Date post: | 27-Jan-2015 |
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Università degli studi di SassariFacoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea Specialistica Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo
Produzione e diffusione di narrazioni mediali
Prof. Fabio Di pietro
Quando la paura non deve far paura
Relazione di: Francesco Sardu
Matricola: 30026571
Anno Accademico 2007 / 2008
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Indice
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
Il personaggio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
La paura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8
Dalla paura metafisica a quella politico sociale . . . . . . . . . . . . . . 12
Politica della paura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14
Il ruolo dei media nella creazione della paura . . . . . . . . . . . . . . . . 16
Il nuovo mostro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18
Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
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Introduzione
“La più antica e potente emozione
umana è la paura,
e la paura più antica e potente
è la paura dell’ignoto.”
Lovecraft
Questo saggio mi ha offerto un’ opportunità che non potevo di certo farmi sfuggire.
Dopo anni passati a fantasticare (considerati da molti come inutile perdita di tempo o
peggio come devianze di qualche disturbo mentale), ora posso pensare di elaborare
alcune mie considerazioni su quella che viene definita industria culturale.
Tutti noi abbiamo più o meno coscienza di cosa si tratti e di sicuro nessuno si può
astenere dall’influenza che i prodotti di questa industria hanno nella vita di ognuno.
Basta fare dei piccoli esempi, come pensare ad un super eroe: scommetto che la
maggior parte delle persone lo immagini come un individuo di razza bianca caucasica,
alto muscoloso ecc; questo perché da Superman a Batman passando per Indiana Jones,
lo stereotipo dell’eroe è sempre lo stesso. Ora continuate a pensare che i prodotti
mediali non influenzino la nostra vita? Soprattutto l’immaginario, la nostra parte più
intima, altro non è che solo il prodotto di una costante influenza dell’industria culturale.
Detto così sembra una cosa spaventosa, ma non c’è nulla di cui aver paura. Siamo
quello che siamo grazie al continuo sommarsi di immaginari che si rinnovano in ogni
epoca. Studiosi come Edgar Morin, Roland Barthes e Umberto Eco, hanno più volte
individuato un tratto di forte congiunzione tra i miti antichi e le mitologie moderne
prodotte dall’industria culturale. La creazione di miti moderni, nati in relazione
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all’avvento della folla metropolitana e delle sue forme di credenza “superstiziosa”
affonda le sue radici nelle paure dell’esperienza umana.
Per esempio fin da quando ero bambino sono sempre stato affascinato dai mostri,
racconti horror, esoterismo ecc. L’elemento comune tra tutte queste cose è di sicuro il
sentimento di paura che questi argomenti suscitano, ma la paura è sempre esistita,
mentre le rappresentazioni fornite dall’industria culturale si sono evolute nel tempo.
Attraverso questo saggio vorrei partire dalla descrizione del fumetto di Dylan Dog, che
tratta appunto il tema dell’ignoto, incubi e soprannaturale, per capire come la paura, al
di là delle epoche, abbia sempre il suo fascino nell’immaginario umano anche in questa
epoca dove tutto può essere scientificamente spiegato. Rispondendo alla domanda su
quanto il nostro immaginario sia il frutto della produzione mediale, posso raccontare
una mia esperienza personale. Mentre stavo a Londra, ho pensato bene di visitare
l’indirizzo di Dylan Dog a Craven road n°7, sperando almeno di trovare un mini-museo,
invece ho scovato una semplice paninoteca; la sorpresa consiste nel fatto che, molte
persone prima di me avevano tentato invano la stessa missione!
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Il personaggio
Creato da Tiziano Sclavi, Dylan Dog è il più celebre protagonista di un fumetto horror
italiano. Le sue avventure hanno infatti alternato l'orrore tradizionale con numerosi
"omaggi" ai mostri classici (Frankenstein, l'Uomo Lupo, Dracula e tanti altri), fino allo
splatter moderno dei film di Dario Argento e George Romero. Con questi ingredienti,
sul finire degli anni ’80, è esploso il “fenomeno Dylan Dog”, diventato il fumetto più
venduto in Italia. La differenza più rilevante rispetto ai precedenti fumetti horror, stava
nel focalizzare l’orrore quotidiano, ancora prima dei mostri veri e propri; come la follia
che si nasconde dietro la faccia bonaria del vicino, oppure l’impossibilità di essere se
stessi in un mondo che accresce ogni giorno l’angoscia interiore, pur negando
l’esistenza del male. Il lettore capisce così di trovarsi sotto gli occhi la realtà, e non un
fittizio universo cartaceo, lasciarsi trasportare in queste avventure è quindi più facile.
Per quanto riguarda il successo dell’horror da un punto di vista estetico, cito il saggio di
K. Rosenkranz, “Estetica del brutto”, l’autore spiega che l’attrazione per il brutto non è
che un aspetto della patologia generale della società, il riflesso deformato dei conflitti
che avvelenano l’esistenza sociale.
Dylan Dog è un detective che si occupa esclusivamente di casi insoliti in tutte le
sfumature del termine. Ha poco più di trent’anni, è inglese e vive a Londra. La figura
dell’investigatore è la trasformazione del flaneur baudelairiano che aggirandosi nella
folla della metropoli, la osserva con distacco ma ne subisce il fascino. Il detective
rappresenta secondo Kracauer la razionalità scientifica industriale di fronte alla
complessità del vissuto metropolitano. A causa di un’eccessiva razionalità, la città
nell’era romantica diviene luogo di fantastiche avventure.
Dylan Dog ha un passato misterioso di cui si sa ben poco, e anche quel poco è avvolto
dal mistero, gli unici ricordi della sua infanzia vengono portati alla luce attraverso il
sogno o allucinazioni oniriche. Non a caso gli incubi sono i suoi interessi personali e
professionali e i suoi clienti, sono persone comuni che hanno avuto esperienze
inspiegabili e soprannaturali.
La passione per il suo lavoro non riguarda il prestigio, perché gode di pessima
reputazione e neppure l’aspetto economico, infatti non riesce mai a pagare regolarmente
l’affitto.
È la paura ad affascinarlo, la paura dell’irrazionale, dell’inspiegabile, dell’ignoto.
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Egli stesso è il primo a provare paura, per questo non lo si può definire il classico eroe
invincibile, a volte non riesce neppure a risolvere il caso ma, non per questo, lo si può
considerare un anti-eroe uscito dalla penna di Bukowsky. Dylan Dog è semplicemente
un uomo, dal momento in cui non rifiuta l’ignoto ma tenta di penetrarlo e comprenderlo,
in nome della ricerca e della verità, diviene come l’ Über-Mensch di Nietzsche, in
quanto spirito libero che rompe gli schemi delle superstizioni.
Nonostante questo, nonostante viva in una realtà dove tutto può succedere, “incarna”
tipiche caratteristiche dell’uomo comune di questa epoca: impulsivo, problematico,
pieno di dubbi, forte e tenero nello stesso tempo, rappresenta quindi caratteristiche del
tutto comuni dell’uomo contemporaneo. Le sue paure, le sue pulsioni o fantasie sono
quelle di tutti.
Altre caratteristiche invece sono più particolari: per spezzare un po’ con il contesto
violento del fumetto, gli autori, hanno pensato di rendere Dylan Dog vegetariano e
pacifista (ma anche Hitler era vegetariano, quindi non vuol dire nulla). Ho notato
comunque che nel fumetto, forse per accontentare più lettori, Dylan Dog appare
incongruente. Egli risolve i suoi casi ricorrendo alla violenza, ma lo si descrive come
pacifista; in quasi ogni numero ha una relazione con la coprotagonista di turno, ma non
è un seduttore, lo fa solo per amore! (io sostengo che lo faccia per altri motivi). Inoltre è
anche ecologista e animalista accanito. Forse, queste caratteristiche gli sono state date
per consentirgli di essere vettore di una certa morale, perché in passato era stato indicato
come fumetto diseducativo.
A parte queste mie considerazioni, il personaggio è ben costruito per fare presa
nell’immaginario di tantissimi lettori che possono così trovare diverse soluzioni di
immedesimazione con il protagonista. Altre caratteristiche particolari sono la sua
passione per la musica, suona il clarinetto, il suo motivo preferito è il “Trillo del
Diavolo” di Tartini; inoltre si occupa di collezionismo e modellismo. Il collezionismo
privato mette in luce le componenti di un forte individualismo, di pulsione personale a
possedere l’oggetto, simile ad una coazione a ripetere che lega l’esperienza alla paura
della morte. Dal primo numero lo si vede impegnato nella realizzazione di un galeone
che forse mai finirà. Nel fumetto il “galeone” è un elemento chiave che svela le vere
origini del protagonista, il galeone infatti rappresenta il mezzo di trasporto che unisce il
mare alla terra ferma. Il mare inteso come elemento non stabile ossia il mondo
fantastico da cui proviene il protagonista, e la terra ferma invece il mondo tangibile
dove egli vive. Il luogo reale in questione è Londra, una metropoli che rappresenta lo
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spazio profano, luogo di caos e consumo, dove il bene e il male convivono
quotidianamente. La scelta di Londra non penso sia casuale, per esperienza personale,
ritengo questa città e la cultura anglosassone in generale l’esempio calzante di
contraddizione e dicotomie. A Londra esiste una perenne armonia tra passato e futuro,
lo si vede subito nell’architettura, ma soprattutto tra le tradizioni e le innovazioni
trasgressive, questi elementi trovano un perfetto equilibrio all’interno del tessuto
urbano; offrendo un luogo ideale per le storie del fumetto.
In Dylan Dog c’è un’altissima concentrazione di dispositivi intertestuali, che fanno
riferimento non solo alla letteratura e al cinema, ma anche alla pittura e alla musica. Ciò
che emerge è soprattutto l’intertestualità come pratica di trasformazione dei testi,
rivisitazione di classici, e variazione parodica.
L’universo di Dylan Dog è popolato da immagini orripilanti, ma è anche continuamente
attraversato da una vena di umorismo.
Il fumetto non è solo il prodotto finale di un ricco sistema intertestuale, ma ne è
elemento integrante; a sua volta, quindi, lo modifica e lo influenza. Per esempio basti
pensare alla trasposizione cinematografica in Dellamorte Dellamore oppure alla figura
della morte, interamente riprodotta dal film di Bergman “Il settimo sigillo”.
Oltre ai classici mostri “cattivi”, come vampiri, zombie e licantropi, nelle avventure di
Dylan Dog esistono anche altre tipologie del mostro, considerato come il diverso,
l’emarginato, spesso vittima lui stesso della paura e quindi dell’odio da parte delle
persone “normali”. L 'atteggiamento di “Dylan” nei loro confronti è un altro punto di
forza della serie: molto spesso infatti più che combattere il mostro, cerca di
comprenderlo e compatirlo.
I riferimenti cinematografici principali sono "Freaks" di Tod Browning (1932) e "The
Elephant Man" di David Lynch (1980). Molto spesso i racconti dell’orrore,
costituiscono un pretesto per affrontare temi di attualità: violenze quotidiane, le
emarginazioni e l’odio per il “diverso”. Anzi se si guarda la realtà con occhio cinico,
spesso ci accorgiamo che l’orrore vero supera la fantasia.
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La paura
La paura è una sensazione, o reazione istintiva che ha sempre accompagnato l’uomo sin
dalla notte dei tempi. Delle paure si è detto e scritto molto, ma la paura si evolve, si
trasforma si deforma. Per questo motivo ritengo sia un argomento sempre attuale, ma
soprattutto molto “democratico” in quanto tutti l’hanno provata almeno una volta nella
vita. Jean-Paul Sartre ha scritto: “Tutti gli uomini hanno paura. Tutti. Chi non ha paura
è un anormale. E tutto questo non ha niente a che vedere con il coraggio”. Infatti come
detto prima, il protagonista del fumetto, ha paura. Anche se vive in un mondo
paranormale, prova i nostri stessi sentimenti, addirittura è attratto dalle paure, proprie e
altrui. Dobbiamo in qualche senso liberarci dello stereotipo di uomo coraggioso,
tramandatoci da una visione superata dell’industria culturale. Ammettere le proprie
paure significava mostrarsi deboli, arrendersi o peggio ancora dichiararsi vinti in
partenza. Se osserviamo le generazioni passate, difficilmente queste persone parlano
con naturalezza delle proprie fobie. Infatti anche i prodotti mediali del passato offrono
eroi senza macchia e senza paura, invincibili e immortali, quasi ad allontanare il
concetto di fragilità tipico dell’uomo. Dylan Dog nelle sue imperfezioni che lo rendono
“umano” va controtendenza rispetto al passato.
La storia della paura ha sempre avuto fondamento su ciò che era sconosciuto, ignoto,
diverso. Molto spesso quindi la paura è stata figlia dell’ignoranza. Sarebbe impossibile
e anche inutile analizzare in questa sede tutte le paure che hanno accompagnato l’uomo
durante la sua evoluzione. Ma per il fine di questo saggio, prenderò in considerazione
alcuni periodi storici che ritengo significativi per delineare il percorso della paura sino
ad oggi.
Il fumetto Dylan Dog, che utilizzo come rimando mediale, prende spunto
dall’immaginario classico dei mostri, per descrivere le incertezze e le paure della nostra
società. Tra i vari mostri, quello che meglio si prestava al mio discorso era la figura
della strega. Nel n°69 di Dylan Dog, “Caccia alle streghe”, vi è un illuminante
similitudine tra la moderna censura e il fenomeno storico della caccia alle streghe.
Infatti l’autore del fumetto, Tiziano Sclavi era stato accusato della critica di aver creato
un fumetto diseducativo, per via delle immagini cruente che potessero istigare la
violenza. In questo numero particolare, Sclavi paragona il tribunale dell’inquisizione
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alla censura, sottolineando il problema della libera d’espressione del pensiero anche nel
nostro secolo. La strega come il perseguitato è una figura ricorrente. Questo essere
fantastico, popolò l’immaginario collettivo fin dal Medioevo. La storia è stata testimone
della caccia alle streghe, penso sia l’esempio calzante per descrivere una paura nata
dall’ignoranza.
Il periodo di maggior attività di questo fenomeno fu tra il 1400 e il 1700. Tralasciando i
particolari, l’avvenimento della caccia alle streghe era fondato interamente sulla base di
superstizioni e odio contro i “diversi”. La maggior parte delle vittime di questa
persecuzione erano donne che vivevano in particolari condizioni di miseria, ed è per
questo motivo che si servivano di vari espedienti come: pratiche “mediche”, elemosina
e prostituzione. La strega quindi rappresentava la figura chiave dell’emarginazione. La
prima motivazione del fenomeno persecutorio fu la superstizione, che unita alla miseria
aumentò il suo raggio d’azione. In quel periodo, infatti, una grave piaga colpì l’Europa:
la peste nera. Le conseguenze dirette furono: morte, carestia, crisi economica, ribellioni
sino ad arrivare alla crisi religiosa. La domanda che tutti si ponevano era perché mai
Dio avesse permesso tutto questo. Le istituzioni e la Chiesa, incapaci di sopperire alla
crisi economica, si impegnarono a risolvere il problema delle ribellioni e della crisi
economica. Il primo passo fu una sorta si “restiling “ della figura di Dio; l’immaginario
religioso restituì un Dio in collera con l’umanità e per questo deciso a punirla. Lefèvre
d'Etaples affermò: “Il più grande avversario che abbia il cristiano è se stesso. Non ha
nient'altro di tanto difficile da vincere quanto la sua carne, la sua voluttà: poiché essa,
per sua natura, è incline a tutti i mali”. Attraverso questo meccanismo, che produceva
il senso di colpa, la Chiesa fu la prima istituzione ad adottare la paura come strumento
di controllo. Il passo successivo fu l’identificazione del capro espiatorio. La strega,
appunto, venne identificata come colpevole di azioni contro la morale religiosa; per
questo motivo Dio puniva l’intera umanità con carestie e pestilenze.
L'uomo, per sua natura, ha bisogno di un nemico da combattere, o almeno contro cui
sfogare la propria ira impotente. Diversamente si sente inetto e svuotato, cosa che tutti i
detentori del potere sanno benissimo.
In tutte le società totalitarie e' sempre stato necessario individuare un nemico interno.
Questo meccanismo permette di trasformare l’ansia, cioè la paura di qualcosa di
indefinito, in paura che invece è il timore per qualcosa di concreto. Se intendiamo come
strega, qualsiasi figura che venga utilizzata come capro espiatorio, posso affermare con
certezza che ancora oggi la loro caccia non è finita; questo conferma la teoria di G.
9
Vico: “Corsi e ricorsi storici” dove sostiene che l'uomo è sempre uguale a se stesso, pur
nel cambiamento delle situazioni e dei comportamenti storici. Ciò che si presenta di
nuovo nella storia è solo paragonabile per analogia a ciò che si è già manifestato. Così,
ad esempio, ad epoche di civiltà possono seguire epoche di "ritornata barbarie"; ad
epoche nelle quali più forte è il senso di una determinata categoria, altre nelle quali si
sviluppa maggiormente un altro aspetto della vita. La storia, dunque, è sempre uguale e
sempre nuova. In tal modo è possibile comprendere il passato, che altrimenti ci
rimarrebbe oscuro. Oggi il progresso scientifico e tecnologico e' stato tale da lasciar
presumere che la stregoneria in generale potesse essere relegata tra le memorie del
passato.
Invece e' avvenuto esattamente il contrario; l’interesse verso la magia è in aumento.
L'enorme sviluppo degli operatori di magia ha visto emergere prepotentemente gli
uomini, tanto da rendere un po' obsoleto il termine strega. Ora e' più corretto parlare di
maghi e di maghe.
Questo non significa che le streghe "vecchio stampo" siano sparite; si sono solo
modernizzate, aggiornando il loro modo d'essere e di operare, i loro prodotti e la loro
attività in conformità alla domanda di mercato.
Praticamente il progresso della conoscenza e la diffusione ad ogni livello sociale di una
cultura scientifica di base non sono stati sufficienti per eliminare nell'uomo il "bisogno
di credere", un qualcosa a cui aggrapparsi ciecamente senza tanti ragionamenti logici e
razionali; ragionare resta ancora un'attività scomoda. Anche se non credo che il
fenomeno sia interamente causato da una latente ignoranza, più che altro esiste un
bisogno innato, ancestrale da parte dell’uomo nel ricercare l’ignoto.
Quando tutto è scientificamente spiegabile subentra la noia, l’uomo è così spinto a
ricercare nuovi impulsi che gli permettano di fantasticare e sognare. Questa potrebbe
essere una delle tante cause che avvicina il mondo degli adolescenti all’esoterismo, fino
ad arrivare alle massime deviazioni come il satanismo o magia nera. Il libro di Carlo
Climati “I giovani e l’esoterismo”, considera il fumetto Dylan Dog come catalizzatore
di questo fenomeno. Solo perché il protagonista affronta mostri o il mondo del
paranormale, in questo caso, seguendo lo stesso ragionamento qualsiasi prodotto
mediale potrebbe portare verso la “cattiva” strada. Per assurdo “Fantasia” di Walt
Disney potrebbe indurre a praticare la magia, oppure “Peter Pan” offrirebbe il pretesto
ad adottare una vita sociale priva di responsabilità. Sempre secondo Climati, Dylan Dog
avrebbe un altro elemento diseducativo, ossia il fatto che il male non venga sconfitto
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definitivamente, ma che possa riapparire in maniera improvvisa. Questo processo del
“ritorno del male”, ucciderebbe l’idea di speranza nel giovane lettore, facendolo
piombare in un vortice di pessimismo, tale da renderlo vittima del satanismo. La mia
critica, nei confronti del libro “I giovani e l’esoterismo”, nasce dalla considerazione che
all’interno del fumetto Dylan Dog vi siano messaggi e significati ben più profondi
rispetto a quanto emerge da una lettura superficiale. Certo non si può negare che vi
siano scene violente, splatter, o che non si faccia riferimento al mondo esoterico. Ma
l’effetto del “ritorno del male”, così chiamato da Climati, non è forse semplicemente
una trasposizione del fatto reale nel fumetto? Il male, come sappiamo bene, non è un
elemento che si può risolvere una volta per tutte. La morale di Dylan Dog a mio avviso
per nulla diseducativa, afferma che il male si presenta sempre e con diverse vesti, spetta
a noi riconoscerlo e affrontarlo. Infatti l’orrore nella storia umana è una presenza
costante, ma in forme diverse, partendo dall’esempio della caccia alle streghe fino alle
varie persecuzioni etniche, l’elemento comune risiede nel rifiuto di accettare il diverso,
che porta ad un atteggiamento aggressivo o di emarginazione.
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Dalla paura metafisica a quella politico sociale
La scienza avrà anche smascherato molte superstizioni del Medioevo e la fallacia del
pensiero magico, sia laico che religioso, del passato e del presente ma, al loro posto, ha
introdotto nuove paure che dominano la nostra vita dalla culla alla tomba" - Fear. A
Cultural History, Joanna Bourke (pag.5).
Il punto è che la tradizionale paura di Dio, che effettivamente ha dominato per secoli
l’immaginario umano, ha subito un processo storico di laicizzazione, fino ad essere
sostituita da altre prevalenti definizioni di pericolo e di insicurezza. Il passaggio da una
definizione prevalentemente metafisica a una definizione prevalentemente politico-
sociale si può inquadrare nel generale processo di disincantamento del mondo e di
laicizzazione. Le religioni viste come complessi culturali, hanno tra l’altro la funzione o
lo scopo di fornire un’integrazione culturale e quindi di governare, controllare,
esorcizzare le sensazioni di insicurezza legate alla percezione dell'esistenza nel mondo
di un male radicale. Nell’interpretazione di Jean Delumeau, dal Duecento al Settecento
la Chiesa avrebbe deliberatamente scelto una strategia del terrore, preferendo un Dio
giustiziere a quel Dio misericordioso che invece è ben più caro a tanti fedeli.
Delumeau sostiene che nel Medioevo, la naturale paura della morte diventa una paura
ossessiva del giudizio, usata anche a fini di potere: attraverso la confessione, coltivare il
senso di colpa poteva diventare uno strumento di controllo dei credenti Il passaggio da
una definizione del male in termini metafisici a una definizione in termini politico-
sociologici si compie nella società industriale soprattutto grazie al marxismo, che
prende il sopravvento su altre forme concorrenziali di definizione del maligno. Un
esempio di questa fobia, la si può trovare nel n° 106 di Dylan Dog, “La rivolta delle
macchine”, dove si concretizza la ribellione della creazione nei confronti del creatore.
La paura che le scoperte scientifiche possano essere controproducenti per l’uomo. La
stessa rincorsa al nucleare, il continuo sviluppo delle armi di distruzione di massa, sia
da parte del fronte occidentale, sia da quello orientale. Erano gli anni della guerra
fredda. In generale lo spettro dell'immaginario politico occidentale è stato il
comunismo. Su questo argomento, sul fatto di collegare le paure e i mostri con elementi
che invece sono reali e concreti, mi viene in mente la figura dell’alieno, il suo
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significato etimologico di "altro", (in lingua inglese la parola “alien” sta ad indicare
"immigrato" più o meno clandestino). Nel n°112 di Dylan Dog, “Incontri ravvicinati”, il
protagonista si trova alle prese con queste creature. In questo numero, gli alieni sono
degli esseri indifesi e i terrestri dei mostri sanguinari. Queste creature affamate solo di
emozioni, rapiscono i terrestri per studiare i sogni e desideri, perché loro non ne
posseggono. Sono semplicemente esseri in cerca di amore e comprensione, come del
resto lo sono le persone “diverse” o emarginate; in questo caso oltre all’utilizzo dello
stereotipo dell’alieno, vi è un rovesciamento della cornice, l’extraterrestre, in questo
caso, incarna il “bene”, mentre l’umanità il “male”, ma questa è una delle rare
eccezioni. L’immaginario dell’alieno ha subito dei mutamenti durante la storia: nel
periodo della guerra fredda, tra il popolo americano e in generale il mondo occidentale,
vi era il pericolo di un'invasione sovietica, e del comunismo. Molti studiosi individuano
alla fine degli anni ’50 i segnali di propaganda esplicita, del governo Eisenhower nel
cinema: la figura dell’alieno “invasore”, capace di distruggere la nostra civiltà, una
figura che nasce tra il timore dell'omologazione e la fobia dell'identità è il ricettacolo di
paure di ciò che è ignoto o diverso da sé, come poteva essere l’oriente contrapposto
all’occidente.
L’alieno è un prodotto culturale tipico del dopoguerra statunitense. Dopo l’orrore della
guerra, attraverso il cinema si è cercato di esorcizzare il trauma della violenza: il sangue
ridiventa finzione, la morte poteva essere reversibile, ma diversamente il fantastico
degli alieni incarnava invece le nuove ossessioni americane.
Il film più amato e studiato del periodo è “L'invasione degli ultracorpi” di Don Siegel,
del 1956, su cui ancora oggi si dibatte polemicamente: la storia di alieni che "copiano"
l'uomo e lo sostituiscono con sosia decerebrati all'interno della società, questa
rappresenta una metafora dei pericoli del comunismo (omologazione, appiattimento,
dittatura). Quindi, mentre la società americana stava metabolizzando i traumi bellici,
attraverso il cinema splatter una nuova paura si insidiava: il comunismo, riprodotto
dall’industria culturale attraverso la figura dell’alieno. Negli anni più recenti, invece, la
figura dell’alieno si è fatta portavoce di altri significati. Per esempio nel celebre film di
S. Spielberg “E.T”, porta l’attenzione del confronto con “l'altro”, il profondamente
diverso da noi. La fantascienza (cinematografica, ma ancora prima letteraria) racconta
di noi, della nostra società, della cultura, della politica, dell'arte, della scienza, del futuro
e della tecnologia. L'alieno è uno specchio nel quale abbiamo sovente paura di
rifletterci. Per me va inteso come un meccanismo narrativo che ci costringe a guardare
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la realtà eterogenea, fatta di diversità, attraverso la finzione. Simbolicamente si potrebbe
definire l’alieno come lo specchio di Dioniso, che rappresenta uno strumento di
esibizione e di cattura della variegata totalità del mondo.
Politica della paura
Bauman sostiene che oggi viviamo in un clima di assedio della paura. A livello macro ci
sono dei fattori corrosivi, disordine e sgretolazione mondiale, mentre a livello micro vi
è un indebolimento del tessuto sociale e delle fondamentali reti di protezione. Il male
diventa onnipresente, e la paura generale è una conseguenza. Gli argomenti non
mancano, dal collasso tecnologico al disastro ecologico. Le masse dei diseredati dei
paesi in via di sviluppo, sia che premano ai confini sia che come immigrati vivano
dentro i paesi sviluppati, sono all’origine di molte sensazioni di insicurezza socialmente
diffuse e politicamente pericolose. Finita la paura del comunismo, nuove fobie presero
piede, questa volta però non le si poteva localizzare e identificarle.
Prima la paura veniva dal di fuori; le cause potevano essere naturali o dettate da eventi
di forza maggiore come ad esempio, la peste sui quali non si aveva alcun potere. Il male
storicamente nuovo e specifico che ci farà soccombere proviene direttamente da noi
stessi, in un senso tragico e definitivo: il male siamo noi. All’interno del fumetto,
possiamo ritrovare alcuni riferimenti al terrorismo e i suoi effetti; nello specifico si
racconta di quando Dylan Dog, svolgeva servizio come poliziotto a Scotland Yard.
Erano anni difficili, l'IRA (Irish Republican Army) chiedeva a suon di bombe
l'indipendenza dell'Ulster dalla Gran Bretagna. L'esercito rispondeva a sua volta con i
fucili, sparando tra la folla senza discriminazioni, come successe nel famigerato
"Bloody Sunday". Dylan, durante quel periodo si innamora di Lillie Connolly una
esponente dell' IRA, che successivamente verrà arrestata e la loro storia terminerà
tragicamente.
Il terrorismo sarà anche il protagonista della nuova guerra fredda, ma non è certo una
novità. Questo timore era già diffuso a partire dagli anni '70. Tra il 1977 e il 1978, l'85-
90% degli americani e dei britannici considerava il terrorismo un serio problema. I
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terroristi sono imprevedibili, hanno a disposizione le più terribili armi create dalla
scienza moderna, possono colpire in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. In pratica
hanno dato concretezza al senso di paura globalizzata. Una delle conseguenze dell’11
settembre è stata paradossalmente la sensazione rassicurante di dare un volto alla paura.
Non era più un’organizzazione segreta, né un americano impazzito (come nel caso della
bomba al Murrah Federal Building a Oklahoma City nel 1995) ma fondamentalisti
islamici e stranieri. Nonostante una certa inquietudine suscitata dalla facilità con cui i
terroristi erano stati capaci di confondersi nella classe media americana, il sollievo per il
fatto che rimanevano degli stranieri è stato grande. Il nemico poteva ora essere
identificato era il “musulmano”. Una delle risposte più interessanti alla paura è la
ricerca di un capro espiatorio. Infatti secondo la psichiatria moderna esistono due tipi di
paura: la paura vera e propria e l'ansia. Nel primo caso l'identità del nemico è nota e
l'individuo può reagire combattendo o fuggendo, nel secondo caso l'ansia è fluttuante e
l'identità del nemico difficile da definire. Questa distinzione è importante in quanto con
la paura, le persone, tendono a fare gruppo per combattere il nemico. Al contrario,
quando provano ansia, tendono a ritirarsi nei loro spazi personali e si sentono incapaci
di comunicare o di unirsi agli altri. U. Eco “ Nulla infonde più coraggio al pauroso che
la paura altrui”. La differenza tra ‘ansia’ e ‘paura’ sta quindi nella capacità
dell'individuo o del gruppo di valutare il rischio o di identificare un (potenziale) nemico.
Allora la paura può, allo stesso modo, essere trasformata in ansia. Esistono diversi
motivi storici per cui certi gruppi vogliono trasformare la paura in ansia e viceversa. Il
terrorismo infatti ha come prerogativa il fatto di colpire senza essere svelato, non si
conosce il nemico come in una guerra, perché lo scontro non avviene a viso aperto.
Diversamente gli stati, cercano di individuare i terroristi, per identificarli e riconoscerli
come responsabili. Esiste una controversa idea sulla cultura politica americana che
promuove e sostiene la paura, come nessun'altra nazione. Io penso che via sia uno
stretto legame tra il potere di controllo e la cultura politica della paura. I governi però
devono essere prudenti nell'usare questa politica in tale modo. La politica della paura
forse è efficace nel medio o breve termine, per rendere più remissive le persone su certe
scelte di politica antiterroristica. Nel lungo termine, invece ritengo sia
controproducente, perché non fa altro che alimentare ansie e sospetti, offrendo un valido
aiuto al fine del terrorismo. In una società democratica è inconcepibile che un individuo
debba vivere sotto la costante oppressione della paura.
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Il ruolo dei media nella creazione della paura
I profeti della rivoluzione digitale hanno sostenuto che la rivoluzione nella tecnologia
delle comunicazioni e il bombardamento delle informazioni portano ad una
trasformazione radicale del nostro mondo sensorio (McLuhan).
Oggi l'allarmismo o sensazionalistico è la norma, attraverso la quale i media ci
comunicano gli eventi. Ciò che è interessante è vedere quale storia fa leva
sull’interruttore della paura. I governi sempre più spesso utilizzano il sistema dei
media, per diffondere questo sentimento di inquietudine. Platone considerava la vita
come un palcoscenico teatrale, in cui gli uomini recitavano la loro parte davanti agli
occhi di Dio; un processo attraverso la quale il mondo diventa spettacolo e le notizie
una sorta di trama da “colorire”.
Nel settore specifico degli studi di intelligence, ad esempio, il concetto di paura è
contiguo a quello di minaccia, che spesso diventa in queste analisi l’elemento più
importante, perché senza minacce non ci sarebbe bisogno dei servizi di intelligence. È
stato sostenuto che l’intelligence in alcuni casi alimenti lo stato di paura, perché una
popolazione spaventata è maggiormente controllabile. A tal fine sempre più spesso,
l’informazione diviene una risorsa strategica, i media si trasformano da strumento di
informazione in strumento di controllo. La verità soggettiva diviene così verità
oggettiva, noi diamo quasi per scontato che le notizie, i dati e le immagini
corrispondano sempre a verità, dimenticandoci con quanta facilità queste possano essere
manipolate, per ottenere un controllo della nostra percezione. La nostra paura quindi
diviene risorsa per altri. Il nostro sistema nervoso è bombardato da una massa enorme di
informazioni, che a costi sempre più bassi e a velocità sempre più alta, vengono
scaraventate sulle menti individuali. Il risultato è un rischio altissimo di eccedenza e di
incoerenza; quei rumori e quelle ridondanze che già erano state tematizzate dalla teoria
dell’informazione ora diventano cause di un surriscaldamento cognitivo, che secondo
molti studiosi ha conseguenze organiche: innalzamento dei livelli individuali di
dopamina, aumento dell’attività elettrochimica del cervello, aumento degli stati di ansia.
Alcuni fenomeni sono tipici dell’industria culturale e della società di massa, come il
cosiddetto “effetto Madonna” (cioè la preminenza dell’eccesso, che permette di farsi
ascoltare meglio) oppure “l’effetto blasé” (formulato da Simmel per indicare quella
reazione psicologica che induce gli individui bombardati dagli stimoli ad una
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sostanziale indifferenza emotiva). Il rischio è quindi quello di non cogliere in maniera
efficace il messaggio informativo, perché in alcuni casi risulta esagerato rispetto al
reale, spesso questa alterazione ci porta ad una sorta di assuefazione a certi tipi di
notizie, o peggio ancora a veri e propri stati terrore. Uno dei più famosi esempi di
panico collettivo scatenato dai media in tempi recenti fu l’adattamento radiofonico
proposto da Orson Welles del romanzo di fantascienza “La guerra dei mondi” di
Herbert George Wells, all'interno della trasmissione Mercury Theatre on the Air. Tale
trasmissione è rimasta celebre per aver scatenato il panico negli Stati Uniti: molti
ascoltatori non si accorsero, infatti, che si trattava di una finzione, e credettero che la
terra stesse realmente subendo lo sbarco di una flotta di bellicose astronavi marziane.
Welles non aveva previsto quelle che sarebbero state le reazioni del suo pubblico; non
aveva nessuna intenzione di fare uno scherzo, come talvolta si crede, tanto è vero che
sia all'inizio della trasmissione che alla sua conclusione venne chiaramente detto che
avevano trasmesso l'adattamento radiofonico del romanzo di Wells.
In definitiva si può affermare che alcuni gruppi all'interno della società sfruttarono il
panico per rafforzare il proprio status di superiorità; il sistema delle telecomunicazioni
può essere quindi il mezzo privilegiato per esercitare e consolidare questo potere.
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Il nuovo mostro
Bauman associa la modernità caratterizzata dall’instabilità complessiva alla dinamicità
dei flussi ad un concetto che indica un particolare stato della materia: la liquidità. La
modernità, quindi, come continuo mutamento di forma che non riesce a fissare ne
spazio ne tempo.
Interruzione, incoerenza, e sorpresa sono le normali condizioni della vita, ma questa
“seconda modernità” pare essere una società della modernità fluida. La fluidità è la
caratteristica dei liquidi e dei gas, ma anche la società e la vita può, al giorno d’oggi
essere definita “liquida”, se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima
che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. La vita liquida,
come la società liquido - moderna non è in grado di conservare la propria forma o di
tenersi in rotta a lungo. In una società liquido - moderna gli individui corrono alla
ricerca di risultati sempre nuovi, perché questi non potranno mai concretizzarli in beni
duraturi. Incauto, diventa fare affidamento sulle tattiche e le strategie utilizzate con
successo in passato, perché le circostanze cambiano in fretta e in modo imprevisto.
La “vita liquida” è in sostanza una vita precaria, vissuta in condizioni di continua
incertezza. Le preoccupazioni più acute e ostinate che l’affliggono nascono dal timore
di essere colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo di avvenimenti che si
muovono velocemente, di rimanere indietro, di non accorgersi delle date di scadenza, di
appesantirsi con il possesso di qualcosa che non è più desiderabile, di perdere il
momento in cui occorre voltare pagina prima di superare il punto di non ritorno. In tutta
quest’incertezza è normale che l’individuo si senta sempre un po’ “sotto assedio”, dove
il terreno su cui pensiamo si fondino le nostre prospettive di vita è malfermo. E’ come
se, le grandi speranze del progresso abbiano lasciato il posto a notti insonni, popolate
dall’incubo di restare indietro, di perdere il treno o di “essere catapultati fuori dal
finestrino di un veicolo che accelera sempre di più”.
Nel 1977 uno dei più acuti analisti dei nostri tempi, Pierre Bourdieu, scrisse un saggio
intitolato Le précarité est aujourd’hui partout. Un titolo sicuramente premonitore
dell’insicurezza, dell’incertezza, e della vulnerabilità come caratteristiche più diffuse e
dolorosamente percepite dalla condizione contemporanea.
“Ora” diventa la nuova parola chiave dell’oggi, dove i nuovi “figli della libertà”,
imitando i cosmopoliti più felici di tutto il mondo, viaggiano senza bagagli, facendosi
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paladini di quella che Ulrich Beck definisce la nuova morale del vagabondo di “colui
che sceglie le proprie destinazioni lungo il cammino. Ciò che lo spinge ad andarsene è
la delusione per il luogo della sua ultima sosta come pure l’irriducibile speranza che il
prossimo, non ancora visitato, o forse quello ancora successivo, siano privi dei difetti
che lo hanno fatto disamorare dei precedenti”. In ogni tempo storico sono sempre
esistiti i “figli della libertà”, ma oggi, appaiono diversi in un elemento di grande
importanza con cui possono gettare nel panico gli adulti: il divertimento, basato sulla
morale del carpe diem, sia esso sotto forma di sport, di musica, di consumo, o di
semplice gioia di vivere. Ma poiché la politica, almeno per come essa viene praticata e
rappresentata non ha nulla a che fare con tutto questo, e viene anzi percepita come
nemica mortale del divertimento, i giovani appaiono apolitici, e tali amano considerarsi.
In un futuro divenuto multidimensionale, dove il mondo non è più avverso in un
conflitto tra due parti o due blocchi contrapposti, ma semmai diviso tra più spaccature
diverse, gli enigmi senza risposte si moltiplicano sempre più, facendosi portatori di
questioni abbandonate a se stesse e quindi irrisolte. Eppure, anche praticando una
morale innovativa e accattivante, unita al desiderio di auto realizzarsi, nell’insieme
questi nuovi giovani, muoiono dalla paura di spiccare un volo qualsiasi, lontano da quel
mondo che conoscono a malapena. Ma i “figli della libertà” hanno soprattutto angoscia,
consci che quel breve sogno di benessere stabile si sta ormai erodendo, e nonostante
siano liberi è proprio la libertà a spaventarli, perché come dice Marshall, in un suo
famoso studio dal titolo Citizenship and Social Classe, la libertà non presuppone affatto
sicurezza. Analogamente Felipe Gonzales afferma che la liberta “non è un’esigenza
primaria dell’uomo che la ricerca soltanto quando altri bisogni primari non sono stati
soddisfatti”, sostiene che il sentimento prioritario dell’uomo, che si avvicina così
all’istinto degli animali, è la ricerca della sicurezza. Quando la sicurezza viene meno, il
senso della libertà si fa debole e traballante. Sentirsi svincolati e affrancati da tutto,
genera nell’uomo solo sofferenza e apatia, trascinandolo nel gorgo della solitudine e
della depressione, che lo spingono a rifiutare, o meglio a non sapere di che farsene
dell’immane libertà conquistata. L’episodio n°77 di Dylan Dog “L’ultimo uomo sulla
terra”, può essere utilizzato come esempio mediale di tale fobia. In questo numero, il
protagonista si risveglia in una Londra deserta, ma inizialmente non si accorge del
dramma. La totale assenza del traffico cittadino gli permette di spostarsi in piena libertà,
non vi sono più lunghe code al semaforo, ne caos metropolitano. Questa situazione
viene vissuta inizialmente da Dylan Dog come piena libertà d’agire, solo
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successivamente si accorgerà di essere rimasto, forse, l’unico essere umano al mondo.
Da questo punto subentra il sentimento di angoscia, la totale libertà non ha più senso ed
egli deve imparare a sopravvivere in una nuova dimensione di società, quella fondata da
un solo individuo, dove ogni scelta, ogni azione avrà sempre un solo attore. In questa
seconda modernità definita come l’epoca “dell’ansia da prestazione” che costringe
l’uomo a capire tutto e a osare continuamente. Mutano sempre più rapidamente le
fondamenta stabili della vita, del lavoro, dell’economia, e a livello emotivo: gli affetti,
la famiglia, il vicinato; è come se l’individuo si perda, smarrendo razionalmente il senso
di tutte le cose, fino a sentirsi soffocare, fino ad avere il terrore della libertà.
Come disse Bauman “più libertà abbiamo e più essa ci appare pesante e minacciosa”.
Non credo che la paura dell’uomo contemporaneo sia il bisogno di appartenere a una
comunità, ma quello di liberarsi dall’obbligo di dover fare continuamente delle scelte e
di prendere delle decisioni.
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Conclusioni
In questo saggio sono partito dall’analisi del fumetto di Dylan Dog, che tratta le paure
umane, celate sotto le sembianze di mostri immaginari. L’elemento comune tra il
fumetto e la realtà è l’esistenza della paura che da sempre accompagna il genere umano
in ogni sua forma. La paura nasce dall’ignoranza, passa a quella che viene suscitata da
un’eccessiva informazione, fino ad arrivare a quella paura suscitata da un eccessiva
libertà. In un’epoca di grandi scoperte come la nostra, dominata dalla ragione, dove
tutto è spiegabile scientificamente è venuto meno quel senso del fantastico. L’unica
paura che conosciamo non viene più dai racconti, ma dalle notizie provenienti dai
media. Per questo motivo, vi è una grande richiesta di orrore da parte del pubblico nei
confronti dell’industria culturale. Penso che sia un espediente atto ad esorcizzare quelle
che sono le nostre vere paure, in questo modo ci rifugiamo nella fantasia, per non
pensare invece alla realtà. Il grande successo di Dylan Dog, è spiegabile secondo alcuni
osservatori perché l'esperienza dell'orrore costituisce per gli adolescenti un rito di
passaggio; è l'equivalente funzionale di quelle cerimonie iniziatiche per la transizione
dall'adolescenza all'età adulta. L'esperienza dell'orrore sarebbe diventata per i teen-agers
ciò che le favole sono per i bambini: una narrazione traumatica con alla fine una morale;
un'esperienza sconvolgente che si intraprende sapendo benissimo che sarà abbandonata
per poi rientrare nella normalità e nella moralità. L'esperienza dell'orrore sarebbe come
la guida ad alta velocità, un avvicinamento verso la morte per poter apprezzare poi
meglio la vita. Quello che ho considerato durante questo percorso è che la paura non va
intesa esclusivamente come sensazione negativa, anzi, per certi aspetti è un elemento
che ci induce ad essere più cauti, fino a quando essa non prende il dominio di noi stessi.
Alcune scelte, macro o micro che siano effettuate in assenza di timore, rischiano poi di
essere azzardate e le conseguenze potranno poi essere pagate a caro prezzo. Oggi,
contrariamente al passato, ammettiamo di provare paura, questo è dovuto al fatto che un
tabù è caduto e che noi sappiamo, meglio dei nostri avi, come la paura, in quanto presa
di coscienza di un pericolo, sia una reazione normale e naturale.
L’uomo, che è in grado di prevedere razionalmente la morte meglio degli animali, ha
inevitabilmente la paura come compagna, più o meno vicina, per tutta la durata della
vita. Per questo la paura, come reazione di allarme davanti a un pericolo, è sana e
necessaria. Per tantissimi autori, da Seneca a Roosevelt, da Hobbes a Freud, tra le tante
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passioni umane la paura riveste un’importanza primaria; secondo un’opinione assai
diffusa, la nostra attività pensante potrebbe essere interpretata in primo luogo come
un’organizzazione difensiva contro l’imprevedibile. Se consideriamo che la vita di
ognuno è attraversata da una larga serie di eventi imprevisti e spiacevoli, e che la
sopravvivenza è connessa alla capacità di non farsi soffocare da questi eventi allora la
paura può essere considerata come uno strumento darwiniano della selezione naturale:
tanto vale accettarla, servirsene per moltiplicare le nostre capacità di sopravvivenza e di
calcolo del rischio.
L‘umanità sarebbe stata incapace di progredire senza questa lucidità accompagnata dal
timore. Tuttavia, questa seconda affermazione non è in contraddizione con la
precedente, individui e società devono costantemente dominare e superare le paure ogni
volta diverse che rischiano di inibirli. La paura, insomma, è stata e sarà sempre una
presenza costante. Ma le paure si modificano, aumentano o diminuiscono a seconda dei
periodi.
Oggi per esempio, non abbiamo più paura dei lupi, delle comete, delle eclissi. La peste e
il colera sono scomparsi in Occidente, dove non si muore più di tubercolosi. Abbiamo
dunque fatto arretrare molti pericoli, o li abbiamo addirittura eliminati. Tuttavia eccone
altri davanti a noi: l'insicurezza delle città, l'inquinamento, il nucleare, l’incertezza
radicata nell’individuo moderno. Anche la stessa paura della morte è cambiata, fino al
20° secolo l’uomo ha temuto di morire per questioni legate all’eventualità di una vita
nell'aldilà. Oggi invece il maggior timore è verso l’obbligo di rimanere forzatamente in
vita o al fatto che venga negato il diritto di una morte dignitosa. Per concludere si può
dire che bisogna saper convivere con le nostre paure, in modo da superarle, altrimenti
saremo costantemente soggetti a chi riesce a controllarle al nostro posto.
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Bibliografia
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Carocci editore, Roma, 200;
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E. Vitali, “Pericoli e paure. La percezione del rischio tra allarmismo e disinformazione”, Marsilio, Venezia, 1994;
Sitografia
www.sergiobonellieditore.it
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