata; lo

7 «Il mais e le piante nascevano ad ovest nel giardino occidentale di Tamoanchán in cui ri-

siedono le divinità terrestri, fonti di vita. Intraprendevano un lungo viaggio sottoterra — il viaggio della germinazione — invocando gli dei della pioggia perché guidassero il loro cammino; infine spuntavano all’est, regione del sole levante, della giovinezza e dell’abbondanza, il «paese ros-so» dell’aurora […]. Venere, stella del mattino, nasce a est, poi scompare per ricomparire, stella della sera, a occidente. […] Il suo nome divino è quello di Quetzalcóatl […, che] è sceso sotto-terra […] per cercarvi le ossa degli antichi morti e farne dei viventi […]. Così la natura e l’uomo non sono votati a morte eterna. Le forze di resurrezione sono all’opera: il sole riappare ogni mattino dopo aver passato la notte «sotto la pianura divina» […]; Venere muore e rinasce; il mais muore e rinasce; tutta la vegetazione, colpita dalla morte nella stagione della siccità, spun-ta più bella e più giovane ad ogni stagione delle piogge, come la luna si cancella dal cielo e ri-torna seguendo i tempi delle sue fasi. La morte e la vita non sono che due aspetti della stessa realtà: fin dall’epoca arcaica i vasai di Tlatilco modellavano un doppio viso, metà di vivente, me-tà di scheletro, e questo dualismo si ritrova in un’infinità di documenti. Forse nessun popolo nel-la storia è stato angosciato come i Messicani dalla presenza formidabile della morte, ma per essi la vita era generata dalla morte come la pianticella del grano decomposto nella terra».

SIMBOLO E MITO DELLA FLORA PREISPANICA 37

adoravano nella nicchia riposta del loro cuore, e nella loro mente vi aveva

sempre albergato, fin da tempo immemorabile, un sentimento che faceva

considerare sacra la crescita di questo cereale. Ne attribuivano la divinità a

un dio bello e giovane, Yum Kaax, rappresentato col capo adorno di foglie di

mais e con pannocchie tenute in mano o sorrette nella fluente acconciatura,

equivalente all’azteco Centeotl, che fu creatore anche degli altri vegetali.

Prima di preparare il campo alla sua semina, essi praticavano il digiuno e

una lunga astinenza, e tributavano offerte alle divinità della terra alla cui pro-

tezione era rimessa la sorte del raccolto di mais.

Secondo un’altra leggenda, in tempi remoti la dea Cipactónal utilizzava i

chicchi del mais per divinare il futuro, pronosticare il decorso delle malattie e

fare incantesimi. Primordiale pianta simbolica dell’umanità e della civilizza-

zione, il mais non solo dunque si convertiva miticamente nella carne del-

l’uomo, ma rappresentava anche gli effetti vantaggiosi del mondo vegetale e

la possibilità di beneficiarne attraverso la conoscenza.

I Maya attuali parlano tuttora del granoturco con reverenza, chiamandolo

“Vostra Grazia”; lo considerano il dono più alto degli dèi all’uomo, e che per-

ciò va trattato con umiltà e rispetto. Anche oggi fanno di questo cereale la

maggior parte del loro nutrimento: lo mangiano tutti i giorni dell’anno, e se il

raccolto va loro male non hanno nulla da mangiare.

Alimento basico e universale, fondamento dell’economia, il mais nei vil-

laggi rurali messicani era preparato come oggi: se ne cuociono i chicchi, e la

massa ottenuta viene poi pestata su una lastra di pietra vulcanica con una

mola cilindrica (metate). Quando è spianata a mo’ di focaccia, prende il no-

me di tortilla; mentre avvolta in cartocci di foglie di granoturco, condita con

carne e cotta al vapore, la pietanza si chiama tamal.

Soustelle J., La vita quotidiana degli Aztechi, EST, 1997, pp. 147–149. Nei prossimi capitoli si esporranno più nel dettaglio i peculiari concetti mesoamericani di ciclo, rinascita, antitesi e mi-glioramento, di cui tale risveglio delle forze vegetative dopo la morte apparente nella stagione della siccità costituisce un bell’esempio.

38 PARTE PRIMA. L’UOMO E LA NATURA DELLA MESOAMERICA

«Le donne, con ventole di giunco, attizzano il fuoco che sonnecchia tra le

pietre del focolare, poi, inginocchiate davanti al metatl di pietra vulcanica

cominciano a macinare il mais. Il lavoro quotidiano comincia col rumore sor-

do dei mortai: è stato così da millenni. Un po’ più tardi si udirà il battimano

ritmato che fanno le donne schiacciando tra le palme, a piccoli colpi, la pasta

di mais per confezionare tamales o tortillas»8.

Ma il mais non è che una delle tante piante che il conquistatore ignorasse.

I giardini del Nuovo Mondo.

Nei parchi del sovrano lo stupore dell’invasore.

«Il palazzo del re Netzahualcoyotl a Texcoco, aveva la forma di un qua-

drilatero di circa un chilometro per ottocento metri. Una parte di questo spa-

zio era occupata dai locali pubblici [...] e dai locali privati [...], in tutto più di

trecento stanze. Il resto era riservato ai giardini con numerose fontane,

specchi d’acqua e canali con numerosi pesci e uccelli, e una piantagione di

oltre duemila pini... e c’erano nei giardini molti labirinti [...] e più lontano, a

fianco dei templi, c’era la casa degli uccelli dove il re custodiva tutte le spe-

cie di uccelli, animali, di rettili e di serpenti portati da tutte le parti della Nuo-

va Spagna [il Messico, N.d.A.], e gli animali che non si potevano ottenere

erano raffigurati in oro e gemme, e lo stesso per i pesci, tanto per quelli che

vivono nel mare quanto per quelli dei fiumi e delle lagune. Così, nessun uc-

cello, pesce o animale di questi paesi mancava in questo luogo, sia che fos-

se vivo, sia che fosse riprodotto in oro e gemme.

«Oltre a quelli del palazzo di Texcoco, lo stesso re aveva fatto sistemare

giardini sontuosi in altre località, particolarmente a Tetzcotzinco. Questi par-

8 Soustelle J., op. cit., p. 166.

SIMBOLO E MITO DELLA FLORA PREISPANICA 39

chi e giardini erano abbelliti da ricchi alcazar sontuosamente lavorati, con

fontane, ruscelli, canali, specchi d’acqua, bagni e meravigliosi labirinti ove

aveva fatto piantare grande varietà di fiori e di alberi di ogni specie, esotici e

portati da regioni lontane... e l’acqua per le fontane, bacini e ruscelli e per

innaffiare i fiori e gli alberi del parco giungeva dalla sorgente: per portarla

era stato necessario costruire forti e alte mura di cemento di dimensioni in-

credibili, che andavano da una montagna all’altra, con in cima un acquedotto

che finiva nel punto più alto del parco. L’acqua si raccoglieva dapprima in un

bacino ornato di bassorilievi storici, […] e di là scorreva attraverso due canali

principali uno verso nord, l’altro verso sud, traversando i giardini e riempien-

do i bacini dove si ammiravano delle stele scolpite. Uscendo da uno di questi

bacini, l’acqua saltava e si polverizzava sulle rocce, per cadere su un giar-

dino composto di tutti i fiori profumati delle terre calde. [...] Il soldato spa-

gnolo Díaz si estasia e dice “... andammo nel giardino che era meraviglioso

da vedersi ed io non mi stancavo di osservare le varietà delle piante e dei

loro profumi, i tappeti di fiori, i molti alberi da frutto e di rosai [sic] del pae-

se”»9. Orchidee e magnolie, dalie e ahuehuetes10 crescevano qui insieme,

accanto a tante altre piante e fiori odorosi portati da regioni calde e distanti:

tutti stavano lì. Era un giardino la cui sontuosità e bellezza erano e rimasero

proverbiali.

«È certo che i sovrani dell’antico Messico avevano gran cura nel riunire

attorno a sé ogni specie animale e vegetale del loro paese. Gli Aztechi ave-

vano una vera passione per i fiori: tutta la loro poesia lirica era un vero inno

ai fiori «che inebriano» con la loro bellezza e il loro profumo.

«Il primo Motecuhzoma, dopo aver conquistato Oaxtepec, nelle terre cal-

de del versante occidentale, decise di piantarvi un giardino in cui ogni specie

tropicale fosse coltivata. Messaggeri imperiali andarono a cercare nelle pro-

9 Soustelle J., op. cit., pp. 170–172.

10 Taxodium mucronatum.

40 PARTE PRIMA. L’UOMO E LA NATURA DELLA MESOAMERICA

vince arbusti da fiori che furono presi avendo cura di mantenere integre le ra-

dici e di avvilupparli in stuoie. Quaranta famiglie di indiani, originari dei paesi

in cui si erano prese le piante, furono stabilite a Oaxtepec, e il sovrano in per-

sona inaugurò solennemente il giardino»11. La scelta del luogo fu ben ponde-

rata affinché presentasse gradevoli elementi scenografici accanto a un terre-

no fertile e a miti condizioni atmosferiche: la zona eletta abbondava, infatti, di

pareti di nuda roccia, di sorgenti, orti e alberi da frutto, si trovava vicino alla

capitale, ma possedeva un clima più propizio e una maggiore disponibilità di

acqua. Dalla costa orientale vennero trasportati fin qui e messi a dimora gli

alberi del profumato cacao e delle vaniglie aromatiche12, quelli del prezioso

flor de corazón13 e dell’aulente frangipane, lo hueynacaztli14 dai magici signi-

ficati, gli alberi del cacahuaxóchitl15 liricamente elogiato e tanti altri dai fiori

ugualmente fragranti e dai colori vivaci.

Veri e propri giardini botanici, retaggio di antica cultura tolteca, erano

fruibili tanto come incantevoli parchi quanto come luoghi di coltivazione di

piante medicinali, e precedettero di almeno cinquecento anni quelli che in

Europa furono creati nel Rinascimento.

«Su un piano molto più modesto, naturalmente, tutti i Messicani condivi-

devano l’amore per i giardini. Nei cortili, sulle terrazze, gli abitanti di Messico

[Città del Messico, N.d.A.] coltivavano fiori e, nella zona lacustre, Xochimilco,

“il luogo dei campi di fiori”, era già come oggi il vivaio che forniva tutta la val-

le. [...] Si viveva poco in casa, ma assai più fuori, sotto un cielo assolato più

di ogni altro, e la città, ancora vicina alle sue origini, mescolava al candore

11 Soustelle J., op. cit., p. 174.

12 Il cronista del tempo Alvarado Tezozómoc menziona due di questi tipi di vaniglia: il Tlilxó-

chitl (Vanilla planifolia?) e il Mecaxóchitl (Vanilla pompona, planifolia?).

13 Talauma mexicana, detto Yolloxóchitl in nahuatl.

14 Enterolobium yelocarpum o cyclocarpum, detto Guanacastle in spagnolo messicano.

15 Quararibea funebris, detto Flor de cacao in spagnolo messicano, e che quasi certamente corrisponde al Poyomatli cantato dai poeti preispanici.

SIMBOLO E MITO DELLA FLORA PREISPANICA 41

abbagliante degli edifici e dei templi innumerevoli macchie di verde e il mo-

saico delicato dei fiori»16.

Il linguaggio dei fiori precolombiani.

Nel Messico antico, come espressione fondamentale della natura, la flora

possedeva numerosi impieghi ed era pregna di significati distinti. I fiori rap-

presentavano gli dèi, la creazione, l’uomo, il linguaggio, la poesia, il canto,

l’arte, l’amicizia; insieme alla giada e alla piuma del quetzal, erano sinonimo

di “prezioso”. Simbolo di ciclo e di rinascita, le piante evocano la vita dalla

morte.

Che la flora fosse foriera di significati era esplicitato in Mesoamerica sin

dai tempi remoti. Infatti, già la più antica illustrazione della vegetazione, con-

siderata quella dell’affresco murale di Tepantitla, mostra il profondo carico

allegorico delle varie specie botaniche dipinte, nonostante la loro stilizzazio-

ne arcaica, e lo fa accanto alla raffigurazione di scene di felice vita ideale.

L’intero murales, così intessuto di gioia e simbolismo, si suppone, infatti, es-

sere la rappresentazione di Tlalocan, il Paradiso terrestre.

Nell’àmbito del senso, la flora offriva un’ampia panoramica di significati. Il

termine “fiore”, xóchitl in lingua nahuatl, si usava per riferirsi all’eloquenza,

alle parole ben dette e ricercate; era parte di molti termini: ad esempio xo-

chílhuitl era la “festa dei fiori”; e realizzava la metafora della preziosità: fa-

mosa è l’endiadi in xóchitl in cuícatl, ossia “parola e fiore” usata per indicare

il concetto di poesia, di termine elegante o di canto raffinato.

Ricorrente nella simbologia maya, tra i tanti esempi di fiori, quello della

ninfea alludeva al mondo acquatico ovvero all’Aldilà, ma molte erano le spe-

16 Soustelle J., op. cit., p. 174.

42 PARTE PRIMA. L’UOMO E LA NATURA DELLA MESOAMERICA

cie floreali cariche di simbolo. Molteplici furono i loro usi: medicinale, alimen-

tare, decorativo, sacro, simbolico, energetico, divinatorio. Alcuni fiori costitui-

vano, infatti, un tipo di gradita offerta per gli dèi, altri servivano per adornare

ambienti o vestiti in occasioni importanti, altri ancora insieme a parti della

pianta da cui sbocciavano erano utilizzati a scopo curativo, alcuni designa-

vano gerarchie sociali, e “fiore” costituiva un segno calendaristico.

Erbe e fiori nel mercato della capitale.

La figura del venditore di erbe officinali nel Messico precolombiano è ben

documentata sin dai primi cronisti spagnoli. «… C’erano parecchi erboristi…»

commentava B. Díaz del Castillo quando descrisse ciò che vide nella piazza di

Tlatelolco della capitale México–Tenochtitlán, concordando con quanto Her-

nán Cortés avrebbe relazionato nel 1520 all’imperatore Carlo V: «Esistono

strade per i commercianti d’erbe, nelle quali ci sono tutte le radici e le piante

medicinali che sulla terra si trovano […] e le botteghe in cui si vendono le po-

zioni da queste ricavate».

Le fonti bibliografiche dell’epoca della conquista che trattano, in modo in

parte specifico, delle piante variamente utilizzate dagli autoctoni offrono no-

zioni e dati davvero rilevanti17. Tra questi, documentano l’utilizzo a scopo cu-

17 Imprescindibili per conoscere l’etnobotanica centroamericana precolombiana sono alcuni

apporti bibliografici storici. In ordine cronologico, il primo di questi è costituito dal manoscritto Libellus de medicinalibus indorum herbis (“Saggio sulle erbe medicinali degli indigeni”), del 1552, compilato in nahuatl dal medico autoctono Martín de la Cruz, e chiamato in un secondo tempo Codice Badiano per essere stato tradotto in latino da parte dell’indio Juan Badiano, dove l’autore espone principalmente le metodiche terapeutiche erboristiche attuate dall’etnia cui egli apparteneva. Il Codice Fiorentino (Codex florentinum) fu composto dallo storico ed etnologo francescano Bernardino de Sahagún tra il 1560 e il 1575 ca.: in esso l’autore trascrisse ciò che gli fu riferito dagli indigeni su alcuni aspetti della conquista spagnola, e presenta un intero capitolo dedicato alla puntuale descrizione degli usi delle piante medicinali fatti da parte delle popolazio-ni autoctone. Altro contributo è la maestosa opera in trentotto volumi conosciuta col titolo epito-mato di Historia Natural de la Nueva España e Historia de las plantas de Nueva España che il

SIMBOLO E MITO DELLA FLORA PREISPANICA 43

rativo di oltre un centinaio di erbe, numero probabilmente maggiore di quello

delle piante usate dai contemporanei medici europei (i quali si basavano prin-

cipalmente ancora sull’erboristica raccomandata da Teofrasto, Plinio e Dio-

scoride). L’esistenza di una così gran quantità di piante medicinali vendute

come tali o impiegate da parte dei medici centroamericani, fa comprendere

che il loro consumo era notevole e che la tradizione terapeutica basata sul

loro utilizzo era molto importante. A tal proposito, l’etnobotanico francese A.

Gerste, al principio del Novecento, afferma che «è sul mondo vegetale che la

terapeutica [mesoamericana] basava le sue principali risorse: l’arte di guarire i

malati o dar loro sollievo avanzava di pari passo con le attività degli erboristi».

Vari furono i fattori che nel Messico antico fecero sì che ci fossero la re-

peribilità e l’uso di molte piante. Il clima, come ora, era variegato e valido su

pressoché tutto il territorio, favorevole perciò allo sviluppo rigoglioso di nu-

merose specie vegetali; grazie, poi, agli spostamenti degli uomini in terre

lontane per battaglie e commerci potevano essere riportate al ritorno piante

esotiche e preziose. Dai vivai di Xochimilco, organizzati nei caratteristici ap-

pezzamenti artificiali di terra circondati da ampi canali (detti chinampas, che i

primi conquistatori, colti da credibile stupore, descrissero come giardini gal-

leggianti), provenivano una moltitudine di piante e di fiori appena recisi, di

semi e di bulbi freschi pronti da piantare: si vendevano sul posto o venivano

portati ai vicinissimi mercati di México–Tenochtitlán. Centro del potere, punto

di confluenza della ricchezza, città in cui — è possibile affermare — s’incon-

trava quanto vi era in America centrale, nella capitale la popolazione poteva

protomedico e botanico spagnolo Francisco Hernández scrisse, per volere del regnante ispani-co Filippo II, dopo il proprio rientro dall’America in Spagna nel 1577, in cui egli cita parecchie centinaia di vegetali usati dalle popolazioni indigene per curare le più disparate infermità. Un apporto notevole lo dà anche una parte dell’opera, in dodici libri, intitolata Historia General de las Cosas de la Nueva España ancora di B. de Sahagún, redatta alla fine del XVI secolo come revisione e vasto ampliamento del suo previo Codice Fiorentino, e che si occupa in maniera approfondita delle virtù e degli usi di parecchie piante, pietre e animali impiegati dagli autoctoni messicani a scopo terapeutico. Molti dei vegetali menzionati da tali Autori rimangono, però, tut-tora privi di un’identità tassonomica certa: per questa ragione la loro denominazione resta quella spesso intraducibile delle popolazioni indigene di allora e ignoto il loro nome scientifico.

44 PARTE PRIMA. L’UOMO E LA NATURA DELLA MESOAMERICA

pertanto facilmente disporre di moltissime piante, anche di quelle provenienti

dai luoghi più reconditi. Molte delle famiglie nobili amavano, inoltre, possede-

re un personale giardino in cui porre a dimora le piante del posto e quelle

lontane, a imitazione dei parchi meravigliosi già visti dei regnanti, e di bene-

ficiarne come preferivano.

L’arrivo degli europei in queste terre vergini, di là da alcune conseguenze

nefaste, apportò il proprio contributo culturale e materiale. Apprezzando, in-

fatti, molti dei poteri terapeutici di piante endemiche, i conquistatori più con-

cilianti incoraggiarono l’uso delle stesse. Pertanto, il processo acculturativo

se da una parte stigmatizzò l’impiego di erbe considerate diaboliche dagli

ispanici puritani, permise dall’altra la permanenza dell’uso di molte altre

piante che attualmente in Messico godono delle stesse indicazioni che ave-

vano nei tempi precolombiani, e vi immise parecchi dei vegetali iberici offici-

nali (rosmarino, ruta, camomilla ecc.). L’arte erboristica nel Messico attuale

consta infatti della somma di piante e concetti medici di Vecchio e Nuovo

Mondo. Esempio antropologicamente affascinante di ciò è il vasto armamen-

tario — detto paraphernalia — che il curatore indigeno porta con sé quando

si reca dal paziente e che egli, in preghiera, sistemerà tutto congiuntamente

ma con ordine su una colorata tovaglia: un insieme di erbe di campo, cande-

le ed incensi, quarzi sgargianti, conchiglie, sonagli, liquori d’agave, immagini

sacre di pagani virtuosi ed effigi cristiane, profumi ed unguenti, acqua piova-

na, ventagli di palma, libretti di cura ufficiale e altri di quella degli avi, farfalle

di carta e nastri dipinti.

Oggi, dopo cinquecento anni di complessa integrazione con gli apporti eu-

ropei, sono di fatto contornati da una nuova flora — che ha ormai assunto un

carattere di nazionalità — quei molti alberi e piante medicinali autoctoni, vesti-

gia di un antico paradiso, la cui coltivazione permise la costituzione di mercati

preposti all’esercizio formale della medicina indigena, e che un tempo spunta-

vano fastosamente in giardini mirabili e da collezioni scrupolosamente curate.

SIMBOLO E MITO DELLA FLORA PREISPANICA 45

Nomenclatura e tassonomia mesoamericane delle piante officinali.

Come espressione tipica di un’etnia aborigena, il sistema tassonomico

delle piante è inscritto nel contesto culturale di quel popolo: per la sua rea-

lizzazione vengono, pertanto, presi in considerazione molti aspetti delle co-

noscenze popolari. Nel caso degli originari messicani, il processo di sistema-

tizzazione dei vegetali era articolato e preciso.

La popolazione mesoamericana degli antichi Nahua18 e quelle ad essa

limitrofe svilupparono, infatti, un raffinato sistema per classificare le loro

piante: cominciavano caratterizzandole con l’aspetto più macroscopico e

terminavano con gli eventuali caratteri minori. Innanzitutto, classificavano il

mondo dei vegetali in due “regni–raggruppamenti”: quauh, legnoso (alberi,

arbusti), e xiuh, erboso (piante erbacee, verdure); la successiva ripartizione

prevedeva quattro “classi–divisioni” secondo la funzione principale della

pianta: quilitl, pianta alimentare, patli, erba curativa, xóchitl, pianta da fiore, e

mecatl, albero di liana. La seguente caratterizzazione in “ordini–famiglie” era

effettuata secondo il profilo generico (solitamente di tipo botanico) della

pianta: ad esempio camotl, tubero. L’ultima suddivisione in “genere–specie”,

che quasi sempre assegnava il nome definitivo alla pianta, veniva proposta

descrivendo del vegetale da classificare le particolarità dei costituenti o dei

caratteri curativi o geografici, come vedremo più avanti.

Le piante medicamentose erano di fatto dette xiuhpatli, dove il sostantivo

nahua xiuh significa “erba” e l’aggettivo patli “curativo”: tale denominazione

si sovrappone proprio a quella odierna di “pianta medicinale”. Per chiamare,

poi, tali erbe, le remote popolazioni amerindie le classificavano in una ma-

18 I Nahua erano una popolazione dell’America centrale, parlante la lingua nahuatl, ora

scomparsa come unità etnica. Mossi da Settentrione (probabilmente dalle Montagne Rocciose e dalle zone dei Grandi Laghi), come stirpe di Cicimechi giunsero intorno al IX sec. d.C. nel ter-ritorio del Messico odiernamente definito portandosi poi in Yucatán e in Nicaragua, sovrappo-nendosi alle etnie lì già presenti (Otomì ecc.). Da loro successive ondate sarebbero derivati i Toltechi e, più tardi, gli Aztechi.

46 PARTE PRIMA. L’UOMO E LA NATURA DELLA MESOAMERICA

niera simile a quella attuale. Infatti, come la definizione botanica latina è bi-

nomiale, gli autoctoni precolombiani davano alle piante un doppio nome: og-

gi il primo di questi indica il genere e il secondo la specie, mentre nell’antica

Mesoamerica entrambi andavano a costituire un unico termine composto19.

L’uso di –patli come suffisso — col significato, quindi, di “rimedio”20 — era

la forma più frequente per dichiarare che una pianta possedeva le virtù cura-

tive a favore di ciò che era specificato nel primo lessema della parola: così,

ad esempio, l’erba Cihuapatli, composta di cihuatl, “donna”, e patli, è la pian-

ta “che cura la donna”. Un modo simile, per denominare le piante officinali

era quello di dichiararne gli effetti terapeutici: così axix, che significa “diuresi”,

andava a formare il nome della pianta Axixpatli designando che quell’erba è

“rimedio diuretico”. Un eventuale limite a siffatto criterio terminologico consi-

steva nel rischio che piante che condividevano le stesse proprietà curative si

vedessero attribuire il medesimo nome; ma ciò avveniva assai di rado, poi-

ché la loro nomenclatura si poteva realizzare tramite un altro sistema.

Un ulteriore metodo, per chiamarle, consisteva infatti nell’avvalersi della

descrizione di una caratteristica saliente delle piante, come il colore, il sapore

o la consistenza del loro frutto, la morfologia del loro fiore, la provenienza o

l’habitat endemico ecc. In tal modo le tepetl sono le piante “montane”; quelle

che terminano in –tzápotl hanno “il frutto dolce”, come il Cochitzápotl, dove

cochi è “sonno”, che è pertanto la pianta “dal frutto dolce che induce il sonno”;

e analogamente lo Yolloxóchitl, dove yóllotl significa “cuore” e xóchitl “fiore”, è

la pianta “dal fiore a cuore”.

19 Molti erano, infatti, i termini nahua che si formavano tramite agglutinazione. 20 Alcuni Autori hanno voluto conferire a questo suffisso la medesima valenza semantica

dell’aggettivo latino tassonomico specifico officinalis, omettendo però la vaghezza di quest’ul-timo: esso esprime, infatti, che la pianta dichiarata “officinale” è dotata di proprietà curative, ma il termine del genere botanico cui si accompagna non designa per cosa questa pianta è impie-gata; ciò non avviene nell’antica nomenclatura centroamericana, poiché patli come elemento suffissale è sempre unito alla specificazione dell’effetto della pianta o dell’oggetto per cui questa è indicata. È in qualità di aggettivo, invece, che il significato di patli può essere assimilato a quello di “officinale” o, ancor meglio, di “medicinale”.


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