+ All Categories
Home > Documents > La fossa comune: estratti e commenti

La fossa comune: estratti e commenti

Date post: 17-Mar-2016
Category:
Upload: alessandro-bastasi
View: 217 times
Download: 3 times
Share this document with a friend
Description:
Alcuni assaggi de "La fossa comune", e commenti dei lettori
17
Transcript
Page 1: La fossa comune: estratti e commenti
Page 2: La fossa comune: estratti e commenti

L’incipit

Vittorio Ronca abitava a Mosca, in ulitza Kutuzova, casa numero ventidue, sesto piano, appartamento numero trentotto. Era una casa che faceva schifo, come il novanta per cento delle case moscovite, ma questa da qualche tempo faceva più schifo delle altre per via della puzza di piscio nelle scale, delle lampadine fulminate nei pianerottoli, dei muri scrostati, dell'ascensore di ferro decrepito, con le maniglie delle porte da girare con estrema cautela, per non ritrovarsele poi in mano con il problema di rintracciare qualcuno che le riparasse. L'abitazione distava circa nove chilometri dal Kremlino, la Fortezza; neanche molto, se si pensa che Mosca è una megalopoli di dieci milioni di abitanti a forma di ellisse, con l'asse maggiore che misura quaranta chilometri e quello minore trenta. A dispetto di una delle reti più articolate e funzionali del mondo, in quella zona non arrivava la metropolitana poiché un tempo vi abitavano i membri del Politburo i quali, quando tornavano a casa con le loro Volga nere, non avevano alcuna voglia di ritrovarsi il "popolo" tra i piedi. Anche Stalin possedeva una casa in quei pressi, ma più verso il centro. Il portone di casa, come tutti i portoni di Mosca non appartenenti a nuovi centri residenziali, era sempre aperto. Per la verità in parecchie case era stato installato un apriporta a tastiera su cui pigiare un codice segreto. Ma, nella maggior parte dei casi, il codice era stato scritto in chiaro da qualcuno sul portone o, meglio ancora, l'apriporta medesimo era stato messo semplicemente fuori uso. Anche per questo c'era la puzza di piscio, sia per i gatti, sia soprattutto per i barboni che di notte, o quando pioveva, potevano entrare senza alcuna difficoltà.

L’aggressione (Mosca)

A metà aprile la neve in città si era completamente sciolta, lasciando visibile tutta la sporcizia accumulata sui marciapiedi, nei cortili interni dei caseggiati, per le strade. Una volta, ai tempi dell'Unione Sovietica, il sabato più vicino al ventidue aprile, giorno del compleanno di Lenin, tutti i cittadini erano obbligati a uscir fuori e a far pulizia davanti alle loro case, ai negozi, dappertutto, in tutta Mosca. E la città riprendeva un volto pulito e civile. Nel novantatré ciò non succedeva più da un pezzo, tranne casi sporadici in cui qualche anziano, non sopportando quello scempio o forse soltanto per amore di vecchie abitudini, si dava da fare con scope e palette. C'erano, è vero, i servizi di nettezza urbana. Che però funzionavano quando volevano, cioè quando gli addetti non avevano qualcosa di meglio e di più redditizio da fare. Questo pensava Vittorio, uscendo da un ufficio in Smolenskaya Naberesnaya verso le due del pomeriggio di lunedì ventisei aprile, mentre cercava di evitare sul marciapiede appena fuori del caseggiato i mucchi di cartone, di pacchetti di sigarette, di pezzi di stoffa, tutti ben pressati dalla neve invernale, che ostruivano il cammino dando al tempo stesso una bella dimostrazione dello stato di degrado della città. Come al solito, si avvicinò al bordo della strada per fermare un'auto. Non c'era anima viva, e le rare macchine gli sfrecciavano

Page 3: La fossa comune: estratti e commenti

davanti senza fermarsi. Era tardi, dio santo, e Vittorio aveva un altro appuntamento. Si muoveva inquieto dal marciapiede alla strada, poi ancora sul marciapiede, scrutando l'arrivo di qualche macchina. Non aveva nemmeno notato che qualcosa si muoveva sulla destra. Finché lo vide con la coda dell'occhio, e si voltò di scatto. Era un ragazzino, sugli undici anni, che si dirigeva senza esitazioni verso di lui. Bruno, il naso un po' adunco, la pelle più scura del normale. Ma dietro di lui, come comparso dal nulla, stava avanzando di sbieco un gruppo compatto di una decina tra ragazzi e ragazze, dai cinque ai diciott'anni, che guardavano fisso Vittorio senza dire una parola. - Non posso dare a tutti, siete troppi, non ho rubli a sufficienza! - cominciò a dire Vittorio, seccato da quegli accattoni, lui che doveva andare di corsa in Leninskij Prospekt. Adesso si erano fermati, a un metro da lui, continuando a fissarlo con quegli sguardi inespressivi. Facevano paura. Ma che vogliono, questi? Non erano russi, si sarebbe detto che venissero dal sud, dalle regioni del Caucaso. Anzi, erano azeri, almeno a giudicare dal vestito e dall'acconciatura della ragazza più grande. Poi, la cosa si svolse così rapidamente da non lasciare a Vittorio il tempo di reagire. A un ordine invisibile lo circondarono, e venti mani cominciarono a toccarlo, a frugarlo, dappertutto, come i tentacoli di un polpo, nelle tasche dei pantaloni, della giacca, dell'impermeabile. Partecipavano tutti, anche i bambini, anche loro in silenzio, veloci, precisi, senza paura, senza emozioni, come tanti minuscoli zombie, e Vittorio ne era ipnotizzato, con la bocca aperta, incapace di gridare, di divincolarsi, di picchiare, di prenderli a calci ... Il tutto durò pochi secondi. Poi, a un cenno della ragazza, gli zombie si staccarono e si dileguarono. Vittorio dapprima non si mosse. Rimase lì, impietrito, pallido, incredulo. Non era possibile. Erano bambini. Ma spaventosi. Dei marziani, dei robot. Quegli occhi! Senza alcuna espressione, come era impossibile che lo fossero gli occhi dei bambini. - Ma che sta succedendo? - mormorò con un filo di voce. Poi si scosse, e si guardò, il corpo, le braccia, le gambe. Era ancora tutto intero, non era successo niente. Ma il cuore gli batteva forte e la rabbia cominciò a montargli dentro, non tanto forse per l'aggressione in sé, quanto per il fatto che ciò fosse accaduto, che fosse potuto accadere. Allora si mise a gridare, fuori di sé, schiumando contro il mondo intero. - Maledetti! Figli di puttana! Luridi cani schifosi, ladri bastardi, dio vi maledica, voi e quelle troie delle vostre madri! La gente cominciò a uscire dal caseggiato, timorosa, prima due, poi dieci, poi molti, allora c'era, la gente!, ma dove cazzo stavano, prima! Vittorio era come impazzito, mugolava, e guardava inferocito tutt'intorno, e si toccava le tasche, freneticamente, e poi tornava a gridare. - Tutto mi hanno portato via, quei figli di troia bastarda, tutto, il portafoglio, i soldi, la carta di credito, le chiavi di casa, tutto, tutto! Alla fine, per la tensione, si mise a piangere. Vittorio entrò veloce nell'androne scuro del suo caseggiato puzzolente e chiamò l'ascensore, fremendo per l'attesa. Vedeva ombre dappertutto, si

Page 4: La fossa comune: estratti e commenti

voltava indietro ogni momento, e trasalì quando, di colpo, l'ascensore arrivò al piano terra col solito improvviso fracasso di ferraglia sgangherata. Quella sera non riuscì a mangiare quasi niente. Continuava a parlare, a parlare, eccitato, e Masha lo ascoltava paziente, senza però emozionarsi più di tanto. - Non si può, non si può più vivere qui - ripeteva Vittorio. Sollevava a mezz'aria il cucchiaio pieno di minestra, lo fissava, poi lo riaffondava nel piatto, quasi disgustato - Qui ti puoi aspettare di tutto, ormai. È una vita a rischio, ti possono far fuori dovunque, sulla scale di questa merda di casa buia, basta che uno si nasconda e ti può spaccare la testa come vuole, ma chi cazzo me lo fa fare, qui deve cambiare tutto, non si può più, non si può più! - Ragazzini! - proseguì, in piedi in cucina, mentre Masha sparecchiava. - Bambini, Masha, erano bambini! Dovevi vederli, con quegli occhi imperturbabili, con quella velocità prodigiosa nelle mani a frugarti nelle tasche, ma senza alcuna tensione, sai, senza tremare, senza una parola, muti, come dei robot! - Sono bambini abbandonati, Vittorio. I genitori non li possono mantenere e li abbandonano, semplicemente. Ne ha parlato anche la televisione. Vivono nelle stazioni, o in fabbriche in disuso, o per strada. Che vuoi farci! Vittorio la guardò, sbigottito. - Che voglio farci? - gridò. - Ma tu ... voi accettate questo disastro, questa miseria, questo ... arrangiarsi come si può? Questa perdita di un minimo di etica, sì, di morale, di sentimenti, di amore per i figli, dio buono, Masha! Masha era gelida. - Ripeto, che ci possiamo fare, Vittorio. È così. - È così un cazzo! È così a starsene rinchiusi in casa, o a starsene lì fuori, a contrattare con la mala un posto per un banchetto sul marciapiede, o a rubare orologi nelle fabbriche per venderli sulla Piazza Rossa, o ad accettare di comprare roba scaduta, il salame con i vermi e di non avere l'assistenza sanitaria ... Certo, che è così. È così perché nessuno fa niente, perché ci si guarda in cagnesco, ci si odia, si cerca di arraffare qualcosa prima che lo faccia qualcun altro. Ecco perché è così. - Ma che cosa vuoi che facciamo, la rivoluzione? - Masha aveva gli occhi lustri di lacrime - C'è già stata, caro, e siamo a questo punto per colpa di chi l'ha fatta, non per colpa nostra. Dobbiamo solo rimboccarci le maniche e aspettare che questo momento passi. Come è passato dappertutto, mi pare, anche in America c'erano i gangster, no? Basta! Ma guarda se abbiamo bisogno che venga qui un italiano, con la sua bella pancia piena, a dirci che cosa dobbiamo o non dobbiamo fare! Ti ricordi dove mi hai trovata, sì? Come mi hai comprata, quella notte, anche tu come tutti? E io che cosa dovevo fare? Continuare a vivere con mio padre e mia madre? Era vita, quella? E l'avevamo fatta, la rivoluzione, allora, settant'anni prima! Che cosa vuoi, che torni il comunismo? Eh? È questo che vuoi, che ti piacerebbe? Ti piace l'idea, vero? La grande idea! L'uomo nuovo! La società senza classi! Me le ricordo a scuola le ore interminabili sul marxismo-leninismo, sul capitalismo e l'imperialismo occidentale. E intanto Stalin aveva sterminato i miei nonni, perché erano kulaki,capisci, "ricchi contadini affamatori del popolo". Ed ecco il risultato: un padre alcolizzato, una madre quasi impazzita, una vita intera in coabitazione con

Page 5: La fossa comune: estratti e commenti

un'altra famiglia di disgraziati, e io ... Ma fammi il piacere! Pensiamo a vivere, piuttosto. Ti prego, Vittorio, ti prego! Lo guardava disperata, la faccia bagnata dal pianto, i sussulti che le squassavano il petto, come una bambina, impaurita da ricordi troppo recenti, con quest'uomo qui, con le sue tenerezze fasulle, un muro, aveva detto Rebecca, sua moglie, tanto tempo prima, un macigno immobile, incapace di venirle incontro, di seguirla un po' di più, di esserci davvero, perduto com'era dietro le sue paturnie cosmiche, pieno di sé, capace di abbracciare il mondo ma impotente in tutti quei gesti quotidiani che richiedono almeno un po' di amore vero, che si veda sul serio, che si possa misurare. E anche questa volta Vittorio se ne stava zitto, torvo in volto, quasi infastidito, quasi volesse scrollarsi di dosso le parole gridate, le richieste d'aiuto che Masha gli rovesciava contro, quasi volesse rigettare con irritazione i limiti angusti della loro verità.

Viola (Milano)

Viola era un vulcano e Vittorio aveva il cuore che traboccava letteralmente di passione. Non poteva più fare a meno di lei. Ne amava ogni aspetto, ne coglieva ogni sguardo, ne preveniva i desideri, sentiva da lontano se era triste o felice, se aveva bisogno di lui o se voleva restare sola. La guardava ammaliato mentre girava nuda per casa, perso nella sensualità senza malizia dei suoi movimenti, quando camminava in quel modo dritto e fiero, ma soprattutto quando si fermava e il suo ventre si trovava d'un tratto proteso in avanti, ad arco, quasi fosse un'offerta d'amore. Amava guardarla quando faceva l'idromassaggio, quando si asciugava i suoi capelli neri, lunghi, ondulati, quando stava in bagno, con l'accappatoio aperto, con la schiena contro il muro e un piede appoggiato sul bordo della vasca a pitturarsi le unghie. Amava sentirla ridere, amava la sua sicurezza da animale allo stato brado, i suoi timori improvvisi, e il suo modo di guardarlo quando si avvicinava per un bacio. Voleva vederla, sempre, a tutte le ore, e fremeva quando doveva stare in casa a lavorare. Voleva, ma sì, perdersi nel nero profondo dei suoi occhi. Appena poteva la portava al ristorante, al cinema, a teatro, spendeva con lei tutto quello che guadagnava e quando nella sua vecchia UNO se la vedeva seduta vicino aveva sempre il cuore gonfio per l'emozione. Era una sorpresa continua. Era meravigliosamente matta. Una sera d'inverno Viola era uscita di casa con la sua pelliccia di visone, si era accoccolata sul sedile della UNO e, mentre Vittorio guidava, aveva cominciato lentamente a sganciarsela, osservandolo con gli occhi ridenti di un bambino che sta per combinarne una e già ne pregusta la reazione. Sotto era completamente nuda. "Ma sei pazza!" aveva detto Vittorio, già eccitato, facendo il finto scandalizzato. Tutti gli uomini almeno una volta nella vita hanno sognato una situazione come quella. Ma a lui stava capitando sul serio, lei era lì, davvero, che gli diceva, con quel sorriso innocente e sfrontato: "Perché? Dai, metti una mano qui, senti che pelo caldo!" "E al ristorante?" "Mangerò con la pelliccia. Solo tu saprai che sotto sono nuda, sarà come fare l'amore". Vittorio sapeva bene che cosa voleva dire questa frase. Quante volte, al ristorante, seduti una di fronte all'altro, Viola lo

Page 6: La fossa comune: estratti e commenti

guardava con occhi pieni di voglia, intrecciava con forza le dita delle mani con quelle di lui e sussurrava: - Dai, che facciamo l'amore con gli occhi! A volte lo chiamava a casa alle tre di notte, ho voglia di te, gli diceva, e Vittorio usciva in pigiama com'era, saliva in macchina e in cinque minuti era nel suo letto.

Andrej (New York)

Si chiamava Andrej Ljublev, di Mosca, esule da cinque anni. Faceva il mimo, di tanto in tanto lavorava al Cafè La Mama, al 74 east della quarta strada, ma Ellen era in un momento difficile e poteva pagarlo molto poco. Così per vivere doveva tenere lezioni di russo. Richard gli aveva prestato la casa per tre mesi, poi qualcosa sarebbe successo. Mangiarono seduti sui cuscini, all'indiana, uno di fronte all'altro, al lume delle due candele, che isolavano così un piccolo spazio intimo all'interno del loft. Poi Andrej portò brandy e vodka e rimasero a bere e a parlare, sottovoce, dolcemente, fino alle due di notte. Vittorio raccontava di sé e del suo entusiasmo per New York. - Ti piace New York? - replicò sottovoce Andrej. Lo guardava, con incredulità. Poi abbassò gli occhi. - E' così narcisista, - continuò, come tra sé, duro - spudorata! Io odio il modo in cui questa città si mostra, e si dà, così com'è, senza un minimo di ... mediazione! - Per me è una scoperta, Andrej, non è come mi immaginavo le città americane, è piena di vita vera, di lavoro, di pensiero, di cose da scoprire. Andrej sorrise, tristemente. - Non mi pare che ci sia proprio nulla da scoprire. New York è tutta lì, è esattamente quello che vedi, ogni cosa in fila, l'una accanto all'altra, soldi, miseria, bellezza, cattivo gusto, ostentazione ... E' troppo diretta, non ha un velo di poesia, di ... trasfigurazione. Quando si muove, lo fa con quel suo modo urlato, aggressivo! Senza spazio alcuno per un po' di ... grazia ... di pietà. - Ma qui sono nati Pollock, Cage, il Living ... - Appunto! e dove potevano nascere Cage, Pollock, il Living se non qui! L'arte qui non estetizza nulla, è la vita, è l'evento stesso, l'atto estemporaneo, istintivo. È l'happening, appunto. Tacque bevendo d'un colpo un bicchierino di vodka. Anche Vittorio tracannò il suo bicchiere. Gli piaceva la voce morbida e profonda di Andrej. Parlava come un poeta. - Io penso invece che sarebbe la vita che ho sempre sognato - insistette Vittorio. - Vivere in un happening continuo. La sento mia questa città, l'ho sentito prima ancora di arrivarci, vedendola al di là del fiume. Andrej scosse la testa - Io no, Vittorio. Proprio no. Vivere come in un happening, e poi? Che cosa resta? Io non voglio essere un'azione, da guardare, da soffrire, magari … io voglio essere me. Con tutto quello che ho dentro, coi miei pensieri, i miei affetti. - Tacque, fissando una candela, la fronte corrugata. - Persino i miei amici mi guardano strano, non comprendono. Il mio way of life è molto out, dicono, molto poco americano. Dicono che è troppo mansueto, che non mi interessa

Page 7: La fossa comune: estratti e commenti

nulla, che dovrei affannarmi di più, ma pensa! - Sembrava sorridesse. - Allora io parlo poco, o non parlo affatto, perché non ci riesco, a farmi sentire in tutto questo chiasso. - Rimase immobile per un po', chissà dove. Poi continuò: - Il vivere un tempo interno tuo, dilatarlo come ti pare, nel buio e nel silenzio ... qui no, non è consentito. Viene preso per indolenza. Quando invece è proprio il contrario, è un profondo dedicarsi a sé, un ... - cercò le parole - un ritrovare la propria integrità! Le candele stavano finendo. Andrej si alzò, ne portò altre due, grosse e gialle, e le accese con cura. - Com'è la Russia? - chiese Vittorio all'improvviso. - La Russia ... - sussurrò Andrej, spegnendo il fiammifero - della Russia ti posso dire che ho una grande nostalgia. Chissà. Chissà se anche questo nuovo segretario del partito sarà un bluff. Perestroika, glasnost! ... Dio, come vorrei tornare, alla mia vita! Il mio pianoforte, i miei teatri, la casa, la strada, ... Sai che a Mosca ci sono tanti di quei parchi e giardini che New York se li sogna? E molte case poi sono un po' discoste dalle strade e le raggiungi percorrendo viottoli di terra battuta nascosti tra gli alberi. Io ci abitavo, in una di queste case. Guardò Vittorio e gli sorrise. - Sei mai stato a Mosca? - No, mai.

- Sai perché sono dovuto scappare, Vittorio? Il golpe (agosto 1991)

La mattina dopo Vittorio era stato svegliato da una telefonata. Era nel suo appartamento di ulitza Kutuzova, una laterale di Mozhajskoe Shosse, che Roberto gli aveva affittato per via delle visite a Mosca sempre più frequenti, e dormiva profondamente. Il primo appuntamento di quel lunedì lo aveva fissato infatti per le undici e mezza. Non ci sarebbe mai andato. - Hallò - aveva borbottato con la voce impastata di sonno e di vodka. - Vittorio, sono Irina. C'è il colpo di stato! Ci sono i carri armati per la strada. - Cosa? - Vittorio non aveva capito bene, si stropicciava il viso per svegliarsi. - I carri armati! Stanno arrivando da tutte le parti. È il golpe, Vittorio. C'è un Comitato che ha preso il potere, c'è un proclama, lo trasmettono alla radio ogni minuto. Vittorio! Ci sei? Vittorio era inebetito. - Come ... il golpe! Chi, Gorbachov? - Non lo so, sembra che sia malato, giù in Crimea, e il suo vice Janaev lo ha sostituito. - E che c'entrano i carri armati? - Vittorio, svegliati! Scappa, va’ via, torna in Italia prima che puoi, prima che chiudano gli aeroporti. Quando aveva messo giù il ricevitore, a Vittorio sembrava di essere già in un altro mondo. Capitare nel bel mezzo di un golpe! Cazzo, che esperienza! Di certo tutto avrebbe fatto tranne che tornarsene a casa, ma siamo matti? Si era

Page 8: La fossa comune: estratti e commenti

vestito in fretta e furia, aveva trangugiato due yogurth ed era sceso in strada. E, arrivato di corsa sulla Mozhajskoe Shosse, si era bloccato, a bocca aperta, a fissare una scena incredibile: una colonna senza inizio né fine di carri armati e mezzi pesanti provenienti dalla tangenziale e diretti verso il centro, verso Kutuzovskij Prospekt, e di lì, chissà, verso il Kremlino o verso la "Casa bianca", il grande edificio sulla riva del fiume, sede del Soviet supremo della federazione russa dove comandava il Presidente Eltzin. L'aria rombava al passaggio di questi bulldozer da guerra, un rombo che penetrava dritto nel cervello, e sotto i piedi il terreno tremava e le vibrazioni salivano su per le gambe, per la pancia, fino al cuore. Vittorio era stordito, camminava sul marciapiede, sempre più in fretta, fino quasi a correre di fianco alla colonna, affascinato, senza timori, incosciente, immerso corpo e immaginazione in questo che era il più gigantesco e drammatico happening della sua vita. Di lì a poco Mosca si poteva trasformare in un inferno, lui ancora non sapeva niente, chi avesse organizzato tutto questo, contro chi, ma non importava, era troppo eccitante, e Vittorio vi avrebbe partecipato a tutti i costi senza pensare neppure per un attimo ai rischi che correva. Erano arrivati sul ponte di Kutuzovskij Prospekt, lasciando sulla sinistra l'hotel Ukraina, quindi avevano girato sul lungofiume, proprio verso la Casa bianca. Sul piazzale davanti all'edificio si era formata in poco tempo una folla di qualche migliaia di giovani, che scandiva tonante il nome di Eltzin. E Eltzin, questo omone grande e grosso, con la faccia di un cinghiale, imponente nel suo ruolo di salvatore della patria, era uscito poco dopo con passi ampi e decisi, era montato sopra un carro armato e aveva letto un proclama, in russo, accolto da un boato di applausi e di grida. L'atmosfera era incandescente, la gente eccitata, come ubriaca, gli occhi arrossati dalla rabbia, le vene tese sul collo dalle urla, decisa a tutto, mai visti i russi così, pensava Vittorio, che si aggirava in quel mare in tempesta, spintonato da tutte le parti, cercando qualche faccia conosciuta che gli spiegasse in dettaglio quello che forse riusciva a intuire ma non a comprendere del tutto, e soprattutto che cosa c'entrasse Gorby in quest'affare. Ma non aveva trovato nessuno e allora si era spinto verso Prospekt Kalinina, deciso ad arrivare a vedere che cosa stesse succedendo al Kremlino. I cortei si susseguivano, a ondate, alcuni sparuti, altri imponenti, ormai non più di gente sparpagliata, incredula o incerta sul da farsi, bensì decisa a opporsi con tutte le forze e tutti i mezzi al colpo di stato. La parola d'ordine era stata data da Eltzin: resistere, a oltranza e a tutti i costi. Vittorio aveva finalmente compreso che cosa fosse accaduto e decise che in ogni caso, per salvare Gorbachov, era necessario stare con Eltzin, in attesa che il presidente tornasse a Mosca e riprendesse il controllo della situazione. Si unì quindi a un gruppo di ragazzi e per tutto il giorno si dette da fare senza sosta, a marciare nei cortei, a spostare automobili, sbarre di ferro, piloni di cemento, qualsiasi cosa si potesse mettere di traverso a formare barricate, e poi di corsa alla Casa bianca, anche lì a disposizione, ad aiutare, a portar giù mobili per difendere gli ingressi, pronto a tutto, anche a sparare se gli avessero dato un'arma.

Page 9: La fossa comune: estratti e commenti

Masha

Masha era seduta su una panchina, da sola. Aveva i capelli arruffati, gli occhi pesti, duri, e una sigaretta nervosa e tremolante tra le dita. C'era una bottiglia di vodka vuota, appoggiata di fianco alla minigonna nera, corta fino all'inguine, che faceva tutt'uno con un giubbino corto di stoffa sintetica increspata, anch'esso nero. Masha! Com'era ridotta! Quasi non la riconosceva, le erano venute persino le rughe sulla fronte. Vittorio si fermò, si scusò in fretta con Pukov, poi pregò Dmitrij di continuare lui con il cliente, si sarebbero visti la sera, al ristorante italiano Il pescatore, al numero trentasei di Prospekt Mira, alle otto in punto. E quando i due furono finalmente fuori vista, corse da Masha, che già si stava alzando traballante dalla panchina. - Masha! - chiamò. Lei si girò, e abbozzò un sorriso inespressivo. Aveva gli occhi completamente spenti, quegli occhi blu che erano così belli, dio santo, ma che cosa faceva, che cosa aveva fatto in tutto quel tempo! - Masha ... - le sussurrò quando le fu vicino, in russo. - Come stai, malenka devushka, quanto tempo ti ho cercata! - Me? - disse Masha, con una voce roca da far paura. - Sì, tu, piccola Mashenka, tu, miei grandi profondi occhi blu! Dove sei stata, non riuscivo a trovarti ... - Ma tu chi sei, cosa vuoi? - Sono Vittorio, non ti ricordi? È stato un anno e mezzo fa. Sono quello che conosceva Natasha ... e Roberto Marchi, ti ricordi? Avevo la fotografia di Natasha nel portafoglio. - Ah, sì ... sì, ricordo … - Hai da fare, adesso? - … Niente. - Allora andiamo a casa mia, vuoi? Parliamo un po', stiamo un po' assieme. - Sì …va bene. Uscirono dal parco, fermarono una macchina, e in venti minuti arrivarono in ulitza Kutuzova. Non faceva niente, Masha, in quel periodo. Era stanca di quella vita, e così era tornata a vivere con i suoi. Ma era anche peggio, un inferno, suo padre beveva, e la picchiava, perché voleva che lei portasse a casa i soldi, per comprarsi ancora da bere. E beveva anche lei, molto, troppo, e ogni tanto andava sulla Piazza Rossa a trovare qualche cliente, adesso non andava più per il sottile, c'era un sacco di concorrenza e quello che si trovava andava bene. Chiese a Vittorio se voleva fare l'amore, ma lui le disse che no, almeno non quella volta, che comunque le avrebbe dato lo stesso i soldi e che voleva vederla la sera successiva. E così cominciarono a frequentarsi, sempre più spesso, e a fare l'amore, e a uscire insieme, ristoranti, discoteche, e qualche volta al Bolshoi, dove Masha che non c'era mai entrata guardava tutto a bocca aperta, piena di stupore, e seguiva la storia di Giselle o del Lago dei Cigni con le lacrime agli occhi, e poi si girava verso Vittorio abbracciandolo col cuore gonfio di felicità. - Io ti amo, Vittorio - gli diceva.

Page 10: La fossa comune: estratti e commenti

E quando Vittorio un giorno le chiese di venire a vivere con lui, lei rispose che sì, sì!, non aspettava altro che lui glielo chiedesse

L’attentato

Erano appena passate le cinque del pomeriggio, quando Vittorio si trovò di fronte alla porticina che conduceva all'interno della torre, appena a sinistra dell'ingresso principale della fiera. Al primo piano c'era un corridoio di comunicazione con la zona uffici della Yarmarka, ma era vietato al pubblico. La sua dotazione era un'ampia valigetta da uomo d'affari e un telefono cellulare. Sulla piazza davanti all'edificio c'era un viavai di camion e di gente, impegnati negli ultimi preparativi degli stand. Non lo notava nessuno. Vittorio respirò forte, varcò la soglia della porticina della torre, e cominciò a salire le scale, cercando di mantenere calma e disinvoltura. Si sentiva rosso in faccia e un sudore appiccicaticcio gli incollava la camicia sulla pelle. Dopo due rampe arrivò al primo piano. Non incontrò nessuno, e non c'era nessuno neanche in corrispondenza al passaggio per gli uffici. Salì ancora, fino in alto, e prima dell'ultima rampa riconobbe, a sinistra, la porta della sala in cui l'anno prima Egor aveva organizzato la mostra di pittura. Si fermò, adesso il cuore gli batteva all'impazzata. Doveva entrare proprio in quella stanza. Chissà chi c'era, oltre quella porta. Magari un operaio che finiva di tirare i cavi elettrici. O qualcuno che stava sistemando le ultime tele. O Egor stesso, in ritardo sul lavoro. Che cosa avrebbe detto? "Vittorio, che sorpresa!" E lui: "Ciao, Egor, sono qui per accoppare Eltzin!" Vittorio fissava la porta, poi guardava giù dalle scale, stringendo la valigetta con le mani fradice. Posò la mano sulla maniglia, e l'abbassò. La porta era chiusa. Meno male. La serratura era di vecchio tipo, come Voronov gli aveva confermato, e con il passe-partout che aveva in tasca entrare sarebbe stato un gioco da ragazzi. Armeggiò con le mani che gli tremavano, infilando il passe-partout nel buco, muovendo leggermente avanti e indietro, finché riuscì a girarlo nella scrocca. Erano passati solo venti secondi, ma a Vittorio parve un'eternità. Adesso tremava tutto, mentre apriva quella maledetta porta, piano, senza far rumore. Si trovò nell'ampia sala buia che ricordava benissimo. Richiuse bene dietro di sé e si accasciò su una sedia, passandosi ritmicamente le mani nei capelli, quasi per fermare quel tremito che ormai lo scuoteva dalla testa ai piedi. Aveva paura. Gli era venuta una paura tremenda. E se l'avessero scoperto? Se in quel momento fosse entrato qualcuno, una guardia, e gli avesse chiesto che cosa stava facendo lì, al buio, e come c'era entrato, e che cosa aveva nella valigetta, e avesse visto il fucile smontato, che cosa avrebbe fatto? Avrebbe gridato, dato l'allarme, magari gli avrebbe sparato ... Dio santo, ma perché io, che ci faccio qui, io, cazzo! La sala buia risuonò di quel cazzo!, e Vittorio si rese conto che aveva gridato. Si guardò intorno, terrorizzato, fissò la porta, tese l'orecchio per sentire se si avvicinava qualcuno. Passò un minuto buono. No. Non c'era nessuno. Calma, Vittorio, va tutto bene. Va tutto bene. Afferrò la valigetta, si alzò, e si guardò attorno. Da quel po' di luce che filtrava tra i pesanti tendaggi che coprivano le ampie finestre della sala ebbe la conferma che anche quell'anno la Yarmarka aveva organizzato la consueta

Page 11: La fossa comune: estratti e commenti

esposizione. O forse era permanente, chissà. Ora che i suoi occhi si erano abituati al buio, Vittorio riusciva a distinguere com’era stata allestita. I quadri erano esposti lungo le due pareti gialle che correvano verso quella di fondo, con le finestre, che dava diretta sul Volga, e lungo due file di pannelli di legno che correvano parallele a circa due metri dalle pareti. Il pavimento della parte centrale della sala era più in basso di un paio di gradini, che correvano tutto intorno, e proprio al centro di essa si ergeva una sorta di piedistallo vuoto, di marmo, sul quale si leggeva ancora Maksim Gorkij, Cantore della Rivoluzione. Ma Vittorio non ci fece caso, troppo impegnato a cercare con lo sguardo, in fondo alla parete di sinistra, una porta che ci doveva essere. Non la vide subito, perché nascosta da uno dei pannelli, ma esisteva ancora, per fortuna. Di qui si accedeva, per una scala stretta e ripida, alla soffitta della torre. Vittorio attraversò rapidamente la sala. La porta non era chiusa a chiave. Trasse dalla tasca dell'impermeabile una torcia elettrica, l'accese, e cominciò a salire. I gradini erano di legno e lui bestemmiava a ogni scricchiolio. Finalmente arrivò nella soffitta. Più che altro era un deposito, di quadri, statue, busti di chissà quali personaggi, il tutto coperto da un dito di polvere. Vittorio si fece strada tra le ragnatele verso la luce di due piccole finestre, che davano proprio sullo spiazzo davanti all'edificio. In quello spiazzo la mattina dopo, alle dieci in punto, sarebbe arrivato il corteo del Presidente Eltzin. Le finestre erano molto basse, perché in quel punto il tetto arrivava a circa un metro e quaranta dal pavimento. Spostandosi un po' indietro, Vittorio riusciva a stare in piedi, col fucile imbracciato, e mirare proprio verso il punto in cui sarebbe arrivata l'auto presidenziale. Bastava aprire la parte superiore di una delle due finestre. Nessuno l'avrebbe visto né sentito. Approfittando del trambusto Vittorio sarebbe poi immediatamente sceso, abbandonando il fucile, e sarebbe tornato nella sala, passando dietro i pannelli di legno, ben attento a non farsi notare, e in un modo o nell'altro si sarebbe dileguato. Già. Più facile a dirsi che a farsi, pensò Vittorio, mentre l'ansia cominciava a riprendere il sopravvento. E se mi beccano? Non è che farò la fine di quello che ha sparato a Kennedy, come si chiamava, Lee Oswald? Oddio ... non è che Voronov poi mi fa sparare? Che mi fa arrestare e poi far fuori come Oswald? O cristo! Non riusciva a stare fermo, camminava avanti e indietro sul pavimento di legno sporco, con pezzi di vetro da tutte le parti. Intanto il sole calava, e il buio sempre più fitto non faceva che aumentare la paura. Finalmente si sedette, costringendosi a calmarsi, e tirò fuori dalla valigetta due panini e una lattina di Coca Cola. Mangiò di mala voglia, alla luce della sua torcia elettrica. Davanti alle finestre, per ogni evenienza, aveva messo due grandi e spesse tele. Nessuno, anche se per errore avesse diretto la torcia verso le finestre, avrebbe potuto accorgersi di lui. Finito che ebbe di mangiare, andò in un angolo a pisciare, poi tornò vicino alle finestre, spense la torcia, e si sedette contro il muro. Durante la notte non aveva niente da temere. Almeno così pensava. A ogni buon conto, era meglio preparare il fucile. Ormai poteva farlo anche a occhi chiusi, montò l'arma in meno di un minuto, silenziatore compreso, e a ogni scatto si sentiva sempre di più un giustiziere della storia. La caricò, e se la pose di fianco.

Page 12: La fossa comune: estratti e commenti

Nella “Casa Bianca” (ottobre 1993)

Verso le nove la Casa bianca venne immersa nel buio. Tutte le luci si spensero contemporaneamente. Adesso Vittorio era davvero solo, totalmente sperduto in quell'enorme stanzone polveroso, pieno di scartoffie ammonticchiate in un angolo, l'orecchio teso a captare i rumori soffocati che provenivano da chissà dove nel palazzo. Dal finestrone poteva vedere la postazione della CNN, dall'altra parte del fiume, illuminata a giorno dai potenti riflettori. Ricominciava a connettere. E ad avere paura. Ma che cosa si aspettava? Di essere ricevuto da Rutskoi o da Khasbulatov con tutti gli onori? Non era già stato fottuto una volta? E allora? Quelli avevano ben altro cui pensare in quel momento che occuparsi di lui! Ma che ci faceva, lui, lì? Perché? Avrebbe sparato? A chi? Per chi? E quei centomila rubli! Ma per chi l'avevano preso? Ma che cosa stava succedendo? Non si era nemmeno accorto che stava arrivando qualcuno. Una donna, una di quelle inservienti fedeli fino in fondo, rimaste lì coi deputati, a sostenerli, a preparare loro un pasto, una bevanda calda. Aveva una candela in una mano e una tazza fumante nell'altra. Era strano. La luce della candela era ovviamente davanti a quel bel corpo rotondo che avanzava senza fare alcun rumore, eppure, per chissà quale effetto ottico, la donna sembrava essere accompagnata da un sorta di alone luminoso, per cui tutto il contorno della sua figura risaltava contro il buio dello spazio attorno. Vittorio rimase a bocca aperta. E sentì una voce, calda, sparsa nell'aria, che gli chiedeva: - Compagno, vuoi un po' di tè? Lui la guardò incantato. La donna sorrideva, con dolcezza. Compagno. Dolcezza, sorriso. Tè caldo. Eccolo, l'attimo. L'attimo di Faust, catturato, mio, mi esplode all'interno, col tepore caldo di quel sorriso e di quel liquido bollente. Eccolo! C'era tutto, in quell'attimo. L'essere compagni, veramente, che vuol dire uguali, solidali, vicini. Il rapporto, profondo, tra due persone che non si conoscono, eppure si sorridono, si aiutano, con dolcezza. Eccolo, il mondo di Andrej. Riassunto tutto in quella parola: compagno.- Allora, compagno, ne vuoi? È mattina, ormai, e c’è il sole. Il temuto attacco durante la notte non c'è stato. E per un attimo all'interno di quell'edificio, sede del Soviet supremo, si è sperato che l'esercito non si sarebbe mosso. Vittorio ha sentito di riunioni notturne, di tentativi di trattative lanciati da Rutskoi e da Khasbulatov. Ma intorno alle sette cominciano ad apparire i primi carri armati e i primi mezzi pesanti cingolati. Vittorio, dal suo punto d'osservazione, li vede venire da Kutuzovskij prospekt, passare il ponte, e arrestarsi davanti alla barricata di camion e di blocchi di cemento. Poco dopo, lentamente, fanno dietro-front e tornano indietro. Si odono alcune grida di esultanza. Esultanza molto breve, però. Dopo un quarto d'ora, eccoli riapparire da Smolenskaya Naberesnaya, il lungofiume, a sinistra guardando dal punto dove si trova Vittorio. Sono passati dal ponte della Stazione Kievskaja e adesso arrivano, indisturbati, e si vanno ad appostare, minacciosi e potenti, sul tratto di lungofiume che è proprio

Page 13: La fossa comune: estratti e commenti

davanti alla Casa bianca. Potrebbero anche salire sul terrapieno che dà l'accesso all'edificio, ma non lo fanno. Si fermano, e aspettano. Elicotteri d'assalto cominciano a volteggiare su in alto nel cielo. Dopo un po' il cosacco baffuto della sera precedente arriva con gli ordini: togliersi dalle finestre, i carri armati possono sparare da un momento all'altro. Coprire tutte le scale e i corridoi. Vittorio, come un automa, viene condotto via, portato su al terzo piano e lasciato in un corridoio buio. - Sta’ qui, - gli dice il cosacco - di guardia a questo passaggio. Possono venire solo da quella parte, dietro quell'angolo, dove c'è la scala. Appena li vedi spara, subito, senza aspettare. Quelli dell'unità Alfa non scherzano, è gente abituata a tutto, prima erano commandos del KGB, puoi ben immaginare … Buona fortuna.

Page 14: La fossa comune: estratti e commenti

Alcune recensioni Come alcuni hanno già fatto notare, di questo libro l’unica nota stonata è il titolo - che lascia presagire altri tipi di storia e altre ragioni sociali. La fossa comune, però, a dispetto di quello che si potrebbe erroneamente pensare, non parla infatti di alcun tipo di eccidio, quanto di una forma allegorizzata di morte comune concreta, intesa quale fine di un importante periodo storico e di conseguenza come l’apertura d’un baratro che ha riguardato il mondo intero. Il quadro che ne viene fuori è senza dubbio un ritratto autentico e corposo, ricco di valenze politiche e storiche che è possibile rintracciare, volendo, anche nella reale cronistoria del nostro recente passato, che dunque affonda profondamente le radici nella storia dell’Europa contemporanea. Il romanzo di Bastasi segue le vicende di un italiano, Vittorio Ronca, che racconta così come la vede, una Russia post-sovietica impietosa, povera, catastrofica e sporca, in un romanzo che è un po’ thriller, un po’ giallo, un po’ cronaca di un decennio che ha visto il declino di un vero impero, e la commistione, strada facendo, di un senso di riscatto che però si tramuta costantemente in un evidenziarsi di bassezze civili e sociali - il riscatto viene sempre meno, e più la volontà comune si piega di fronte alla mano che sottrae, più si ha la conferma che se sottrarre è così facile le ragioni vanno rintracciate tanto nel tessuto politico di un Paese che in quello sociale di una umanità sempre più disincantata, corrotta e ladra, che imputa alla sopravvivenza comune, le colpe delle proprie malefatte. Bastasi, chiaro conoscitore della materia narrata, ha la finezza del reporter mentre scrive - non è cinico ma tende alla fotografia umana, attraverso la quale mette in evidenza occhi e facce dei personaggi chiamati in causa, e con essi dischiude un mondo intero, nella forma per lui più evocativa e sincera, dando l’impressione di esserci stato concretamente nella pelle di un Ronca qualunque. Il romanzo consta di una trama piuttosto elaborata, ma il disegno sottostante si muove agilmente tra un narrato fitto, coeso, credibile e ricco, e una “etimologia” del delitto sociale, che fa il verso non solo alla Russia sbandata, corrotta, insensibile e bieca, ma anche a tutta quella generazione odierna incapace di raccogliere l’eredità (umana, civile e politica) del ‘68. Una sorta di denuncia personale contro i traditori di un ideale civile ben preciso, che si esplica in un dettato lineare, linguisticamente rilevante, ed in un intreccio funzionale e altamente politicizzato. Alessandra De Gregorio http://scritturainforma.wordpress.com/2009/04/25/la-fossa-comune/

“ esiste lo so a ja Ljublju SSSR “ (A ja Ljublju SSSR – CCCP) “ È un grande artista è un commediante nato che prova il suo gesto nel segreto e si presenta da sé ogni sera nella parte difficile di una vita vera. L'uomo da solo nella stanza misura i passi di una certa danza e conta gli specchi intorno che all'attore l'andata in scena sembra senza ritorno.L'uomo da solo è ballerino e attore sa calcolare i sorrisi e i passi e sa dosare il pudore e la paura che è una tenaglia che ci chiude le gambe a tutti in un artiglio la paura che è una tenaglia.“ (Non è facile danzare – I. Fossati) Sono in cucina, si sta mangiando. Piatti tipici siciliani: fiorentina alla brace e patate fritte. Per compensare stappo un Firriato di medio livello. Poi, riempito lo stomaco, prendo in mano questo libro, giro le pagine e comincio a leggere. So già che dovrò trovare un posto particolare, nella mia libreria. Di cosa vi potrei parlare? Facile …Vi parlerò di architettura. Fondamenta, travi portanti, proiezioni ortogonali, piani. Ecco sì, i piani. Quel che distingue un capolavoro da un mediocre romanzo. I piani. La fossa comune si può leggere come storia in sé. E’ gradevole, scorrevole, scritta con indubbia maestria. Davvero, potete leggerla così e poi magari scriverci sopra un bel riassunto. Oppure potete vederci la critica, schietta, leale e soprattutto “ di parte” , alla gangrena del neocapitalismo selvaggio, del profitto ad ogni costo, dei soldi facili, con cui comprare tutto e tutto corrompere, tutto sporcare.

Page 15: La fossa comune: estratti e commenti

Dico “ di parte “, perché è un sollievo vedere che c’è ancora qualcuno capace di schierarsi, di dire da che parte sta, in quest’epoca di centrismo, di disimpegno, di ignavia spacciata per equilibrio e di equilibrismi spacciati per saggezza. Potremmo soffermarci a lungo su questo aspetto, perché è di grande rilevanza, soprattutto di questi tempi, ma vi dico di andare avanti, di non fermarci qui, che altre architetture ci aspettano. Il lettore attento, il lettore colto, potrebbe trovarci miriadi di riferimenti. Non le banali note a margine dei pedanti, né le incerte citazioni degli aspiranti letterati, ma la vasta eco di una cultura profonda, matura, che ha mangiato, digerito e può permettersi il lusso di render note le proprie origini, senza per questo peccare di cattivo gusto. “ In via Gorochovaja, in una di quelle grandi case la cui popolazione sarebbe stata sufficiente per tutta una città di provincia, se ne stava di mattina a letto nel suo appartamento Ilja IljičOblomov. “(Oblomov - Ivan Aleksandrovič Gončarov) “ Vittorio Ronca abitava a Mosca, in ulitza Kutuzova, casa numero 22, sesto piano, appartamento numero 38”(La fossa comune – Alessandro Bastasi) E questo è solo uno dei possibili esempi. Mi sono spiegato? Non è un caso, a mio avviso, che Bastasi inizi il suo romanzo in modo simile a quello di Gončarov, stabilendo un topos, prima che un epos. Questo, da un lato, potrebbe sembrare o essere un meccanismo inconscio. Chi ama la Russia, ne ama anche la letteratura. Rifugiarsi nel meccanismo di un incipit ben noto, come indispensabile viatico per le parole a venire? Tutto può essere, ma io non lo credo. Basta rifarsi alla citazione di Brook ad inizio libro ed alla definizione stessa di happening per capirlo : L’happening si focalizza, non sull’oggetto, ma sull’evento che si riesce ad organizzare. Lo stesso protagonista del romanzo, parlando di teatro dice : “ … il contenuto di un’opera lo si afferra attraverso la sua forma. “E forma, secondo me, è anche il topos, il dove … collocare gli eventi. Se l’Oblomov è un ottimo esempio di happening statico, in cui un turbinio di comparse irrompe dall’esterno, portando le voci e gli umori del pubblico nella placida quinta teatrale in cui sta sdraiato Ilja Iljič, nella “ Fossa comune “ il meccanismo è rovesciato. E’ Vittorio, il protagonista, a creare continui happening, irrompendo nella vita degli altri e sconvolgendone le esistenze. Anche negli episodi in cui sembra apparentemente subire, come nel furto da parte dei bambini, è sempre lui a dettare i tempi, le modalità, il luogo, il topos in funzione dell’epos. Trovo quel passo del romanzo e gli attimi seguenti, di una bellezza struggente e complicata. Vittorio s’indigna, piange di frustrazione, forse di vergogna. Per la sua immobilità, apparentemente così oblomoviana, per se stesso, per ciò cui si è ridotto quel paese, quella gente, ma anche per tutti noi, l’umanità, il pianeta intero. E di colpo l’happening si allarga, come per uno squarcio interiore, fino ad includere tutti gli eventi possibili, tutti i teatri esistenti e quelli ancora da costruire. L’happening personale, puntiforme, di cui Vittorio è sempre alla ricerca, si trasforma in una amara versione della struttura a network. Un Octopus umano in cui siamo tutti attori e spettatori, vittime e carnefici. Un teatro globale, sorta di collettivo, purtroppo non autonomo, la vera fossa comune in cui giacciono insieme i nostri più alti ideali, mischiati ai più bassi istinti.Last, but not least, c’è il rapporto con il potere. Nella percezione di Vittorio il potere ha ancora un volto umano, lo percepisce come qualcosa che si può ferire, uccidere. Spera e pensa che un attentato possa cambiare le cose, che basti ammazzare un burattino, per sbarazzarsi dei burattinai. Paradossalmente, una volta arrivato al centro degli eventi, percepisce il potere in tutte le sue trasversalità, in tutte le sue doppiezze. Dovrebbe essere la disillusione finale, il colpo di grazia a qualunque ideale, ma un attore resta sempre un attore, baby. Anche se il teatro sta crollando e la platea è deserta, bisognerà finire quel maledetto monologo.A questo punto, per la fossa mancano ormai pochi metri, che ci si arrivi a piedi o in carrozza non sarebbe importante, ma prima resta un ultimo importante dovere da compiere. Vittorio Ronca, l’Oblomov dinamico, si trasforma in Alonso Chisciano. Il viaggio per il viaggio … Il giusto per il giusto … L’amore con l’amore si paga … fino al necessario finale, sussurrato nell’orecchio ad Alessandro dal protagonista, per dettare il topos dell’happening finale. A leggerla con superficialità, sembrerebbe una conclusione che echeggia Mishima, l’estetica della bella morte, l’atto puro. Ma stiamo parlando di Vittorio, non di Andrea Sperelli. L’Oblomov rovesciato, l’Alonso rinnovato, non fa tanto per fare. Non muore gridando “ champagne!”, non cerca soluzioni estetiche, ma etiche. Si muore non perché è bello, al massimo perché è necessario. Ci si dispiace un po’, ma è così che va il mondo. Resta un dolore sordo, come un proiettile da qualche parte e la certezza che da oggi, senza Vittorio, il mondo è un po’ più povero. Ci

Page 16: La fossa comune: estratti e commenti

sarebbero tante altre cose da dire ovviamente, tante altre architetture, ma forse è giusto che ognuno se le ricavi da sé.Io intanto ho trovato il posto adatto nella libreria per questo libro. Metterò Vittorio accanto ad un altro grande attore, l’Hans di “ Opinioni di un clown”, spero si trovino bene insieme. Ogni volta che passo carezzo sempre la copertina, da oggi in poi ci sarà una carezza anche per Vittorio, tanto la mano non si consuma mica. “ Bisogna vedere la tristezza di un brutto happening” dice Peter Brook ad inizio libro, ma bisogna anche godersi la bellezza di un happening immenso e triste come questo, aggiungo io. Giudizio critico: ottimo romanzo. Una delle migliori letture degli ultimi anni. Cibo : Pojarski: polpette di petto di pollo, panna acida, burro, latte e mollica di pane, dorate nel burro, servite con salsa Smitana (a base di panna acida) e patate al burro. Bevanda: Bogordskaja vodka Musica: L'Oiseau de feu di Igor' Fëdorovič Stravinskij, il più russo degli europei o il più europeo dei russi, fate vobis. Alessio Pracanica http://www.liberolibro.it/alessandro-bastasi-la-fossa-comune/

“La fossa comune” è un bel romanzo scritto da Alessandro Bastasi ed edito da 0111 Edizioni. Si tratta di una storia intensa e ricca, che descrive le vicissitudini di un italiano nella Russia di Eltsin. Attenta è la ricostruzione storico, politica, culturale dell’ex URSS, uscita dalla Perestroika gorbachoviana. Il protagonista nutre un odio profondo verso il nuovo leader russo e giunge al punto di programmarne l’uccisione. Se Bastasi l’avesse lasciato fare, saremmo entrati in un’interessante ucronia, che certo meriterebbe d’esser scritta. L’autore invece, all’ultimo, ferma la mano del protagonista e ne nasce un altro genere di racconto. A Bastasi non interessa descrivere i “se della Storia”. A quest’autore interessa di più mostrarci che due dei personaggi, Gorbachov ed Eltsin, che spesso in Occidente, sono visti come i salvatori della Russia, invece, hanno contribuito ad affossare quel Paese. Visione che forse non tutti potranno condividere, ma leggendo queste pagine, difficilmente si potrebbe non porsi il dubbio se quegli anni siano davvero stati un bene per la grande nazione euroasiatica o piuttosto solo un tentativo, non brillante, di reagire alla perdita della Guerra Fredda. Il romanzo di Bastasi è dunque una storia che si muove, con disinvoltura e precisione, dentro la Storia (quella con la “S” maiuscola”) ma è anche la vicenda di un uomo, il protagonista, Vittorio Ronca, disegnato con profondità e intensità. Vittorio è un uomo che vorrebbe poter fare qualcosa di grande, di importante, e che mal si adatta ai lavori che di volta in intraprende, seppur all’inizio con successo. Questo suo desiderio lo porta persino a bruciare le proprie relazioni sentimentali, a lasciar andare in malora la propria carriera. Sarà soprattutto per questo desiderio che accetterà di uccidere Eltsin, pur essendo consapevole che un simile omicidio avrebbe cambiato ben poco e che altri simili a Eltisn ne avrebbero preso il posto. Pur vedendo la Storia come un processo immodificabile, sente il forte desiderio di prendervi parte. E sarà questo desiderio, in un impulso poco ragionato, a portarlo alla “fossa comune”. Questo è, dunque, un romanzo importante, interessante, ragionato, ben costruito e ben scritto.

Carlo Menzinger http://menzinger.splinder.com/

Page 17: La fossa comune: estratti e commenti

Come acquistare il libro

Il libro è acquistabile in libreria, se non lo trovate potete ordinarlo informando il libraio che il distributore nazionale è: EdiQ. Se il libraio non conosce l'editore 0111 Edizioni onon ha i recapiti del distributore EdiQ, segnalategli il sito www.ediq.eu oppure www.ediq.it dove potrà trovare tutti i dati per fare l'ordine. Il libro è inoltre acquistabile su ibs: http://www.ibs.it/code/9788863071078/bastasi-alessandro/fossa-comune.html e nelle principali librerie on-line. Maggiori informazioni su: http://lafossacomune.blogspot.com


Recommended