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PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE || Udienza 8 marzo 1876, Pres. Ghiglieri P., Est. Salis, P. M....

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Udienza 8 marzo 1876, Pres. Ghiglieri P., Est. Salis, P. M. De Falco —Ric. P. Ministero c. Lattanzio Francesco ed altri (Avv. Bartoccini) Source: Il Foro Italiano, Vol. 1, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1876), pp. 125/126-129/130 Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARL Stable URL: http://www.jstor.org/stable/23081392 . Accessed: 20/06/2014 06:09 Your use of the JSTOR archive indicates your acceptance of the Terms & Conditions of Use, available at . http://www.jstor.org/page/info/about/policies/terms.jsp . JSTOR is a not-for-profit service that helps scholars, researchers, and students discover, use, and build upon a wide range of content in a trusted digital archive. We use information technology and tools to increase productivity and facilitate new forms of scholarship. For more information about JSTOR, please contact [email protected]. . Societa Editrice Il Foro Italiano ARL is collaborating with JSTOR to digitize, preserve and extend access to Il Foro Italiano. http://www.jstor.org This content downloaded from 62.122.73.250 on Fri, 20 Jun 2014 06:09:27 AM All use subject to JSTOR Terms and Conditions
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Udienza 8 marzo 1876, Pres. Ghiglieri P., Est. Salis, P. M. De Falco —Ric. P. Ministero c.Lattanzio Francesco ed altri (Avv. Bartoccini)Source: Il Foro Italiano, Vol. 1, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1876), pp.125/126-129/130Published by: Societa Editrice Il Foro Italiano ARLStable URL: http://www.jstor.org/stable/23081392 .

Accessed: 20/06/2014 06:09

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125 GIURISPRUDENZA PENALE 126

Nap., 503 del Cod. G., 685 del Cod. Sard., 406Cod. Tos.

e fallar non deve l'applicazione, che nei casi eccettuati

in contraria espressa disposizione. Non è poi flagrante la contraddizione che il furto qua

lificato dai giurati per il valore, per eccedere le lire cin

quecento, e ritenuto tale nella sentenza impugnata, in

quella di rinvio e nelle stesse conclusioni della difesa, si

dica poi furto di tenue entità per avere prodotto un

danno inferiore alle lire 25 ? Il valore dell'oggetto non

si misura dal pregiudizio sofferto dal derubato ? E que sto valore dell'oggetto rubato e del danno prodotto non

è una questione di fatto rimessa al giudizio dei giurati ? E quando i giurati pronunciarono che cotesto valore

eccedeva le lire cinquecento, poteva la Corte d'assise at

tenuarlo con altro contrario suo giudizio in fatto? Pos

sono mai ammettersi sulla valutazione dell'importare

e dell'entità del furto due misure contrarie che comu

lativamente si applichino; l'una che gravi la qualità e la pena, e l'altra che sulla stessa circostanza del valore

contemporaneamente ne scemi il peso e diminuisca la

pena?

Potrebbe ciò solo avvenire calcolando il valore in dif

ferenti momenti e sotto diversi aspetti, ma questo non

può farsi per le cose dette e nel caso la valutazione non

spetterebbe ai giudici di diritto sibbene a quelli di fatto. Per queste considerazioni devono accogliersi i mezzi

prodotti dal Pubblico Ministero e devesi perciò annul

lare l'impugnata sentenza.

CORTE DI CASSAZIONE DI ROMA Udienza 8 marzo 1876, Pres. Giiiglieri P., Est. Salis,

P. M. De Falco — Ric. P. Ministero c. Lattanzio

Francesco ed altri (Aw. Bartoccini).

Ricorso per cassazione — P. Ministero — Termini —

Dies a quo — Ribellione — Armi — Minaccia — Ap

prezzamenti di fatto (Cod. prec. pen., art. 651, 654 ; Cod.

pen. it., art. 249, 453).

Nel termine, che l'art. 654 del Cod. di proc. pen. ac corda al P. Ministero, per la notificazione del ricorso in Cassazione, non deve computarsi il giorno della

pronuncia della sentenza, cioè il dies a quo (1). La ribellione è qualificata, tanto se è commessa con armi

proprie, quanto se è commessa con armi improprie,

come forche, bastoni, sassi e simili, purché Vagente se

ne sia servito effettivamente, o come minaccia.

L'apprezzamento del giudice, che le forche, i bastoni e i

sassi, tenuti dall'agente nell'atto della ribellione, non

furono usati neppure come minaccia, quand'anche possa

sembrare illogico, non può andare soggetto a censura

in Cassazione. La Corte, ecc.

Sull'ammissibilità del ricorso. — Considerando che

(1) Questo termine nel Cod. d'i str. crim.fr. non è di rigore,perchè non

è sanzionata alcuna pena di decadenza (Ved. Cass. fr., 29 luglio 1S26>

31 agosto 1833, 2 marzo e 26 maggio 1838 ; Rogron sull' art. 418, Dallozj

Rèpert., voc. Cassation, nn. 125 e seg. Conf. del resto alla sentenza

della Cassaz. di Roma, ved. Cass. Torino, 13 settembre 1871, Ann. di

giurvol. Y, pag. 269.

l'impugnata sentenza, fu pronunciata nel 20 settembre

1873, che nel 22 dello stesso mese il procuratore gene

rale fece nella cancelleria della Corte di appello la di

chiarazione della domanda in Cassazione, che nel suc

cessivo giorno 27 per mezzo dell'usciere della Pretura

di Capestrano fu notificata la suddetta domanda al Lat

tanzio ed al Corazza, parti contro le quali essa era di

retta, al loro domicilio posto in San Benedetto in Peril

lis, distante non meno di quattro miriametri da Aquila,

e nel 28 del mese medesimo il P. Ministero produceva i due mezzi d'annullamento. Donde ne consegue che

tanto nella dichiarazione, quanto nella notificazione e

nella produzione dei motivi furono osservati i termini

della legge. Conciossiachè non sussista la tardività della notifica

zione. La disposizione dell'art. 654 C.P.P. porta che la

domanda in Cassazione fatta dal P. Ministero sarà no

tificata entro il termine di tre giorni, e quando la no

tificazione devesi eseguire fuori la sede del tribunale o

Corte giudicante, il termine sarà aumentato di un giorno

per ogni tre miriametri di distanza; e nel caso concreto

i giorni d'aumento erano due, come la stessa difesa dei

contro ricorrenti ammette.

E principio^ generale ammesso comunemente dalla

dottrina e dalla giurisprudenza, che il giorno dal quale

principia la decorrenza di un termine fissato dalla legge

per l'esecuzione di una formalità ordinata non si conta

nella computazione del termine, eccettochè il legisla

tore chiaramente ed espressamente abbia manifestato

l'intenzione di volerlo comprendere.

Gli antichi la formularono in una regola diventata

volgare : dies a quo prefigitur terminus non computatur

in termino, quando est alias prefixum principium air sui

temporis; cioè quando un testo preciso di legge con spe

ciale e formale disposizione non vi faccia eccezione. Se

condo qualche decisione autorevole, e valenti scrittori

questa regola non cessa neppure nel caso dell'art. 651.

Ma senza entrare in questa questione è ritenuto dalla

comune giurisprudenza, che se in quel caso computa nel

termine il giorno da cui principia la decorrenza, egli è

certo che ciò avviene, perchè il legislatore formalmente

ed espressamente lo ha significato e dichiarato.

Il termine di scadenza ossia il dies ad quem parimente

per regola ordinaria non si calcola, tranne che il legis

latore abbia manifestato la sua intenzione di doversi

contareconunaformola inclusiva, come avviene quando

prescrive che si debba fare un atto entro un termine

determinato, specialmente là dove si tratti di atti di

notificazione da farsi alla persona od al domicilio. E

sempio della formula inclusiva d'entrambi i termini si

ha nella disposizione dell'articolo 651, ed esempio della

formola inclusiva del giorno della scadenza, ossia del

dies ad quem, si rinviene nel disposto dell'articolo 654,

imperocché le parole « entro il termine » che ivi si leg

gono, sono di loro natura inclusive del termine di sca

denza, e dimostrano che il legislatore volle che dies

termini computetur in termino. La formola però adoperata nello stesso articolo 654

è esclusiva del giorno a quo. E lo prova la diversità

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127 PARTE SECONDA 128

della formola usata nell'art. 651, rispetto alla compu tazione del dies a quo. Onde appare che il legislatore

quando voluìt, dixit. Nè Yale l'argomento d'analogia tra l'una e l'altra disposizione. Imperocché le decadenze

hanno un carattere spiccato di penalità, e perciò rice

vono stretta anziché estensiva interpretazione, massi

mamente in materia criminale, nella quale la legge

più che in materia civile si è mostrata avara d'ammet

tere le decadenze. La disposizione dell'art. 651 sn que sto rispetto è eccezionale, ed è massima che quod con

tra rationem juris introductum est non potest producen

dum ad consequentias. Manca anche l'identità di ragione tra le due surrife

rite disposizioni, perocché quanto conveniva abbreviare i

termini della domanda in Cassazione, i quali nel caso

dell'articolo 653 sono ristretti a 24 ore ; tanto era con

veniente concedere il tempo necessario da poter farsi

dall'usciere o dal cancelliere la notificazione della do

manda, per non rendere illusoria la consentita facoltà

di ricorrere. Taluno aveva detto che i termini dell'arti

colo 651 si identificavano e coesistono con quelli del l'art. 654: evidente errore che fu debellato dall'autorità

delle Corti supreme. Ma questo vinto, sorge ora un'al

tra opinione che i termini dell'art. 654 sono una conti

nuazione di quelli dell'art. 651, e siccome in questi si

computano il dies a quo ed il dies ad quem, così deve lo

stesso osservarsi nel caso dell'art. 654. Ma questa opi

nione non deve accogliersi, imperocché convenga consi

derare che i due termini sono bensì successivi distinti

però e separati, e non continuati. Possono dirsi conti

nuati i termini ordinari ed i termini d'aumento e di

grazia ; non possono però reputarsi tali due termini or

dinati per l'eseguimento d'atti totalmente diversi, e

che si devono compiere da persone diverse, in luoghi e

tempi diversi e con modi diversi. Da queste considera

zioni consegue che il ricorso del procuratore generale

presso la Corte d'appello d'Aquila è ammissibile ; nè

sussistono le ragioni contrarie addotte dalla difesa dei

Lattanzio e compagni. In merito. <— Sui mezzi 1° e 2° del P. Ministero. Attesoché nella motivazione della sentenza impu

gnata non si pose mente all'ampia significazione della

parola arma, la quale derivando da armus braccio,

comprese anche il braccio, prima arma dell'uomo.

Dipoi i giureconsulti romani (L. 3, § 2, Dig. De vi et vi armata ; 1, 41) dissero: arnia sunt omnia tela, hoc

est, et fustes et lapides, non solum gladii, hastae, fra

meae, id est, romphaeae. Odiernamente gli art. 101 Cod.

fr.,334 Cod. tos., 494 Cod. sard.,453vigente Cod.it. con siderano armi le macchine da fuoco e tutti gli istrumenti,

utensili o corpi incidenti, o perforanti, o contundenti, come forbici, coltelli da serrare, sassi, canne e simili.

Dal che si rileva che le forche, i bastoni ed i sassi hanno

non solo la parvenza, ma anche la qualità e la natura

d'armi. Gli è vero che le armi sono di diverse specie. Vi sono quelle che sono destinate ordinariamente alla

offesa, destinazione che le rendo più pericolose ed odiose, onde o n'è sempre proibita la ritenzione, o vietato al

meno il porto ; e per ciò chi ne è delatore nell'atto che

commette qualche crimine, è presupposto esserne armato

al fine della perpetrazione dello stesso crimine.

Al contrario quelle che non hanno questa principale ed ordinaria destinazione, ma sono stromenti, utensili

ed oggetti d'uso, pressoché d'ordinario non sono soggette al divieto del porto; e potrebbe il malfattore, per esem

pio, un ribelle trovarsi portatore dei medesimi senza

che avesse intenzione di servirsene nell'esecuzione del

crimine; e quindi il semplice porto non può ritenersi

qual circostanza aggravante. Ma non può sostenersi

l'assunto propugnato in una parte delle considerazioni

della denunziata sentenza, cioè che il legislatore, non

intese comprendere i bastoni, i sassi e simili istru

menti nella disposizione dell'art. 249 Cod. pen., anche

quando i ribelli abbiano fatto uso di tali armi, perchè richiede a costituire riunione armata, armi proprie, di

cui sia vietato il porto. Imperocché non solo la legge fece questa distinzione, ma al contrario usò la generale

espressione arma, che ha latissima significazione, come

sopra si è detto, ed ebbe cura di manifestare la contra

ria sua volontà nell'articolo 454 (corrispondente al

l'art 363 Cod. pen. fr. 334 Cod. tos.) statuendo che

« nelle disposizioni del presente Codice (onde la genera lità di questa regola che abbraccia tutte le relative ma

terie del medesimo Codice), ove si parla di fatti ili cui

sono intervenute armi, persone armate, o minaecie a

mano armata, sotto nome d'armi vengono le armi pro

prie e le improprie. Ed è insussistente la ragione per la quale si disse che

questa disposizione non debba applicarsi all' ipotesi

dell'articolo 249, cioè perchè in esse richiede che le

armi siano apparenti, e tali non sono che le armi pro

prie. In verità non è facile cogliere il senso di questo strano concetto. E di facile intelligenza però quello del legislatore, il quale pose le armi apparenti in op

posizione alle armi nascoste (art. 252 Cod. pen.).

Conseguentemente armi apparenti sono quelle che si

fanno vedere, e che si presentano alla vista altrui, e

sono portate palesemente ed alla scoperta. Impertanto armi apparenti possono essere tanto le armi proprie

quanto le armi improprie. Le une e le altre pure si

comprendono nella sezione « Della ribellione» tuttavolta

che il legislatore parlò in generale d'armi o di porto

d'armi, e non restrinse la sua sanzione alle armi proprie od al porto d'armi proibite. L'unica distinzione tra le

armi proprie ed improprie riponesi in ciò, che in questa non basta il semplice possesso o la semplice delazione, ma si ricerca l'uso di essa per uccidere, ferire, percuo tere o minacciare, affinchè si considerino come armi,

giusta ciò che espressamente si dichiara nell'ultimo

capoverso dell'articolo 443 in fine.

Per lo che per essere le persone ribelli costituite in

istato di ribellione armata, se si tratta d'armi proprie basta che ne siano munite all'atto che facevano resi

stenza agli agenti della forza pubblica, nell'esercizio

delle loro funzioni.

Trattandosi però d'armi improprie non basta il sem

plice possesso o porto, ma si richiede che esse persone ne abbiano fatto uso come mezzo alla resistenza ed alla

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ribellione, almeno eon essere armate colla intenzione di

servirsene a tale scopo, e con esse abbiano per lo meno

minacciato ed intimorito gli agenti della forza pubblica. Se questo risulti si hanno gli atti di ribellione armata ;

e quando la Corte d'appello di Aquila, nell'ipotesi che

formò, asseriva il contrario gravemente errava, ed in

questo errore di diritto merita censura.

Se non che ragionando in fatto, comechè abbia asse

rito che i Lattanzio fossero armati di forche, bastoni e

di sassi all'atto della ribellione, disse pure che non fe

cero uso di quelli stromenti nemmanco per minacciare.

E questo un apprezzamento di fatto, che, quand' anche

non fosse logico è incensurabile in sede di Cassazione ;

ed è tale un fatto che fa mancare l'elemento più essen

ziale della ribellione armata ; ed è un motivo che giu

stifica il dispositivo della sentenza, perchè, come si è

detto, le armi improprie non acquistano la qualità d'armi

se non qualora se ne faccia uso per uccidere, ferire,

percuotere o minacciare ; di maniera che neppure quando i ribelli siansi muniti di bastoni, pietre e simili stru

menti al momento che si determinarono a fare resi

stenza, non possono dirsi costituiti in istato di ribellione

armata, se non abbiano fatto uso di tali istrumenti ed

oggetti, come che la opinione contraria abbia l'appog gio d'alcuni arresti di Corti supreme.

In conseguenza, quantunque nell'impugnata sentenza

si riscontrino molte erronee proposizioni meritevoli di

censura, non di meno trovandosi il dispositivo della

stessa sentenza confortato da un motivo non censura

bile, il primo mezzo del ricorso non può essere accolto

e deve rigettarsi. Per le stesse ragioni non è attendibile il secondo

mezzo; perchè anche nell'ipotesi dell'articolo 253 la

riunione deve essere armata, ed armata non può ripu

tarsi per il semplice porto d'armi improprie, se di esse

non si è fatto uso, onde l'ipotesi di quella disposizione

non s'attaglia punto al fatto ritenuto dalla Corte d'Ap

pello, e conseguentemente anche il secondo mezzo deve

rigettarsi. Per questi motivi, la Corte dichiara inammissibile il

ricorso, ecc.

CORTE DI CASSAZIONE DI NAPOLI.

Udienza del 26 gennaio 1876, Pres. Ciampa, Est. Narici

— Hie. del P. Ministero.

Appello — Delitti — Pubblico Ministero — Conclusione

per l'inesistenza «lei reato — Porto d'armi — Per

messo — Anno antecedente (Cod. proc. pen., art. 399; Cod. pen., art. 462).

In materia di delitti il Procuratore del Be presso il tri bunale può appellare dalle sentenze del pretore, quando

anche il Pubblico Ministero presso di questo abbia con cluso per Vìncsistenza del reato. (1)

Non viola la legge il giudice che dichiara inesistente il

reato di porto di arma lunga da fuoco, ritenendo di

averne lo imputato avuto il permesso nell'anno antece

dente, e fatto dimanda pél corrente con favorevole certificato del sindaco.

La Corte, ecc. — Omissis. Osserva nel rito, che censurabile sotto un doppio pro

filo sia la sentenza del tribunale, per avere sconosciuto

la potestà del regio procuratore ad appellarsi dalle sen

tenze dei pretori in materia di delitti, quando anche

il Pubblico Ministero presso i medesimi avesse concluso

per la inesistenza del reato ; e per avere nella formola

terminativa dichiarato inammessibile il gravame, dopo averlo discusso nel merito.

Che manifesto in effetti sia il primo errore ; percioc ché se uno è il Pubblico Ministero, in quanto presso ciascuna autorità giudiziaria rappresenta ugualmente il potere esecutivo, e compie le varie attribuzioni affi

dategli dall'articolo 139 della legge organica, distinto è

nonpertanto gerarchicamente, ed il procuratore gene rale presso ogni Corte di appello esercita nel distretto di essa, siccome il regio procuratore nell'ambito del cir

condario, un'azione direttiva ed una superiore vigilanza

sugli uffiziali del Pubblico Ministero che ne dipendono. Che a prescindere pure da cotesti rapporti gerarchici,

sia mestieri considerare rispetto all'azione penale, come

(1) L'appello in materia di polizia e di contravvenzioni da tutte le

legislazioni è stato molto più ristretto, che in materia di delitti, come si rileva dall'articolo 172 Cod. fr.; 419 delle DD. SS.; 238 Parm,; 343

Est.; 123 regolamento toscano 22 novembre 1849 ; 341 Cod. Sardo 20 novembre 1859.

Lo stesso concetto dominò nella redazione dell'articolo 353 del vi

gente Codice di proc. pen. del 26 novembre 1865. Senonchè un grave errore materiale era occorso nel n° 2 dello stesso articolo copiandolo sbàdatamente dal corrispondente n° 2 dell'articolo 341 del Codice

sardo, secondo il quale la competenza dei giudici di mandamento non si estendeva oltre i reati di polizia. Ma a questo errore fu rimediato col regio decreto del 4 febbraio 1866.

Giusta l'articolo 353 l'appello dei pretori, dacché furono estese le loro attribuzioni, fu regolato dalla materia su cui il pretore procede* Se il titolo dell'imputazione costituisce un delitto, la facoltà di ap pellare è assoluta e senza restrizione, qualunque sia la pena pro nunciata, correzionale o di polizia, personale o pecuniaria, sia che

abbia provveduto sopra declinatoria del foro, o sopra un'eccezione

perentoria o pregiudiziale. Quando però si tratta di contravvenzioni, in primo luogo non avvi

appello se il pretore abbia provveduto sopra qualche eccezione de clinatoria o perentoria; in secondo luogo la facoltà di appellare trova

delle restrizioni, pel condannato nel genere di pena inflitta se fosse

pecuniaria; pel Ministero pubblico nel tenore delle conclusioni ove fossero state conformi alla sentenza resa; e per la parte civile, nella

quotità della domanda per danni. Notiamo bensì, che le norme gene rali segnate nell'articolo 353 ricevono modificazione nell'articolo 621, ed un'eccezione nel caso dell'articolo 394, ove si tratta di reato di

competenza del pretore portato avanti il tribunale correzionale, sen

zachè le parti abbiano chiesto il rinvio. In questo caso la sentenza

del tribunale è sempre inappellabile, perchè la legge credette ne

cessario semplificare i gradi di giurisdizione, e reputò sufficiente

guarentigia il giudizio reso dal tribunale superiore che sarebbe stato

il giudice d'appello. E ciò ha luogo, quando anche lo imputato fosse

stato contemporaneamente giudicato sopra un delitto di competenza ordinaria dello stesso tribunale, e di un reato di competenza del pre tore. La sentenza per quest'ultimo resta inappellabile, comecché la

medesima possa ammettere appello in quanto ha tratto al delitto di

competenza del tribunale. Cass. fr. 10 luglio 1836, 4 agosto 1832,14 ot

tobre 1841, 4 agosto 1826 e 24 aprile 1829.

Pertanto, eccettuati i casi contemplati nei citati articoli 621 e 394, il Ministero pubblico, trattandosi dell'imputazione di un delitto di

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