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1 LE DIFFICOLTA’ DEGLI OPERATORI PSICO-SOCIALI NELL’INFORMARE E ACCOMPAGNARE I BAMBINI DALLE DIFFICILI STORIE FAMILIARI: UN’IPOTESI ESPLICATIVA ALLA LUCE DELLA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO Marco Chistolini, psicologo-psicoterapeuta. Pubblicato su Terapia Familiare n° 80/2006 Riassunto Il presente lavoro si propone di sottolineare l’importanza che ai bambini che vivono storie personali difficili sia assicurata, da parte degli operatori psico-sociali, un’adeguata informazione in merito a ciò che accade a loro e alle loro famiglie e un corretto accompagnamento nel significare questi eventi. Tale intervento è, infatti, condizione necessaria per prevenire l’instaurarsi nel minore di disfunzionali meccanismi difensivi di scissione ed idealizzazione. L’esperienza indica che molto spesso questo intervento risulta essere incompleto o assente. A partire da tale dato di fatto viene presentata e discussa una possibile spiegazione delle difficoltà frequentemente incontrate dagli operatori psico-sociali a rispondere a questa esigenza, formulata alla luce della teoria dell’attaccamento. Infine, vengono discussi alcuni aspetti teorici e metodologici connessi con il tema dell’informazione e del sostegno psicologico ai bambini in difficoltà. Abstract The present study has the purpose of underline the importance that with children who live difficult personal backgrounds, the psico-social operators have to guarantee a proper information, on what happens to their families and them, helping them give a sense to these events. This action is a necessary condition to prevent the development in the child of dysfunctional defensive mechanism such as scission and idealization. The experience points out, that very often, this intervention is absent or incomplete. Starting from this fact we are going to discuss some method and theory aspects, linked to topic of information and psychological support for children in difficulty conditions in the attachment theory perspective.
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LE DIFFICOLTA’ DEGLI OPERATORI PSICO-SOCIALI NELL’INFORMARE E ACCOMPAGNARE I BAMBINI DALLE DIFFICILI STORIE FAMILIARI:

UN’IPOTESI ESPLICATIVA ALLA LUCE DELLA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO Marco Chistolini, psicologo-psicoterapeuta.

Pubblicato su Terapia Familiare n° 80/2006

Riassunto Il presente lavoro si propone di sottolineare l’importanza che ai bambini che vivono storie personali difficili sia assicurata, da parte degli operatori psico-sociali, un’adeguata informazione in merito a ciò che accade a loro e alle loro famiglie e un corretto accompagnamento nel significare questi eventi. Tale intervento è, infatti, condizione necessaria per prevenire l’instaurarsi nel minore di disfunzionali meccanismi difensivi di scissione ed idealizzazione. L’esperienza indica che molto spesso questo intervento risulta essere incompleto o assente. A partire da tale dato di fatto viene presentata e discussa una possibile spiegazione delle difficoltà frequentemente incontrate dagli operatori psico-sociali a rispondere a questa esigenza, formulata alla luce della teoria dell’attaccamento. Infine, vengono discussi alcuni aspetti teorici e metodologici connessi con il tema dell’informazione e del sostegno psicologico ai bambini in difficoltà. Abstract The present study has the purpose of underline the importance that with children who live difficult personal backgrounds, the psico-social operators have to guarantee a proper information, on what happens to their families and them, helping them give a sense to these events. This action is a necessary condition to prevent the development in the child of dysfunctional defensive mechanism such as scission and idealization. The experience points out, that very often, this intervention is absent or incomplete. Starting from this fact we are going to discuss some method and theory aspects, linked to topic of information and psychological support for children in difficulty conditions in the attachment theory perspective.

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Premessa

L’importanza di accompagnare i minori le cui famiglie sono in difficoltà, informandoli compiutamente e correttamente su quanto è accaduto, sta accadendo e accadrà a loro e ai loro familiari è stata efficacemente sottolineata in passato da diversi autori (Ghezzi, 1988; Vadilonga, 1996), che ne hanno chiarito le ragioni di opportunità e i criteri per farlo. Il presente lavoro si pone in ideale continuità con questi scritti, cercando di approfondire alcuni aspetti connessi al tema dell’informazione al bambino sul suo presente e sul suo futuro. S’intende considerare due dimensioni, distinte ma connesse, del lavoro con i minori che si trovano in difficili situazioni familiari: quella dell’informazione, vale a dire l’opportunità di dire loro cosa sta succedendo e cosa succederà a loro e alla loro famiglia; e quella di garantire un accompagnamento ed un sostegno alla elaborazione degli eventi più significativi della loro storia (personale e familiare); In particolare verranno discusse le ragioni che sostengono l’opportunità di procedere in tal senso ed i motivi per cui, molto spesso, questo lavoro di informazione ed accompagnamento non viene svolto1. Infine, verranno chiariti alcuni aspetti che possono aiutare nel gestire l’intervento e renderlo maggiormente efficace. Informare ed accompagnare i bambini

È ormai sostanzialmente condiviso l’assunto che sottolinea la necessità per ciascun individuo di conoscere in modo realistico e coerente la propria storia personale. Gli studi effettuati nell’ambito della teoria dell’attaccamento e della teoria della mente (Camaioni, 1996; Fonagy, Target, 2001) hanno ampiamente sostenuto, con importanti supporti sperimentali, il positivo effetto strutturante e di integrazione della personalità che è dato dalla conoscenza della propria storia personale. Tale consapevolezza di sé, che Holmes (1994) ha efficacemente definito “competenza autobiografica”, è condizione fondamentale per poter avere un rapporto equilibrato con se stessi (o per meglio dire con i propri contenuti affettivi e cognitivi) e con gli altri. Autori di diverso orientamento teorico (Main, 1986; Fonagy e alt., 1994,) hanno sottolineato l’importanza della capacità di riflettere sui propri processi interni quale fattore protettivo di fronte ad eventi stressanti ed indicatore significativo di una 1 Sulla diffusa difficoltà dei terapeuti a lavorare con i bambini si veda anche

l’interessante articolo di Anna Maria Sorrentino sul n° 77 di Terapia Familiare.

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personalità più flessibile e coesa2. Infatti, se un bambino non conosce i fatti importanti della sua vita e non viene aiutato a significarli correttamente, connettendoli agli stati affettivi che tali fatti gli suscitano, sarà portato ad operare delle “auto-mistificazioni” sui suoi stati interni, negandosi la possibilità di accedervi in modo autentico, con il risultato di acquisire delle modalità di funzionamento psichico alterate che lo condizioneranno nella capacità di stabilire relazioni affettivamente coinvolgenti.

Quindi, per quanto fin qui affermato, possiamo dire che conoscere la propria storia ed essere aiutati a rifletterci in modo critico e realistico, attribuendole significati equilibrati e coerenti con le emozioni provate è, senza dubbio, una condizione importante per poter costruire una personalità armonica e sana. Senza bisogno di dilungarsi troppo è possibile affermare che esiste, nella comunità scientifica, sostanziale condivisione (con alcune differenze che verranno successivamente riprese) sul fatto che per consentire ad un bambino di avere uno sviluppo psicologico adeguato è indispensabile aiutarlo a mantenere connessi ed integrati gli eventi significativi della sua vita. Ora se ciò è importante in tutti i casi, lo è ancora di più in quelle situazioni in cui la storia del minore è caratterizzata da accadimenti dolorosi e/o da cambiamenti significativi. È evidente, infatti, che “tenere insieme” una storia personale complicata e contrassegnata da esperienze dolorose, anomale ed inattese è più difficile che farlo a fronte di un percorso di vita sostanzialmente lineare e privo di scossoni significativi. Ne consegue che gli operatori psico-sociali che si occupano dei minori in difficoltà (le cui esistenze sono, notoriamente, contrassegnate dalla instabilità e da eventi dolorosi) avranno il delicato compito di aiutare il bambino ad affrontare le due dimensioni dell’informazione e della comprensione (sapere cosa è accaduto, capire perché è accaduto). Due aspetti diversi, ma complementari, di un unico processo di elaborazione che si snoda lungo un percorso circolare che ha, quali sue tappe fondamentali, l’esame di realtà, pensieri ed emozioni da questo suscitate ed attribuzione di significati che guida un nuovo esame di realtà e così a seguire. Percorso indispensabile per tenere insieme le parti di sé e arrivare ad accettare con sufficiente serenità la propria storia personale, soprattutto negli aspetti più dolorosi e difficili.

2 Mary Main parla di “monitoraggio metacognitivo”, mentre Fonagy preferisce

l’espressione sé riflessivo

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Infine, è opportuno sottolineare che in molti casi l’intervento degli operatori è decisivo in quanto costoro rappresentano gli unici adulti di riferimento per il bambino3, in grado di fornirgli informazioni e significazioni veritiere e pacificanti, con la conseguenza che se essi non adempiono a questo compito nessun altro lo farà in loro vece oppure, eventualità ancora più negativa, altri adulti forniranno notizie ed interpretazioni false e fuorvianti, come nell’esempio che segue. Michele è un bambino di 7 anni che si trova da 18 mesi in una casa famiglia in seguito all’ingresso della madre in una comunità di recupero per tossicodipendenti (il padre è irreperibile già da alcuni anni). Quando Michele va a trovare la mamma in comunità questa le racconta che si trova lì per partecipare alle prove del programma TV “il grande fratello”. In precedenza la stessa mamma aveva raccontato a Michele che il padre si trova all’estero per lavoro e che non può chiamare perché in quel Paese dove è andato non ci sono telefoni! Nessuno tra gli operatori che seguono il bambino ha ritenuto di correggere queste false informazioni. Michele, che è piccolo ma non è stupido, ha ben compreso che la realtà non è quella che la mamma ha voluto fargli credere, non capisce cosa stia veramente succedendo, ma sente che non gli è consentito fare domande. Confuso ed impaurito, a scuola non riesce a concentrarsi e di notte dorme male; mangia poco e più volte assume posizioni oppositive e provocatorie… Perché gli operatori psico-sociali non parlano ai bambini Se la necessità di informare e sostenere il minore pare essere, a livello teorico, sufficientemente condivisa, c’è da chiedersi perché la situazione cambi significativamente quando si passa sul piano della prassi. È esperienza diffusa, infatti, che casi come quelli di Michele non siano affatto rari e che i bambini vengano informati poco e male di quanto accade a loro e alle loro famiglie e altrettanto poco e male siano aiutati nel difficile processo di elaborazione. Essendo tale stato di cose molto comune e caratteristico di diverse realtà locali, dal nord al sud d’Italia, credo sia importante provare a cercare una spiegazione convincente, che non sia centrata soltanto sulla omnicomprensiva motivazione della mancanza di tempo e di risorse4.

3 Si vedrà più avanti il caso, diverso, in cui il minore è inserito in famiglia

affidataria.

4 Certamente un elemento non secondario a determinare tale stato di cose è costituito

dalla carenza, più o meno endemica, di risorse che genera sovraccarichi di lavoro che

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Comprendere, infatti, rappresenta il primo passo per innescare successivi, possibili, cambiamenti.

Ritengo che vi siano diversi fattori che, congiuntamente, concorrono a creare tale stato di cose. Essi sono:

1. I modelli organizzativi e la cultura dell’emergenza.

Spesso i servizi psico-sociali deputati alla tutela dei minori agiscono in una logica “emergenziale” che privilegia la presa in carico e l’intervento sui casi critici (che peraltro non mancano mai), senza avere un’adeguata progettualità sul medio/lungo periodo. È fatale in questo modo di lavorare che, superata la fase acuta, l’attenzione degli operatori venga catturata da altri e più urgenti situazioni, facendo venire meno quella indispensabile funzione di accompagnamento, di cui si sta parlando, a favore del minore.

2. I bambini non capiscono.

Un secondo elemento che ostacola un adeguato percorso di informazione ed accompagnamento del bambino è dato dalla convinzione che egli abbia oggettivi limiti cognitivi che gli rendono difficile, se non impossibile, comprendere quanto sta succedendo ai suoi genitori. Quindi tanto vale non informarlo o raccontare delle pietose bugie! È indubbio che i bambini, soprattutto quando sono molto piccoli, presentano degli specifici limiti cognitivi. È altrettanto indubbio, però, che tali limiti non impediscono di fornire delle informazioni e delle spiegazioni che, magari estremamente semplificate, costituiscano il primo passo di un percorso di conoscenza e comprensione che si svilupperà nel tempo, sempre grazie al costante e competente supporto dell’operatore e di altri adulti significativi. Inoltre, l’esistenza di una minor capacità di capire da parte del bambino (che è, tra l’altro, spesso sopravvalutata), dovrebbe portare ad ampliare gli interventi di chiarimento, non a ridurli!

certo non aiutano ad essere progettuali e costanti nel pensare e nell’agire, ma sarebbe

semplicistico e fuorviante spiegare una prassi così diffusa solo in termini di scarsità di

risorse.

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3. Evitiamogli ulteriori sofferenze.

Non di rado gli operatori preferiscono non parlare al minore o farlo in modo criptico e parziale per non farlo soffrire. Il pensiero “magico” che sembra stare alla base di questa posizione è quello per cui se di un argomento non si parla è come se questo non esistesse5. Purtroppo sappiamo bene che le cose non stanno affatto in questo modo. Ciò che il bambino ha vissuto e sta vivendo continua ad esistere anche se noi adulti ci esimiamo dal parlarne! In realtà, come vedremo meglio più avanti, l’evitare di parlare al bambino dei suoi problemi non lo protegge minimamente dal dolore, aumentandogli piuttosto l’ansia e la confusione o favorendo l’utilizzo di non utili meccanismi difensivi (quali la scissione, la negazione o l’idealizzazione). Piuttosto, va riconosciuto che non parlare con il bambino è più funzionale a proteggere l’operatore che il minore.

4. A chi compete? Altro aspetto critico, spesso sollevato, è quello della competenza. Non è raro che le assistenti sociali segnalino di non sentirsi preparate per parlare ed accompagnare i bambini, rimandando tale compito agli psicologi che non sempre rispondono adeguatamente, ritenendo che non spetta a loro dare “notizie” o richiedendo per farlo la presenza di requisiti “minimi”, primo fra tutti la motivazione del paziente, spesso assenti o comunque labili6. Di fatto è abbastanza usuale che gli operatori si trovino più a loro agio nel relazionarsi con gli adulti che con i bambini, con il risultato, per certi versi paradossale, che i servizi per i minori hanno maggior dimestichezza a trattare con i grandi (che diventano così i loro principali clienti) piuttosto che con i piccoli7.

5 Lo stesso tipo di pensiero magico sembra guidare giudici minorili ed operatori che, nei

casi di adozione, evitano di fornire informazioni ai genitori adottivi sulla dolorosa

storia del figlio per non influenzarli negativamente!

6 Tornerò su questo punto che riveste un importante significato teorico.

7 Indiretta, ma significativa, conferma di tale stato di cose viene da quanto riportato nel

volume: “La tutela giudiziaria dei minori in Piemonte“, laddove si raccomanda che le

segnalazioni degli operatori psico-sociali alla Procura presso il Tribunale per i

Minorenni debbano: “Parlare soprattutto del bambino, dei suoi problemi e della sua

interazione con le figure adulte di riferimento (alcune relazioni sono dedicate

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5. L’alleanza con i genitori.

A volte, infine, la resistenza a parlare con il bambino nasce dal fatto che sono i suoi genitori che non vogliono che sia correttamente informato. Può quindi accadere che l’operatore, preoccupato di salvaguardare il rapporto con i genitori, spesso faticosamente costruito, aderisca al loro desiderio di non dire la verità al figlio (o di dirne una edulcorata e deficitaria) sulle difficoltà familiari.

Una lettura delle difficoltà a parlare con i bambini alla luce della teoria dell’attaccamento. Pur considerando gli elementi sopra elencati dei fattori certamente importanti nell’inibire il fondamentale lavoro di informazione ed accompagnamento del bambino, ritengo che essi non siano sufficienti a spiegare l’esistenza di una difficoltà tanto radicata e che sia quindi necessario cercare di individuare ulteriori e più profonde spiegazioni.

In questo sforzo di ricerca un contributo importante ci è suggerito dalla teoria dell’attaccamento di John Bowlby. Com’è noto Bowlby postula che ogni bambino per crescere bene ha bisogno di poter contare su di un adulto sensibile e responsivo in grado di assicurargli vicinanza e protezione sufficienti, stabilendo con lui una relazione affettiva privilegiata, chiamata appunto relazione di attaccamento. Specularmente, la teoria sostiene una propensione innata dell’adulto a rispondere positivamente a questo bisogno del bambino assumendo una funzione di accudimento nei suoi confronti8.

Va ricordato che il sistema dell’attaccamento è stato descritto come un meccanismo omeostatico che ha il compito di mantenere, nel bambino, un equilibrio dinamico tra le dimensioni dell’esplorazione e della sicurezza. Pertanto esso si attiva in particolar modo quando il piccolo si trova in situazioni di stress e/o di pericolo, portandolo ad inviare richieste di aiuto nei confronti della figura di attaccamento (pianti, ricerca di vicinanza, eccetera). Allo stesso modo l’adulto attiverà comportamenti di accudimento e protezione nel percepire lo stato di stress e/o di paura del bambino. Il tutto a configurare un meccanismo integrato e sintonico tra il piccolo ed il suo caregiver (Attili, 2000).

prevalentemente alle figure adulte mentre oggetto di valutazione è il pregiudizio che

corre il bambino…). (pag. 25)”.

8 È chiaro che tale potenzialità dell’adulto può essere gravemente ridotta e/o alterata

quando costui ha vissuto delle relazioni non sufficientemente adeguate e nutrienti.

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Sempre nell’ambito della stessa teoria gli studi condotti da Mary Ainsworth (Ainsworth, 1978) hanno permesso di identificare diversi stili di attaccamento sia nel bambino che nell’adulto. Essi sono:

Lo stile sicuro del bambino a cui corrisponde lo stile libero e autonomo dell’adulto. Lo stile evitante del bambino a cui corrisponde lo stile distanziante dell’adulto. Lo stile ambivalente del bambino a cui corrisponde lo stile invischiato dell’adulto.

A questi stili di attaccamento che, ricordiamolo, sono il frutto di reali relazioni esperite,

corrispondono dei modelli operativi interni (internal working models), vale a dire dei costrutti cognitivo-affettivi su di sé e sul mondo che guidano il modo di percepire e significare gli eventi e di stabilire le relazioni con gli altri da parte del soggetto.

Più precisamente, bambini che hanno sperimentato rapporti adeguati struttureranno uno “stile di attaccamento” sicuro che gli consentirà di percepirsi come soggetti competenti e degni d’affetto e di avere rappresentazioni degli altri come persone capaci di ascolto e di aiuto. Viceversa, i bambini che hanno sperimentato relazioni inadeguate struttureranno uno “stile di attaccamento” insicuro, con una immagine di sé svalutata e una percezione degli altri come persone ostili, indisponibili e/o inaffidabili. In particolare coloro che vengono cresciuti da adulti ostili e/o affettivamente indisponibili, struttureranno uno stile di attaccamento insicuro-evitante, basato su di una pseudo autonomia affettiva e sulla svalutazione degli aspetti emotivi. Sono, questi, bambini che non chiedono aiuto quando si trovano in difficoltà, molto autonomi, non vogliono “disturbare”, si separano senza difficoltà dai genitori, a volte introversi e chiusi, altre socievoli e ciarlieri, danno spesso confidenza a chi non conoscono.

All’opposto i bambini cresciuti da adulti instabili, ansiosi, disponibili in maniera

intermittente, a volte accoglienti ed altre inaccessibili, costruiranno uno stile di attaccamento “insicuro-ambivalente”, caratterizzato da un comportamento molto dipendente, “capriccioso”, oppositivo, tipico di chi, in maniera confusa e sofferente, avanza in modo massiccio le sue richieste di attenzione senza riuscire a trovare mai un reale appagamento. La strategia relazionale di questi minori è quella del controllo, alla costante ricerca di attenzione per non perdere mai la relazione con l’adulto, nella “convinzione” (frutto dell’esperienza!) che se la relazione con la figura di attaccamento si interrompesse sarebbe arduo poterla ripristinare.

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Studi successivi hanno evidenziato un quarto stile di attaccamento connesso ad esperienze di maltrattamento, abuso e grave trascuratezza, identificato come “evitante-ambivalente” (Crittenden e Di Lalla, 1988) o “disorganizzato-disorientato” (Main e Solomon, 1986)9. Questi bambini sono spesso figli di adulti violenti e/o segnati da esperienze di lutto "irrisolte". Nello stile "disorganizzato-disorientato" i modelli operativi interni che si sviluppano appaiono incoerenti e non integrati tra loro, con immagini di sé e degli altri contraddittorie e inconciliabili.

Proviamo, a questo punto, a vedere in che modo i costrutti della teoria dell’attaccamento possono aiutarci a comprendere le difficoltà degli operatori psico-sociali (e degli adulti in genere) a comunicare informazioni penose ai loro piccoli utenti.

Se consideriamo che fornire ad un bambino delle informazioni dolorose sul suo nucleo familiare significa, inevitabilmente, provocargli uno stato di stress ed un senso di precarietà e di pericolo, ne consegue che ciò lo porterà ad attivare il proprio sistema di attaccamento10. Allo stesso tempo però, lo stato di sofferenza del bambino e le sue richieste di protezione e rassicurazione costituiranno un potente input di attivazione del “sistema dell’accudimento” dell’operatore. In altre parole, l’operatore che, ad esempio, informa il minore che la sua mamma è fuggita dalla comunità di recupero o che il papà è stato nuovamente carcerato, provoca, suo malgrado, un effetto di dolore e stress nel suo piccolo interlocutore e il vederlo sofferente attiva in lui delle risposte affettive e comportamentali coerenti con il suo stile di attaccamento.

In ogni caso, l’operatore si troverà in seria difficoltà a parlare in modo chiaro al minore. Infatti, se egli ha uno stile di attaccamento sicuro, reagirà al disagio del bambino con comportamenti di accudimento e rassicurazione, trovandosi nella difficile e paradossale

9 Va precisato che non vi è pieno accordo, tra gli studiosi dell’attaccamento, su come classificare i soggetti che non rispondono ai criteri validi per l'attaccamento sicuro, ambivalente o evitante. Alcuni, infatti, ritengono la categoria D (attaccamento disorganizzato) proposta da M. Main e ripresa da numerosi altri (citiamo tra i più noti P. Fonagy, G. Liotti, J. Solomon e C. George) eccessivamente indefinita e quindi scarsamente informativa dello stile di attaccamento del bambino, preferendo pertanto utilizzare la classe A/C, proposta da P.M. Crittenden. Questa differenza non è, ovviamente, solo nominale ma riflette un diverso modo di interpretare lo stile disorganizzato o A/C, di cui non è possibile dare conto in questa sede. 10 È evidente che le reazioni del bambino dipenderanno dal suo specifico stile di attaccamento e quindi potranno essere molto diverse, spaziando dalla disperazione all’assoluta indifferenza.

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situazione di dover gestire contemporaneamente due funzioni diverse: colui che provoca lo stress e colui che vorrebbe rassicurare il bambino. A mio avviso, è proprio la difficoltà a governare questa contraddizione interna (se parlo ho voglia di rassicurare se rassicuro non posso parlare!) la ragione principale che inibisce l’operatore dal dire cose dolorose al minore seguito. Non a caso, molto spesso, nel dare informazioni “spiacevoli” l’operatore (e più in generale gli adulti) tentano di conciliare queste due opposte esigenze (provocare stress e rassicurare), “annacquando” le informazioni date oppure facendo seguire ad una affermazione dolorosa una immediata dichiarazione rassicurante, in un faticoso tentativo di dare “un colpo al cerchio ed uno alla botte” che consenta di contemperare le opposte esigenze: comunicare e rassicurare. È il caso di Angela una giovane assistente sociale che, nel corso di una supervisione, racconta, sconsolata, di non essere riuscita a dire, come si era prefissa, a Nadia, la bambina di 9 anni da lei seguita, la verità sulla situazione della madre (ricoverata in seguito ad una grave crisi psicotica). Spiega Angela: “ho cominciato a spiegarle quel che era successo ma quando Nadia, con gli occhi pieni di lacrime, mi ha detto che la mamma sarebbe guarita e tornata presto a casa, non sono riuscita a dirle che si sbagliava e ho sentito il bisogno di rassicurarla dicendole che le cose stavano proprio come diceva lei…”. L’attivazione del sistema dell’attaccamento produce i suoi effetti ancora prima d’incontrare il bambino. Il solo immaginare di dovergli parlare e farlo soffrire porta molti operatori a provare un profondo disagio interiore, trovando delle buone ragioni per non farlo (la più coerente con l’ipotesi teorica formulata è quella di non volerlo far soffrire), spesso sopravvalutando la componente di dolore che il minore dovrà senz’altro sperimentare e perdendo di vista l’aspetto di positività che la comunicazione stessa comporta. L’idea di farlo molto soffrire si basa anche sulla convinzione che il minore poco sa né ha capito delle problematiche familiari mentre, in genere, i bambini sono assai più consapevoli dei problemi dei loro genitori di quanto noi adulti siamo portati a credere. Ulteriori conseguenze dello stile di attaccamento dell’operatore. Quanto descritto si basa sull’ipotesi che l’operatore in questione abbia uno stile di attaccamento sicuro che lo porta ad attivare i suoi comportamenti di accudimento di fronte alla sofferenza del bambino, con le difficoltà conseguenti che ho descritto. Non è però

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scontato che le cose stiano sempre in questo modo. Scartando l’eventualità di avere operatori con uno stile d’attaccamento irrisolto, possiamo però assumere che vi sia un certo numero di distanzianti e di invischiati. Anche in questi casi si presenteranno esplicite difficoltà nel fornire informazioni chiare ed esaurienti al bambino. Per i distanzianti è probabile l’assunzione di un atteggiamento di razionalizzazione e minimizzazione nei confronti della portata emotiva della storia familiare del bambino. Costoro saranno propensi, involontariamente, a sottovalutare la necessità di dare al bambino informazioni adeguate e sostegno finalizzato a rivisitare la sua storia, in quanto poco capaci di cogliere le risonanze affettive degli avvenimenti. Oppure, potrebbe prevalere un approccio “ottimista e pragmatico” che mira a ridefinire in termini “positivi” ed accettabili gli avvenimenti e/o incoraggi a guardare avanti e a non pensare troppo a ciò che fa soffrire. Come vedremo meglio successivamente un simile approccio non risponde all’esigenza del minore di essere aiutato a comprendere ed accettare la propria storia attraverso un esame realistico, ma può addirittura colludere, rafforzandoli, con degli assetti difensivi improntati alla negazione ed alla idealizzazione. Sembra essere questo il caso di Mario uno psicologo che racconta di aver parlato a Diego, 14enne, il cui padre è stato arrestato per un furto, cercando di presentargli l’evento nel “modo più positivo possibile”, sottolineando che si tratta di un reato di poca importanza e con blande conseguenze penali.

Per gli invischiati il problema sarà, viceversa, quello di difendersi da una situazione di attivazione emotiva insopportabile quale sarebbe quella che vivrebbero nel dare al minore comunicazioni faticose e spiacevoli. Il creare una condizione di stress e sofferenza per chi è insicuro ed iperattivato emotivamente, risulta essere estremamente pericoloso e contrapposto al bisogno di essere rassicurati sulla continuità della relazione col bambino (farlo soffrire, farlo arrabbiare è vissuto come un rischio imponente di rottura del rapporto). È ben presente, a chi scrive, le non rare volte in cui la sottolineata necessità di informare il bambino su quanto gli stava accadendo ha provocato vere e proprie reazioni di panico nei colleghi che la ricevevano.

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Protagonista di una situazione simile è Giuliana una intelligente educatrice che, di fronte alla prospettiva di essere lei ad informare la piccola Lucia di 5 anni del fatto che la madre non è disponibile a riprenderla in casa con sé scoppia in lacrime ripetendo: “non posso, non posso”. Un nodo teorico: il lavoro sulle difese.

I problemi e le difficoltà sottolineati si ripresentano in maniera più accentuata e particolare quando si passa dal livello informativo a quello dell’elaborazione. Quando, cioè, l’intervento assume una valenza “clinico-terapeutica” assai più precisa ed importante. Anche se non va sottovalutato l’effetto benefico e strutturante operato da un’informazione chiara ed empatica effettuata da una figura significativa per il minore11, non di rado il fornire spiegazioni e chiarimenti, all’interno di una relazione continuativa e rassicurante, non è sufficiente. In questi casi, va garantita la possibilità di un percorso di approfondimento ed elaborazione specifico.

È chiaro che quanto sostenuto fino a questo momento si basa su di un assunto che, a questo punto, è bene acclarare in modo più esplicito. Il mio convincimento è che l’azione d’informazione e riflessione che l’operatore conduce con il bambino deve, ovviamente, tener conto della sua “disponibilità” a confrontarsi con una realtà dolorosa, ma non può ritenere tale disponibilità necessaria alla trattazione di determinate tematiche. In altre parole non è corretto attendere che sia il bambino a proporre di affrontare certi argomenti difficili della sua storia (passata ed attuale), né che vi sia da parte sua il consenso (implicito o esplicito) a che sia l’operatore a farlo. Ne consegue che l’azione dell’operatore sarà improntata ad una garbata direttività, “obbligando”, in modo empatico ed accogliente, il minore a riflettere sugli aspetti importanti della sua storia, sostenendo un processo di significazione corretta. È noto che vi sono psicologi e psicoterapeuti che non condividono tale impostazione, ritenendola poco rispettosa del minore e controproducente sul piano clinico, in quanto avrebbe l’effetto di rafforzare proprio quelle difese che si vorrebbe eliminare o, quantomeno, ridurre. Pur comprendendo le ragioni di tale approccio, ritengo che i rischi e le controindicazioni derivanti

11 È particolarmente indicativo di ciò il caso, frequente, di bambini in carico ai servizi

che chiedono ai loro ignari e sbalorditi compagni come si chiama la loro assistente

sociale! Come se tutti i bambini ne avessero una, a conferma di una relazione sentita

come significativa ed importante.

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da un mancato o riduttivo o falsificato confronto del minore con la sua storia siano enormemente più elevati. Probabile, infatti, sarebbe lo strutturarsi di un assetto di personalità basato su meccanismi di scissione e negazione profondi, assai più difficili da modificare in età adulta. Quindi, con la cautela e la gradualità necessari, è opportuno procedere incisivamente nell’accompagnare il bambino a rivisitare la sua vita, consapevoli che un prolungato silenzio su aspetti importanti di essa, ancor quando venisse attuato sulla base di consistenti ragioni teoriche, risulterebbe agli occhi del bambino (che tali teorie ignora!) un implicito e potente avallo alla sua “scelta” di non affrontare i nodi problematici della sua esistenza. È quanto ha fatto, con ammirevole continuità Michela, psicologa del servizio minori di un comune del centro Italia, nel seguire Luca e Rosa due fratellini di 7 e 4 anni, in affido familiare. I bambini appartengono ad un nucleo familiare disgregato, hanno il padre tossicodipendente e la madre, Dolores, che vive di espedienti, che le causano frequenti ingressi in carcere, e ha avuto altri 4 figli con diversi uomini. L’affido viene avviato durante la carcerazione della mamma con la prospettiva che i bimbi avrebbero potuto ritornare a vivere con lei se la stessa, scontata la pena, si fosse adoperata per avere una organizzazione di vita adeguata all’esigenze dei figli. In realtà, una volta libera, la signora rimane di nuovo incinta e riprende la sua solita vita, vanificando tutti i tentativi messi in atto per aiutarla a occuparsi positivamente dei minori.

Nel corso degli incontri con Luca e Rosa, organizzati con cadenza regolare, la psicologa ha costantemente spiegato ai bambini, con parole semplici ma veritiere, quanto via via accadeva ai loro problematici genitori. Nel corso di questo accompagnamento, protrattosi per oltre due anni, non sono mancate le fasi, soprattutto all’avvio, in cui i piccoli dimostravano di non voler parlare con lei che, come riferivano agli affidatari, “ci racconta sempre cose brutte”. La perseveranza e la disponibilità emotiva di Michela, che non si è fatta scoraggiare dalle comprensibili resistenze dei bambini, hanno avuto un progressivo riscontro positivo. I bimbi non solo hanno acquistato piena fiducia in lei, identificandola come un referente importante e affidabile (“perché dice sempre la verità”, come sottolineato da Luca), ma hanno potuto acquisire una sempre maggiore serenità rispetto alla loro situazione familiare riuscendo ad esprimere agli affidatari i timori e la sofferenze causate dalle problematiche della madre, diminuendo notevolmente i sintomi e le difficoltà relazionali che prima li caratterizzavano. Il bisogno di sapere e capire, che covava profondo dentro di loro, nonostante non lo manifestassero apertamente, si è gradualmente espresso attraverso domande sempre più precise rivolte all’operatrice, che gli aveva intelligentemente proposto di tenere un quaderno su cui scrivere,

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negli intervalli tra un incontro e l’altro, quanto volevano sapere della loro famiglia e della loro storia e sul quale lei stessa faceva scrivere ai bambini le risposte che restavano così costantemente fruibili. Tanto è diventata significativa la figura di Michela, per questi bimbi, che uno dei loro giochi ricorrenti è quello “dell’affido” che consiste (secondo la descrizione da loro fatta all’incredula affidataria), in una mamma, un papà e diversi bambini (gli affidatari hanno due figlie) e ogni tanto arrivano gli operatori a vedere come vanno le cose! Seppure diverso per qualità e setting dell’intervento, quanto qui sostenuto trova una sua validità anche nel caso di uno specifico trattamento psicoterapeutico a favore del minore. Infatti, l’assunzione, da parte del terapeuta di un approccio “attivo” nel contesto clinico, che incoraggi il bambino al confronto con la propria storia, è particolarmente indicato quando l’operatore è a conoscenza di esperienze traumatiche vissute dal soggetto che suscitano in lui profondi vissuti di vergogna e disvalore, sempre ricorrenti, ad esempio, nelle piccole vittime di abusi sessuali. Ebbene, in tali casi è ancora più normale che il minore possa presentare significative resistenze a confrontarsi con esperienze tanto sfavorevoli e stigmatizzanti della sua vita, percepite come elementi negativi costitutivi della propria identità. Ma ancora una volta non sarebbe di aiuto lo psicologo che avallasse queste comprensibilissime resistenze, evitando di far entrare nella relazione con il bambino i fatti che tanto dolorosamente lo hanno colpito. Certamente con il termine attivo non si vuole indicare un approccio “aggressivo” e/o poco rispettoso dei vissuti e delle difficoltà del soggetto. Quanto la convinzione che, procedendo con cautela, garbo e gradualità, l’esplicitazione di ciò che è interno, nascosto ed indicibile, costituisca un fattore di enorme valore per la salute psicologica. Purtroppo non è infrequente il caso di bambini e adolescenti (e adulti, ovviamente) che nel corso di lunghissime terapie individuali non sono mai stati aiutati a parlare in modo diretto delle gravi esperienze traumatiche esperite, pure quando queste erano conosciute dal terapeuta! È quanto accaduto a Carlos un bel ragazzino di 11 anni adottato in Brasile. Prima dell’adozione Carlos ha conosciuto condizioni di vita particolarmente difficili, sperimentando varie situazioni d’abbandono, violenza fisica e psicologica. In particolare è stato vittima di ripetuti episodi di abuso sessuale perpetrati da familiari e non. Arrivato in Italia all’età di 5 anni è stato avviato, compiuti i sette, ad una psicoterapia individuale. Ebbene, nel corso di 4

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anni di trattamento, cadenzato da sedute bisettimanali, in nessuna occasione il tema del suo drammatico passato è stato trattato negli incontri con la psicoterapeuta!

Casi come quello di Carlos c’impongono di chiederci quale consapevolezza possa avere il bambino degli eventi importanti della sua vita e come possa connettere questi con vissuti, pensieri e comportamenti che, ancora oggi, tanto lo disturbano se nessuno lo aiuta a “ricucire” parti di sé così frammentate. Inoltre, quale significato può aver dato al silenzio tenuto dalla terapeuta su fatti così importanti della sua storia.

È evidente che alla base di un siffatto approccio terapeutico non vi è soltanto la

personalità del terapeuta e il suo specifico stile di attaccamento. Il percorso formativo seguito e l’adesione ad un determinato approccio teorico rappresentano, ovviamente, un fattore di grande rilievo. Sappiamo bene, ad esempio, che i paradigmi a matrice psicoanalitica centrano la loro attenzione prevalentemente sulle dinamiche intrapsichiche attribuendo poca o nessuna importanza alla realtà fattuale presente e/o passata. Ciò accade soprattutto nel contesto di trattamento, nel senso che non viene negata la significatività di determinati eventi del passato nell’eziologia dei disturbi del paziente ma, paradossalmente, a questi eventi nessuna attenzione specifica viene dedicata nel corso della terapia.12

È esemplare, a questo proposito, il caso di Luigi un ragazzino di 13 anni che ha dovuto assistere, in molte occasioni, alle percosse perpetrate dal padre sulla madre. Nel corso delle riunioni di equipe il suo terapeuta dichiarava di essere senz’altro d’accordo nel qualificare queste esperienze come estremamente rilevanti nell’insorgenza dei numerosi disturbi di condotta manifestati dal minore, ma nel corso del trattamento terapeutico con lui di queste vicende non faceva nessuna menzione!

12 D'altronde va ricordato che l’importanza attribuita alla realtà “concreta” è una questione teorica

importante ed antica tanto da essere stata una delle prime motivazioni della presa di distanza di

Bowlby dalle formulazioni teoriche di M. Klein al British Psychoanalytic Institute (Bretherton, 1995).

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L’attenzione al contesto relazionale di appartenenza. Quanto sostenuto fino a questo momento è stato riferito al minore come individuo autonomo a prescindere dalla sua famiglia di origine. È evidente che non è assolutamente ragionevole parlare con il bambino senza tener conto di ciò che pensano e dicono i suoi genitori e gli altri familiari significativi (fratelli, sorelle, nonni, zii, ecc.). In generale è opportuno cercare di costruire con essi il massimo consenso possibile sulle comunicazioni che dovranno essere date al bambino. Tale obiettivo è particolarmente importante, sia perché riduce il rischio di messaggi contraddittori provenienti da figure comunque autorevoli (operatori e familiari), sia perché rinforza in modo potente l’efficacia dei messaggi e delle interpretazioni che gli operatori hanno valutato corretto proporre al minore. Va tenuto conto che questa costruzione di consenso richiede, solitamente, un congruo investimento di energie ed una certa (contenuta) disponibilità dei professionisti a negoziare. È opportuno avere molto chiara l’importanza del lavoro con la famiglia di origine, in quanto non dobbiamo dimenticare la rilevanza psicologica rivestita dai genitori del bambino anche quando questi palesano gravi problematiche personali e deficienze nel prendersi cura di lui. A volte può accadere che gli operatori effettuino una sorta di “rimozione” dei genitori del minore, soprattutto quando costoro sono assenti e/o gravemente incapaci. Va detto con chiarezza che questo approccio rappresenta non solo una grave semplificazione nell’intendere il mondo affettivo del bambino, ma anche un rilevante rischio di danneggiarlo. Infatti, è bene ricordare che la significatività affettiva dei genitori (e, a volte, di altre figure della famiglia) non è certo diminuita dalla loro inadeguatezza e/o assenza!13 Questa consapevolezza dovrebbe portare gli operatori psico-sociali ad investire molte energie nel tentativo di far sì che siano gli stessi genitori, debitamente aiutati, a spiegare al loro bambino, le ragioni delle difficoltà familiari. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che la comunicazione proveniente dai genitori o da altri parenti affettivamente importanti, ha una rilevanza affettiva di gran lunga superiore alla comunicazione proveniente dall’operatore, quindi, nel caso sia sufficientemente corretta, è senz’altro da privilegiare.

13 Questo aspetto è ben noto a quanti si occupano di adozione e conoscono bene il

significato che rivestono i genitori biologici nella vita del figlio adottivo anche quando

questi non li ha mai conosciuti.

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Qualora i familiari (o alcuni di essi) siano attestati su posizioni di conflittualità e diano comunicazioni che divergono significativamente da quelle degli operatori, si dovrà inserire tale stato di cose nel confronto con il bambino. Manuel è un ragazzino di 12 anni che si trova in una comunità educativa da alcuni mesi a causa delle gravi trascuratezze subite in casa. Il progetto formulato dai Servizi, dopo un’attenta valutazione della realtà familiare, prevede il suo inserimento in affidamento per un periodo di 18/24 mesi. Mentre la madre aderisce al progetto, evidenziando di comprendere la necessità di lavorare sui propri limiti, il padre si attesta su di una posizione di sostanziale negazione e minimizzazione delle difficoltà familiari, dichiarandosi totalmente contrario all’affido. Nel comunicare il progetto a Manuel l’assistente sociale e la psicologa, dopo avergli chiaramente illustrato, con esempi a lui chiari, l’origine e le caratteristiche delle problematiche familiari e il progetto pensato per lui, lo informano della contrarietà paterna spiegandogliene le ragioni e anticipandogli che quando incontrerà il padre questi gli esprimerà sicuramente la sue rimostranze sull’affido. Inoltre, lo rassicurano sul fatto che lui sarà aiutato dagli educatori della comunità a gestire le pressioni paterne. Ulteriore elemento da considerare con attenzione è la situazione in cui il minore si trova e il sostegno che può essergli garantito da altri adulti di riferimento. Se egli permane all’interno della sua famiglia di origine in una realtà particolarmente difficile e stressante, il percorso di presa di coscienza ne risulterà fortemente limitato e, comunque, si dovrà fare attenzione a come le informazioni e le significazioni offerte dall’operatore impattano nelle sue relazioni quotidiane con i familiari. Se si trova in una comunità educativa il contesto protetto facilità l’informazione e l’accompagnamento ed una parte di lavoro può vedere coinvolti gli stessi educatori della comunità. Quando il minore è in affido

Ancora diverso è il caso in cui il bambino si trovi in affido familiare. In tal caso, infatti, vanno considerati due ulteriori aspetti che lo rendono particolarmente esposto ai rischi fin qui discussi:

Sappiamo che i bambini collocati in affidamento hanno, solitamente, situazioni familiari molto difficili da vivere e da capire, quindi sono particolarmente bisognosi di essere aiutati a non perdere per strada parti significative di sé.

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Inoltre, l’affido familiare, se non correttamente gestito, può enormemente facilitare l’uso di meccanismi di difesa improntati alla scissione ed alla negazione. Ciò è dovuto al fatto che esso fornisce al minore un nuovo contesto di vita (nuova famiglia, nuova scuola, nuovi amici, ecc.), rendendogli molto “appetibile” e facilmente percorribile il “far finta” che le problematiche che gravano sulla sua famiglia di origine non esistano o siano molto differenti da come si configurano nella realtà14. In altre parole egli può, abbastanza agevolmente, “raccontarsi” una storia diversa da quella vissuta, negando, minimizzando, idealizzando, spesso con la ingenua approvazione degli affidatari (o addirittura degli operatori) contenti di vedere il minore non “afflitto” dal suo passato, ma anzi “sereno” e libero!

Marina ha 9 anni e si trova in affido da tre senza aver alcuna prospettiva di rientrare nella propria famiglia di origine a causa della grave, cronica, condizione di tossicodipendenza di entrambi i genitori, che vivono da molti anni rubando e spacciando. Le informazioni sulla sua situazione familiare sono state sempre molto carenti da parte tanto degli operatori che dei familiari, tutti concordi nel ritenerla troppo piccola per capire (!). Non stupisce quindi che, in un tema fatto a scuola, Marina scriva: “ora mi trovo con Giorgio e Loretta (gli affidatari), perché i miei genitori devono lavorare per comprare una nuova casa, ma poi quando avrò finito le elementari, tornerò a stare con loro e andremo tutti nella nuova casa”. Quando la bambina racconta, con tono gioioso, il tema a casa gli affidatari rispondono confermando questa convinzione, raccontando, casualmente, l’episodio al gruppo di sostegno, solo alcuni mesi dopo che si è verificato. Purtroppo non è raro che nei casi di affido, coscientemente o per inerzia, gli operatori perdano qualsiasi interlocuzione significativa con il minore, lasciando che siano altri soggetti, gli affidatari o i familiari, a divenire gli adulti di riferimento credibili e connotati affettivamente. In questi casi accade che nessuno parli con il bambino oppure che questo delicato compito venga assunto dagli affidatari sia perché è a loro che il piccolo rivolge i suoi interrogativi, sia

14 Chiaramente non si vuol minimamente mettere in discussione l’utilità e la validità

dell’affido che è, a mio giudizio, uno strumento di grandissimo valore etico e di

insostituibile efficacia educativa e psicologica. Ciò non toglie che, come tutti gli

interventi sofisticati, anche l’affido, se non correttamente gestito, presenta delle

specifiche controindicazioni.

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perché gli stessi operatori li incoraggiano in tal senso. Ebbene, tale situazione è assolutamente da evitare, in quanto gli affidatari sono le persone meno indicate per informare e confrontare il bambino con la sua storia. Ciò per almeno tre motivi:

Essi sono parte in causa della vita del bambino, molto esposti nei suoi confronti così come lui nei loro. Sostenere certe verità vuol dire parlare di fatti scomodi, vuol dire dare significato ai comportamenti dei familiari, vuol dire (l’abbiamo detto) provocare dolore, ridurre speranze, ecc.; tutto questo non si concilia con la vicinanza richiesta da una vita in comune tra persone che non hanno tra loro un legame di appartenenza familiare (e magari si conoscono da poco tempo). Inoltre, va considerato che gli “interessi” affettivi degli affidatari potrebbero configgere con quelli del bambino e/o della sua famiglia di origine, portandoli a perdere la serenità indispensabile ad affrontare con equilibrio temi così difficili e dolorosi.

In secondo luogo, si deve tenere conto dell’impatto che avrebbe sulla famiglia di origine quanto detto dagli affidatari. Come reagirebbero i genitori del bambino se lo sentissero dire che gli affidatari gli hanno detto che non è vero che loro sono nella casa del grande fratello, ma in una comunità di recupero per tossicodipendenti? Inoltre, non è raro il caso in cui gli affidatari siano messi duramente alla prova dai comportamenti dei familiari del minore (ritardi agli incontri, telefonate fuori dagli orari concordati, messaggi disturbanti, ecc.), ben difficilmente, in questi casi, potrebbero avere la tranquillità necessaria per parlare di loro al bambino in maniera equilibrata e pacificante.

Infine, gli affidatari possono non padroneggiare gli strumenti psicologici, relazionali e comunicativi adatti a gestire un ruolo così delicato ed emotivamente pregnante.

Quindi, diversamente da quanto avviene nell’adozione in cui i genitori adottivi sono i principali protagonisti nell’aiutare il figlio adottivo a confrontarsi con la sua storia (Chistolini, 2003), nell’affido questo compito non deve essere attribuito agli affidatari. Costoro potranno, utilmente, ribadire valutazioni ed interpretazioni precedentemente fatte dagli operatori, per aiutare il bambino a “ricordare” verità spiacevoli e contrastare successive informazioni

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fuorvianti,15 ma non dovranno, per le ragioni sopra esposte, essere i titolari del delicato processo di informazione e significazione proposto al minore. Nel già citato caso di Luca e Rosa, ad esempio, gli affidatari hanno potuto riprendere in più occasioni le comunicazioni date ai bambini dalla psicologa per rispondere alle loro domande o per correggere ricostruzioni inesatte della loro situazione proposte ora dall’uno ora dall’altro. Ribadire che: “come vi ha spiegato Michela (la psicologa), la vostra mamma non è in grado di tenervi perché non sa rendersi conto bene di ciò di cui avete bisogno, come prepararvi da mangiare, aiutarvi nei compiti, ecc.,…”, oppure “a noi, come ben sapete anche voi, Michela ha spiegato che per ora è meglio non intensificare gli incontri con la mamma per questo e quel motivo…”, o ancora rimandare alla figura dell’operatore per porre domande particolarmente difficili dicendo: “questa è una domanda importante che è bene rivolgere a Michela, perché lei sa come rispondervi”, sono alcuni esempi di una strategia che definisce gli operatori quali interlocutori centrali delle vicende del bambino e della sua famiglia, in possesso di informazioni significative e con un importante ruolo decisionale. Come parlare al bambino: alcuni criteri Nel terminare questo articolo vorrei suggerire alcuni criteri che ritengo possono essere utili nell’affrontare il delicato e fondamentale compito degli operatori di parlare ai bambini ed accompagnarli nel confronto con la loro storia. Dovrebbe essere chiaro, da quanto fin qui sostenuto, che i due principi che devono guidare il nostro agire dovrebbero essere:

quello di dire la verità, in caso contrario non solo non aiuteremmo il minore ma gli faremmo del male.

Quello di costruire una relazione significativa con il bambino, condizione indispensabile per poter svolgere una reale azione di sostegno affettivo.

Relativamente al primo aspetto potremmo chiederci se sia possibile comunicare ai bambini

delle verità dolorose e drammatiche quali quelle che, spesso, caratterizzano i loro fragili genitori. In un mio recente lavoro (Chistolini, 2003) sull’informazione ai figli adottivi, ho

15 S’intende che negli affidi di lunga durata e sine die, il ruolo degli affidatari nel

parlare all’affidato può assumere un maggior peso ma deve essere sempre prudente e

subordinato a quello degli operatori.

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proposto il concetto di “verità sostanziale”, per indicare una modalità comunicativa che informa e spiega in merito alla sostanza degli eventi, omettendo e/o smussando quei dettagli particolarmente cruenti e dolorosi che nulla aggiungerebbero al quadro familiare e, quindi, alla comprensione del bambino. Quello che segue è un breve esempio di comunicazione basata sulla verità sostanziale. Lucia ha 5 anni, viene allontanata da casa ed inserite in un comunità di pronto intervento in seguito al ricovero ospedaliero della madre, dedita all’alcol ed alla prostituzione, gravemente maltrattata da un cliente con cui si era appartata. L’assistente sociale spiega alla bimba quanto accaduto sottolineando che la mamma da tempo ha dimostrato di essere una persona fragile che non riesce a badare correttamente né a lei, né a se stessa e che, quando una persona è fragile, fa spesso scelte sbagliate come bere per sentirsi meglio e procurarsi i soldi per vivere in qualsiasi modo, anche andando insieme agli uomini in cambio di denaro, facendo le cose (abbracciarsi, darsi baci) che fanno i grandi quando si vogliono bene. È probabile che Lucia non comprenda appieno il significato della frase “andare con gli uomini e fare le cose che fanno i grandi quando si vogliono bene”, ma capisce senz’altro il fatto che la mamma ha delle difficoltà, è fragile e non sa prendersi cura di lei. Nel tempo, attraverso successivi incontri, Lucia potrà meglio capacitarsi delle difficoltà materne in un percorso di comprensione progressiva e graduale, dove le informazioni “sostanziali” vengono proposte da subito per essere arricchite nel tempo, in funzione del bisogno del bambino di avere maggiori particolari, sempre omettendo quelli più dolorosi che non cambierebbero l’essenza della situazione (ad esempio, nel caso citato, non viene detto alla bimba che la mamma ha cercato di fuggire resistendo alle forze dell’ordine e ferendo un poliziotto con un coltello).

Nello spiegare la “verità sostanziale” l’operatore dovrà muoversi con attenzione trovando un equilibrio soddisfacente tra la necessità di dire al bambino qual è la realtà della sua famiglia e la capacità di questi di confrontarsi con informazioni dolorose e difficili. Come già spiegato in precedenza sarebbe errato utilizzare solo il secondo aspetto quale criterio per valutare cosa dire. Non sono rari, infatti, i casi di minori che non “vogliono” confrontarsi con la loro difficile storia o attuano una massiccia e fuorviante idealizzazione della stessa. Colludere con questi assetti difensivi, per quanto comprensibili e legittimi, non aiuterebbe il paziente. Quindi sarebbe sbagliato considerare quale unica “bussola” dell’intervento di comunicazione e

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accompagnamento la richiesta di informazioni proveniente dal bambino. D’altra parte altrettanto sbagliato sarebbe non tener conto dei suoi vissuti e delle sue difese: pertanto nei casi di bambini più in difficoltà a confrontarsi con la propria realtà storica e relazionale sarà cura dell’operatore psico-sociale muoversi con garbo, prudenza e, soprattutto, gradualità, senza però perdere di vista la necessità di consentire al bambino di acquisire una “competenza autobiografica” non mistificante la sua storia personale, dunque di dire e spiegare anche eventi che il minore non chiede di conoscere. Il secondo aspetto, la dimensione relazionale, è altrettanto importante e concettualmente prioritario. Nel corso di questo articolo molta enfasi è stata posta sull’aspetto informativo, considerato una variabile importante nel determinare, sul medio e lungo periodo, lo stato di salute psicologica del bambino. Ciò è stato fatto a partire dalla constatazione che, spesso, gli operatori psico-sociali non parlano con sincerità ai bambini della loro realtà familiare anche quando se ne occupano con continuità ed hanno stabilito con loro una relazione non banale. Ho quindi cercato di avanzare una spiegazione di tale stato di cose utilizzando la teoria dell’attaccamento. È però necessario sottolineare con forza che nessun azione di informazione ed accompagnamento potrà avere un efficace effetto strutturante se non sarà collocata all’interno di una relazione significativa instauratasi tra l’operatore ed il bambino. La relazione è, come ci insegna la stessa teoria dell’attaccamento, l’unico “strumento” attraverso il quale si possono trasmettere informazioni ed attribuzioni di significato che risultino essere credibili ed affettivamente congrue. Solo all’interno di una relazione pregnante (nella quale giocheranno una reciproca influenza gli stili di attaccamento dell’operatore e del minore), potrà essere realizzato quel percorso di rivisitazione e riflessione della storia personale e familiare che, in tal modo, non costituirà per il bambino un semplice passaggio di informazioni “fattuali” sulla realtà della sua famiglia, ma rappresenterà un effettivo cammino di comprensione ed elaborazione della propria condizione esistenziale. Per questa ragione l’operatore che potrà più adeguatamente svolgere la funzione di informazione ed accompagnamento del minore andrà individuato non solo e non tanto in funzione del ruolo e della competenza professionale, ma soprattutto in ragione della relazione instaurata con piccolo utente16.

16 La consapevolezza che la qualità della relazione stabilita con lui costituisce un elemento prioritario per

poter aiutare efficacemente il bambino dovrebbe portare gli operatori psicosociali, titolari del caso, ad

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Ulteriori criteri teorico-metodologici possono essere così elencati:

1. Avere piena consapevolezza del fatto che l’informazione e l’accompagnamento al bambino sono due interventi irrinunciabili per tutelarne la salute psicologica e garantirne un adeguato percorso evolutivo. L’assenza di questo intervento rappresenta, “de facto”, un importante messa a rischio della sua integrità psichica. Essere convinto della positività di informare e accompagnare può sostenere l’operatore ad affrontare la sofferenza che, inevitabilmente, provoca al minore; come un buon medico che non ha dubbi sulla necessità pulire una ferita infetta, causando un dolore immediato per un benessere futuro, così il buon operatore psico-sociale parla al bambino per garantirgli una crescita più armonica, anche a costo di provocargli un oggettivo stato di stress.

2. In secondo luogo, ciascun operatore dovrebbe chiedersi cosa pensa e come vive la dimensione del parlare ai bambini di fatti dolorosi, cercando di mettere a fuoco quali personali meccanismi di difesa mette in atto nel gestire questi interventi, riflettendo sul proprio stile di attaccamento e sulle influenze che questo ha nel suo agire. Ovviamente non si vuol suggerire che l’operatore debba modificare

il proprio stile di attaccamento (cosa peraltro complessa ed

impegnativa), quanto piuttosto che ne sia consapevole, conoscendone

l’influenza che questo può determinare nell’intervento di

informazione ed accompagnamento in favore dei bambini. 3. Considerata la difficoltà che comporta il conciliare la comunicazione sincera di verità

dolorose al bambino e la successiva azione di sostegno, con la contemporanea attivazione di risposte consolatorie nei suoi confronti, può risultare utile che questo genere di interventi venga fatto da due operatori attribuendo ad uno il compito di comunicare ed all’altro il compito di rassicurare e consolare (ovviamente senza smentire le comunicazioni del collega). In quest’ottica appare proficua la presenza, durante le comunicazioni difficili, di persone affettivamente significative per il minore quali i genitori o altri parenti, gli affidatari, gli educatori della comunità, ecc.; naturalmente dopo che questi interlocutori siano stati debitamente preparati e se ne sia accertata la volontà e capacità di dare messaggi coerenti con quelli forniti dagli operatori.

impegnarsi attivamente per costruirne una significativa con il minore, conoscendolo ed incontrandolo

regolarmente.

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4. Per svolgere l’importante funzione di aiutare i nostri piccoli utenti a “tenere insieme” le loro difficili storie possono essere d’aiuto l’impiego di alcuni semplici strumenti

operativi. Tra questi citiamo: l’album personale, dove possono essere raccolte foto e riportati eventi, osservazioni e commenti relativi alla propria vita. Oppure il diario, su cui annotare quanto accade ma anche, come nell’esempio di Luca e Rosa, le domande da fare all’operatore e le sue risposte.

Strumenti semplici, quindi, che hanno però una grande efficacia nell’aiutare il bambino ad acquisire un senso di continuità e ad attribuire significati chiari e comprensibili alla propria esistenza.

5. Abbiamo sottolineato che parlare ai bambini ed accompagnarli in un percorso di rivisitazione della loro storia non è possibile in mancanza di una relazione di fiducia e vicinanza emotiva. Ciò presuppone che gli operatori incontrino frequentemente e, soprattutto, regolarmente i minori della cui vita si occupano. L’assistente sociale o lo psicologo che, come delle meteore, compaiono e scompaiono per dire cose importanti che non si collocano all’interno di una relazione significativa, non possono rappresentare per il bambino adulti credibili e degni di fiducia. Ne consegue che per espletare questo compito essenziale è necessario essere presenti ed agire con metodo, lontani dalla logica emergenziale, che molto fa attivare nella fase acuta per poi rivolgersi altrove quando questa è passata.

Mal si concilia al raggiungimento di questo obiettivo il problema, che certo attiene a ragioni di carattere politico-organizzativo ma che non può essere taciuto, rappresentato dall’impressionante turn over che caratterizza molti servizi territoriali causa di gravissimi effetti dannosi: l’avvicendarsi ripetuto di operatori non permette di lavorare con continuità e stabilire rapporti ricchi di significato, aspetti centrali in un agire professionale che ha, nella relazione, il suo strumento privilegiato.

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