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COACHING di John Whitmore sintesi testo word12settimaneemezza.pbworks.com/f/COACHING+di+John... ·...

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Coaching di John Whitmore Ed. Sperling & Kupfler 2003
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Page 1: COACHING di John Whitmore sintesi testo word12settimaneemezza.pbworks.com/f/COACHING+di+John... · 2 CAPITOLO 1 CHE COS’E’ IL COACHING ? Il potenziale Espressioni come «tirare

C o a c h i n gd i J o h n W h itm o r e

E d . S p e r l in g & K u p f le r 2 0 0 3

C o a c h i n gd i J o h n W h itm o r e

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CAPITOLO 1 CHE COS’E’ IL COACHING ? Il potenziale Espressioni come «tirare fuori il meglio da una persona» e «le vostre potenzialità nascoste» implicano che all’interno dell’individuo esistano capacità che attendono soltanto di essere liberate. Se un manager o un coach non sono loro stessi convinti per primi che le persone possiedono molte più capacità di quelle che esprimono normalmente, allora non riusciranno mai ad aiutarle a liberare le loro potenzialità nascoste. Si deve guardare alle persone in termini di polenzialità, non di performance. Ed è proprio per questo motivo che molti sistemi di valutazione fanno acqua da tutte le parti. Alle persone si richiede di dare il meglio di sé costringendole però entro schemi e regole rigidi da cui hanno difficoltà a svincolarsi. impedite tanto dagli atteggiamenti dei capi quanto dai loro stessi freni inibitori. Per far venire a galla il meglio dalle persone dobbiamo convincerci che esse sono in grado di esprimerlo: ma come possiamo essere certi che esse davvero possiedano delle potenzialità nascoste? E come valutarne l’entità? Come farle emergere? Personalmente sono persuaso che tutti hanno in sé la possibilità di superarsi. e non in virtù di una qualche inconfutabile prova scientifica in mio possesso, ma semplicemente perché anche a me, all’epoca in cui praticavo lo sport come professionista è capitato di riuscire ad attingere a risorse che non sapevo neppure di possedere e perché ho potuto osservare direttamente come tutti sappiano andare ben oltre le proprie e altrui aspettative allorché si trovano a dover affrontare un momento fortemente critico. Quando vi è costretta, la gente normale proprio come me e voi — riesce a fare cose strepitose. Chi di noi, per esempio, non tirerebbe fuori una forza e un coraggio sovrumani per salvare il proprio figlio ? Le capacità sono latenti e il momento critico funge da catalizzatore. Ma una crisi è davvero l’unico catalizzatore possibile ? E per quanto tempo siamo in grado di reggere livelli di performance straordinari ? A una parte di questo potenziale si può accedere mediante il coaching, che consente di mantenere la performance sostenibile a livelli forse non sovrumani ma di certo molto più elevati di quelli che normalmente consideriamo accettabili. Esperimenti Il fatto che la nostra fiducia nelle potenzialità degli altri abbia un impatto diretto sulla loro performance è stato adeguatamente dimostrato in una serie di esperimenti nel campo dell’educazione. Il test consiste nell’affidare gruppi di bambini mediamente dotati a diversi insegnanti, facendo però loro credere che si tratti ora di elementi molto dotati, ora di scolari con gravi difficoltà di apprendimento. Gli insegnanti svolgono per un certo periodo la loro attività didattica seguendo un programma di studi prestabilito. I successivi test di

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controllo rivelano che i risultati conseguiti dai bambini sono immancabilmente un riflesso di ciò che gli insegnanti credevano a proposito delle loro capacità. Lo stesso vale nel mondo del lavoro: la performance di un dipendente è in buona misura funzione di ciò che i suoi capi pensano di lui. Facciamo un esempio: Fred è convinto di essere dotato di limitate potenzialità e si sente a proprio agio soltanto quando agisce ben all’interno dei suoi limiti prescritti. E come se si trattasse di un guscio: il suo capo gli affiderà soltanto dei compiti che non debordino da questo guscio. Così, gli chiederà di svolgere il lavoro A perché confida nel fatto che Fred è in grado di farlo e non gli affiderà mai il lavoro B, perché lo giudica al di là delle sue capacità. Il capo, dunque, vede soltanto la performance effettiva di Fred, non le sue potenzialità, e se poi affiderà il lavoro B a Jane (il che è comprensibile oltre che vantaggioso per l’azienda), non farà che confermare e rafforzare il guscio in cui si è chiuso Fred, rendendo le sue pareti ancora più solide e spesse. Il manager dovrebbe fare invece l’esatto contrario: aiutare Fred a uscire dal suo guscio offrendogli tutto il suo appoggio — ovvero fargli da coach — affinché riesca a portare a buon fine anche il lavoro B. Per utilizzare il coaching con buoni risultati dobbiamo adottare una visione delle capacità latenti delle persone, di tutte le persone, molto più ottimistica di quella consueta. Fin gerci ottimisti non basta, in quanto quello che noi non credia mo veramente riesce sempre a emergere in superficie in modi sottili dei quali possiamo anche non essere consapevoli. Applicazione Quando e dove applichiamo il coaching, e a quale scopo? Ecco alcuni dei casi più ovvi in cui applicare la pratica del coaching sul lavoro: • motivazione del personale; • delega delle responsabilità; • problem solving; • problemi di interrelazioni; • team building: • valutazione individuale; • performance su singoli compiti: • pianificazione e verifiche: • sviluppo del personale; • lavoro di team. L’elenco potrebbe continuare all’infinito e i diversi casi potrebbero essere affrontati adottando un approccio di tipo rigidamente strutturato, come in una regolare sessione di coaching, oppure con una strutturazione meno formale (come una semplice conversazione in cui lo

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stesso termine coaching non verrebbe neppure menzionato). Rispetto a queste due differenti modalità, appare assai più penetrante ed efficace un’applicazione consapevole, quotidiana e regolare dei principi che sottostanno alla tecnica del coaching durante i fugaci momenti di interazione che hanno luogo tra capi e collaboratori. In questi casi non descriveremmo tale interazione come un vero e proprio coaching. in quanto essa potrebbe consistere anche di un’unica frase, molto probabilmente una domanda; la scel ta delle parole e l’intento con le quali vengono pronunciate, tuttavia, si traducono in effetti diversi. Ecco un esempio.Una dipendente, che chiameremo Sue, sta svolgendo un lavoro che ha discusso e concordato con il suo capo la setti mana precedente. Sue incontra tuttavia un problema e si rivol ge al manager: SUE: Ho fatto come avevamo deciso, ma non funziona. MANAGER: Deve aver commesso un errore da qualche parte! Faccia ìn

questo modo... In questo caso non si tratta affatto di coaching. Ecco invece una variante basata sui principi del coaching: SUE: Ho fatto come avevamo deciso, ma non funziona. può realizzarsi in maniera spontanea tanto in una sessione di un minuto quanto in una di un ora intera MANAGER: Ora purtroppo devo assentarmi per qualche minuto perché

mi sta aspettando George. Veda se riesce a scoprire esattamente dove e quando si manifesta l’intoppo. Tornerò fra poco e l’aiuterò a trovare una soluzione.

Dieci minuti dopo il manager ritorna: SUE: Ho trovato la soluzione. Adesso funziona a meraviglia. MANAGER: Magnifico. Come ha fatto? Ha avuto altre seccature ? SUE: Il problema era questo e sono riuscita ad aggirarlo facendo

così... Altri problemi non mi sembra che ce ne siano, ho controllato bene.

MANAGER: Mi sembra perfetto. Vede quello che è in grado dì fare quando ci prova!

La frase del manager: «Veda se riesce a scoprire esattamente dove e quando si manifesta l’intoppo». che in questo caso non è neppure una domanda, almeno non esplicita, racchiude due principi chiave del coaching la consapevolezza e la responsabilità. (che tratterò nel Cap. 4). Inoltre, in questa breve interazione, il manager non si è dimostrato nè irritato dalla richiesta della sua dipendente né si è rivolto a lei in tono di biasimo, presentandosi invece come suo alleato. Alla fine, poi, ha ricordato a Sue che aveva saputo risolvere il problema solo con le sue forze e che quindi disponeva di più risorse di quanto lei stessa credesse. Ho già sottolineato quanto sia importante che un manager riconosca le potenziali energie nascoste in ciascuno dei suoi sottoposti e adotti nei loro confronti un atteggiamento appropriato. Ancora più importante,

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tuttavia, è che siano i sottoposti per primi a riconoscere le proprie potenzialità latenti. Tutti noi ci crediamo capaci di fare meglio almeno in certa misura, ma abbiamo cognizione di ciò di cui saremmo veramente capaci ? Con che frequenza ci capita di sentire o pronunciare frasi del tipo: «Sì, in effetti è molto più in gamba di quanto lei stessa creda»? Indico qui sotto tre domande «rivelatrici» che vi invito a porvi e a darvi risposta prima di leggere la spiegazione riportata sotto ciascuna domanda.

1. In che percentuale, mediamente, le potenzialità di una persona si manitestano sul lavoro? Le risposte fornite da partecipanti ai programmi della Performance Consultants variano da numeri con un’unica cifra fino oltre il 70%, benché il dato medio registrato si aggiri con notevole frequenza attorno al 40%.

2. In base a quali elementi giustificate il dato percentuale da voi riferito? Le tre risposte che più ricorrono sono le seguenti: — «basta vedere ciò che le persone riescono a fare al di fuori del lavoro»; — «il modo in cui le persone sanno reagire a momenti di crisi»; — «sono io il primo a sapere che potrei essere più produttivo».

3. Quali sono gli ostacoli di tipo interno ed esterno che impediscono alle potenzialità latenti di manifestarsi pienamente? Tra gli ostacoli esterni citati più spesso ritroviamo: — le strutture e le pratiche restrittive dell’azienda: — la mancanza di incoraggiamento e di opportunità: — lo stile di management predominante (dell’azienda o del capo).

L’ostacolo interno per eccellenza che viene citato pressoché da tutti è in realtà sempre lo stesso, benché venga variamente definito come paura di sbagliare, scarsa sicurezza di sé, dubbi sulle proprie capacità e mancanza di fiducia in se stessi. Ho buoni motivi per sospettare che quest’ultimo tipo di risposta sia quello che più aderisce alla verità o, perlomeno, ne sono persuaso, visto

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che le persone, quando sanno di trovarsi in un ambiente non minaccioso, tendono a dire la verità. Se dobbiamo considerare come autentica la mancanza di sicurezza in se stessi, nelle sue diverse varianti, allora il problema numero uno che dobbiamo affrontare e risolvere nella pratica del coaching è proprio questo. La risposta logica sarebbe quella di dirigere ogni sforzo al fine di far nascere nei dipendenti la dovuta fiducia in se stessi, e il coaching appare fatto su misura per questo scopo. Eppure... quanti dirigenti si dimostrano tutto meno che logici allorché si manifesta l’esigenza di una svolta nel loro stile di management! Piuttosto che migliorare i propri atteggiamenti sotto il profilo umano o psicologico, che sarebbe poi la cosa più semplice, preferiscono sperare, cercare, comprare o persino aspettare come un dono del cielo una soluzione di tipo tecnico o strutturale. Ma c’è anche un altro motivo. Il fatto di prodigarsi per creare negli altri l’indispensabile fiducia in se stessi impone che ci liberiamo da ogni desiderio di esercitare su di loro il nostro controllo o, ancor peggio, di fare in modo che il loro senso di stima sia interamente concentrato sulle nostre superiori capacità. In realtà, una delle migliori cose che possiamo fare per gli altri è aiutarli a superarci. Spesso, tra i momenti più eccitanti e memorabili di un bambino, vi è la prima volta in cui riesce a battere un genitore in un gioco di abilità, ed è forse proprio per questo che noi genitori, almeno all’inizio, lasciamo vincere i bambini. Siamo noi i primi a desiderare che i nostri figli ci superino e ci sentiamo fieri di loro quando riescono a farlo. Ah! se fossimo capaci di altrettanto di orgoglio quando ci riescono i nostri dipendenti! Gia, perche da un miglioramento delle loro prestazioni e dalla loro crescita professionale abbiamo solo da guadagnare. Troppo spesso, invece, temiamo di farci soffiare il posto e di perdere autorevolezza o credibilità, quando non ad dirittura la fiducia in noi stessi. La fiducia in se stessi Dal momento che la fiducia nelle proprie capacità è la chiave per portare alla luce le potenzialità e migliorare la performance, è di vitale importanza saper ricostruire la storia dei nostri successi: non c’è nulla, infatti, che garantisca il successo come il successo stesso. Nella pratica del coaching è fondamentale che l’allievo — visto che così abbiamo deciso di chiamarlo — ottenga dalla sessione i risultati desiderati. Un coach questo deve averlo ben chiaro in mente, oltre ad avere l’assoluta certezza di aver aiutato l’allievo a discernere con la massima chiarezza e ad accettare con il massimo impegno l’azione che lo attende, una volta rimossi tutti gli eventuali ostacoli che potrebbero impedirgli di procedere. Spesso sem bra che i coach abbiano quasi paura di sospingere l’allievo ad ambire al successo perché temono di apparire aggressivi.. Comunque sia, un’applicazione del coaching che non raggiunga il risultato sperato e in cui l’allievo non riconosca il proprio

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successo non farà che ridurre ulteriormente la sua fiducia in se stesso, risultando in questo modo deleteria rispetto all’obiettivo primario del coaching stesso. Affinché una persona costruisca la propria fiducia in se stessa è necessario — oltre ad accumulare vittorie — che capisca che il suo successo è il risultato dell’impegno profuso. Deve altresì sapere che gli altri le danno pieno credito, e questo significa sentirsi degni di fiducia, liberi, incoraggiati e sostenuti nel momento in cui si deve scegliere e decidere. Significa sentirsi trattati da pari a pari, anche se la mansione che si svolge è etichettata con un grado inferiore. Significa essere trattati senza atteggiamenti paternalistici, senza che ci si senta in balìa dell’ istruttore o peggio ancora ignorati, biasimati, minacciati o denigrati nelle parole o nei fatti. Purtroppo il comportamento più generalmente accettato e che comunemente ci si attende da un manager incarna molti di questi aspetti negativi e finisce per svilire nei sottoposti la fiducia in se stessi. Ogni intervento del coaching ha invece come obiettivo - determinante e onnipresente - la creazione nell’altro della fiducia in se stesso, indipendentemente dal problema specifico che viene affrontato o dall’azione che si dovra intraprendere. Una volta che i manager, e con loro chiunque svolga mansioni direttive, avranno tutto questo ben chiaro in mente e agiranno di conseguenza - coerentemente e con trasparenza - non potranno che restare sbalorditi dal tangibile miglioramento sia dei rapporti interpersonali sia delle performance professionali dei dipendenti. Con il coaching, dunque, non intendiamo semplicemente una tecnica da applicare estemporaneamente e rigidamente in circostanze specifiche: si tratta piuttosto di un modo di dirigere e trattare le persone, un modo di pensare, e quindi anche un modo di essere. L’auspicio è quindi che arrivi al più presto il giorno in cui la parola coaching sparirà del tutto dal nostro vocabolario, essendo ormai diventata in tutto e per tutto il modo di relazionarsi gli uni con gli altri sul lavoro e in ogni altra si tuazione della vita. Tuttavia, al fine di comprendere esattamente i principi fon damentali che sono alla base del coaching. nei prossimi capi toli ne analizzeremo gli aspetti più strutturati e normativi. La mia speranza è che, una volta acquisita familiarità con questi principi e applicatili nella pratica. sarete in grado voi stessi di destrutturarli facendone un modo e uno stile di vita.

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CAPITOLO 2 IL MANAGER COME COACH Un manager deve essere visto come un aiuto,

non come una minaccia

Il titolo stesso di questo capitolo potrebbe sembrare un paradosso, visto che è dal proprio capo che, tradizionalmente, dipendono la busta paga, le eventuali promozioni e un possibile icenziamento. Tutto questo, però, funziona soltanto fino a che resterete convinti che il solo modo per motivare i vostri dipendenti sia applicare la tecnica dcl bastone e della carota, pur se con una certa dose di buonsenso. Affinché la pratica del coaching funzioni al meglio, invece, il rapporto che si instaura tra il coach e l’allievo deve essere anzitutto di collaborazione totale (entrambi devono remare nella stessa direzione), in un’interazione che associ fiducia e certezze a un minimo di sollecitazione. Busta paga, promozioni e licenzianiento non hanno nulla a che spartire con il coaching, in quanto servono soltanto a inibire il rapporto che deve crearsi. Un manager può essere un coach? Stando le cose, può dunque un manager diventare un coach a pieno titolo ? Certamente sì, fermo restando che la pratica del coaching gli richiederà di esprimere le sue qualità migliori, come empatia, integrità e imparzialità, e di dimostrare, nella maggior parte dei casi, la volontà di impegnarsi ad adottare nei confronti dei dipendenti un approccio comportamentale fondamentalmente diverso, In tutto ciò, inoltre, in mancanza di modelli precisi del nuovo ruolo che rivestirà, egli dovrà trovare un proprio nuovo stile personale, preparandosi anche, almeno all’inizio, a dover fare i conti con una certa resistenza da parte di qualche dipendente, allarmato e sospettoso di ogni deviazione dalle forme del management tradizionale. I collaboratori, infatti, possono dimostrarsi timorosi e diffidenti del nuovo tipo di responsabilità individuale implicita in un management che applichi i principi del coaching. Si tratta in ogni caso di problemi prevedibili e facilmente superabili. Agli estremi dello spettro degli stili di management o di comunicazione generalmente presenti nelle aziende troviamo da un lato l’approccio autocratico e dall’altro un atteggiamento del tipo «laissez faire e speriamo per il meglio» (Figura 2.1).

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Lo stile dittatoriale Quando ero piccolo, i miei genitori mi dicevano ciò che dovevo fare e mi sgridavano se non lo facevo. Quando andavo a scuola, gli insegnanti mi dicevano ciò che dovevo fare e mi punivano se non lo facevo. Durante il servizio militare, il sergente mi diceva ciò che dovevo fare e apriti cielo se non lo fa cevo, per cui lo facevo, e di corsa! Poi, quando ebbi il mio pri mo lavoro, eccoti il capo a dirmi ancora una volta ciò che do vevo fare. Quindi, non appena raggiunsi una posizione che mi investiva di una qualche autorità, che cosa feci? Cominciai anch’io a dire ai miei sottoposti ciò che dovevano fare, dal momento che quello era l’unico ruolo comportamentale del quale avevo ricevuto costantemente dei modelli. Le cose, pur troppo, stanno esattamente in questo modo per la maggior parte di noi: siamo stati cresciuti a forza di ordini, e in questo siamo diventati a nostra volta abilissimi. La tentazione di dettar legge sta nel fatto che, oltre a essere un modo facile e veloce per ottenere quello che si vuole, consente al «dittatore» di sentirsi nel pieno controllo di ogni cosa (convinzione, peraltro, del tutto errata). Il dittatore riesce solo a irritare e demotivare i dipendenti, che tuttavia non lo danno a vedere nè osano reagire, tanto più che la loro reazione verrebbe ignorata. Il risultato è che essi si dimostrano

Effetti su entram bi

Com portam enti del capo

Il capo ha il controllo

totale

Il sottoposto si chiede se

ha possibilità di scelta

Entram bi sono

coinvolti nell’azione,m a possono

esserci indecisioni

Il sottoposto si sente costretto oppure

abbandonato a se stesso

com anda persuade discute abdica

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ossequanti in sua presenza ma si comportano in tutt’altro modo non appena volta le spalle, nutrendo risentimento nei suoi confronti, limitandosi a prestazioni appena mediocri (nel migliore dei casi) o arrivando persino a forme di sabotaggio. Il nostro dittatore non ha un bel niente sotto il suo controllo, è una pia illusione. Con lo stile dittatoriale che troviamo a un’estremità dello spettro del management tradizionalmente inteso è connesso un altro problema: come fissare nei sottoposti il ricordo delle istruzioni impartite verbalmente. Detto in parole povere, difficilmente riusciamo a ricordare perfettamente tutto ciò che ci viene detto. La Figura 2.2 presenta una matrice ricorrente della formazione tradizionale, la cui importanza è fuori discussione e vale perciò la pena riproporla anche qui. I dati che essa riporta sono stati ricavati da una prima ricerca svolta da IBM qualche tempo fa, e uno studio recentemente ripetuto dalle poste britanniche con conferma delle risultanze originali. Un gruppo di persone è stato suddiviso a caso in tre sottogruppi, a ciascuno dei quali è stato insegnato qualcosa (li molto semplice, uguale per tutti ma seguendo tre diverse metodologie didattiche. I risultati parlano da soli, ma la cosa che maggiormente balza agli occhi è il nctevole calo nella capacità di fissare il ricordo di qualcosa che sia stato soltanto indicato verbalmente. Ricordo molto bene di aver mostrato i risultati di questa ricerca a due istruttori di paracadutismo che erano seriamente preoccupati del fatto di aver insegnato ai loro allievi le procedure di emergenza con spiegazioni puramente verbali.

6 5 %3 2 %1 0 %R ic o rd o d o p o 3 m e s i

8 5 %7 2 %7 0 %R ic o rd o d o p o 3 s e tt im a n e

O rd in e im p a rt ito v e rb a lm e n te

+d im o s tra z io n e

v is iv a+

E s p e r ie n z a d ire tta

O rd in e im p a rtito v e rb a lm e n te

+d im o s tra z io n e

v is iv a

O rd in e Im p a rtito

v e rb a lm e n te

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Dopo aver preso conoscenza dei dati forniti dalla ricerca, si affrettarono a cambiare il loro sistema di insegnamento pri ma di correre il rischio di assistere a una caduta libera dall’esito fatale ! Lo stile persuasivo Muovendoci lungo lo spettro dello stile di management tradizionale, al secondo posto troviamo la persuasione. In questo caso il manager espone la sua idea geniale e tenta di convincerci di quanto essa sia perfetta. Sappiamo bene che non è il caso di contraddirlo e quindi ci limitiamo a rispondergli con un sorriso stentato affrettandoci a eseguire le sue istruzioni. Si tratta forse di una tecnica un pò più garbata, anche se un tantino fasulla, che all’apparenza può sembrare perfino più democratica. Ma lo è davvero? Alla fin fine, infatti, non facciamo che eseguire alla lettera quello che vuole il capo, che, da parte nostra, riceve ben pochi input. In realtà, rispetto allo stile dittatoriale, le cose non sono molto cambiate. Lo stile interlocutorio Con il passo successivo lungo lo spettro dello stile di management tradizionale arriviamo alla fase della discussione, dove è possibile catalizzare positivamente le risorse a disposizione e il capo, accondiscendente, può anche decidere di seguire una via diversa da quella da lui proposta (posto, ovviamente, che si vada nella giusta direzione). Sir John Harvey Jones, intervistato sui modi di dirigere un team da David Hemery, autore del libro Sporting Excellence, così si è espresso a tale proposito: Se la direzione che tutti gli altri vogliono prendere non è quella in cui avrei voluto andare, io mi adeguo e li seguo [….] dopo tutto, si può comunque cambiare direzione an che una volta che la macchina si è messa in moto. Posso essere io a scoprire che avevano ragione o possono essere loro a rendersi conto che si sta andando nella direzione sbagliata e quindi decidere di tornare all’opzione proposta da me, oppure possiamo arrivare tutti insieme a stabilire che quello che ci occorre è una terza alternativa. Nel mondo del lavoro si va avanti soltanto se si fa affidamento sull’intelligenza e sui sentimenti di tutti.Questa tecnica esercita senza dubbio una certa attrattiva, in quanto si pone come una discussione autenticamente democratica, ma può comportare un eccessivo dispendio di tem po e causare momenti di indecisione. Lo stile «laissez faire» La situazione che troviamo all’altra estremità dello spettro è di questo tipo: il capo lascia semplicemente che i dipendenti se la cavino da soli. Il manager in questo modo resta libero per dedicarsi ad altre mansioni mentre ai sottoposti viene concessa piena libertà di scelta. Entrambe le parti, tuttavia, finiscono per correre un rischio: il manager ha di fatto abdicato alla sua responsabilità personale — anche se alla fin fine re sterà comunque lui il vero responsabile — mentre i dipendenti potrebbero limitarsi a prestazioni mediocri per il semplice fatto che non hanno sufficiente consapevolezza dei vari aspetti del lavoro da svolgere.

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A volte i manager si ritirano in secondo piano con le migliori intenzioni, desiderosi soltanto che i loro dipendenti im parino ad assumersi maggiori responsabilità. Questo tipo di strategia raramente dà buoni frutti, in quanto, se il dipendente si sente di fatto obbligato ad assumersi delle responsabilità, anziché vederle come il frutto di una libera scelta, il suo coin volgimento personale resta scarso e la sua performance non beneficerà di quell’autentica motivazione interiore che il manager sperava di creare. Il coaching In funzione del comportamento adottato, la maggior parte dei capi si collocherà in qualche punto intermedio dello spettro degli stili di management. Il coaching invece si pone, su un piano diverso, riesce a combinare tra loro i vantaggi offerti dall’intera rosa di possibilità, senza però correre i rischi che ciascuna di esse inevitabilmente comporta .

Rispondendo alle domande che il capo pone sulla base della tecnica del coaching, i dipendenti acquistano piena consapevolezza di tutti gli aspetti del lavoro da svolgere e delle necessarie azioni da intraprendere. Questo momento di grande chiarezza fa loro considerare a portata di mano la buona riuscita del lavoro, e quindi a scegliere liberamente di assumersi la quota di responsabilità che a loro compete. Ascoltando le risposte che vengono date alle domande, il manager acquisisce una maggiore coscienza non soltanto del piano d’azione ma anche del percorso mentale che lo ha determinato. In questo modo, egli può disporre di informazioni molto più esaurienti di quelle che avrebbe avuto comunicando semplicemente ai dipendenti quello che dovevano fare e, pertanto, detiene anche un maggiore controllo sugli eventi. Poiché il tipo di dialogo e di rapporto che si instaura nel coaching è di tipo collaborativo, nei momenti in cui il manager è assente non si

C O A C H I N G

I l c a p o S A c h e c o s a s u c c e d e I l d ip e n d e n te S C E G L IE d i a s s u m e r s ile p r o p r ie r e s p o n s a b i l i t à

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registra tra i dipendenti nessuna variazione di comportamento. La tecnica del coaching offre dunque al manager un controllo effettivo e non illusorio e investe i dipendenti di responsabilità altrettanto reali e non solo formali. Il ruolo del manager Dobbiamo domandarci: «Qual è il ruolo del manager?» Molti dirigenti si ritrovano troppo spesso a dover intervenire personalmente e a faticare per far sì che il lavoro venga portato a compimento nei tempi prestabiliti. Loro stessi ammettono che, proprio per questo motivo non riescono a dedicare tutto il tempo che vorrebbero ad altre attività rilevanti per la vita dell’azienda, come la pianificazione a lungo termine, l’elaborazione di vision coinvolgenti, l’analisi di scenario, l’esame delle possibili alternative, la valutazione della concorrenza, l’ideazione di nuovi prodotti e via dicendo. La cosa più importante, tuttavia, è che in questo modo perdono la possibilità di decicare del tempo allo sviluppo del loro personale. Come fa allora un manager a trovare il tempo per fare il coach dei suoi sottoposti? Si fa molto più in fretta a dare ordini ! Eppure, paradossalmente, nel momento in cui egli applica coaching con i dipendenti, questi ultimi non esitano a farsi carico di maggiori responsabilita, liberando il capo dall’incombenza di dover essere lui a eseguire in prima persona il lavoro e liberandogli in tal modo più tempo non soltanto per continuare a fare il coach, ma anche per occuparsi dei problemi aziendali che soltanto lui, in quanto manager, è in grado di risolvere. Prodigarsi per lo sviluppo dei propri collaboratori non costituisce dunque una forma di idealismo improduttivo, ma un comportamento guidato pragmaticamente da un illuminato tornaconto. Certo, non mancheranno momenti in cui non ci sarà tempo per i convenevoli e occorrerà che tutti si mobilitino, ma con una cultura aziendale in cui il personale si sente seguito e apprezzato contingenze simili sono più che accettate. Mi sento sovente chiedere da parte dei manager quand’è che dovrebbero applicare la tecnica del coaching. o perlomeno come fare per decidere quando applicarla o quando affidarsi invece a semplici istruzioni verbali. La risposta è semplice: se in una data situazione il fattore tempo rappresenta il criterio decisivo (per esempio nell’immnediatezza di una crisi), il nodo più rapido per risolvere le cose è probabilmente completare noi stessi il lavoro in questione oppure ordinare con precisione agli altri che cosa devono fare. Se invece ciò più importa è la qualità del risultato finale, sarà probabilmente possibile ottenere risltati più soddisfacenti aumentando il senso di consapevolezza e di responsabilità dei dipendenti meidante il coaching. Se la priorità è massimizzare l’apprendimento (per esempio nel caso di un bambino che deve fare i compiti a casa), allora sarà chiaramente la tecnica del coaching a ottimizzare sia il processo di apprendimento sia la capacità di memorizzare quanto appreso.

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In gran parte delle situazioni che si vengono a creare sul lavoro, i fattori tempo, qualità e apprendimento finiscono per rivestire quasi sempre pari importanza. La triste verità, tuttavia, è che nella maggior parte delle attività aziendali il fattore tempo prende il sopravvento sulla qualità, mentre l’apprendimento viene relegato in terza posizione. Dovrebbe dunque sorprenderci il fatto che per un manager sia così difficile rinunciare a impartire ordini verbali e che la performance rimanga così al di sotto di quanto potrebbe e dovrebbe essere? Se un manager applica i principi del coaching, ottiene allo stesso tempo due scopi: che il lavoro venga svolto secondo standard qualitativi più alti e che i suoi collaboratori sviluppino al meglio le loro capacità. Sembrerebbe un sogno avere 250 giorni all’anno di lavoro svolto come si deve e 250 giorni all’anno di crescita del personale, eppure è esattamente questo che il manager/coach riesce a ottenere.

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CAPITOLO 3 LA NATURA DEL CAMBIAMENTO

Nel mondo delle aziende l’esigenza di un cambiamento non è mai stata avvertita quanto oggi. Per alcuni anni, l’idea che la cultura tradizionale del mondo aziendale dovesse cambiare ha avuto una diffusione puramente teorica; da qualche tempo, invece, l’espressione «cambiare per sopravvivere» incontra negli ambienti del business un dissenso sempre più minoritario. Come si è arrivati a questo? Per quale ragione ciò che in passato appariva come una pratica pienamente accettabile ora non lo è più? Ci stiamo forse lanciando nei cambiamenti per il puro gusto della novità? Come facciamo a sapere che cambiando miglioreremo le cose? E per quanto tempo? A domande come queste non mancano risposte particolarmente ciniche: «Di grandi cambiamenti ne abbiamo già fatti in passato, e non si è mai vista alcuna differenza»; «Faremo appena in tempo a cambiare che sarà già ora di rivoluzionare tutto di nuovo»; «E meglio non fare un bel niente, tanto è soltanto l’ennesima moda passeggera». Sono risposte dettate dall’ansia che molti provano dinanzi alla miriade di incertezze innescate dalla prospettiva del nuovo, ma si tratta di obie zioni e perplessità più che giustificate e faremmo bene a tenerne debitamente conto se vogliamo gestire il cambiamento nel modo migliore. A spingerci in questa direzione non mancano ragioni pratiche, come una crescente concorrenza a livello globale che forza il passo verso la creazione di aziende più scattanti, più efficienti, più flessibili e più sensibili ai problemi. Spesso poi, per la grande rapidità con cui si sviluppano le innovazioni tecnologiche, accade che gli stessi manager si accorgano di non avere mai acquisito le conoscenze di cui già dispongono invece i membri dei team che essi dovrebbero dirigere. I mutamenti demografici, la progressiva integrazione europea e il riallineamento finanziario dei paesi appartenenti al vecchio blocco orientale pongono ulteriori sfide, per non parlare del fenomeno della globalizzazione. Le imprese si trovano indissolubilmente coinvolte nelle tendenze sociali, economiche e psicologiche indotte dalla globalizzazione. A loro volta, le esigenze finanziarie e commerciali espresse dalle aziende, e il potere di cui esse dispongono, non fanno che influenzare profondamente la cultura dell’ ambiente circostante.

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Trasformarsi: da che cosa a che cosa? La cultura delle imprese deve dunque trasformarsi, ma in quale direzione! La risposta a tale quesito — come pure a gran parte degli interrogativi che abbiamo appena indicato -— è condizionata dagli sviluppi futuri e prescinde dalla volontà degli attori coinvolti, ma quel che è certo è che la nuova cultura dovrà necessariamente offrire livelli di performance più elevati. Nessuna azienda intende correre i rischi né affrontare i profondi sconvolgimenti interni connessi con i cambiamenti di grande portata per il puro gusto di cambiare o per creare condizioni migliori per i propri dipendenti. La trasformazione culturale sarà immancabilmente guidata - e dovrà esserlo — dalla performance: è la competizione stessa a imporlo, e le aziende o i singoli individui che non sapranno offrire una performance superiore a quella accettabile in passato non saranno in grado di sopravvivere nei mercati attuali, sovraffollati, instabili e frammentati. Ma in una situazione in cui le opportunità di carriera e di aumenti di stipendio si contraggono drammaticamente in ogni settore, come possiamo fare per incrementare la performance? Negli ultimi anni, frasi del tipo «il personale rappresenta la nostra più grande risorsa». «dobbiamo responsabilizzare i dipendenti», «occorre liberare le potenzialità latenti», «bisogna ridimensionarsi e delegare le responsabilità» oppure «dobbiamo trarre il meglio dal nostro personale» sono divenute veri e propri cliché. Il loro autentico significato resta valido oggi come lo era nel momento in cui sono state pronunciate per la prima volta, eppure troppo spesso, esse non paiono altro che vuote parole. Le si ripete all’infinito, anziché metterle in pratica! Quando si afferma che il coaching viene applicato per migliorare le performance, si intende dire esattamente questo: applicare un determinato metodo allo scopo di massimizzare la performance, ma si tratta di un metodo che esige cambiamenti radicali tanto negli atteggiamenti e comportamenti dei manager quanto nella struttura dell’azienda. In somma. il coaching riesce a dare sostanza al cliché! La maggior parte delle aziende che si rivolgono a noi lo fanno perché si trovano coinvolte in un processo di trasformazioni radicali (o almeno vorrebbero trovarcisi). Ciò che queste aziende hanno capito è che, se vogliono realmente elevare a performance, i loro dirigenti devono adottare uno stile manageriale basato sul coaching. Un nuovo stile Queste aziende si sono rese conto che il coaching non è altro che lo stile manageriale di una cultura aziendale rinnovata,ma che è possibile innescare questo rinnovamento soltanto allorché lo stile di management passa da una forma puramente direttiva al coaching: l’ordine gerarchico lascia il posto alla collaborazione, al biasimo si sostituisce un’onesta valutazione, i fattori motivanti di tipo esterno vengono sostituiti dalla profonda motivazione interiore di ciascun dipendente; grazie alla creazione di team cadono tutte le barriere interne, il cambiamento non

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suscita più timori ma è, anzi, il benvenuto, e soddisfare le richieste del capo si traduce praticamente nel l’accontentare il cliente. A forme di riserbo e censura si sostituiscono apertura e franchezza, le pressioni esercitate dal lavoro si traducono in sfide e quelle convulse reazioni con l’acqua alla gola pur di chiudere i lavori nel rispetto delle scadenze cedono il passo all’elaborazione strategica di lungo termine. Queste sono soltanto alcune delle caratteristiche della cultura aziendale emergente, anche se spetterà a ciascuna organizzazione stabilire il proprio particolare profilo e le proprie priorità.

Coinvolgimento e partecipazione Esiste tuttavia un altro fattore, forse meno evidente ma che compenetra a tal punto la vita di un’azienda da renderne difficile la gestione. Si assiste infatti nella gente a una crescita di consapevolezza che ha come conseguenza la rivendicazione di un maggiore coinvolgimento nei processi decisionali che hanno effetti di portata generale: sul lavoro come nel tempo libero, a livello locale come a livello nazionale o persino globale. Le decisioni che un tempo venivano prese dai tradizionali centri di autorità come governi e altre istituzioni e che raramente venivano contestate o discusse, ora vengono impugnate e portate all’attenzione dell’opinione pubblica dai media, dai gruppi di pressione o da singoli individui socialmente e politicamente impegnati. Non è forse questo che è accaduto nell’ex Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa orientale, determinando come effetto finale il crollo del comunismo? Mai come oggi, nella nostra società, è facile trovare ascolto, mentre assistiamo alla formazione di crepe nella dubbia rispettabilità di cittadelle un tempo inattaccabili. Chi ha qualcosa da nascondere si mette sulla difensiva, ma la maggior parte delle teste pensanti accoglie positivamente i cambiamenti, anche quando questi generano inevitabilmente momenti di insicurezza. Poco importa che si voglia considerare questa nuova consapevolezza come un fenomeno emergente di portata rivoluzionaria o come il risultato di un mondo che si è improvvisamente fatto più piccolo con l’ingresso nell’era delle comunicazioni digitali. In un modo o nell’altro, ora dobbiamo tenerne conto.

Da «push» a «puIl» Questa esigenza di maggiore coinvolgimento e partecipazione viene vista come una trasformazione di fondo della nostra società ed è spesso descritta in termini di passaggio da una fase push (spingere) a una fase pull (tirare). Che cosa si gnifica esattamente? Credo che la miglior risposta venga offerta dal seguente esempio. Tutti noi riceviamo nella nostra cassetta delle lettere una quantità esagerata di posta inviata dai mittenti più disparati, da missive di enti

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benefici che sollecitano una donazione a volantini commerciali che sollecitano i nostri acquisti: tutta posta, tra l’altro, che non desideriamo ricevere e consideriamo irritante e intrusiva. Alcuni di noi si ritrovano inseriti più di altri in un mare di mailing list e quindi si irritano più di altri (come avrete già capito. io sono uno di questi). La diffusione di Internet ci sta offrendo la possibilità di avere accesso a ciò che vogliamo quando lo vogliamo, offrendoci quindi più possibilità di scelta: possiamo tirare giù (pull) da Internet quello che vogliamo anziché dover continuare a cestinare ciò che troviamo nella nostra cassetta delle lettere perché altri, senza la nostra autorizzazione, ce lo hanno spinto (push). Naturalmente non è tutto così semplice. Quando scarico la mia posta elettronica o mi metto a navigare non faccio in tempo schiacciare il tasto del mouse che scopro che gli spacciatori di pubblicità sono arrivati prima di me e mi si apre davanti l’immancabile banner di qualche prodotto reclamiizzato. Ricordo ancora quando in Gran Bretagna avevamo soltanto due canali televisivi: adesso siamo sommersi da una molteplicità di opzioni, possiamo scegliere tra centinaia di emittenti e, in certi casi, persino decidere quale telecamera seguire durante la telecronaca di importanti eventi sportivi. Tutto questo riflette ancora una volta quella transizione da push a pull, dalla passività a una partecipazione più attiva, che è scaturita dal nostro desiderio di maggiori opportunità di scelta, anche se dobbiamo ancora rassegnarci all’intrusività della pubblicità commerciale. Un’analoga transizione ha luogo nella gestione del personale. Un tempo il manager era abituato a dire agli altri che cosa dovevano fare, ora invece «gli altri» si aspettano ed esigono di essere trattati in maniera diversa. Non si tratta di un passo indietro, come certi inveterati retrogradi vorrebbero fare credere, bensì di un’evoluzione nella coscienza collettiva della nostra società, a cui tra l’altro le aziende dovrebbero essere grate in quanto racchiude in sé la promessa di un incremento della performance. I dipendenti avvertono dal profondo del cuore l’esigenza di disporre di maggior potere decisionale e di farsi carico di più grandi responsabilità, e in molti casi stanno ottenendo entrambi. Con tutto ciò, benché non facciano altro che riempirsi la bocca della parola “empowerment”, molti manager continuano a coltivare quella grinta aggressiva di chi è abìtuato a decidere da solo e per tutti. La responsabilità implica il diritto di scelta e il diritto di scelta implica la libertà. Le persone — intendo dire le persone comuni — iniziano a capire non soltanto che è proprio questo ciò che vogliono ma anche che è possibile ottenerlo in misura molto maggiore di quanto si potesse concepire prima, e questo nonostante la complessità e variabilità delle nostre strutture sociali. Anziché sentirsi minacciati da questo fenomeno, i manager dovrebbero capire che possono capitalizzare su di esso, conferendo maggiori responsabilità ai dipendenti nella certezza che questi ultimi ricambieranno offrendo il meglio di loro stessi. In questo modo, si è tutti vincenti.

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La cultura del biasimo è endemica nel mondo del lavoro, perché lo è nella filosofia del comando.Il biasimo ha a che fare con la storia, la paura e il passato. Dobbiamo riportare la nostra attenzione sulle nostre aspirazioni, le nostre speranze e il nostro futuro. La paura di essere criticati non soltanto impedisce di correre il benché minimo rischio, per quanto calcolato, ma inibiscice la capacità stessa di individuare e riconoscere onestamente le inefficienze presenti nel sistema, e senza questo tipo fondamentale di feedback diventa impossibile introdurre correttivi appropriati. Non potremo intraprendere la strada di nessun vero cambiamento se nel nostro bagaglio continueremo a portare la cultura del biasimo. Purtroppo, la maggior parte dei manager, e anche della gente comune, sarà sempre molto restia a buttarla alle ortiche.

Lo stress La causa principale dell’esaurimento psicofisico è «lo scarso controllo personale» concesso al lavoratore nell’adempimento delle sue mansioni, e questa causa appariva ricorrente, a prescindere dal trattamento economico riservato al lavoratore.Lo scarso controllo personale compromette l’autostima. Esistono diversi modi di compromettere l’autostima, vedi la mancanza palese di rispetto per una persona, la minaccia, l’offesa, il biasimo. MA anche quando il manager sottrae ad una persona la responsabilità di un processo di lavoro, non esplicita il processo e l’obiettivo del lavoro, limitandosi a conferire incarichi riferiti a pezzi del ciclo di lavoro, di fatto ha una visione limitata della persona, la usa, la utilizza come fosse un’attrezzatura: questa è una forma strisciante di attacco all’autostima. Il fatto in sé non fa che indicare l’urgente bisogno di introdurre nella vita lavorativa dei cambiamenti che promuovano una maggiore responsabilizzazione personale dei lavoratori. Ma da che cosa dipende questo rapporto tra stress e «controllo personale»? La forza vitale della personalità di ogni individuo sta nell’autostima: se questa viene soffocata o compromessa, si hanno gravi ripercussioni su ogni aspetto della vita dell’individuo. Lo stress non è che il risultato di una prolungata repressione della stima di sé. Quando sul lavoro offriamo a qualcuno — ogni volta che sia possibile — la possibilità di operare autonomamente una scelta e di esercitare un buon grado di controllo sulle proprie azioni, non facciamo che riconoscere le sue capacità e confermare quindi la sua autostima. E così che si elimina lo stress.

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La paura del cambiamento Su molte persone, tuttavia, incombe minacciosa la paura del cambiamento, di qualsiasi cambiamento, il che non deve stupire se pensiamo a quanto poco possiamo fare per preparare i nostri figli al mondo in cui vivranno: non sarà certo il mondo che abbiamo conosciuto noi, di questo siamo certi, ma ci è precluso sapere come sarà. Forse, tutto quello che possiamo sperare di insegnare loro è di imparare a essere flessibili e adattabili, in modo da poter affrontare qualsiasi situazione. Il cambiamento come norma Gran parte di ciò che i nostri bis-bisnonni hanno insegnato ai loro figli, per questi ultimi si è rivelato utile e valido nel corso di tutta la vita. Nei tempi andati, però, si viveva in una condizione di stabilità, o perlomeno quesf ultima veniva accettata come norma, persino quando di fatto le cose cambiavano. La maggior parte di noi è stata educata con questa immagine di una situazione stabile e immutabile, e ora ci ritroviamo invece a doverci adattare a condizioni che tutto possono essere considerate, meno che stabili, I nostri pronipoti cresceranno in una cultura del cambiamento, sicché il loro problema saranno soltanto le variazioni del ritmo con cui esso si manifesterà. La nostra generazione, che si è fatta le ossa cullandosi nell’illusione della stabilità, è ora costretta a lottare per adeguarsi al fatto che il cambiamento è divenuto la regola e non l’eccezione. In un momento in cui tanta parte di quello che conosciamo e amiamo appare volatile e incerta, la piena accettazione della responsabilità individuale diviene una necessità fisica e psicologica per la sopravvivenza.

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CAPITOLO 4 LA NATURA DEL COACHING

Qualcuno tra i lettori potrebbe per il momento avere l’impressione che io abbia affrontato l’argomento del coaching prendendolo molto alla larga e che il ruolo del manager e contesto del cambiamento siano soltanto problemi collaterali. In realtà, non è affatto così: questi problemi costituiscono di fatto il contesto stesso del coachìng, e se non vengono recepiti e compresi in profondità il coaching si riduce a un ennesimo strumento nella cassetta degli attrezzi per le riparazioni d’emergenza. Con il metodo e i passi progressivi illustrati in questo libro, è anche possibile applicare la tecnica del coaching a qualcuno individualmente per aiutarlo a risolvere un determinato problema o ad acquisire nuove capacità, e questo senza necessariamente abbracciare in roto la filosofia cui tale tecnica si ispira. In tal caso, tuttavia, l’applicazione del coaching potrebbe permettere di conseguire qualche limitato successo, ma resterebbe ben al di sotto della sua potenziale efficacia. Qualche coach ha iniziato la sua attività proprio in questo modo. Ricordo molto bene un istruttore di sci che aveva se guito i nostrì corsi ma che non era ancora pronto per una profonda introiezione dei principi fondamentali del coaching. Con i suoi allievi aveva modi autocratici, era dogmatico e in una certa misura anche manipolatore, eppure, applicando si stematicamente il nostro metodo allo sci, riuscì a ottenere dei risultati che finirono per persuaderlo che, offrendo all’allievo maggiori possibilità di scelta, gli si forniva anche una chiave per liberare tutte le sue potenzialità nascoste. Ben presto cambiò radicalmente la sua filosofia, sia sulle piste da sci sia nella vita personale. Non si limitò a scrivere un manuale di auto coaching per sciatori, elaborando in questo campo il migliore programma di addestramento che io conosca, ma divenne an che un coach di successo nel settore degli agenti commerciali.

Accrescere la consapevolezza Il primo elemento chiave del coaching è la consapevolezza, vale a dire il frutto di un’attenzione estremamente focalizzata, di concentrazione e chiarezza di vedute. Torniamo per un momento al Concise Oxford Dictionary, che del termine aware, consapevole, dà le seguenti

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definizioni: «conscio, non ignaro, in possesso di conoscenza», Dal canto mio, preferisco ciò che a tale definizione aggiunge il Webster: «l’essere consapevoli implica la conoscenza di qualche cosa grazie a un atteggiamento vigile nell’osservazione o nell’ interpretazione di ciò che si vede, si sente, si prova eccetera». Allo stesso modo della nostra capacità visiva o del nostro udito, che possono essere buoni o meno buoni, anche della consapevolezza esistono infinite gradazioni. A differenza però della vista o dell’udito, che di norma sono buoni, la nostra consapevolezza quotidiana normalmente non lo è. Come una lente di ingrandimen to o un amplificatore possono elevare la soglia di vista o udito, il nostro grado di consapevolezza può aumentare se ci esercitiamo a focalizzare meglio l’attenzione (e senza bisogno di ricorrere a controllare solo farmaci o integratori alimentari!) Una maggiore consapevolezza significa una percezione più chiara del normale, proprio come avviene quando ci serviamo di una lente di ingrandimento. Coinvolge ovviamente le nostra capacità visive e uditive, ma sul lavoro comporta ben più di questo, identificandosi sia con una chiara percezione dei fatti e delle informazioni più importanti, sia con la capacità di determinare all’istante gli elementi significativi e caratterizzanti della situazione. Tale abilità comporta l’esatta comprensione degli schemi comportamentali, delle dinamiche e dei rapporti che si creano tra le persone e le cose, e quindi, inevitabilmente, include anche una certa analisi del sostrato psicologico. La consapevolezza di ciò che accade intorno a noi prevede necessariamente anche un buon grado di consapevolezza di noi stessi, soprattutto nel saper riconoscere prontamente quando e come le nostre emozioni e i nostri desideri siano in grado di distorcere le nostre facoltà percettive. La consapevolezza genera abilità Nello sviluppo delle abilità fisiche la consapevolezza delle sensazioni corporee può essere di importanza fondamentale. Nella maggior parte delle attività agonistiche, per esempio, il metodo più efficace che l’atleta ha a sua disposizione per incrementare l’efficienza fisica è quello di diventare sempre più consapevole delle sensazioni del proprio corpo mentre svolge l’attività sportiva. Nello sport sono ben pochi gli allenatori che hanno afferrato questo concetto, persìstendo invece a imporre dall’esterno i dettami della loro tecnica. Quando si focalizza la propria consapevolezza cinestetica su un dato movimento del corpo, si riducono e vengono rapidamente eliminate le eventuali tensioni e i conseguenti errori. Il risultato è un movimento più fluido ed efficace, ma con l’importante vantaggio che l’oggetto di applicazione della tecnica diventa il corpo di quel particolare atleta e non quello dell’atleta «medio» cui i manuali fanno solitamente riferimento. Un insegnante, un istruttore o, perché no, un manager saranno inevitabilmente tentati di mostrare e dire agli altri come fare una certa cosa nello stesso modo in cui è stato loro inse gnato di farla, oppure nello stesso modo in cui i «manuali» dicono che andrebbe fatta. In altre parole, insegnanti e manager con tale formazione non fanno che

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impartire una data istruzione allo studente o al sottoposto attenendosi fedelmente al proprio modello e perpetuando così le opinioni e le tecniche prevalenti nel campo oggetto di formazione. L’apprendimento attraverso l’applicazione del modo «giusto» di fare qualcosa — vale a dire secondo il metodo standard — può offrire, inizialmente, qualche risultato in termini di performance, ma restano totalmente soffocate le inclinazioni e le caratteristiche personali del soggetto, mentre il «docente», in compenso, riesce a semplif’icarsi la vita senza troppi sforzi. L’allievo, inoltre, resta completamente dipendente dalla figura dell’esperto che gli ha impartito le istruzioni, cosa che solletica ulteriormente l’ego del docente accrescendo la sua illusione di detenere un potere reale. L’alternativa offerta dal coaching per accrescere la consapevolezza porta in superficie e identifica chiaramente le caratteristiche assolutamente uniche del corpo e della mente di ogni individuo, riuscendo a creare nel contempo la capacità e la sicurezza in se stessi necessarie per migliorarsi senza aspettare da altri la ricetta giusta. Se esistesse un unico modo di fare le cose, Fosbury non avrebbe mai inventato il suo salto e Bjorn Borg non avrebbe mai vinto a Wimbledon. Il coaching crea cioè la capacità di far leva soltanto sulle proprie forze, crea fiducia, autostima e senso di responsabilità. Il coaching, naturalmente, non andrebbe mai confuso con tecniche del tipo «ecco gli strumenti: usali e impara da te> Il nostro grado di consapevolezza, infatti, è di norma relativamente basso e, se fossimo lasciati a noi stessi, con i nostri soli mezzi potremmo anche impiegare moltissimo tempo per giungere a scoprire l’acqua calda e/o sviluppare metodi che, oltre a essere soltanto in parte efficaci, si trasformerebbero rapidamente in cattive abitudini. Per accrescere il nostro grado di consapevolezza è pertanto indispensabile la presenza di un coach esperto, almeno fino a che non riusciamo a sviluppare la capacità dell’autocoaching. che apre la porta a un miglioramento continuo e alla continua scoperta di noi stessi. Per acquisire maggiore consapevolezza abbiamo bisogno di stimoli diversi e ogni attività sollecita differenti aspetti di noi: lo Sport, per esempio, è sostanzialmente di tipo muscolare, anche se non mancano discipline in cui è essenziale una buona capacità visiva: i musicisti devono invece sviluppare al massimo livello la loro consapevolezza uditiva; a scultori e prestigiatori occorre un’elevata consapevolezza tattile, mentre a chi opera nel mondo del business è richiesto un alto grado dì consapevolezza delle proprie come delle altrui facoltà intellettive, oltre che di altri aspetti delle interazioni. Anche se da principio tutta questa spiegazione della con sapevolezza può quasi intimorire, non bisogna dimenticare che si tratta di qualcosa in grado di svilupparsi rapidamente attraverso l’applicazione e un adeguato coaching. Sarà forse più chiaro se consideriamo le seguenti definizioni: La consapevolezza è la conoscenza di quanto accade attorno a noi.

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La consapevolezza di noi stessi è la conoscenza di ciò che proviamo dentro di noi. L’input Al fine di comprendere meglio ciò che intendiamo per consapevolezza, possiamo ricorrere a un parola: ìnput. Ogni attività umana può essere ricondotta a questi tre elementi: input - elaborazione - output. Quando, per esempio, ci stiamo recando al lavoro in auto, riceviamo un certo numero di input dal movimento del traffico, dalla strada, dalle condizioni atmosferiche, dai cambi di velocità, dalle variazioni del rapporto spazio-tempo, dal suono del motore, dagli strumenti di bordo, dalla comodità dei sedili e dalla tensione o dalla stanchezza del nostro corpo. Si tratta di input di diversa natura che possiamo accettare o rifiutare del tutto, accogliere solo in parte o in tutti i loro più complessi particolari oppure nemmeno notare, salvo nei loro aspetti più macroscopici. Possiamo dunque essere consapevoli della totalità degli elementi che ci dicono che siamo alla guida del nostro auto- mezzo oppure semplicemente ricevere gli input necessari per farci arrivare sani e salvi al lavoro mentre ascoltiamo la radio. In un modo o nell’altro, stiamo ricevendo degli input. I guidatori migliori registrano una quantità maggiore di input da cui traggono informazioni più dettagliate, che poi elaborano per agire e produrre l’output più adatto, per esempio la giusta velocità e un corretto posizionamento del veicolo sulla strada. Comunque sia, per quanto siate abili nell’elaborare l’input ricevuto per poi agire di conseguenza, la qualità del vostro output dipenderà dalla qualità e dalla quantità dell’input. Accrescere il nostro grado di consapevolezza, significa acuire al massimo i nostri recettori di input sintonizzando al meglio i nostri sensi e coinvolgendo le nostre facoltà intellettive. Benché proprio un grado elevato di consapevolezza sia la condizione per garantire una prestazione elevata, dentro di noi, che lo vogliamo o no, opera una sorta di meccanismo che tenta continuamente di abbassare il nostro grado di consapevolezza alla soglia di “quel tanto che basta per fare andare avanti le cose”. Anche se a prima vista può apparire una specie di iattura, in realtà si tratta di un «filtro» di essenziale utilità se vogliamo evitare di ritrovarci sommersi dagli input.L’aspetto negativo sta, se mai, nel fatto che, se non accresciamo la nostra consapevolezza e quella dei nostri collaboratori, finiamo per generare degli output di un livello qualitativo minimo. L’abilità del coach sta proprio nell’incrementare la nostra consapevolezza e mantenerla costantemente a un livello adeguato e focalizzata sugli aspetti che ne hanno più bisogno. Nei nostri corsi usiamo definire la consapevolezza come un input specifico di alta qualità. Potremmo anche fare precedere tale definizione dall’aggettivo autogenerato, ma il suo significato è già di per sé implicito, in quanto nessun input è di alta qualità se non è

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autogenerato. A garantire la qualità è il fatto stesso di essere coinvolti in qualcosa. Considerate per esempio la povertà dell’immagine che ricevete se vi dico: «I fiori in giardino sono rossi» rispetto all’input racchiuso in una domanda del tipo: «Di che colore sono i fiori in giardino?», che vi costringe a mettere in azione le vostre facoltà visive per formulare da soli un giudizio. Ancora meglio sarebbe se vi chiedessi quali sono le sfumature e le gradazioni di rosso di quei fiori. Con la prima frase io vi offro un’immagine standardizzata e statica del fiore, mentre con la seconda domanda dirigo la Vostra attenzione verso quella variegata esplosione di forza vitale racchiusa nelle infinite delicate sfumature di rosso colte in un preciso istante. E sottolineo così anche l’unicità del momento, poiché, trascorso un quarto d’ora, tutto sarà diverso: saranno cambiate quanto meno le condizioni dell’illuminazione, rendendo irripe tibile forse per sempre l’istantanea di qualche minuto prima. L’input autogenerato è pertanto infinitamente più ricco, più immediato, più reale. Un’altra parola che caratterizza la consapevolezza è feedback, ovvero l’informazione che ci ritorna dall’ambiente circostante, dal nostro corpo, dalle nostre azioni, dalle apparecchiature che stiamo usando: insomma, dalle nostre interazioni con il mondo che ci circonda e che distinguiamo da quella che ci proviene dalle altre persone. Responsabilità Quello della responsabilità è l’altro concetto chiave, e insieme anche obiettivo, della pratica del coaching. Nel capitolo precedente ho sollevato il problema relativo al rapporto esistente tra un cambiamento della cultura aziendale e una maggiore attenzione verso il senso di responsabilità collettivo e individuale. Il senso di responsabilità è fondamentale anche per ottenere performance elevate. Quando accettiamo con onestà o ci assumiamo la piena responsabilità dei nostri pensieri e delle nostre azioni, aumenta il nostro impegno e di conseguenza, anche la nostra prestazione. Anche quando ci viene ordinato di essere responsabili, o ci viene detto che lo siamo, o lo percepiamo come un’attesa nei nostri confronti, la performance non migliora se non c’è da parte nostra piena accettazione. Certo, anche in queste condizioni svolgeremio ugualmente il nostro lavoro perché avvertiamo un’implicita minaccia se non lo facessimo, ma fare qualcosa al puro scopo di scongiurare una minaccia non migliora affatto la performance. Sentirsi veramente responsabili, invece, comporta inevitabilmente una scelta a livello personale. Vediamo qualche esempio. Biasimo Se io vi dò un consiglio, soprattutto se non richiesto, e voi lo seguite ma ottenete un pessimo risultato, che cosa fate? Darete la colpa a me, ovviamente, il che è una chiara indicazione di dove voi vedete che la responsabilità risiede. Di fatto l’insuccesso potrebbe avere le sue cause

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tanto nell’inadeguatezza del mio consiglio quanto nella vostra mancanza di autentico coinvolgimento personale. Quando sul lavoro un consiglio di questo tipo si trasforma in un ordine, il vostro grado di scelta personale diventa uguale a zero e questo può generare risentimento, persino sotterranei atti di sabotaggio, quando non addirittura la scelta di un’azione di contrasto: «Non mi hai dato alcuna possibilità di scelta; hai leso la fiducia in me stesso e io non ho alcuna possibilità di ricostituirla, di certo non mediante un’azione in cui non mi sento in alcun modo coinvolto, pertanto mi assumo la responsabilità di un’azione alternativa che si ritorcerà a tuo danno. Certo, lo so, sarà un’iniziativa che potrà ritorcersi anche contro di me, ma mi sarò almeno ripreso ciò che era mio». Se questa successione di pensieri (inconsci) vi sembra un’esagerazione, vi assicuro che esistono milioni di dipendenti con pessimi capi pronti ad ammettere di aver seguito talvolta proprio questa strada. Libertà di scelta Ecco un altro esempio che evidenzia il divario tra un grado di responsabilità normale o imposto e la più elevata responsabilità frutto di libera scelta. Immaginate un gruppo di muratori a cui vengono date istruzioni di questo tipo: «Fred, vai a prendere la scala a pioli. Ce n’è una nel capanno.» Che cosa fa Fred se scopre che nel capanno non c’è nessuna scala? Torna dal capomastro e dice: «Non c’è ne scala». Che cosa sarebbe accaduto, invece, se il capomastro avesse formulato diversamente la sua richiesta? «Abbiamo bisogno di una scala a pioli. Ce n’è una nel capanno. Chi vuole andarla a prendere?» Fred risponde: «Ci vado io». ma quando entra nel capanno non trova nessuna scala. Che cosa farebbe questa volta? Probabilmente inizierebbe a cercare altrove, ma perché? Perché si sente responsabilizzato e vuole ottenere un risultato. Troverà la scala, ma prima che per il capomastro lo farà per se stesso, per la sua autostima. Tutta la differenza sta nel fatto che è stata concessa una possibilità di scelta a cui Fred ha su bito reagito positivamente. Ancora un esempio. Un’azienda nostra cliente aveva alle spalle una storia di pessimi rapporti con le maestranze, così, nel tentativo di migliorarli, organizzammo una serie di corsi per i capireparto. Benché si fosse sparsa la voce che i nostri corsi erano particolarmente divertenti, i partecipanti si rivelarono da principio assai diffidenti, per non dire riluttanti. Mi fu subito chiaro che il modello comportamentale cui si attenevano era quello di opporsi a qualsiasi cosa la dirigenza chiedesse loro di fare: la frequenza al corso era vissuta come un’imposizione e loro opponevano resistenza. Per porre fine a quella situazione totalmente improduttiva domandai ai partecipanti quanta libertà di scelta avessero avuto in merito alla frequenza del corso. «Nessuna», risposero in coro.

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«Be’, in compenso avete una possibilità di scelta adesso» dissi io. «Il vostro dovere nei confronti dell’azienda l’avete fatto: siete venuti. Congratulazioni! Ora però sta a voi scegliere: come volete trascorrere questi due giorni? Potete imparare quante piu cose vi sarà nossibile, potete fare resistenza passiva, potete restare qui e pensare ad altro per tutto il tempo, potete anche andarvene in giro. Scrivete su un foglio una frase descrivendo quello che avete scelto di fare. Potete tenerla solo per voi, se preferite, o farla vedere al vostro vicino. A me non serve che la mostriate né tanto meno riferirò al vostro capo come avete scelto di comportarvi. Sta interamente a voi.» L’atmosfera nella stanza mutò di colpo. Ci fu come un sospiro di sollievo ma anche un improvviso afflusso di energia e la stragrande maggioranza dei presenti si impegnò nel corso con un alto grado di coinvolgimento personale. La possibilità di scegliere e la responsabilità possono fare miracoli. Questi semplici esempi illustrano chiaramente quanto sia importante la libertà di scelta per migliorare la performance di una persona che si sia assunta la propria responsabilità (per contro, se la persona non si sente responsabile, non si ottiene alcun risultato). Dire a qualcuno che è responsabile di qual che cosa non basta per farlo sentire responsabile. Magari potrà avere paura di non farcela e sentirsi in colpa se fallirà, ma non è lo stesso che sentirsi responsabili. Questo avviene soltanto attraverso una libera scelta, il che esige una domanda particolare (ma sulla definizione delle domande che fanno Parte del coaching torneremo nel prossimo capitolo). Consapevolezza e responsabilità Consapevolezza e responsabilità sono senza dubbio due elementi fondamentali nello svolgimento di qualsiasi attività. Quando preparava il suo libro Sporting Excellence, il mio collegga Davi Hemery, campione dei 400 metri a ostacoli e medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1968, consultò ben 63 campioni del mondo in oltre 20 diverse discipline sportive. Nonostante le molte diversità su numerosi aspetti la consapevolezza e la responsabilità risultarono costantemente come i due fattori attitudinali comuni più importanti, confermando ancora una volta come l’atteggiamento mentale sia per chiunque la chiave che apre le porte alle migliori prestazioni. La mente è la chiave Ai fini della sua ricerca, David Hemery chiese a ogni atleta di indicare fino a che punto riteneva che la mente fosse coinvolta nella sua attività agonistica. Scrive David: «Il verdetto unanime era chiaramente espresso da giudizi come im mensamente’, ‘totalmente’. ‘è lì che si gioca la vera partita’. è la mente il nostro vero avversario’, ‘ogni movimento del nostro corpo nasce di lì’. i giudizi più misurati furono del tipo: “la mente ha la stessa importanza del corpo”. Anche nel mondo del lavoro una

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performance ottimale non richiede certamente di meno: la mente è la chiave. La conoscenza e l’esperienza possono essere considerate, nel mondo del lavoro, gli equivalenti della tecnica e della forma fisica nel mondo dello sport.

Nessuno di questi due fattori, tuttavia, garantisce di raggiungere le vette del successo e del resto molte persone di successo hanno dimostrato che nessuna delle due è indispensabile: ciò che è essenziale è una mentalità vincente. La mentalità vincente Più o meno dieci anni fa, gli allenatori lavoravano soprattutto sull’abilità tecnica e sulla forma fisica necessarie in una determinata disciplina sportiva. In generale, non si riteneva che la mente giocasse un ruolo decisivo, si pensava che ciascun atleta fosse nato con proprie caratteristiche intellettuali e l’allenatore non potesse farCi niente. Sbagliato ! L’ allenatore in realtà faceva parecchio per influire sulla mente dell’atleta, ma lo faceva involontariamente e, nella maggior parte dei casi, nel modo sbagliato per via dei suoi metodi autocratici e della sua ossessione per l’aspetto puramente tecnico. Impartendo esattamente agli atleti gli ordini su cosa fare e come farlo, gli allenatori di quel tipo negavano di tatto ai loro pupilli ogni responsabilizzazione personale e, imponendo loro esclusivamente la propria visione, impedivano anche il formarsi di qualsiasi forma di consapevolezza: in poche parole, bloccavano il senso di responsabilità individuale e distruggevano la consapevolezza. Alcuni sedicenti allenatori lo fanno ancora oggi, analogamente a molti manager, rivelandosi così un ingombrante quanto ineludibile componente tanto

A T T E G G IA M E N T O M E N T A L E

N e llo s p o rt N e l la v o ro

T e c n ic a F o rm a fis ic a

A T T E G G IA M E N T O M E N T A L E

C o n o s c e n z a E s p e rie n z a

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dei limiti quanto dei successi dei loro atleti o sottoposti. Il problemna è che, anche cosi facendo, un qualche risultato riescono comunque a conseguirlo dalle persone con cui lavorano e, pertanto, non sono minimamente motivati a percorrere altre strade, continuando così a ignorare quello che potrebbero ottenere adottando metodi diversi. Negli ultimi anni molto è cambiato nello sport e la maggior parte delle grandi squadre ricorre all’aiuto di psicologi che conducono con gli atleti varie forme di training attitudìnali. Anche l’opera degli psicologi, tuttavia, rischia spesso di essere vanificata, seppur non intenzionalmente, se non si abbandonano contestualmente i vecchi metodi impiegati dagli allenatori. Il modo migliore per sviluppare e conservare uno stato mentale che potremmo definire come «ideale» per una buona performance è quello di creare consapevolezza e responsabilità attraverso la pratica quotidiana e lo stesso processo di acquisizione e affinamento di competenze e abilità. Tutto questo richiede però un cambiamento di rotta da parte degli allenatori nell’applicazione delle loro metodologie, vale a dire il passaggio dalla figura dell’istruttore a quella del vero coach. Il coach non è il deus ex machina che risolve i problemi, non è un insegnante, un consigliere o un istruttore e nemmeno un esperto: egli funge soltanto da cassa di risonanza, il suo compito è quello di facilitare le cose, di consigliare e, soprattutto, di accrescere il grado di consapevolezza. Le qualità del coach Durante i nostri corsi chiediamo ai partecipanti di stilare un elenco di quelle che dovrebbero essere le qualità di un bravo coach. Ecco che cosa di solito ne ricaviamo (io personalmente concordo con queste indicazioni):

paziente imparziale incoraggiante coinvolto buon ascoltatore intuitivo consapevole delle altrui possibilità consapevole delle proprie possibilità attento capace di ricordare

Spesso nell’elenco compaiono anche alcune delle seguenti caratteristiche:

perizia tecnica

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conoscenza esperienza credibilità autorità.

Il coach deve essere «esperto»? Con queste ultime cinque indicazioni mi trovo meno d’accordo, sicché mi pongo una domanda: un coach deve possedere esperienza e conoscenze tecniche nel campo specifico in cui sta operando? La risposta è no, se il coach sta davvero agendo in veste di persona esterna e imparziale, il cui unico compito è quello di facilitare l’acquisizione negli altri di un più elevato grado di consapevolezza. Se però il coach non nutre piena fiducia nei principi di cui si fu portatore — vale a dire nella necessità di far emergere le potenzialità nascoste dei suoi allievi e nel valore della responsabilità individuale — allora, per poter svolgere positivamente il suo compito, potrebbe pensare di avere bisogno anche di una certa perizia tecnica. Non sto dicendo che nel coaching non vi sia mai posto per indicazioni e precetti «tecnici», bensì che il coach meno bravo tenderà ad appoggiarsi soprattutto a questi aspetti, riducendo in tal modo il valore dei coaching stesso, in quanto ogni volta che interviene un input esterno diminuisce la responsabilità personale dell’ allievo. Le insidie della conoscenza L’ ideale sembrerebbe dunque un coach di grande esperienza e con grande conoscenza tecnica. I «tecnici» puri fanno però molta fatica a impedire che la propria perizia tecnica non sovrasti l’azione di coaching. Vorrei illustrare meglio tale situazione ricorrendo a un esempio tratto dal tennis. Alcuni anni fa successe che in parecchi dei nostri corsi di Inner Tennis le prenotazioni fossero così numerose da rendere insufficienti i nostri coach, sicché decidemmo di coinvolgere due coach di Inner Ski: facemmo loro indossare la divisa dell’istruttore di tennis consegnammo loro una racchetta e li lasciammo liberi di svolgere il loro lavoro, pretendendo soltanto da parte loro la promessa di non metter mai mano, in nessun caso, alla racchetta. In qualche misura ce lo aspettavamo, ma il lavoro svolto dai due coach sciatori risultò praticamente identico a quello dei loro colleghi tennisti, anzi, in un paio di occasioni essi fecero persino meglio. Ripensandoci. il motivo è più che chiaro: i coach dotati di un’effettiva esperienza nel gioco del tennis non tardavano a scorgere nei partecipanti ai corsi le inevitabili carenze tecniche, mentre i due coach esperti nello sci, che non erano in grado di riconoscere questi errori, vedevano negli allievi soltanto la maggiore o minore capacità di utilizzare il loro corpo. Una scarsa efficienza fisica nasce dal dubbio in noi stessi e da un inadeguato grado di consapevolezza del nostro corpo. I coach esperti nello sci, potendo basarsi unicamente sull’autodiagnosi dei partecipanti, affrontavano i problemi alla radice, mentre i coach che

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erano anche esperti tennisti finivano per affrontare soltanto il sintomo, cioè l’errore di tipo tecnico. Fummo pertanto costretti a sottoporre i nostri coach tennisti a ulteriori stage di formazione, per aiutarli ad astrarsi meglio dalle loro conoscenze puramente tecniche. A un livello più profondo Esaminiamo ora lo stesso fenomeno ricorrendo a un semplice aneddoto tratto dal particolare contesto del mondo del business. Una manager si accorse che un suo collaboratore, George, non trasmetteva con efficienza le necessarie informazioni ai colleghi dell’ufficio accanto, e pensò quindi che la soluzione poteva consistere nell’emissione, con scadenza settimanale, di un memorandum. Le informazioni offerte con questo mezzo, tuttavia, sarebbero state comunque insufficienti fino a che George avesse persistito nella sua reticenza a comunicare apertamente con i colleghi. Anziché ritenersi soddisfatta del semplice fatto che George approvasse l’iniziativa del memorandum, la manager utilizzò il coaching per aiutare il collaboratore a scoprire le sue resistenze e a liberarsene. La carenza di comunicazione era il sintomo, ma la causa stava nell’atteggiamento di chiusura da parte del dipendente. Morale: i problemi si risolvono soltanto a un livello più profondo di quello a cui essi si manifestano.

Il manager: esperto o coach? Per un esperto è difficile, ma non impossibile, essere un bravo coach. Ovviamente, per molti altri aspetti delle funzioni che un manager è chiamato a svolgere, la sua perizia tecnica è inestimabile e la verità, comunque sia, è che un manager, con molta probabilità, resterà sempre un esperto. Prendiamo però il caso di un alto dirigente che lavora in un’impresa che sta computerizzando un settore della propria attività. Se questo dirigente è anche un bravo coach non dovrebbe avere difficoltà a fare in modo che i suoi sottoposti sviluppino ulteriormente le proprie competenze nell’uso del computer, e questo a prescindere dalla perizia specifica del dirigente nei sistemi informatici. Se riesce in questo compito, rafforzerà la propria credibilità presso i collaboratori e, nonostante la mancanza di competenze specifiche, continuerà a dirigere con autorevolezza il reparto a lui affidato. Nel momento in cui le conoscenze si specializzano sempre più e diventano sempre più tecniche, la capacità di applicare il coaching può trasformarsi in un requisito indispensabile per molti manager.

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CAPITOLO 5 DOMANDE EFFICACI Porre a qualcuno una domanda a risposta chiusa

lo salva dal dover pernsare alla risposta. Porre domande a risposta aperta

lo costringe a pensare con la propria testa.

Nel capitolo precedente abbiamo chiarito che sono proprio le domande a generare consapevolezza e responsabilità. Sarebbe tutto semplice se lo scopo venisse raggiunto con qualsiasi genere di domanda, ma non è così. Occorre analizzare attentamente l’efficacia dei vari tipi di interrogativo e. per spiegarmi meglio, farò ricorso a un’analogia con lo sport. Chiedete a chiunque quale sia l’istruzione che viene impartita con maggiore frequenza in qualsiasi sport in cui si utilizzi una palla: la risposta sarà inevitabilmente: «Tieni lo sguardo fisso sulla palla». In tutti gli sport in cui c’è una palla, una pallina o un pallone è senza dubbio importante mantenere gli occhi sull’oggetto in questione, ma un’istruzione del tipo «Guarda la palla» aggiunge davvero il risultato voluto? No, perché se bastasse molti di noi sarebbero già campioni negli sport che abitualmente pratichiamo. Tutti sappiamo, per esempio, che un giocatore di golf colpisce con maggiore precisione e manda più lontano la pallina quando è perfettamente rilassato, ma un’istruzione del tipo «Rilassati» lo aiuterà effettivamente a rilassarsi? No. anzi, probabilmente aumenterà la sua tensione. Se il semplice impartire un’istruzione non consente di ottenere l’effetto desiderato, che cosa dobbiamo fare allora? Esaminiamo alcune possibili domande, avvalendoci dell’esempio della palla. «Stai guardando la palla?» Come reagiremmo a una

domanda del genere? Mettendoci sulla difensiva, forse, e probabilmente mentendo, proprio come facevamo in clas se quando l’insegnante ci domandava se eravamo attenti. «Perché non guardi la palla?» Ancora più sulla difensiva, o

forse aggiungendo un pizzico di analisi, se abbiamo ammesso tale inclinazione: «Sì. la guardo». «Non so perché non la guardo», «Non la

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guardavo perché pensavo all’im pugnatura della mia racchetta», oppure, più sinceramente. «Perché lei mi sta distraendo e mi innervosisce». Queste non sono domande dotate di particolare efficacia. Consideriamo invece il risultato ottenibile con le seguenti:

«Da che parte ruota la palla mentre procede verso di te ?» «Quanto è alta rispetto alla rete ?» «Dopo che è rimbalzata, ruota più veloce o più

lenta? «A che distanza è la palla dall’avversario quando

riesci a vedere per la prima volta in che verso sta ruotando ?» Queste domande appartengono a un genere del tutto diverso e riescono a ottenere ben quattro effetti importanti che nessuna delle precedenti domande/comandi riesce a ottenere: 1. Questo tipo di domanda costringe il giocatore a guardare la palla, dato che è impossibile rispondere se non la si è effettivamente guardata. 2. Per rispondere a quanto richiesto, il giocatore deve raggiungere un grado di concentrazione più elevato del normale, fornendo a se stesso un input di qualità più elevata. 3. Le risposte che vengono richieste implicano una descrizione, non un guidizio, il che evita di correre il rischio di scivolare nell’ autocritica o di danneggiare l’autostima del giocatore. 4. L ‘allenatore ottiene un fèedback che gli permette di verificare la precisione della risposta offerta dal giocatore e, di conseguenza, anche il suo livello di concentrazione. Tutto ciò ci conduce a domandarci come mai tanti allenatori sportivi insistano nell’impartire ordini assolutamente inefficaci del tipo: «Guarda la palla». Le ragioni principali, probabilmente, sono due: non si sono mai fermati a riflettere sul fatto che il loro metodo funzioni o meno perché «si è sempre fatto così»: e, in secondo luogo, sono più preoccupati di ciò che dicono che del reale effetto che le loro parole possono avere sull’allievo. Il cuore del coachìng Mi sono dilungato nell’esplorazione di un’azione semplice come quella di guardare una palla allo scopo di illustrare con una semplice analogia quello che costituisce il cuore del coaching. Dobbiamo assolutamente capire qual è l’effetto che cerchiamo di ottenere — consapevolezza e responsabilità — e che cosa dobbiamo dire/fare per ottenere tale effetto.

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Esigere semplicemente ciò che vogliamo è inutile, la soluzione è porre domande efficaci. Sono domande di questo tipo che focalizzano l’attenzione e creano chiarezza anche nel mondo del business: «Qual è il valore azionario attuale?» «Qual è il problema più ostico per lei !» «Quando dovrebbe tornare l’ingegnere?» «Come si ripercuoterà sui nostri nuovi clienti questa variazione di prezzo?» Si tratta cioè di domande molto specifiche. che esigono una risposta altrettanto specifica. Questi esempi bastano probabilmente a convincervi che una maggiore consapevolezza e un maggiore senso dì responsabilità si conseguono meglio ponendo del le domande che non impartendo delle istruzìoni. Ne consegue pertanto che la forma principale di interazione verbale tra un coach e il suo allievo è quella interrogativa. Dobbiamo ora esaminare in che modo costruire il tipo più efficace di domanda. La funzione delle domande Solitamente si pongono domande per sollecitare informazioni, che mi possono servire per risolvere un certo problema oppure per dare un consiglio o suggerire una soluzione a qualcun altro. Se sono un coach, tuttavia, le risposte che ricevo hanno un’importanza secondaria, in quanto non devo fare alcun uso delle informazioni che mi trasmettono, sulla cui completezza posso anche sorvolare. Ciò che davvero mi serve è che sia l’allievo a ricevere le informazioni necessarie. Le sue risposte servono spesso per indicare al coach il cammino da seguire per formulare le domande successive e, allo stesso tempo, gli permettono di verificare se l’allievo sta seguendo un percorso produttivo o comunque in linea con gli obiettivi che la sua azienda intende perseguire.

Le domande a risposta aperta Le domande a risposta aperta, che richiedono risposte di tipo descrittivo, favoriscono l’aumento della consapevolezza. mentre quelle a risposta chiusa impediscono elaborazioni accurate e il sì o il no della risposta sbarra la porta a un’ulteriore esplorazione dei particolari. Tali domande non costringono neppure l’interlocutore a impegnare seriamente le proprie facoltà intellettive. Nel processo del coaching le domande a risposta aperta sono quindi assai più efficaci per generare con sapevolezza e senso di responsabilità.

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Parole interrogative Le domande che si rivelano più efficaci per aumentare la consapevolezza e il senso di responsabilità iniziano con parole che cercano di quantificare o di evidenziare i fatti: parole come quando, che cosa, chi, quanto, quanti eccetera. Domandare perché? non è consigliabile, in quanto la parola implica spesso un giudizio critico e mette l’interlocutore sulla difensiva; perché e come, usati in senso assoluto, spingono al pensiero analitico, che può risultare controproducente. L’analisi (il pensiero) e la consapevolezza (l’osservazione) rappresentano attività mentali molto dissimili, che è praticamente impossibile svolgere contemporaneamente ottenendo un risultato soddisfacente. Qualora sia necessaria una dettagliata relazione sui fatti, è meglio sospendere temporaneamente l’analisi del peso e del significato di tali fatti. Se dobbiamo porre domande del tipo perché? o come? è meglio ricorrere rispettivamente a espressioni del genere «Quali erano le ragioni...?» e «Quali sono i passi per. . . ?» Si riesce così a ricavare risposte più specifiche e limitate ai fatti. Mettere a fuoco i particolari Le domande dovrebbero partire dal generale per scendere poi progressivamente nel particolare, poiché è proprio la richiesta di maggiori dettagli a tenere vigile l’attenzione e l’interesse dell’interlocutore. Questo momento è ben illustrato da un esercizio: l’osservazione di mezzo metro quadrato di moquette. Dopo averne osservato attentamente il tessuto, il colore, l’eventuale motivo geometrico e magari una rn o un alone, la moquette non desterà più un grande interesse nel l’osservatore e la sua mente comincerà a vagare altrove. Fornitegli però una lente d’ingrandimento e vedrete che tornerà a osservare più in profondità e molto più a lungo prima di annoiarsi. Un microscopio poi potrebbe trasformare quel pezzo di moquette in un affascinante universo fatto di forme, di trama e ordito, di colori, di microbi e persino di insetti: un’osservazione sufficiente a mantenere impegnati la mente e o sguardo dell’osservatore per molti altri minuti. Lo stesso accade nella pratica del coaching applicata al mondo del lavoro: il coach ha bisogno di scandagliare più in profondità e attingere a maggiori particolari affinché l’allievo rimanga coinvolto dal processo e giunga a interiorizzare quegli elementi, spesso parzialmente oscurati, che potrebbero rivelarsi importanti. Campi d’interesse Ma in che modo il coach stabilisce quali sono gli aspetti effettivamente importanti di un certo problema, soprattutto e si tratta di un campo in cui le sue conoscenze specifiche sono limitate? Il criterio basilare è che le domande dovrebbero conformarsi agli interessi e ai percorsi mentali dell’allievo, non a quelli del coach. Se fosse quest’ultimo a determinare

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la direzione delle domande, finirebbe per compromettere la responsabilizzazione dell’allievo. Ma che cosa fare se la direzione presa dall’allievo porta a un punto morto o a una semplice divagazione? Abbiate fede: sarà lui stesso il primo ad accorgersene, e presto. Se non si permette agli allievi di esplorare i percorsi che suscitano maggiormente il loro interesse, è molto probabile che la tentazione a divagare rimarrà forte, tanto da causare alterazioni e digressioni nello svolgimento stesso del lavoro, oltre che nella sessione di coaching. Una volta invece che hanno esplorato i loro campi d’interesse, saranno più presenti e concentrati proprio su quel percorso che, alla fine, emergerà come il migliore, quale che esso sia. Paradossalmente, al coach potrebbe essere utile concentrarsi sugli aspetti che l’allievo sembra voler evitare a tutti i costi e, al fine di non compromettere la fiducia e il senso di responsabilità dell’allievo, è meglio addentrarsi in questo particolare tipo di esplorazione ricorrendo a una frase assertiva seguita da una domanda: «Ho notato che non ha menzionato... C’è qualche motivo particolare per cui non l’ha fatto?» Punti ciechi È possibile che il parallelismo esistente tra il principio appena formulato e la corporeità susciti un certo interesse tra i giocatori di golf e i tennisti: un coach potrebbe domandare per esempio all’allievo di quale fase dello swing o del colpo ha minor consapevolezza fisica. Con ogni probabilità questo «punto cieco» nasconde un qualche disagio o qualche difficoltà motoria. Se l’allenatore si sforza di accrescere sempre più nell’allievo la consapevolezza di quel particolare punto, la sua consapevolezza verrà pienamente recuperata e il movimento si correggerà in maniera naturale, senza ricorrere a input di carattere meramente tecnico. Le proprietà terapeutiche della consapevolezza sono davvero infinite! Domande con risposta incorporata Le domande che contengono in sé già un suggerimento di risposta sono tipiche del coach scarsamente preparato e rivelano che egli stesso non crede nel processo di stimolo della consapevolezza che sta cercando di innescare, cosa di cui l’allievo non mancherà di accorgersi quanto prima, svilendo in tal modo l’attività di coaching. È meglio che il coach si limiti a comunicare all’allievo di avere un suggerimento da dargli, anziché cercare di manipolarlo per condurlo in una data direzione. Allo stesso modo, andrebbero evitate le domande in cui è implicito un giudizio critico, del tipo: «Ma come le è venuto in mente di fare una cosa simile?» Massima attenzione alle risposte

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Un bravo coach deve prestare la massima attenzione alle risposte fornite dall’allievo. Se non si dimostrerà attento, svanirà ogni fiducia in lui e, cosa altrettanto importante, non avrà elementi per individuare la domanda migliore con cui proseguire. L’intero processo deve avvenire con spontaneità e dunque domande preconfezionate non farebbero che interrompere il flusso naturale della scoperta, oltre a non essere probabilmente in sintonia con i veri interessi dell’allievo. Se il coach elabora la domanda successiva mentre l’allievo sta ancora parlando, questi capirà di non essere ascoltato attentamente. Molto meglio, pertanto, attendere che l’interlocutore abbia finito di parlare e magari concedersi una breve pausa durante la quale elaborare la domanda. La maggior parte delle persone non è capace di ascoltare gli altri: a scuola ci dicono di ascoltare, ma non ci insegnano né ci allenano a farlo. Si tratta, in effetti, di una capacità che richiede concentrazione e pratica. Eppure, stranamente, poca gente fa fatica ad ascoltare un notiziario o un appassionante sceneggiato radiofonico. Ciò che mantiene vigile l’attenzione è l’interesse, sicché, forse, dovremmo imparare a interessarci maggiormente degli altri. Non c’è nulla di più apprezzabile che ascoltare veramente qualcuno o sentirsi veramente ascoltati. Quando ascoltiamo, sentiamo veramente? Quando guardiamo, vediamo veramente? Imbrogliamo noi stessi e quelli con cui stiamo praticando il coaching se non li sentiamo né li vediamo veramente (intendo dire, con questo, se non manteniamo un vigile contatto di sguardi). L’ossessione per i nostri pensieri e le nostre opinioni e il bisogno compulsivo di dire la nostra sono particolarmente forti, soprattutto se rivestiamo il ruolo di esperto o consulente. A quanto si dice, visto che ci sono state date due orecchie ma una sola bocca, dovremmo ascoltare il doppio di quanto parliamo, e forse la cosa più dura da apprendere per un coach è proprio tenere la bocca chiusa! Il tono di voce Che cosa ascoltiamo e perché? Il tono di voce della persona con cui stiamo praticando il coaching potrebbe rivelare emo zioni importanti e nascoste, e dovrebbe quindi essere ascoltato attentamente. Una certa monotonia nelle inflessioni può indicare la ripetizione di una vecchia linea di pensiero, mentre una voce più animata segnala il risveglio di idee nuove. Anche la scelta delle parole può essere rivelatrice: sia una preponderanza di termini negativi sia il passaggio a un linguaggio più formale o, al contrario, quasi infantile possiedono un significato nascosto che può aiutare il coach a comprendere meglio la situazione e quindi facilitare la risoluzione dei problemi. Il linguaggio del corpo Oltre ad ascoltare attentamente l’allievo, il coach deve saper osservare il linguaggio del suo corpo, e non certo per il puro piacere

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dell’osservazione bensì per giungere a formulare la domanda migliore. Una postura leggermente tesa in avanti può suggerire un alto grado di coinvolgimento nella direzione in cui sta procedendo il coaching, mentre una mano portata a coprire parzialmente la bocca può rivelare un’eventuale incertezza o l’ansia legata alle risposte da dare. Le braccia incrociate sul petto indicano di norma un atteggiamento di resistenza o di diffidenza, mentre una postura rilassata suggerisce una buona recettività e flessibilità. Non intendo addentrarmi nelle tante sfumature che caratterizzano il linguaggio del corpo, ma vorrei comunque ribadire che, se le parole dicono una cosa e il corpo sembra comunicarne un’altra, è molto probabile che sia il corpo a rivelare i veri sentimenti del nostro interlocutore. Il feedback Oltre ad ascoltare, sentire, osservare e capire, il coach deve possedere una sufficiente consapevolezza di sé per sapere con precisione ciò che sta facendo. Per quanto sicuro possa sentirsi, tuttavia, è buona norma che riassuma di tanto in tanto all’allievo ciò che è stato detto fino a quel punto e ne tiri le somme. Questo, oltre a garantire una migliore comprensione da parte del coach, rassicurerà l’allievo, che avrà conterma di essere stato ascoltato e compreso e potrà inoltre verificare ulteriormente la veridicità di quanto ha detto. Nella maggior parte delle sessioni di coaching può emergere l’esigenza di prendere appunti, cosa che di solito viene concordata con l’allievo. Quando conduco una sessione, sono io stesso a prendere appunti, in modo che nel frattempo l’allievo si senta libero di riflettere. La consapevolezza di sé Un bravo coach saprà infine fare buon uso della sua consapevolezza di sé per controllare attentamente le proprie reazioni sia emotive sia intellettuali alle risposte dell’allievo, comprese ovviamente quelle che lo riguardano direttamente e che potrebbero pertanto interferire con la sua indispensabile obiettività e distacco. Dobbiamo sempre pensare che il nostro vissuto e i nostri preconcetti - e nessuno di noi ne è libero — influenzano necessariamente il nostro modo di comunicare. Il transfert Proiezione e Trasfert sono i due termini che definiscono quelle particolari alterazioni della psiche che chiunque eserciti un’attività didattica o si ponga come guida, manager o coach, deve imparare a riconoscere e ridurre al minimo. Per proiezione intendiamo quel processo mentale che ci porta ad attribuire all’altra persona, o a percepire in lei, qualità e caratteristiche positive o negative che in realtà appartengono a noi. Il transfert è invece il momento in cui «trasferiamo nelle persone con cui abbiamo una certa consuetudine di rapporto modelli emotivi e comportamentali originariamente appresi dalle figure

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più significative della nostra infanzia». Sul lavoro, una delle più fre quenti manifestazioni di tale fenomeno avviene quando si trasferiscono negli altri determinati modelli autoritari. In ogni rapporto che venga percepito come gerarchico, per esempio tra manager e dipendente o persino tra coach e allievo, entrambi gli attori saranno influenzati da problemi e sentimenti inconsci legati all’esercizio dell’ autorità. Molte persone, per esempio, abdicano a ogni loro potere in favore di altri la cui autorità sia in qualche modo data per scontata «lui sa, ha tutte le risposte, ha più esperienza… eccetera» — e finiscono per farsi piccoli e infantili. Ciò forse può soddisfare il desiderio di dominio e di dipendenza di un manager autocratico, ma resta il fatto che tale atteggiamento contrasta con l’obiettivo del coaching, che è quello di generare il senso di responsa bilità nel collaboratore. Un altro esempio piuttosto frequente di tipica reazione all’autorità altrui, sempre legato al transfert inconscio, è quello della ribellione e del sabotaggio subdolo degli obiettivi di lavoro. Ogni volta che un modello manageriale limiterà la possibilità di scelta, il transfert di ogni dipendente non farà che aumentare un senso di frustrazione collettiva e una sensazione di totale impotenza. Un grande industriale del settore automobilistico era in grado di valutare lo stato delle relazioni di lavoro dalla percentuale di pezzi privi di difetti che erano stati gettati nei bidoni degli scarti disposti lungo la catena di montaggio. Il controtransfert Il controtransfert. che rappresenta un’ulteriore complicazione del fenomeno del transfert, già di per sé complesso, avviene quando la persona investita di una qualche autorità, manager o coach che sia, reagisce inconsciamente al transfert generato dal suo vissuto perpetuando nell’altro atteggiamenti di dipendenza o di ribellione. Un buon manager o un bravo coach devono saper riconoscere questa loro potenziale reazione e compensare gli effetti di ogni manifestazione di transfert applicandosi consciamente a generare nel sottoposto o nell’allievo sicurezza e autorità. Se ciò non avverrà, tali alterazioni comportamentali e psicologiche si insinueranno nel rapporto con il manager o con il coach e, nel lungo termine, comprometteranno seriamente i risultati che si intendevano conseguire mediante un certo stile di management. Domande utili Vorrei riportare alcune delle domande che io giudico di effettiva utilità in una sessione di coaching. Può darsi che vogliate aggiungerle a quelle che avete già individuato nelle vostre esperienze di coaching. Il loro primo requisito è che devono essere sincere. «E poi? Che cos’altro?» posta al la fine di una sequenza di altre domande riesce a sollecitare ulte riori informazioni. Spesso però anche un totale

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silenzio riesce a sollecitare dell’altro, permettendo intanto a! coach di riflettere sulla sessione in corso. «Supponendo che lei conosca la risposta, quale

sarebbe?» non è una domanda così sciocca come può sembrare, dato che pone l’allievo in grado di lanciare uno sguardo al di là dei limiti che si è imposto. «Quali sarebbero le conseguenze di tutto questo

per lei e per gli altri?» «Su quali criteri si sta basando?» «Qual è l’aspetto di tutto questo che più le appare

ostico o da cui si sente minacciato?» «Che consiglio darebbe a un amico che si trovasse

nella stessa situazione?» «Pensi di dialogare con la persona più saggia che

lei conosce o che riesce a immaginare: che cosa pensa che le consiglierebbe di fare?»

«Non saprei come procedere a questo punto. Lei come farebbe?» «Se facesse /dicesse questo, che cosa

guadagnerebbe /perderebbe ?» «Se qualcuno le dicesse/facesse questo, lei che

cosa proverebbe / penserebbe/ farebbe ?»

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CAPITOLO 6 LA SEQUENZA DELLE DOMANDE

Abbiamo dunque precisato la natura sostanziale della consapevolezza e del senso di responsabilità sia per l’apprendimento sia per il miglioramento della performance; abbiamo quindi analizzato brevemente il contesto del coaching, i parallelismi esistenti tra il lavoro del coach e quello del manager, certi aspetti della cultura aziendale e la necessità del cambiamento. Abbiamo infine esplorato il ruolo e l’atteggiamento mentale del coach, definendo la domanda come forma primaria di comunicazione fra lui e l’allievo. Dobbiamo ora definire meglio su che cosa debbano vertere le domande e in che sequenza pone. Formale o informale? A questo punto è importante sottolineare che una sessione di coaching può essere molto disinvolta e informale, al punto che l’allievo stesso potrebbe non rendersi conto di essere sottoposto a tale pratica. Nella vita lavorativa di ogni giorno, quando un manager deve fornire ai propri collaboratori le necessarie informazioni o attingerle da loro, niente è meglio dell’applicazione del coaching se si riesce a non farla identificare come tale: è meglio se appare come il semplice svolgimento delle mansioni manageriali. In questo caso, il coaching non è più uno strumento per dirigere gli altri ma soltanto un modo di gestire le persone (e il modo più efficace, a mio giu dizio). All’altra estremità dello spettro, una sessione di coaching può essere programmata e strutturata in modo tale che non vi sia alcuna ambiguità in merito agli scopi che si perseguono e ai ruoli che le persone coinvolte rivestono. Benché la maggior parte delle sessioni di coaching appartenga al primo tipo, noi esamineremo più dettagliatamente il secondo, in quanto, anche se il processo è assolutamente identico, le sue varie fasi appaiono più nettamente definite. A quattr’occhi Per ragioni di semplicità e chiarezza, esamineremo la sessione di coaching a quattr’occhi (cioè solo coach e allievo), anche se la struttura di una sessione di squadra, o persino quella dell’autocoaching, rimane esattamente la stessa (analizzeremo entrambe nei prossimi capitoli).

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Il coaching a quattr’occhi può avvenire tra due persone di pari grado, tra manager e dipendente, tra un allievo e un suo vecchio insegnante, tra un allievo e il suo coach o anche tra un consulente e la persona che ha richiesto il suo aiuto. Questo tipo di coaching può addirittura applicarsi — in genere non apertamente — dal basso verso l’alto, vale a dire tra un dipendente (in questo caso il coach) e il suo capo (che diventa l’allievo). In fondo, dal momento che nessuno fa troppa strada se pretende di dire al proprio capo quello che deve fare, praticare il coaching dal basso verso l’alto è un modo assai più sicuro per ottenere dei risultati positivi!

GROW: la crescita La sequenza di domande che io suggerisco dovrebbe seguire quattro punti ben distinti: 1. fissare l’obiettivo sia della sessione, sia nel breve e lungo termine (Goal)

2. verificare la realtà, cioè i dati di fatto, al fine di analizzare la situazione (Reality)

3. verificare le opzioni e le strategie alternative d’azione (Options);

4. verificare che cosa (What) si deve fare, quando farlo (When),chi deve farlo (Who) e la volontà di farlo (Will).

Questa sequenza presuppone che si tocchino tutti e quattro i punti, cosa che di solito avviene allorché si affronta per la prima volta un problema nuovo. Spesso, comunque, il coaching viene applicato anche per sviluppare e perfezionare un’attività di cui si è già discusso e che è già in pieno svolgimento. In questo caso, la sessione può iniziare e concludersi con qualsiasi dei punti indicati. Può sembrare strano fissare gli obiettivi prima ancora di analizzare i dati di fatto. Un approccio logico di tipo superficiale suggerirebbe infatti il contrario, dal momento che abbiamo senz’altro bisogno di conoscere la realtà prima di poterci porre determinati obiettivi. Ma non è così: gli obiettivi fissati in base ai soli dati di fatto rischiano di essere di segno negativo, di limitarsi semplicemente a indicare una risposta a un determinato, di risentire di performance insoddisfacenti avvenute in passato, di mancare di creatività in quanto ci si basa sulla pura

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estrapolazione dei dati, di ottenere molto meno di quanto sarebbe possibile e di risultare addirittura controproducenti. Obiettivi a breve termine possono poi persino allontanarci da quelli a lungo termine. In base alla mia esperienza nella definizione di obiettivi nei corsi di formazione per team, il team tende invariabilmente a fissare i propri obiettivi basandosi su quanto è stato fatto in passato piuttosto che su quanto è possibile fare in futuro, e in molti casi non si tenta neppure di veri ficare eventuali nuove possibilità. In generale, gli obiettivi fissati accertando prima quale sia la soluzione ideale a lungo termine e stabilendo poi quali possano essere, realisticamente, i passi da intraprendere per raggiungere quella soluzione, offrono maggiori ispirazioni, inducono a una maggiore creatività e favoriscono una reale motivazione interiore. Vorrei illustrare questo punto — decisamente importante — con un esempio: se ci accingiamo ad affrontarea il problema dell’eccessivo volume di traffico su un’importan te strada di scorrimento limitandoci a indagare la realtà, e probabile che finiremo per fissare come obiettivo quello d rendere il traffico più scorrevole semplicemente ampliando la sede stradale. Così facendo, potremmo oscurare un obiettivo a lungo termine più «visionario», per esempio l’individuazione di un modello futuro ideale di traffico per quella data area e la conseguente definizione dei passi da seguire per procedere iii quella direzione. Il mio suggerimento, nella maggior parte dei casi, è pertanto quello di attenersi alla sequenza che abbiamo esposto in precedenza. Molto di più di una semplice crescita Devo sottolineare, tuttavia, e lo farò spesso. che la semplice applicazione della sequenza GROW, estrapolato dal contesto della consapevolezza e del senso di responsabilità, e senza la necessaria capacità di porre le giuste domande per generarle entrambe, ha ben poco valore. Nei corsi di formazione abbondano acronimi che si possono facilmente ricordare, recepiti come una sorta di panacea per tutti i mali che affliggono la vita aziendale. In realtà il loro valore risiede unicamente nel contesto in cui vengono usati, e il contesto del GROW è rappresentato dalla consapevolezza e dal senso di responsabità.Il tipico capo dai metodi autocratici potrebbe rivolgersi ai suoi sottoposti nel modo seguente: 1. il mio obiettivo (Goal) è quello di vendere questo mese mille esemplari del nostro prodotto: 2. un dato di fatto (Reality) è che il mese scorso avete avuto dei risultati molto scarsi e siete riusciti a venderne sol tanto 400. Siete una massa di pigroni perdigiorno eccetera eccetera. Il nostro principale concorrente sta commercializzando un prodotto migliore del nostro, quindi dovrete mettercela tutta:

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3. ho considerato tutte le opzioni (Options) e non intendiamo né aumentare la nostra pubblicità né presentare il prodotto in una confezione diversa: 4. ecco che cosa (What) farete. Questo manager ha seguito scrupolosamente il modello fornito dall’ acronimo GROW, ma non ha posto ai suoi dipendenti una singola domanda. Non ha creato in loro alcuna con sapevolezza e, benché sia convinto di averli investiti di responsabilità ricorrendo al tono minaccioso, in realtà ha fallito, perché non ha lasciato loro alcuna libertà di scelta. Contesto e flessibilità Se intendete ricavare un qualche risultato dalla lettura di questo libro, fate in modo che si tratti di consapevolezza e di una certa dose di ripensamento, nel senso che, fino a quando non si sono esaminati nel dettaglio i dati di fatto, cioè la realtà, l’obiettivo può essere fissato in termini ancora vaghi e si renderà quindi necessario riprendere il primo punto (cioè tornare all’obiettivo) allo scopo di definirlo con maggior pre cisione prima di passare alla fase successiva. Una volta che la realtà sia chiarita, può capitare che anche un obiettivo all’inizio nettamente definito si riveli sbagliato o inadeguato. Al momento di elencare le varie opzioni, sarà necessario tornare sui propri passi per assicurarsi che ciascuna di esse possa effettivamente farvi progredire verso l’obiettivo che volete raggiungere. Da ultimo, prima di stabilire concretamente il che cosa e il quando, è essenziale verificare ancora una volta che entrambi promuovano effettivamente il raggiungimento dell’obiettivo. Analizzeremo ora più in profondità ognuno di questi pas saggi, delineando quali siano le domande che più accrescono la consapevolezza e la responsabilità.

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CAPITOLO 7 FISSARE GLI OBIETTIVI Lavoro meglio se sono io a volerlo fare, non se devo farlo.

Se lo voglio fare, è per me: se lo devo fare, è per altri. La nostra motivazione interiore dipende dalla libertà di scelta.

Esiste una tale quantità di letteratura sull’importanza e sul processo della definizione degli obiettivi che non devo certo ripetere tutte queste argomentazioni in un libro che parla del coaching. La definizione di obiettivi costituisce di per sé un argomento in grado di occupare un intero libro. Spero tuttavia che quanti si ritengono degli esperti in tale materia mi perdo neranno se mi soffermerò. sia pure brevemente, su quegli aspetti relativi agli obiettivi che giudico particolarmente im portanti nell’applicazione del coaching. L’obiettivo della sessione Una sessione di coaching si apre invariabilmente con la definizione dei suoi obiettivi. Se è stato l’allievo a richiederla, tocca chiaramente a lui stabilire che cosa intende otteneme anche nel caso che sia stato il coach o un manager a richiedere la sessione per risolvere un problema specifico, tuttavia, è bene domandare all’allievo se in quella sede si propone di raggiungere anche qualche altro risultato. Le domande sono normalmente di questo tipo: • Che cosa vorrebbe ricavare da questa sessione? • Disponiamo di circa mezz’ora. Che cosa si propone di ottenere in questo tempo? • Qual è la cosa più utile che vorrebbe portare con sé al termine di questa sessione? Ed ecco alcune possibili risposte: • Un progetto da seguire e sviluppare nel prossimo mese. • Idee chiare e un preciso impegno da parte mia in merito alle due prossime azioni che dovrò intraprendere. • Una decisione sulla strada da prendere. • Capire esattamente quali sono i problemi principali.

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• Concordare un budget per il lavoro.

L’obiettivo in relazione al problema Passiamo ora all’obiettivo, o agli obiettivi, da raggiungere in relazione al problema specifico che dobbiamo affrontare, ed è a questo punto che dobbiamo essere in grado di distinguere gli obiettivi finali da quelli relativi alla performance.• L’obiettivo finale. Un obiettivo finale come, per esempio, diventare un’ azienda leader sul mercato, essere nominato direttore dell’ ufficio vendite, acquisire un cliente importante, vincere la medaglia d’oro eccetera è raramente controllabile in modo totale da parte vostra, in quanto non potete sapere nè verificare che cosa farà la concorrenza. • un obiettivo di performance (che si può definire anche come il processo finalizzato all’obiettivo finale). E’ quello che identifica il livello di performance che, secondo voi, potrà garantirvi - con un buon margine di sicurezza, il raggiungimento dell’obiettivo finale. Questo tipo di obiettivo è totalmente sotto il vostro controllo e, di norma, offre anche un mezzo per monitorare i progressi fatti. Come esempi di obiettivi di performance possiamo citare i seguenti: fare in modo che il 95 per cento della produzione superi il controllo di qualità già la prima volta riuscire a vendere 100 nuovi articoli nel giro di un mese; riuscire a correre il miglio in 4 minuti e 10 secondi entro la fine di settembre. La cosa importante è che risulta assai più facile assumersi un impegno preciso e una piena responsabilità nei confronti di un obiettivo di performance, che è totalmente sotto il vostro controllo, che non nei confronti dell’obiettivo finale, che invece non siete in grado di controllare. L’obiettivo finale dovrebbe essere supportato dall’obiettivo di performance ogniqualvolta sia possibile. L’obiettivo finale può fornire l’ispirazione. ma è l’obiettivo di performance a definire le specifiche. Gli obiettivi di performance sono decisivi. Il non aver definito con precisione l’obiettivo di performance ebbe come conseguenza un inaspettato quanto deprecabile risultato per la squadra britannica che partecipava alle Olimpiadi del 1968: il gallese Lyn Davies aveva vinto nel 1964 la. medaglia d’oro nel salto in lungo e ci si attendeva che a sa lire sul podio sarebbe stato lui insieme con Igoi’ Ter-Ova nesjan, un armeno che gareggiava sotto la bandiera sovie tica, e Ralph Boston. il campione americano. Come dal nulla era però comparso un certo Bob Beamon, un eccen trico atleta americano che con il primo salto superò di ol tre mezzo metro il record mondiale. Ora, se pensiamo che dal 1936 il record mondiale era stato migliorato soltanto di quindici centimetri, non c’è dubbio che si era trattato di un salto prodigioso. Davies, Boston e Ter-Ovanesjan avevano il morale sotto i piedi e anche se Boston si aggiudicò la medaglia di bronzo e l’atleta armeno il quarto posto, en trambi rimasero di ben quindici centimetri al di sotto del loro record personale. Davies. che si era fermato di ben trenta centimetri al di sotto del record personale, ammise che si era concentrato soltanto sulla medaglia d’oro

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e che se per la sua performance si fosse prefisso come obiettivo di saltare, diciamo. 8 metri e 30 centimetri, o quanto meno di ripetere il suo record personale, probabilmente avrebbe vinto la medaglia d’argento. Gli obiettivi finali e quelli di performance vanno spesso corredati da altri due elementi, che forse non possiamo defìnire esattamente obiettivi. Prendiamo l’esempio di Rebecca Stevens, la prima donna di nazionalità britannica a scalare il Monte Everest: tiene regolarmente conferenze e incontri in aziende e in scuole nei quali racconta delle vette da lei rag giunte, e non solo nel senso orografico del termine. Potete stare certi che, dopo averla ascoltata mentre narra ispirata le sue imprese. molti alunni corrono a casa e fanno impazzire i genitori perché li portino a scalare le montagne o almeno in una palestra dove sia possibile arrampicare. «Salirò in cima all’Everest» può essere la frase tipica di un bambino, ma rappresenta allo stesso tempo un sogno personale, una sorta di visione che ci spinge ad agire. A volte abbiamo bisogno di ricordare, oppure che ci venga fatto ricordare con la giusta domanda, che cos’è che ci ha ispirato a iniziare o a continuare a fare ciò che amiamo fare. Si tratta di quello che potremmo definire l’obiettivo sognato. Dopo alcune scalate di considerevole importanza, Rebecca Stevens raggiunse quel livello di perizia tecnica e di abilità grazie alle quali salire l’Everest poteva considerarsi ragione volmente un obiettivo finale (ammesso che dare la scalata al l’Everest possa mai considerarsi un’ impresa ragionevole!) Tuttavia, prima di arrivare in cima alla montagna più alta del mondo, Rebecca aveva ancora una montagna di lavoro da svolgere, tra cui allenamento fisico e acclimatazione. Se nofl avesse avuto la ferma volontà di investire tutta se stessa nel l’ardua fase di preparazione, l’Everest sarebbe rimasto soltanto un sogno. «Quanto è disposto a investire prima di poter toccare con mano l’obiettivo?» è una domanda che rivolgo spesso all’allievo nella fase in cui si fissano gli obiettivi, qualunque sia il campo di attività in cui il coaching viene applicato. È quello che io chiamo «obiettivo di processo» o anche «obiettivo operativo». Il coinvolgimento personale negli obiettivi Anche se gli amministratori di un’azienda possono sentirsi liberi di fissare direttamente i propri obiettivi personali, spesso poi si limitano a trasmetterli in cascata ai sottoposti sotto forma di imperativi categorici indiscutibili. Un atteggiamento del genere impedisce qualsiasi coinvolgimento personale di coloro che si presuppone dovranno poi realizzare gli scopi indicati, e la performance non potrà che soffrirne di conseguenza. I capi azienda più saggi, allorché vogliono motivare davvero i loro manager, fanno di tutto per mantenere un sano distacco dai propri obiettivi e, ogni volta che è fattibile, incoraggiano i manager a fissare i loro obiettivi sfidanti. Anche se non fanno così, e il lavoro viene quindi rigidamente strutturato, non tutto è ancora perduto, dato che il manager può almeno tentare di offrire ai suoi sottoposti una qualche

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possibilità di scelta e di coinvolgimento relativamente a modi e tempi di esecuzione del lavoro.

Esercitare il coaching per creare coinvolgimento personale Quindi, anche ammesso che un obiettivo venga presentato come una sorta di imperativo assoluto, è pur sempre possibile applicare la tecnica del coaching per creare un minimo coinvolgimento in coloro che lo devono realizzare. Discutevo centemente sull’addestramento all’uso delle armi da fuoco con alcuni rappresentanti della polizia di contea. «Come può fare per essere sicuri che le nostre reclute facciano proprie totalmente le ferree regole sulla sicurezza nell’uso delle armi’?» mi chiedevano. Suggerii loro che, anziché mettere subito gli allievi di fronte a tali regole, avviassero con loro una discussione sull’argomento in termini di coaching: questo avrebbe dotato ciascuno dei futuri poliziotti della capacità di crearsi un proprio complesso di regole, che con grande probabilità avrebbero praticamente coinciso con quelle previste dal regolamento ufficiale. Qualora poi si fossero verificate delle divergenze, si sarebbe potuto chiarirne le ragioni in un’ulteriore sessione di coaching, sempre minimizzando gli input da parte dell’istruttore. In questo modo, gli allievi avrebbero apprezzato maggiormente il significato della normativa in vigore re sull’uso delle armi da fuoco, l’avrebbero meglio compresa e fatta propria. Di chi è l’obiettivo? Quando si parla di motivazione personale, il valore dell libertà di scelta e del senso di responsabilità non andrebbe mai sottovalutato. Se, per esempio, il team di un ufficio vendite propone un obiettivo di vendita inferiore alle aspettative personali del capo, quest’ultimo, prima di cestinare in quattro e quattr’otto la proposta e imporre la propria, dovrebbe considerare con grande attenzione le possibili conseguenze. Farebbe infatti molto meglio a tenere a bada il suo orgoglio ad accettare i numeri presentati dal team, tanto più che, insistendo sui suoi, potrebbe ottenere l’effetto di compromettere la performance dei suoi collaboratori, nonostante l’obiettivo più ambizioso da lui imposto. I membri del team, infatti, potranno anche giudicare i numeri imposti dal capo piu o meno realistici, ma è certo che, non avendo alcuna libertà di scelta, si sentiranno totalmente demotivati. Ovviamente, se il capo è molto sicuro del proprio obiettivo, possiede ancora un’opzione a sua disposizione: quella di accettare inizialmente i numeri proposti dal team per ricorrere successivamente al coaching e guidare i collaboratori nell’analisi e nel superamento delle eventuali barriere che ostacolavano la definizione di obiettivi più ambiziosi. Solo così il team potrà sentirsi responsabile del raggiungimento di un obiettivo che originariamente non era il suo.

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Gli obiettivi di performance/processo in vista dell’obiettivo finale Oltre a fungere da supporto per il conseguimento dell’obiettivo finale — che è fuori del vostro controllo - l’obiettivo di performance — del quale invece avete il pieno controllo - deve possedere alcune caratteristiche, come del resto ogni buon obiettivo. Esso deve infatti essere non soltanto:

preciso, surabile, concordato, realistico (se non è realistico, non c’è speranza) progressivo. deve essere altresì: definito in modo positivo. compreso, significativo. eticamente ineccepibile. ambizioso(se non è ambizioso, non c’è motivazione a conseguirlo) lecito, ecologicamente corretto, appropriato, ufficializzato. posto in forma positiva. Che cosa accade infatti quando un

obiettivo è formulato negativamente? Per esempio: «Non dobbiamo restare gli ultimi tra i venditori che operano nella nostra regione». Su che cosa si concentra l’attenzione? Ovviamente sul fatto di essere gli ultimi. Se io vi dico: «Non pensate a un pallone rosso», a che cosa pensate immediatamente? Oppure se dico a un bambino: «Non far cadere il bicchiere! Non versare l’acqua! Non fare errori!» Un esempio particolarmente icastico lo possiamo trarre dal mondo del calcio: se quando si tratta di batte re un rigore l’allenatore dicesse al giocatore incaricato: «Guai a te se la butti fuori!», costui avrebbe tutto il tempo, intanto che raggiunge il dischetto e sistema la palla, per pensare al rischio che sta correndo, con risultati, come è facile intuire, disastrosi sulla sua performance. Insomma non è difficile trasformare gli obiettivi in forma negativa in formulazioni positive. come per esempio: “Dobbiamo raggiungere il quarto posto per volumi di vendite”, oppure “Manderç la palla esattamente all’incrocio dei pali, per quanto difficile possa essere”. Gli obiettivi devono essere concor dati tra tutte le parti coinvolte: il capo che pensa di doverli stabilire, il direttore delle vendite e la squadra che deve svolgere il lavoro. Se non c’è accordo, si perdono il coinvolgimento

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e il raggiungimento di un obiettivo, il senso di responsabilita del team e ilsuo rendimento ne risentirà conseguentemente. Può sembrare un eccesso di zelo suggerire che gli obiettivi dovrebbero essere leciti dal punto di vista legale, eticamente ineccepibili ed ecologicamente corretti, ma ogni singolo individuo possiede dei propri codici personali in materia e l’unico modo per sincerarci che i nostri dipendenti si attengano ai più sani principi è quello di uniformare i nostri obiettivi agli stan dard più alti. I giovani lavoratori di oggi tendono, per esem pio, a seguire standard etici più elevati di quelli dei loro manager più anziani, che restano spesso di stucco e si scusano con la solita frase «da noi si è sempre fatto così». Oltre tutto, in forza del senso di responsabilità civile e legale che oggi viene auspicato nel mondo degli affari come in tutti gli altri aspetti della vita sociale, le conseguenze negative derivanti da un richiamo o da una condanna per comportamenti illeciti o da una causa intentata da un’associazione di consumatori inciderebbero pesantemente sui profitti generati da attività non pienamente lecite. Nel suo libro Sporting Escellence, David Hernery riporta le parole di sir Michael Edwardes:Non riuscirete a far lavorare per voi i migliori se nella vostra attività non vi attenete ai più elevati standard di integrità morale. Se pensate alle 1000 sterline che potreste guadagnare aggirando qualche normativa, sappiate che il danno che causerete demotivando i vostri dipendenti sarà di 20.000 sterline. Occorre anche fare in modo che ciascun obiettivo sia chiaramente compreso, dato che troppo spesso dei presupposti errati possono indurre a pericolosi fraintendimenti, persino tra le persone che hanno collaborato direttamente alla definizione dell’obiettivo. Obiettivi olimpici Forse è proprio dalle Olimpiadi che posso trarre l’esempio più lampante che io conosca di una buona definizione degli obiettivi. Un giorno un certo John Nabor, giovane matricola di un college americano, vide appuntare sul petto di Mark Spitz ben sette medaglie vinte nel nuoto durante le Olimpiadi di Monaco deI 1972. In quel momento, il nostro John decise che nei giochi olimpici del 1976 si sarebbe aggiudicato lui la medaglia d’oro nei 100 metri dorso. Benché a quell’epoca avesse già vinto il Campionato nazionale juniores, era ancora sotto di cinque secondi rispetto al record olimpico, e ricuperare quei secondi non era uno scherzo alla sua età e per di più su una distanza breve come i 100 metri. Decise di tentare l’impossibile fissando prima di tutto come proprio obiettivo di performance un nuovo record mondiale e dividendo poi i cinque secondi che gli mancavano per il numero di ore di allenamento che avrebbe potuto sostenere nel giro di quattro anni. Dal risultato così ottenuto dedusse che doveva migliorare il SUO tempo di una piccola frazione di secondo per ogni ora di allenamento e, pertanto, ritenne la cosa pienamente fattibile: occorreva soltanto che si mettesse al lavoro con molta intelligenza e altrettanto impegno. E fattibile lo fu

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veramente: nel 1976 aveva talmente migliorato la sua prestazione da essere nominato capitano della squadra di nuoto americana in partenza per le Olimpiadi di Montreal, dove si aggiudicò la medaglia d’oro nei 100 e nei 200 metri dorso, stabilendo inoltre sulla prima distanza il record mondiale e sulla seconda quello olimpico. Quando si dice definire gli obiettivi ! John Nabor era motivato da un obiettivo finale ben preciso che seppe supportare con un obiettivo di performance interamente sotto il suo controllo, il tutto perfettamente sostenuto da un processo sistematico, come è visualizzato nella Figura 7.1.

(Legenda: nella figura si distingue il processo dall’ obiettivo di performance ) Un esempio di sessione di coaching Nei quattro capitoli dedicati a ciascuna sezione di una sequenza di coaching illustrerò i vari punti riportando il dialogo di una sessione fittizia. Il nostro interlocutore immaginario è Joe Butter, direttore del Servizio clienti presso un’agenzia pubblicitaria di Londra. Negli ultimi due anni la sua iniziale e fulminea ascesa lungo la scala gerarchica ha iniziato a rallentare, coincidendo sia con il sopraggiungere della mezza età sia con un aumento del suo piacere per la tavola e, di conseguenza, anche della circonferenza della sua pancia. Negli ultimi tempi ha deciso di mettersi a dieta e ha cominciato a fare dell’esercizio fisico, ma questo non ha migliorato la sua sensazione di tedio e di fallimento, il suo senso di colpa e la mancanza di impegno. Decide di mettere a parte di tutti questi problemi che lo affliggono il suo collega Mike, il quale si offre di fargli da coach. MIKE: Okay, Joe. abbiamo una mezz’oretta, che cosa vorresti ricavarne? JOE: Un qualche progetto per rimettermi in forma. MIKE: Per il resto della tua vita o che altro? JOE: No, certo che no, quello sarebbe voler puntare troppo in alto, e poi anche la vita potrebbe cambiare una volta che comincio a stare meglio. Mi basterebbe un programma realistico per i prossimi tre mesi, sarebbe perfetto.

P R O C E S S O

O B I E T T I V O D I P E R F O R M A N C E

O B I E T T I V O F I N A L E

S O G N O

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MIKE: Cerchiamo di considerare la cosa anche a lungo termine, per un momento. Secondo te qual è lo scopo per cui vuoi essere più in forma? JOE: Il fatto è che mi sento uno schifo e questo si ripercuote sul lavoro. Vorrei tornare a star bene. MIKE: D’accordo. Quanto in forma vorresti sentirti e quando? JOE: Vorrei riuscire a perdere sette chili ed essere in grado, nel giro di qualche mese, non soltanto di fare le scale o di correre per prendere il treno senza sentirmi il cuore in gola, ma anche di provare piacere a correre. MIKE: Esattamente, a quanti chili vorresti arrivare e per quale data? JOE: Vorrei pesare 84 chili alla fine dell’estate, il che vuol dire all’incirca perderne sei o sette. MIKE: Pe che giorno ? JOE: lI 20 settembre. MIKE: Bene, oggi è il 19 febbraio, quindi hai sette mesi di tempo. JOE: Mmmh! Più o meno un chilo al mese, magari all’inizio anche di più. MIKE: Quanti chili vuoi perdere per il primo di giugno? JOE: Più o meno cinque chili. MIKE: Potresti farcela limitandoti nel mangiare, ma non è detto che ti basterà a farti sentire in forma. In che modo potremo misurare il tuo «essere in forma»? JOE: Farò di corsa trentacinque chilometri alla settimana, da settembre in avanti. MIKE: A una certa velocità? JOE: No, mi sentirò già contento di riuscire a percorrere quella distanza, e capirò da me se starò correndo in modo soddisfacente. MIKE: A me non importa a che velocità correrai, sei tu che devi darti un obiettivo da raggiungere. Allora, a che velocità correrai? JOE: Va bene, farò un chilometro in sei minuti. Ora Joe ha davanti a sé l’obiettivo della sessione, un obiettivo a lungo termine e un bersaglio da colpire a metà strada. I suoi obiettivi sono precisi, calibrati e racchiudono probabilmente tutte le altre qualità che abbiamo raccomandato. In questo caso non c’è nessun imperativo aziendale, la totale responsabilità di conseguire gli obiettivi stabiliti ricade completamente e solamente su Joe. Ma è venuto il momento di esa minare un altro fattore importante: la realtà.

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CAPITOLO 8 CHE COS’E’ LA REALTA’ ?

Una volta definiti i vari obiettivi, dobbiamo capire chiaramente la situazione in cui ci troviamo al momento. Come ho già ricordato, qualcuno sostiene che è impossibile definire degli obiettivi fino a quando la situazione in cui ci si trova non è stata studiata e capita e che, pertanto, si dovrebbe iniziare dai dati forniti dalla realtà, quelli che ho chiamato dati di fatto. Io contesto tale argomentazione basandomi sul fatto che, se vogliamo che una qualsiasi discussione abbia un valore e una direzione precisa, è essenziale definire preliminarmente e con precisione uno scopo da raggiungere. Anche se gli obiettivi possono essere soltanto abbozzati prima di aver analizzato in modo un po’ più dettagliato la situazione reale, per prima cosa dobbiamo cercare di definirli. Successivamente, quando sarà chiara la realtà di partenza, potremo focalizzare gli obiettivi in modo più approfondito e persino modificarli, nel caso che la situazione reale si riveli leggermente diversa da ciò che avevamo ipotizzato inizialmente. Essere obiettivi Il criterio fondamentale a cui attenersi nel valutare una situazione è l’obiettività, cioè il fattore sul quale più influiscono le opinioni, i giudizi e i pregiudizi, le aspettative e le speranze, le preoccupazioni e i timori della persona che percepisce tale realtà. Essere consapevoli, in generale, significa percepire le cose come effettivamente sono; Essere consapevoli di se stessi significa riconoscere anche i fattori interni che possono distorcere la nostra percezione della realtà. La maggior parte delle persone crede di essere obiettiva, ma, in effetti, l’obiettività assoluta non esiste: al massimo potremo raggiungere un certo grado di obiettività e, ovviamente, più riusciremo ad avvicinarci a essa tanto meglio. Distacco

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Apprestandoci dunque a esaminare la realtà, occorre fare in modo che il processo mentale, sia del coach sia dell’allievo, non subisca alcuna potenziale distorsione. Questo richiede al coach un notevole grado di distacco nonché la capacità di formulare le domande in maniera tale che la risposta dell’allievo sia il più concreta possibile. A una domanda del tipo «Quali sono stati i fattori che hanno determinato la sua decisione?» seguirà una risposta molto più precisa che a una domanda formulata così: «Perché lo ha fatto?», che tende a indurre l’allievo a rispondere in base a quelle che ritiene le aspettative del coach o a porsi sulla difensiva, quasi fosse chiamato a giustificare in qualche modo la sua azione. Descrivere, non giudicare Il coach dovrebbe ricorrere quanto più possibile, e incoraggiare anche l’allievo a farlo, a una scelta di termini descrittivi privi di connotazioni di giudizio. Questo aiuta a mantenere distacco e obiettività e riduce il rischio, da parte dell’allievo, di autocritiche controproducenti che finiscono per distorcere la percezione. La Figura 8.1 può aiutare a chiarire ciò di cui stiamo parlando. La terminologia usata in conversazioni normali e in molte interazioni aziendali finisce generalmente per propendere verso l’estremità sinistra della figura, mentre nella pratica del coaching si tende verso quella destra. Più le nostre parole e le nostre frasi saranno precise e descrittive, minore sarà il loro contenuto critico e maggiori i risultati del coaching. Occorre quindi applicarsi al massimo per fare in modo di muoverci quanto più possiamo verso destra lungo l’asse orizzontale. Dopo tutto, non c’è molto che posso fare sapendo che la mia presentazione è stata scadente, ma se ricevo come feedback che era ben strutturata, coerente, breve, adeguatamente colorita e al di sotto del grado di conoscenza del pubblico cui è diretta, mi trovo in posizione migliore per introdurvi miglioramenti. Ovviamente,ci sono parole, come le indicazioni di colori o dimensioni, che hanno un valore puramente descrittivo: altre possono invece collocarsi lungo l’asse verticale della figura (quello del giudi7io) soltanto se appare implicito in esse un qualche elemento di confronto con uiì modello «ideale» altre ancora, nella maggior parte delle loro accezioni comuni, racchiudono elementi di giudizio (mi riferisco, per esempio, ad aggettivi come «vivace» o «debole». Vi sono tuttavia alcune parole che esprimono sostanzialmente una valutazione, come «buono», «cattivo», «giusto», «sbagliato» eccetera. Quindi, evitate sempre di dire a un tiratore scelto che ha mancato il bersaglio, perché riuscirete soltanto a farlo sentire ancora peggio. Lui vuole sapere che il suo tiro è andato tre centimetri più in basso e di un centimetro e mezzo più a destra, se deve fare una correzione. Gli elementi descrittivi aggiungono valore, quelli critici lo sottraggono. Quando le domande inerenti la realtà sono riferite a noi stessi ci offrono il mezzo più diretto per autovalutarci (ma di tutto questo e di come lo si

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possa applicare per favorire lo svi luppo della personalità parleremo più diffusamente nel Capitolo 17). Comunque sia, la capacità di formulare in maniera efficace domande inerenti la realtà ha un’importanza sostanziale, quale che sia il campo di applicazione.

Approfondire la consapevolezza Se, dopo aver posto le sue domande, il coach riceve dall’allievo risposte che sembrano scaturire da un grado normale di consapevolezza, potrà forse fornire un aiuto all’allievo per fargli strutturare meglio i propri pensieri, ma di certo non scandaglierà nuovi o più profondi livelli della sua consapevolezza. Quando l’allievo si ferma a riflettere prima di dare la sua riposta, magari sollevando per un attimo lo sguardo, il coach ha il segnale che nuovi o più profondi aspetti di consapevolezza stanno maturando. Per attingere all’informazione che gli è stata richiesta dal coach, l’allievo si trova costretto a sondare nuove profondità della sua coscienza (è come se per trovare la risposta dovesse inabissarsi nel suo immenso schedario interiore), poi, una volta acquisita la nuova consapevolezza. quest’ultima emerge a livello conscio, rendendo l’allievo più forte. Disponiamo di una certa possibilità di scelta e di controllo su ciò di cui siamo consapevoli, ma ciò di cui non lo siamo controlla noi. Seguire l’allievo Un bravo coach farà il possibile per adeguarsi agli interessi o alla catena di pensieri dell’allievo, verificando nel frattempo in che modo il tutto si relazioni con l’argomento generale che viene affrontato nella sessione. Il coach dovrebbe inoltre portare alla luce gli elementi che a suo avviso sono stati trascurati soltanto quando si convince che l’allievo si sente pronto a passare a un altro aspetto del problema. Se, per esempio, costui dà l’impressione di aver divagato dal sentiero tracciato, una domanda del tipo «ma in che modo questo si rapporta al nostro problema?» può ricondurlo sul giusto percorso o indurlo a indicare una ragione valida per cui ha cercato, per così dire, di scantonare. In un caso come nell’altro, questo fa sì che sia sempre lui a condurre il gioco. Seguendo il percorso mentale dell’allievo, anziche imporre il proprio, il coach riesce a conquistarsi la sua fiducia, dal momento che vengono pienamente rispettati i suoi interessi e le sue esigenze. Un esempio connesso con il mondo del lavoro, supponiamo che un’alta dirigente di un’azienda, Alice, voglia vederci chiaro in un problema di una certa consistenza insorto nell’ufficio di Peter, per prendere adeguate misure correttive. Se lei solleva senza preamboli il problema, è possibile che lui si senta minacciato e si metta sulla difensiva e, in questo caso, la sua descrizione di quanto è accaduto sarà immancabilmente distorta per far sì che le cose appaiano migliori di quanto sono in realtà: tuttavia, se la dirigente lasciasse a Peter la libertà di condurre la conversazione, arriverebbe mai al nocciolo della questione che le interessa? Probabilmente non

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subito, ma se Alice saprà avere pazienza, cioè riuscirà a mordersi la lingua, Peter comincerà a non sentirsi più minacciato, quel tanto per riuscire a esporre lui stesso il problema. E lo stesso dipendente il primo a sapere che il problema esiste, anche se a tutta prima può cercare di negarlo a se stesso e agli altri. Quando un subordinato inizia a non vedere più nel proprio capo una minaccia bensì un possibile aiuto, sarà ben felice di affrontare con lui qualsiasi problema e, quando questo avviene, si rendono possibili sia un dialogo franco sia una diagnosi onesta, i due elementi indispensabili per giungere a una rapida soluzione del problema. La cultura del biasimo che ancora predomina nel mondo del lavoro spinge esattamente verso comportamenti opposti, innescando la cosiddetta «sindrome della realtà falsificata», ovvero del tipo: «Ti dirò soltanto quello che credo tu voglia sentire o che mi terrà fuori dai guai». Tutti gli interventi attivati da questo punto in poi saranno perciò basati su una falsa realtà. I manager più saggi iniziano a indagare in termini molto generali e ascoltano con attenzione ciò che il dipendente ha da dire. Il manager, in questo caso, assiste il proprio sottoposto con minore difficoltà riuscendo così a porsi ai suoi occhi come un sostegno anziché una minaccia. È un approccio di questo tipo a condurre con ogni probabilità alla vera causa del problema, anziché impedire all’indagine di spingersi oltre i sintomi superficiali. Se vogliamo eliminare una volta per tutte i problemi, dobbiamo affrontarli a un livello più profondo di quello a cui essi normalmente si palesano. Usare i sensi Nella maggior parte delle sessioni di coaching legate al mondo del lavoro, gli elementi forniti dall’analisi della realtà saranno costituiti da fatti e da numeri, da eventuali problemi insorti, dalle azioni intraprese per correggerli, dagli ostacoli ancora da superarsi, dalle risorse umane e materiali disponibili e via dicendo: tutti elementi che vengono esposti e discussi attivando facoltà puramente intellettuali. Nel caso in cui, però, l’allievo debba appropriarsi di una qualche nuova abilità concreta, come per esempio apprendere l’uso di un nuovo strumento utile alla sua attività — non importa se una racchetta da tennis o una locomotiva — la pratica del coaching dovrà concentrarsi anche sull’uso dei sensi (tatto, udito e vista). La consapevolezza del proprio corpo porta con un ‘autocorrezione automatica. Se di primo acchito vi è difficile crederlo, provate semplicemente a chiudere gli occhi per un istante e cercate di concentrarvi sui vostri muscoli facciali. Magari vi accorgerete di avere la fronte corrugata o la mascella contratta e, quasi in simultanea con questa vostra nuova consapevolezza, potreste avvertire una sorta di rilassamento in virtù del quale la fronte e la mascella saranno perfettamente distese. Lo stesso principio può applicarsi a movimenti fisici più complessi. Concentrandoci sulle parti del nostro corpo che devono esercitare un dato movimento, avvertiremo chiaramente le diverse tensioni che impediscono una piena efficienza motoria e otterremo automaticamente quella messa a punto che ci consentirà di migliorare l’atto. E proprìo questa la base su cui poggia il nuovo

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approccio del coaching all’apprendimento tecnico e alla condizione fisica nello sport. La consapevolezza interiore aumenta l’efficienza fisica che a sua volta permette di migliorare la tecnica. Stiamo quindi parlando di una tecnica che scaturisce dall’interno verso l’esterno, anziché seguire il percorso inverso. Si tratta inoltre di una tecnica totalmente integrata con il corpo, a esso appartiene e da esso scaturisce, e quindi è ben lontana, per non dire agli antipodi, dal concetto tradizionale di «tecnica che è qualcosa a cui si è costretti ad adattare il corpo. Quale tra queste due versioni ha maggiori probabilità di condurre a uno performance ottimale? Mettere in azione le emozioni Come abbiamo visto, i sensi rappresentano uno degli aspetti della consapevolezza di noi stessi. Un altro aspetto è costituito dalle emozioni, che risultano particolarmente importanti in quelle problematiche di ordine interpersonale tanto comuni sul lavoro ma anche, a ben vedere. in ogni altra situazione della vita quotidiana. Le domande più adatte in proposito sono le seguenti: • Che cosa prova quando viene inaspettatamente convocato nell’ufficio del capo? • Quali emozioni ha provato dopo la recente tornata di licenziamenti per esubero di personale? • Di che cosa pensa di avere paura? • In quale parte del corpo avverte la maggiore tensione? • In che modo ritiene di soffocare le sue potenzialità? • Qual è la sensazione che avverte più intensamente quando sa di aver portato a termine un buon lavoro? • Su una scala da 1 a 10. come valuterebbe il suo grado di sicurezza di sé rispetto alla capacità di realizzare una buona presentazione questo pomeriggio? Riconoscere i nostri atteggiamenti mentali Un buon grado di consapevolezza di noi stessi è inoltre necessario per scavare nei nostri pensieri e atteggiamenti mentali, sia in quelli che affiorano spontaneamente in una data situazione, sia in quelli meno accessibili alla coscienza. Ciascuno di noi porta con se, a volte dal tempo dell’infanzia, convinzioni e opinioni consolidate che imprimono inevitabilmente una certa sfumatura alle nostre percezioni e ai nostri rapporti con gli altri. Se non siamo in grado di riconosceme l’esistenza e di compensarne gli effetti, il nostro senso della realtà ne rimarrà distorto.

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Le interconnessioni tra corpo e niente Gran parte dei nostri pensieri si accompagna a una certa emozione e tutte le emozioni si ripercuotono direttamente sul nostro corpo con sensazioni che a loro volta generano altri pensieri. Ne consegue pertanto che possiamo accostarci alle nostre difficoltà, ai nostri blocchi e inibizioni, attraverso la mente, il corpo o le emozioni e che, rimuovendo uno di questi ostacoli, vengono a cadere anche gli altri, anche se non sempre. Una persistente condizione di stress, per esempio, può essere ridotta identificando la tensione presente nel nostro corpo, sollecitando il nostro senso di consapevolezza di ciò che ci induce a lavorare troppo e smascherando determinati atteggiamenti mentali quali il perfezionismo. Spesso potrebbe essere necessario lavorare separatamente su tutti e tre gli aspetti. Vorrei rammentarvi a questo punto il tema ricorrente nell’opera di Timothy Gallwey: il giocatore dell’Inner Game migliora la propria prestazione cercando di rimuovere o di ridurre i propri ostacoli interni. Muoversi con cautela Ciò che vorrei ora consigliarvi è la cautela: al coach può capitare di sondare gli impulsi e le ragioni che spingono l’allievo a un determinato comportamento a un livello più profondo di quello previsto. È questa, del resto, la natura del coaching: esso punta dritto alla causa originaria, non ai semplici sintomi del malessere. Il coaching ha esigenze e pone richieste ben definite, senza accontentarsi di insabbiare in qualche modo le eventuali divergenze interpersonali esistenti in un ufficio limitandosi a impartire degli ordini o delle istruzioni! In compenso, può offrire grandi risultati. Se però non avete ricevuto un adeguato addestramento in questa pratica o se non avete abbastanza coraggio, statene alla larga! Se avete il fondato sospetto che un problema di rapporti tra il personale di un’azienda abbia radici molto profonde, è meglio ricorrere all’aiuto di uno specialista che possieda gli strumenti necessari. Una delle principali distinzioni tra l’opera di un coach e quella di un consulente esterno è che la prima è sostanzialmente di tipo proattivo, mentre la seconda è generalmente di tipo reattivo; un’altra differenza sta nel fatto che il coaching affronta di norma problemi direttamente connessi al lavoro, ma se il problema persiste oppure ha radici molto lontane e profonde si rendono necessarie le competenze di un consulente esterno. Le domande sulla realtà Le domande che riguardano la realtà devono seguire in modo particolare l’indicazione basilare di «tenere lo sguardo sulla palla» cui abbiamo accennato in precedenza. Eccole ripetute in una forma leggermente diversa:

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• Una domanda che esiga una risposta precisa è essenziale per costringere l’allievo a riflettere, esaminare, guardare, sentire e sentirsi impegnato. • Le domande esigono una focalizzazione ad alta risoluzione, in modo da ottenere risposte adeguatamente dettagliate. • Le risposte concernenti la realtà dovrebbero essere descrittive e prive di elementi di giudizio, al fine di garantire sincerità e precisione. • Le risposte devono essere tali per qualità e frequenza da innescare una spirale di feedback fra coach e allievo. È in questa fase del coaching, quella in cui si affrontano i dati di fatto della situazione, che le domande dovrebbero esordire per lo più con termini interrogativi come che cosa, quando, dove, chi e quanto. Come ho già sottolineato, solo di rado e quando non vi sia altra scelta dovremmo proporre domande che esordiscano con perché e come. Queste due ultime forme interrogative inducono infatti all’analisi, a esprimere un’opinione, e possono mettere l’allievo sulla difensiva laddove dovrebbero invece soltanto servire a chiarire dei fatti. Nella fase del coaching. in cui si affrontano gli aspetti della realtà, i fatti rivestono una particolare importanza e, come accade nelle indagini di polizia, un’analisi che preceda la raccolta di tutti gli elementi concreti porta a elaborazioni puramente teoriche e alla conseguente distorsione di dati fondamentali. Il coach dovrà restare particolarmente vigile, attento ad afferrare con gli occhi e con le orecchie qualsiasi segnale che indichi quale direzione seguire nella formulazione delle domande. Va precisato a questo punto ancora una volta che lo scopo è accrescere la consapevolezza di sé nell’interlocutore. Il coach non deve necessariamente conoscere l’intera storia, la particolare situazione, ma deve essere assolutamente certp, che sia l’allievo ad avere le idee chiare in merito. Questo permette anche di non sprecare il tempo - sempre prezioso - che occorrerebbe al coach per prendere conoscenza in dettaglio di tutti i fatti prima di fornire la risposta più adeguata. Una delle domande relative agli elementi fattuali che raramente manca il bersaglio è: «Rispetto a tutto questo, che azione ha intrapreso finora?» seguita da: «Che effetto ha avuto la sua azione ? » L’effetto di queste domande è infatti quello di sottolineare l’importanza dell’azione e la differenza sostanziale esistente tra l’agire e la pura elaborazione intellettuale dei problemi. Capita spesso che le persone pensino a un problema per anni e soltanto quando viene loro chiesto che cosa abbiano fatto per risolverlo si rendano conto di non aver mai intrapreso alcuna azione. Soluzioni affrettate

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È sorprendente constatare con quale frequenza un’accurata indagine della situazione porti in superficie la risposta giusta prima ancora che si sia entrati nelle altre due fasi del coaching. Durante la fase di analisi della realtà — e talora persino durante quella di definizione degli obiettivi — emergono spesso evidenti possibilità di azione, invariabilmente accompa gnate dall’esclamazione «Eureka!» e da un ulteriore impulso a condurre a termine il compito. Il valore di questo fenomeno è tale che il coach dovrebbe avere la determinazione di soffermarsi abbastanza a lungo nelle fasi degli obiettivi e dell’analisi della realtà, resistendo alla tentazione di passare prematuramente alla fase delle opzioni. Quindi, nel timore di commettere anche noi lo stesso sbaglio, torniamo per un attimo alla sessione di coaching che si sta svolgendo tra Mike (il coach) e Joe (l’allievo). MIKE: Bene, abbiamo definito i tuoi obiettivi, Joe: diamo adesso uno sguardo a come stanno le cose ora: quanto pesi ? JoE: Novanta chili vestito. MIKE: Quando ti sei pesato l’ultima volta? JoE: La settimana scorsa, non ricordo il giorno esatto. MIKE: Senti, nel bagno proprio qui a fianco c’è una bilancia, che ne diresti di farci un saltino sopra? JOE: Oh, santo cielo, sono novantaquattro chili! MIKE: Mangi in maniera smodata? J0E: Sì, ho un debole per il cioccolato e mi piacciono i cibi ben conditi, MIKE: Hai mangiato molto negli ultimi tempi? JOE: Più del solito. Mi capita quando mi sento angustiato. MIKE: Che cos’è che ti angustia in questo momento? JoE: La mia salute, il fatto che sono entrato negli «anta»... e poi negli ultimi tempi mi sento insicuro del mio lavoro. MIKE: Che cosa ti preoccupa maggiormente? J0E: La salute, credo, perché sono convinto che se riuscissi a rimettermi in sesto il mio stato mentale migliorerebbe, e di conseguenza anche il lavoro. MIKE: Bene, fermiamoci qui per oggi. In un’altra sessione potremmo però analizzare in modo più particolareggiato il tuo stato mentale o la tua situazione sul lavoro. E in che cosa esageri a tavola’? J0E: Patatine fritte e dolci. MIKE: A ogni pasto? JOE: La maggior parte dei giorni mangio entrambe le cose almeno a un pasto. MIKE: A casa o quando sei fuori? A pranzo o a cena? JOE: Di sera, quando sono a casa, e poi quando andiamo a cena fuori, lo facciamo almeno due volte la’settimana.

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MIKE: Con gli amici o con tua moglie? JOE: il più delle volte siamo soltanto io e lei. MIKE: Anche a tua moglie piace mangiar tanto? JOE: Non particolarmente, ma sa che piace a me e mi fa compagnia. MIKE: Allora vai matto per dolci e patatine fritte, mangi di più quando qualche cosa ti preoccupa e questo avviene di solito alla sera e in famiglia. E riguardo al bere che cosa mi dici? JOE A volte bevo una birra a pranzo, e alla sera di solito faccio fuori una bottiglia di vino. MIKE: Esattamente quante birre hai bevuto negli ultimi sette giorni’? JOE: Mmrnh.,. vediamo.., direi una decina. MIKE: E la settimana prima? JOE: Credo altrettante, a essere sinceri. MIKE: Adesso pensiamo un attimo all’esercizio fisico, che ne dici? JOE:OK. Ho cominciato a correre.., almeno quello... MIKE: Quante corse fai e per quanto tempo corri? JOE: Corro per circa un quarto d’ora, due volte la settimana. MIKE: Questa settimana quand’è che hai corso? JOE: Non l’ho fatto, mi sentivo troppo a terra. MIKE: E la settimana prima? JOE: Domenica mattina, ma è stata l’unica volta. Volevo ri farlo, ma mi facevano ancora male i polpacci. MIKE: Sono la fatica e il disagio a scoraggiarti? JOE: Sì. Caviglie dolenti, polpacci, cosce, il fiato corto.., tut te cose che non sopporto. MIKE: Che altro esercizio fisico fai ? Passeggi, vai in bicicletta, o perlomeno eviti di prendere tutte le volte l’ascensore? JOE: Niente di niente, giusto ogni tanto faccio la sauna. MIKE: Quanto pensi che ti possa aiutare la sauna? JOE: Aiuta a farmi sentire meno in colpa, e poi non è per niente faticosa. A questo punto Joe è più onesto con se stesso per quanto riguarda la realtà della sua indulgenza verso le proprie debolezze: eccessiva alimentazione, alcol ed esercizio fisico ridot to al minimo. I suoi pii desideri, o se vogliamo le sue autoillusioni, ora poggiano su dati di fatto e, ciò che più importa, ora sa esattamente da dove parte. Mike, quindi, lo consiglia di rivedere il suo iniziale obiettivo di arrivare a pesare ottantaquattro chili, che appare forse poco realistico, visto che adesso ne pesa novantaquattro. Joe, tuttavia, si sente così disgustato dal suo peso attuale che non intende modificare l’obiettivo degli

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ottantaquattro chili, anche se per raggiungerlo deve ora riuscire a calare mediamente quasi di un chilo e mezzo al mese. Mike lo ritiene comunque realistico. Fortunatamente, allo scopo di ridurre il disagio che Joe prova quando corre, Mike si offre di fargli da coach anche durante una corsa (il che ci offre un esempio di coaching applicato a un’attività fisica). I due si preparano a una corsa non troppo lunga, dopo aver stabilito di tenere un passo moderato e di avere come obiettivo la scoperta di un modo di correre gradevole. MIKE: Bene, per ora limitiamoci a trovare una velocità che risulti piacevole... Che cosa senti nel tuo corpo? JOE: Sento i polpacci rigidi. MIKE: Cerca di concentrare la tua attenzione sui polpacci e dimmi esattamente che cosa senti al loro interno. JOE: Sento una grande tensione lungo la parte posteriore. MIKE: Quando la senti? Per tutto il tempo e in tutti e due i polpacci o no ? JOE: Non sempre, soltanto quando porto avanti la gamba, ed è più forte nel destro che nel sinistro. MIKE: Stabilisci per la tensione una scala da uno a dieci, dove dieci è la massima tensione che riesci a immaginare e dimmi quanto senti teso il polpaccio destro J0E: In questo momento la sento di meno, ma direi comunque che è un cinque per la gamba destra e un tre per la sinistra. MIKE.: Adesso Com’è? JOE: E scesa a tre. MIKE: Continua a starci attento e avvertimi quando arriva a due. JOE: Adesso i polpacci sono entrambi a due, forse anche meno. Ora funzionano perfettamente, in compenso mi fan no male le braccia quando le muo MIKE: Bene, allora focalizza l’attenzione sulle braccia e dammi qualche particolare in più. JOE: Ehi, appena ho cominciato a concentrarmi sulla braccia le ho sentite rilassarsi, e ora nìi accorgo che le tengo un po’ più basse. MIKE: Lo trovi più confortevole così? JOE: Oh sì. certo. MIKE: Effettivamente, ora il movimento sembra più sciolto. JOE: E vero, sento proprio che mi muovo piuttosto bene. Di solito a questo pulito comincia a mancarmi il fiato ma vedo che sto respirando con un buon ritmo, MIKE: Concentrati sul respiro. Non cercare di respirare in un modo diverso ma sta’ attento a come inspiri ed espiri.

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J0E: E’ ancora più calmo... Ehi, ma allora sto diventando un corridore! MIKE: Quale caratteristica ti piacerebbe di più trovare nel tuo modo di correre? JOE: Lo hai appena detto, e anch’io comincio a sentirla: la scioltezza dei movimenti. MIKE: Bene, dai un voto da uno a dieci alla tua scioltezza. JOE: Be’, direi che fino a poco fa era un quattro ma adesso è già un sei. MIKE: In che punto del tuo corpo misuri il grado di scioltezza? JOE: Nelle spalle... strano a dirsi. MIKE: Adesso come va? JOE: Direi che è un otto! Mi sento benissimo! MIKE: Vedi, e siamo arrivati al nostro traguardo tre minuti prima di quello che pensavi. JOE: Da non crederci! Mi sento di poter correre per un altro quarto d’ora, non ho una goccia (li sudore. MIKE: Lo farai, e non ci vorrà molto tempo. Ottimo risultato. Hai visto che concentrando l’attenzione dentro di noi si riescono a sgombrare le zone problematiche, si raggiunge un buon rilassamento e per di più la cosa stessa è un fenomeno così interessante che impedisce persino di annoiarsi. Insomma, anche un’attività noiosa si trasforma in un piacere. JOE: Non hai dovuto nemmeno spiegarmi in che modo correre,mi è sembrato di scoprire da solo come dovevo fare per sciogliere i miei movimenti. Questo mi fa sentire bene e credo che apra delle possibilità anche in altri campi. Nell’applicazione del coaching allo scopo di apprendere o sviluppare determinate capacità fisiche — direttamente sul campo o in tempo reale - il procedimento a cui ricorriamo, ovviamente in forme diverse, può considerarsi completato con questa fase. Il miglioramento della performance avviene attraverso l’applicazione della consapevolezza nella fase di analisi della realtà, come è stato per l’appunto nel caso di Joe. Per un miglioramento generale delle condizioni fisiche e per il benessere di Joe — oppure quando lo scopo è quello di progredire nella risoluzione di problemi connessi al mondo del lavoro, che richiedono una pianificazione precisa, indagini revisioni e cose simili — devono essere invece completate le successive due fasi.

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CAPITOLO 9 QUALI SONO LE VOSTRE OPZIONI ? Quando siete sicuri di non avere più idee,

tiratene fuori un’altra.

Lo scopo della fase delle opzioni non è di trovare la risposta «giusta», ma di elencare il maggior numero possibile di scelte alternative che possano condurre ad altrettante azioni. In questa fase del coaching la quantità delle opzioni è più importante della qualita e fattibilità di ciascuna di esse. Stilarne un elenco è importante ma di grande rilevanza è anche il processo mentale che conduce a radunare tutte le possibili opzioni (un processo particolarmente stimolante a livello cerebrale), in quanto favorisce l’adeguato fluire del pensiero creativo. Sarà poi dall’ampia base di possibilità creative individuate che verranno selezionati i passi specifici che porteranno all’azione vera e propria. Durante questo processo di raccolta, dovranno essere evitate indicazioni di preferenza, atteggiamenti censori o di scherno, spinti all’eccessivo dettaglio, affinché non vadano perduti contributi potenzialmente validi e non vengano limitate le scelte a disposizione. Ampliare al massimo le scelte possibili Sarà compito del coach fare tutto il possibile affinché il singolo allievo o i membri del team che partecipano alla sessione di coaching propongano le loro opzioni e, a tale scopo, il coach dovrà creare un ambiente nel quale i partecipanti alla sessione possano sentirsi sufficientemente a loro agio per esprimere i propri pensieri e idee senza inibizioni e senza il timore di essere giudicati criticamente, né dal coach né dai colleghi. Tutti i contributi, anche quelli apparentemente strampalati, devono essere annotati, di solito dal coach, nel caso che possano contenere in nuce un’idea che in seguito, alla luce dei successivi suggerimenti, potrebbe rivelarsi utile e importante. I postulati negativi Tra i fattori che più limitano l’individuazione di soluzioni creative — tanto nel mondo del lavoro quanto in situazioni di altro tipo — vi sono alcuni postulati impliciti di cui tutti siamo portatori, benché quasi mai consciamente. Per esempio: • È impossibile riuscirci. • È impossibile riuscirci in questo modo. • Non accetteranno mai una cosa simile. • Finirà per costare troppo.

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• Non ce la faremo a reggere tempi così stretti. • La concorrenza ci avrà senz’altro già pensato. E potrei citarne molti altri. Notate che tutti contengono una negazione o una qualche forma di resistenza o rifiuto. Un bravo coach, in questo caso, dovrebbe invitare i suoi allievi a domandarsi: «E se invece...?» Per esempio: • E se invece poteste disporre di un budget sufficiente? • E se invece aveste del personale in più? • E se invece conosceste già la risposta? • E se invece questo ostacolo non esistesse? Procedendo in questo modo, cioè esautorando temporaneamente l’attività censoria della mente razionale, si liberano pensieri più creativi e, alla fine, si può scoprire che quel certo ostacolo non era poi così insormontabile come era sempre sembrato. Magari basta che uno dei membri della squadra scopra come aggirarlo, e l’impossibile viene reso possibile grazie al concorrere del contributo di tutti. Il gioco dei nove punti Per illustrare graficamente i postulati impliciti che ci limitano, nei nostri corsi dedicati alla formazione dei futuri coach usiamo il noto gioco dei nove punti.

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Lo ripropongo per chi non lo conosce ancora oppure l’ha fatto a suo tempo ma non ricorda più la risposta.Forse vi siete ricordati o avete capito che il postulato che andava eliminato era: «Dovete restare all’interno del quadrato». Non sentitevi troppo soddisfatti: sapreste rifarlo seguendo le stesse regole ma usando soltanto tre linee, o anche meno? Qual è ora il postulato che sta limitando le vostre capacità? Ovviamente, nessuno vi ha mai detto che la vostra linea debba per forza passare dal centro dei nove punti, ma scom metto che voj l’avete dato per scontato. E se passassimo a due linee, o addirittura a una sola? Nessuno vi ha mai detto che non potevate strappare la pagina e arrotolarla a forma di cono, oppure tagliarla in tre strisce o piegarla a fisarmonica. Questo ci ha fatto eliminare un altro po stulato, e precisamente quello che vi spingeva a pensare che ci fosse un’unica variabile, costituita dalla posizione delle linee. Forse che qualcuno vi aveva detto che non potevate spostare i punti? Nel momento in cui riconosciamo l’esistenza di tutte le variabili a nostra disposizione, il nostro pensiero si espande e insieme con 55O anche l’elenco delle nostre opzioni. Spezzare i limiti imposti da questo genere di postulati autolimitanti ci rende liberi di risolvere vecchi problemi in modo nuovo. Il punto sta tutto nell’identificare il falso postulato: la soluzione diventa allora molto più facile da scoprire. (Altre possibili solu zioni del gioco dei nove punti sono riportate alle pp. 268-269.)

Selezionare le opzioni Costi e vantaggi Una volta compilato un elenco esauriente di opzioni, la fa se del coaching che riguarda il che cosa fare può semplice mente limitarsi alla scelta dell’opzione migliore all’interno di una rosa di possibilità. Nel caso di problemi più complessi, co me capita quasi sempre in ambito lavorativo. potrebbe rendersi tuttavia necessario riesaminare l’elenco, definendo con preci sione i costi e i vantaggi inerenti a ciascuna opzione. Anche quest’indagine ulteriore andrebbe condotta rispettando la tec nica del coaching. ed è a questo punto che, fondendo tra loro due o più idee, potremmo fare emergere la scelta ottimale. Di solito, durante questa fase, invito gli allievi a valutare quanto gli piaccia ciascuna opzione secondo una scala da 1 a 10. L’input da parte del coach Come si deve comportare un coach che, disponendo maga ri di particolari conoscenze tecniche oppure di una certa espe rienza in merito al problema in questione, si accorge che l’al lievo non ha espresso quella che a suo avviso sarebbe la solu zione più ovvia? In quale fase del processo un coach dovreb be fornire apertamente la propria perizia tecnica? Ovviamen te, nel momento in cui si rende conto

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che l’allievo ha esaurito tutte le sue possibilità. Ma in che modo può dare il proprio in put senza con questo compromettere il senso di totale respon sabilizzazione dell’allievo? Dicendo, molto semplicemente, una frase del tipo: «Io avrei qualche altra opzione da suggerire. Le va di ascoltarla?» A questo punto, quasi nessuno degli allievi risponde: «No. grazie», anche se può sorgere la richie sta che venga concesso loro ancora un po’ di tempo per com pletare un ragionamento in corso. Ai suggerimenti offerti dal coach va ovviamente data la medesima importanza che è stata attribuita alle altre opzioni indicate dagli allievi. La presentazione grafica delle opzioni Scrivendo semplicemente a caso le opzioni su un foglio di carta è possibile evitare quell’impostazione grafica di tipo inconscio e di carattere gerarchico (la cosa più importante viene per prima) che si genera ponendo in sequenza le opinioni lungo una colonna verticale. Vediamo ora in che modo Mike, che a quanto sembra è lui stesso un patito della forma fisica, affronta il problema delle diverse opzioni possibili con Joe, il quale attende chiaramente dall’amico esperto qualche buona ricetta per recuperare il benessere del proprio corpo. MIKE: Allora Joe, quali sono le cose che potresti fare per dimagrire ed essere più in forma? JOE: Potrei correre più spesso, o per più chilometri o più ve locemente. MIKE: Altro? JOE: Potrei ridurre il cibo e il bere. MIKE:Altro? JOE: Potrei evitare i cibi particolarmente grassi. MIKE: Che altro genere di esercizio fisico potresti fare? JOE: Be’, penso che potrei iscrivermi a una palestra. MIKE: Ti viene in mente altro? JOE: Potrei andare in piscina oppure praticare lo squash, cosa a cui tra l’altro avevo già pensato. O magari giocare a golf. MIKE: Che cos’altro potresti fare che non richieda spese né attrezzature particolari o iscrizioni a circoli o club, qual cosa che potresti praticare normalmente nella vita di tutti i giorni? JOE: Non mi viene in mente niente! Non posso andare in bicicletta perché non ne possiedo una e non vorrei acquistarla per quest’unico scopo. MIKE: E se invece ne avessi già una? JOE: Potrei andare al lavoro in bicicletta, e anche al bar! In effetti potrei andare al lavoro a piedi e fare le scale di corsa anziché prendere l’ascensore fino al terzo piano. MIKE: Sì, in effetti, potresti proprio farlo. È tutto? JOE Mi sembra già abbastanza, non ti pare?

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MIKE: Prenderesti in considerazione ancora un’altra opzione? JOE: Certamente, se tu ne hai una da suggerirmi. MIKE Che diresti di esercitarti coi pesi e fare un po’ di ginnastica a casa? JOE: Anche questa è una possibilità, ceno. Joe e Mike esaminano quindi l’elenco delle varie opzioni, considerando i vantaggi e gli svantaggi che ciascuna di esse comporta: il golf richiede molto tempo; lo squash impegna meno tempo, fa consumare più calorie ma in compenso ti- chiede un certo periodo prima di impararlo e praticarlo con una certa soddisfazione: la piscina più vicina è a 8 chilometri ma in compenso il nuoto è uno sport sicuro, privo del rischio di farsi male. I due amici esaminano poi l’aspetto pratico di cene diete e la possibilità di evitare di assumere alcolici nell’ambiente di lavoro. In forma per lavorare Nel caso stiate pensando che questo esempio di coaching sia un po’ lontano dal contesto del mondo professionale, considerate quanto riferisce sir Michael Edwardes durante un’intervista rilasciata a David Hemery per il suo libro Sporting Excellence: “Esito sempre a introdurre in una squadra una persona obesa e non in perfetta forma fisica: suggerisce una mancanza di disciplina. Io ho sessant’anni e gioco tre volte la settimana a squash e una volta a tennis. Non sono sovrappeso. Ho più energie di quante ne avevo a cinquant’anni. Sono sicuro di essere più in forma dei miei avversari e credo che questo sia determinante. Nella mia squadra non vorrei nessuno che non fosse in smagliante forma fisica” . A questo punto Joe è perfettamente consapevole di tutte le opzioni e ha fatto piena chiarezza sui rispettivi pro e contro. Èarrivato il momento di prendere delle decisioni.

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CAPITOLO 10 CHE COSA FARAI?

Il momento delle decisioni e il momento della precisione.

Lo scopo di questa fase finale del processo di coaching è quello di trasformare una discussione in una decisione. Si tratta di elaborare un piano d’azione che rispetti i requisiti prestabiliti, che poggi su un terreno accuratamente sondato e possa contare sulla più ampia scelta possibile di materiali da Costruzione. Le domande che vi suggerirò tra poco, quelle che rientrano nella quarta fase (la fase «W» dell’acronimo GROW), sono applicabili alla maggior parte delle situazioni in cui viene praticato il coaching. Il coach, naturalmente, può aggiungere dei sottoinsiemi di domande volte a chiarire i singoli punti, ma queste domande principali costituiscono già un’ossatura efficace per questa fase. Le richieste avanzate da manager dai modi autocratici vengono spesso accolte con una calma rassegnata oppure con atteggiamenti di resistenzao di risentimento, per quanto li si manifesti «diplomaticamente». Un coach, al contrario, può introdurre nella successione di domande che caratterizzano questa fase un sorprendente grado di severità, senza per questo suscitare negli interlocutori malumori o offese, per il semplice fatto che egli non sta imponendo la propria volontà ma si sta sforzando di attivare quella degli altri. Poiché la scelta e la responsabilità del processo restano comunque nelle mani dell’allievo, anche nel caso in cui quest’ultimo decida di non intraprendere alcuna azione in conseguenza del coaching, neppure le domande più dure e dirette suscitano reazioni negative. Gli allievi di una sessione di coaching possono persino di mostrarsi divertiti delle proprie indecisioni, se si sentono in qualche modo spinti all’azione significa che il coach sta inconsapevolmente dimostrando di pensare che essi dovrebbero adottare una specifica azione. Veniamo ora al valore e agli obiettivi di queste domande, cercando di individuare il modo migliore per porle.

Che cosa intendete fare? Questa domanda è totalmente diversa da «Che cosa potreste fare!» oppure «Che cosa pensate di fare» o «Quale di queste azioni preferireste!» Nessuna di queste ultime, infatti, implica una ferma decisione. Una volta che il coach ha posto la domanda con voce chiara e decisa per far capire che è il momento di prendere delle decisioni, può formularne una ulteriore: «A quale di queste alternative vi atterrete!» Il piano d’azione elaborato durante la sessione di coaching riquadrerà, nella maggior parte dei casi, più di una opzione, o una combinazione di elementi tratti da diverse opzioni.

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Le possibili opzioni sono state finora definite in modo generico, sicché per il coach è giunto il momento di porre domande precise e circostanziate, volte a chiarire in dettaglio la scelta effettuata. Direi che a questo punto le domande più significative sono senza dubbio quelle che seguono.

Quando lo farete? Questa è forse la domanda più «impegnativa». Tutti possiamo avere grandi idee su ciò che ci piacerebbe fare o che faremo, ma è soltanto quando fissiamo delle scadenze precise che la nostra azione passa a un livello di realtà (e talvolta non basta dire «l’anno prossimo»: se qualcosa deve avvenire, occorre che le scadenze siano definite nel dettaglio). Quando si tratta di una singola azione, la risposta voluta potrebbe essere: «Alle 10 in punto di martedì prossimo, giorno 12 di questo mese». Spesso si richiederà di fissare sia un’ora e una data per l’inizio dell’azione che un’ora e una data per la sua conclusione. Se l’azione decisa si ripete nel tempo, occorre specificare gli intervalli: «Ci riuniremo alle 9.00 del primo mercoledì del mese». E compito del coach fare in modo che l’allievo definisca con precisione le scadenze temporali: questi, infatti, può anche cominciare a dare risposte evasive nel tentativo di svicolare, ma un buon coach non glielo permetterà.

La vostra azione vi condurra all’obiettivo? Ora che abbiamo definito il tipo d’azione e le scadenze temporali è importante che, prima di procedere oltre, si verifichi attentamente se l’azione prevista va nella direzione richiesta dall’obiettivo della sessione e dall’obiettivo finale. Se non si effettua questo controllo, l’allievo può scoprire di essersi allontanato parecchio dalla direzione voluta; se questo accade, è importante non avere fretta di cambiare l’azione bensì verificare se. alla luce di quanto è emerso dopo che la definizione dell’obiettivo, non sia proprio quest’ultimo a dover essere modificato.

Quali ostacoli potreste incontrare? E importante essere preparati ad affrontare tutte le difficoltà che potrebbero in sorgere e impedire di condurre a termine l’azione. Potrebbero incombere scenari catastrofici legati a fattori esterni, ma possono anche palesarsi ostacoli originati da fattori interni, come per esempio eccessivi timori da parte dell’allievo. Certe persone sperimentano una tale contrazione del senso di impegno che non vedono l’ora che all’orizzonte si profili un qualche «utile» ostacolo che offra una giustificazione per non portare a termine l’azione. Ciò può essere prevenuto con il processo di coaching.

Chi dovrà essere al corrente dell’azione? Nel mondo del lavoro capita con troppa frequenza che i piani vengano cambiati e che le persone che dovrebbero esserne tempestivamente informate lo vengano a sapere da terzi e quasi per caso: un fatto, questo, che ha effetti deleteri sui rapporti interpersonali all’interno dell’azienda. Il coach deve per tanto assicurarsi che venga stilato un elenco di tutte le persone che resteranno in qualche modo coinvolte nell’azione e che si predisponga un piano per informarle tempestivamente.

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Di quale aiuto avrete bisogno? Questo aspetto dell’azione è probabilmente in stretto rapporto con il precedente, ma occorre comunque tenere presente che un aiuto può presentarsi sotto forme diverse: potrebbe comportare un’intesa con altri al fine di coinvolgere persone o risorse esterne, oppure limitarsi al fatto di informare un collega di quanto avete in mente di fare e pregarlo di rammentarvelo il più spesso possibile. aiutandovi in questo modo a mantenere la concentrazione e la determinazione necessarie. Il fatto stesso di condividere con un’altra persona l’azione che intendete intraprendere sortisce spesso l’effetto di rendervi più sicuri di attuarla.

Come e quando otterrete tale aiuto? Non ha molto senso desiderare un aiuto senza compiere i passi necessari per riceverlo. Su questo punto il coach deve insistere fino a che non sia stata fatta completa chiarezza.

Quali altre considerazioni ci sono da parte vostra? Si tratta di una domanda necessaria, che potremmo definire polivalente e che impedisce all’allievo di attribuire al coach qualche dimenticanza. È responsabilità dell’allievo fare in modo che nulla venga tralasciato.

Valutate su una scala da / a 10 il vostro grado di sicurezza sul fatto che porterete a compimento le azioni concordate. Non si tratta di valutare la certezza del risultato reale, bensì la volontà da parte dell’allievo di portare a termine quanto gli compete. La piena realizzazione del piano può dipendere da intese o da azioni che dipendono a loro volta da altri, e questo non è possibile valutarlo in alcun modo.

Che cosa vi impedisce di attribuirvi un bel 10? Se avete espresso una valutazione inferiore a 8, in che modo potreste ridurre la portata della vostra azione o prolungarne i tempi di realizzazione così da far salire la valutazione fino a 8 o anche oltre? Se la vostra valutazione continua a restare al di sotto di 8. rinunciate all’azione perché è assai improbabile che possiate farcela. La piena realizzazione Il consiglio che ho appena dato non intende essere una forma di disfattismo o peggio ancora di sabotaggio, come potrebbe sembrare. Il fatto è che la nostra esperienza ci dice che chi si attribuisce una valutazione inferiore a 8 raramente riesce ad arrivare fino in fondo. Può capitare, tuttavia, che un allievo, posto di fronte alla necessità di ammettere il proprio fallimento, sappia ritrovare la necessaria motivazione per proseguire. Molti di noi conoscono bene quel momento in cui ci accorgiamo che dall’elenco delle nostre incombenze ve ne sono alcune ricorrenti che non riusciamo mai a spuntare (e questo vale sia per il lavoro sia per i lavoretti che dobbiamo fare in casa o in giardino). Alla fine, quell’elenco è così spiegazzato e pasticciato che pensiamo bene di riscriverlo, ma

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solo per accorgerci che alcune di quelle incombenze tornano puntual mente a far capolino sul foglio di carta. Cominciamo allora a sentirci giustamente in colpa, ma questo non aiuta a risolvere il problema. «Com’è che non riesco a portare a termine questi lavori?» brontoliamo con noi stessi. La lista che teniamo fra le mani, con le cose da fare che continuano a non essere spuntate, è la prova evidente del nostro fallimento. D’accordo, ma perché starci male? Se sapete che non riuscirete a fare quella certa cosa, cancellatela dall’elenco, e se ‘volete che il successo vi arrida sempre non mettete in elenco cose che non avete in tenzione di portare a termine! Non dimenticate che lo scopo del coaching è quello di creare e conservare nell’allievo il senso di fiducia in se stesso e che dobbiamo esercitare questa pratica con l’unico scopo di garantire che abbiano successo, sia per se stesse che per l zienda in cui lavorano.

Conclusione del ciclo del coaching A questo punto, il ciclo del coaching è completato, ma il coach deve ancora consegnare all’allievo un resoconto scritto, chiaro e preciso, dei vari passi concordati e delle risposte che quest’ultimo ha fornito alle domande della quarta fase, in particolare a quelle che si riferiscono alla volontà di condurre a compimento l’azione definita. L’allievo viene invitato a leggere la relazione e a confermarne la piena aderenza alla verità, sottolineando come essa costituisca e illustri il suo personale piano d’azione, come ogni punto sia perfettamente comprensibile e sia sua intenzione portare a compimento quanto stabilito. Questo di regola è il momento in cui io, nelle vesti di coach, offro un ulteriore sostegno all’allievo, rassicurandolo sul fatto che potrà sempre rivolgersi a me in caso di necessità. Talvolta mi offro di essere io stesso, dopo un certo intervallo di tempo, a riprendere i contatti, anche solo per sapere come stanno andando le cose. Tutto questo contribuisce a far sì che l’allievo si senta importante: ciò che voglio è che possa terminare la sessione di coaching sentendosi in pace con se stesso e ricco di sensazioni positive sulle sue possibilità di portare a termine l’azione che è stata decisa. Se l’allievo otterrà questo stato d’animo, l’azione avrà successo. Vediamo ora come se la cava Mike in questa quarta e ultima fase del coaching con il suo amico Joe. MIKE: Allora, Joe, qui abbiamo il nostro elenco. Lascia che ti rinfreschi la memoria: • correre più spesso, per più chilometri o più veloce mente; • mangiare e bere di meno, e in maniera più sana; • frequentare una palestra: • andare in piscina: • praticare lo squash:

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• giocare a golf; • andare in bicicletta; • fare passeggiate; • fare le scale; • esercitarsi con i pesi e/o fare ginnastica in casa. Che cosa sceglierai tra tutte queste possibilità? JOE: Credo proprio che continuerò a correre, per almeno tre volte alla settimana e per venti minuti. MIKE:Quando comincerai? JOE: La prossima settimana. Martedì la prima corsa! In che giorni e a che ora andrai a correre? Di regola il martedì e il giovedì, subito dopo il lavoro, e poi la domenica mattina. La domenica correrò per mez z’ora. MIKE: Che cos’altro intendi fare? JOE: Più niente cioccolato nè patatine fritte. MIKE: E con il bere? JOE: Speravo che non me l’avresti chiesto in modo così di retto! Ebbene sì! Niente più vino e solo una birretta al giorno. MIKE: Lo ritieni davvero possibile? Riesci a limitarti a una birra piccola anche quando sei in compagnia degli amici? JOE: No. probabilmente. MIKE: Avrei un suggerimento. JOE: Dimmi. MIKE: Tre birrette alla settimana, e se un giorno esageri ti astieni poi del tutto per uno o due giorni. JOE: Mi sembra una buon idea, più facile da realizzare ma con lo stesso risultato. MIKE: Quando pensi di iniziare? JOE: Domenica. MIKE: E come altro esercizio tisico? JOE: Pensavo di prendere qualche lezione di squash per vedere se mi piace e magari poi cominciare a praticarlo regolarmente. MIKE: Quando? JOE: Lo sapevo che me l’avresti chiesto! Chiamerò oggi stes so l’istruttore di squash e fisserò la prima lezione per la settimana prossima. MIKE: E la lezione successiva! JOE: La farò la settimana dopo.

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MIKE: Altro? JOE: Be’. di certo non comincerò ad andare al lavoro in bici cletta a novembre. Per ora lascio la bicicletta in disparte e riconsidererò la cosa il ° aprile. M1KE: Te lo rammenterò [estraendo l’agenda], e non pensare che stia scherzando! JOE: Per intanto potrei fare qualche esercizio di ginnastica a casa. M1KE: Che tipo di esercizio e quanto spesso? JOE: Sei tu l’esperto. dimmelo tu. MIKE: Torneremo su questo punto. Allora, è tutto? JOE: Dovrebbe essere più che sufficiente per raggiungere il lilio scopo. MIKE: Sono d’accordo, ma è realistico? JOE: Penso di sì. MIKE: Ora. quali ostacoli sei in grado di prevedere? JOE: Le festività natalizie per quanto riguarda il cibo e il bere, e condizioni meteorologiche disagevoli per quanto riguarda la corsa. Credo sia tutto... Oh, naturalmente. c’è anche la mia pigrizia. MIKE Come pensi di affrontare queste difficoltà? JOE: La settimana di Natale mi concederò due birre e un piatto di patatine fritte in più e la settimana dopo, in cui sarò in ferie, correrò due volte in più. MIKE: Che cosa farai se in quei giorni, o in altri, fuori ci sarà molto freddo o nevicherà? JOE: Sostituirò la corsa con lo squash o con il nuoto. So già quello che stai per chiedermi, per cui eccoti la mia risposta: quaranta minuti di squash o venti vasche in piscina. MIKE: E che cosa farai per la pigrizia, di cui del resto soffriamo tutti? JOE: Avrò bisogno di essere spronato un po’ di tanto in tanto. MIKE: Esattamente dove volevo arrivare. Che tipo di aiuto di serve e da parte di chi? JOE: L’aiuto di mia moglie per quanto riguarda il cibo... e anche per spronarmi a fare jogging. Gliene parlerò stasera. MIKE: Altro aiuto? JOE: Il tuo aiuto: una telefonata ogni due settimane mi sarebbe di grande giovamento e vorrei anche che mi facessi vedere qualche buon esercizio di ginnastica da fare a casa. Non voglio andare semplicemente in un negozio, comperare dei pesi e tutto finisce lì! MIKE: Volentieri, ecco un ottimo esercizio, guarda: per alzare il busto in questo modo non c’è neppure bisogno che qualcuno ti tenga ferme le gambe, ed è buono per gli addominali. Cominci con una serie di dieci e poi magari ripeti. Oppure ti sdrai e fai queste flessioni. Anche in questo

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caso è meglio il numero delle serie di esercizi piuttosto che l’intensità dello sforzo. Dieci minuti al giorno sarebbe l’ideale. JOE: D’accordo: tutte le mattine appena alzato, e se per caso salto una volta ho sempre la possibilità di recuperare la sera. Se salto un giorno intero, farò esercizio doppio l’indomani. MIKE: Quando pensi di cominciare? JOE: Che ne dici di domani mattina? MIKE: Tenendo conto della tua storia passata, hai dimostrato una sorprendente determinazione fissando un programma che definirei ambizioso. Come valuteresti, su un scala da I a 10, le tue possibilità di farcela a mantenerlo nei prossimi tre mesi? JOE: Mmmh, domanda difficile questa... direi 7. MIKE: In che cosa potresti ridurre il tuo programma in modo da dare una valutazione pià alta? JOE: Credo che in effetti sia un po’ troppo per me e ho parecchi dubbi sullo squash,perché so già che non riuscirò a mettermi lì a giocare tutto solo non appena ho un attimo di tempo libero. Credo che eliminando lo squash potrei darmi un 9. MIKE: Molto bene. Un’ultima verifica: con questo programma raggiungerai il tuo obiettivo? JOE: Direi che adesso è un pò meno pretenzioso ma altrettanto valido, e soprattutto mi sento sicuro di farcela. Non tutte le sessioni di coaching si svolgono in maniera così diretta ed esplicita come questa e devo dire che spesso allievi oppongono resistenze ben maggiori e tendono a complicare un pò di più tutto quanto. La sessione di Mike e Joe comunque, è abbastanza tipica nel suo genere e serve a illustrare gran parte dei principi che sottostanno alla pratica di coaching. Come ho appena detto, la maggior parte delle sessioni paiono meno strutturale e rigide di questa e, per lo più. svolgono in modo tale che agli occhi di un profano potrebbero non sembrare neppure sessioni di coaching. Penserebbe semplicemente che un tizio si sta dimostrando particolarmente desideroso di aiutare un altro, rivelandosi prima di tutto, un ottimo ascoltatore. Che si tratti di una sessione rigidamente strutturata o informale, il principio fondamentale di un buon coaching rimane quello di creare nell’allievo consapevolezza e senso di responsabilità.

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CAPITOLO 11 CHE COSA INTENDIAMO PER PERFORMANCE ? Se sono importanti sia la qualità di una performance sia la possibilità di imparare dall ‘esperienza, allora il coaching è indispensabile. Se ritenete che non lo siano, allora date ordini, se proprio dovete.

Il mio dizionario offre del termine performance questo primo significato: «Esecuzione delle mansioni o funzioni richieste a una persona», il che suona al mio orecchio non molto diverso dal fare il minimo necessario, giusto per tirare avanti. A mio giudizio, qui non si tratta di performance, o perlomeno non è ciò a cui si riferisce questo libro. Nella vera performance andiamo al di là di quelle che sono le normali aspettative, adottando ciascuno il nostro massimo standard personale, con un livello che supera invariabilmente cio che gli altri richiedono o si aspettano da noi. Si tratta, com’è ovvio, della piena espressione delle nostre potenzialità, e questo ci porta al secondo significato del termine così come viene definito nel dizionario: «Azione, dimostrazione, pubblica esibizione di una particolare capacità». Ecco a che cosa serve il coaching. Per definizione, la completa espressione delle potenzialità di una persona esige da parte di quest’ultima una piena responsabilità e un totale coinvolgimento, anche perché, se così non fosse, la sua performance non farebbe che esprimere, almeno in parte, potenzialità altrui. Il coaching, pertanto, rappresenta uno stile o uno strumento di management volto a ottimizzare realmente la performance delle persone, liberando tutte le loro potenzialità nascoste. Impartendo ordini o istruzioni, imponendo la propria volontà sugli altri o cercando di persuaderli con minacce, più o meno velate, non è possibile ottenerne una performance che esprima compiutamente le loro capacità e sia effettivamente sostenibile, e que sto anche se, in un modo o nell’altro, il lavoro verrà svolto. La domanda che un manager e un leader devono porsi è «Quanto bene voglio che il lavoro sia tatto?» o «Quanto buona dev’essere la prestazione che richiedo?» E lo sanno come sarebbe effettivamente una performance veramente buona ? La pratica del coaching puo portare il rendimento al di là delle aspettative dello stesso coach o manager e al di là dei sogni più ambiziosi dell’allievo o dipendente. Nello sport, dove i successi e gli insuccessi sono così chiaramente definiti, le regole sono semplici, tutto si svolge in un arco di tempo limitato e qualsiasi disagio fisico o mentale risulta circoscritto,non è poi

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così difficile sollecitare nell’atleta un buon grado di motivazione interiore. Giornali e rotocalchi vorrebbero farci credere che fama e ricchezza siano il sogno di ogni sportivo: forse per qualcuno è davvero così, ma lo maggior parte degli atleti si mette alla prova mirando a obiettivi meno concreti, come senso di identità, autostima, desiderio di eccellenza e di esperienze estreme, tutti premi, per così dire, intimamente personali, tanto che è l’atleta l’unico a poterli vedere, sentire e apprezzare. Il successo nel mondo del lavoro solleva meno clamori e, a paragone. è assai più lento ad arrivare. D’altro canto, la qualità della vita sul posto di lavoro, in virtù delle ore e degli anni che un individuo vi trascorre, è di gran lunga più importante. Sono pochi i capitani di industria che raggiungono un qualche tipo di riconoscimento pubblico, e quelli che lo raggiungono rischiano il più delle volte di essere bollati da infamia piuttosto che incensati dalla fama. Dall’altro lato, tutta via, il mondo del business offre infinite opportunità, grandi e piccole per conseguire obiettivi personali a cui ciascuno può puntare per avere la possibilità di crescere e sviluppare le proprie potenzialità. Purtroppo, ben pochi riescono a vedere il posto di lavoro come un’arena nella quale sviluppare la propria personalità né riescono a considerare la routine lavorativa come una sorta di sfida da affrontare con determinazione. Non deve sorprendere quindi che la loro performance non faccia faville. La Johnsonville Sausage Vorrei raccontarvi la storia della Johnsonville Sausage. È il nome di una piccola azienda famigliare produttrice di insaccati che si trova nel Wisconsin e il cui CEO nel 1980 era Ralph Stayer. Sul numero di novembre-dicembre 1990 della Harvard Business Review è comparso un articolo dal titolo «Come ho imparato a lasciare che fossero i miei operai a comandare», in cui Stayer racconta della sua azienda e da cui citerò alcuni passi significativi. Alla Johnsonville Sausage livelli di crescita, fatturato e profitti erano ottimi, cosa che, dal punto di vista commerciale, lasciava presagire buoni risultati, tuttavia... «Ciò che mi preoccupava più della concorrenza era la frattura esistente tra potenzialità e performance», riferisce Stayer. «Non si trattava del fatto che qualcuno causasse deliberatamente uno spreco di denaro, tempo e materie prime le persone, semplicemente, non si assumevano alcuna responsabilità del loro lavoro: arrivavano al mattino, facevano senza entusiasmo quello che gli era stato detto di fare e se ne ritornavano a casa al la sera.» La situazione descritta da Stayer è più diffusa di quanto sì creda e il suo merito sta nell’aver chiaramente identificato il ruolo vitale che spetta al senso di responsabilità individuale per innalzare i livelli della performance fino alla compleu espressione delle potenzialità. È lo stesso Stayer a riferire che un giorno decise di passare «da una forma di controllo autoritario a una forma di abdicazione autoritaria». Costrinse la sua squadra di dirigenti ad assumersi tutta la responsabilità,

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aspettandosi che capissero quello che lui voleva. La cosa non funzionò. «All’inizio degli anni Ottanta, capii che non potevo essere io a ‘forzare’ negli altri il senso di responsabilità: erano loro i primi a doverlo volere, a esigerlo persino [... ..] Per portarli a questo (...] dovevo imparare a praticare meglio la tec nica del coaching.» Fu così che Stayer cambiò radicalmente approccio: toccò agli operai, e non agli alti dirigenti, assaggiare gli insaccati che loro stessi producevano e farsi carico del controllo della qualità, oltre che della ricerca per migliorare il prodotto e il packaging. In seguito il reparto produzione sollevò il problema dei colleghi la cui performance era insoddisfacente: Ci offrimmo di aiutarli a fissare degli standard di rendimento e di fare loro del coaching su come affrontare i lavoratori con un basso livello di performance. In ogni caso, dal momento che erano loro i veri esperti per ciò che riguardava la performance nell’area della produzione, insistemmo sul fatto che toccava a loro gestire la situazione. Per più di una volta dovetti tenere a freno la lingua, ma alla fine acconsentirono ad assumersi la responsabilità di gestire i problemi legati alla performance ed effettivamente finirono per licenziare quei colleghi il cui rendimento non rispettava gli standard fissati dalle rispettive squadre. Nel giro di poco tempo, il personale della Johnsonville Sausage si assunse la diretta responsabilità della maggior parte delle funzioni aziendali. Parole come «impiegato» e «dipendente» vennero sostituite dalla qualifica di «membri del l’organizzazione aziendale», mentre i manager si trasformarono in «coordinatori» o «coach». Questi cambiamenti, anche linguistici, seppero creare l’atmosfera di un’azienda rinnovata, in cui le promozioni nascevano non dalla capacità di dirigere il lavoro o di risolvere i problemi nel modo tradizionale bensì dalla disponibilità ad aiutare gli altri e facilitarne il compito in veste di istruttore, coach o facilitatore. A proposito del personale dell’azienda. Stayer sottolinea inoltre che: “…volevano vedere se mettevo realmente in pratica quello che andavo predicando. All’inizio cercai con cose semplici di dimostrare nei fatti la sincerità dei miei intenti e feci preparare un cartello da mettere sulla mia scrivania che diceva LA DOMANDA È LA RISPOSTA. Quando qualcuno arrivava da me con delle domande, mi chiedevo prima di tutto se fossero interrogativi a cui spettava a me dare la risposta e, inva riabilmente, mi accorgevo non era così: quel che mi veniva richiesto era, in sostanza, di prendere decisioni al posto dì altri. Anziché fornire le risposte, rovesciavo le posizioni e cominciavo io a porre domande, cercando di costringere i miei interlocutori a riappropriarsi dei problemi di loro competenza….”. Con il passare del tempo, i cosiddetti «membri» vennero messi in condizione di prendere anche decisioni di carattere strategico, cosa che fecero con ottimi risultati, tanto che Stayer cominciò a considerarsi all’interno della sua stessa azienda come un consulente. “…..Quando iniziai questo processo di cambiamento, dieci anni fa, non vedevo l’ora che tutto finisse per poter tornare al mio vero lavoro. In realtà, però, ho capitò che proprio l’attuazione del cambiamento

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costituiva il vero lavoro di chi è responsabile della vita di un’azienda e intende svolgere il proprio compito in maniera efficace, dato che il cambiamento è rivolto al presente e al futuro e non al passato. Non c’è mai fine al cambiamento. Un’altra cosa che ho imparato è che a innescare quell’atmosfera di eccitazione alla Johnsonville Sausage non era stato il cambiamento in sé bensì il processo con cui esso era avvenuto. La possibilità di apprendere cose nuove e di sentirsi responsabili infonde energie fresche nelle persone e le nuove aspirazioni fanno battere più velocemente i cuori. Ottenere migliori prestazioni, che si tratti di un team, di un singolo lavoratore o di noi stessi, implica un costante cambiamento nel nostro modo di pensare e di gestire l’impresa. Un cambiamento di tale portata non si concreta in un singolo atto risolutivo, ma è piuttosto un viaggio, e come ogni viaggio ha un suo preciso punto di partenza [ situa zione reale] e una chiara destinazione [l’obiettivo]. Per realizzare i cambiamenti che conducono a grandi performance, dunque, io raccomando di concentrarsi, e questi elementi essenziali: obiettivi, aspettative, contestazione e apprendimento...”. Performance È chiaro che Stayer mise in pratica quello che predicava. Le maestranze della Johnsonville Sausage risposero con una performance eccezionale e non c’è dubbio che presso quell’azienda anche le attività di apprendimento siano state particolarmente significative il grado di soddisfazione decisamente elevato. Ci vuole coraggio per dare il via a cambiamenti così radicali in un’azienda, ma qualsiasi capo azienda che voglia garantirsi performance eccezionali (e magari anche la sopravvivenza dell’azienda in un futuro sempre più incerto) farà bene a considerare l’eventualità di avviare cambiamenti di grande portata. Ma da dove iniziare? L’esercizio del coaching per migliorare la pertormance — la nostra, quella di un’altra persona o di un intero team — è semplice e chiaro, posto ovviamente che ne vengano rispettati i principi fondamentali e che l’adozione di uno stile di management basato sul coaching sia l’inizio del cambiamento. Non va dimenticato, tuttavia, che anche i manager che ricorrono ampiamente al coaching possono andare incontro a insuccessi, in primo luogo se commettono l’errore di concentrarsi esclusivamente sul migl ioraniento della performance. Apprendimento Molte aziende cominciano a rendersi conto del fatto che, se davvero vogliono stimolare e motivare i loro dipendenti e intendono far fronte positivamente all’esigenza di cambiamenti pressoché continui, devono diventare organizzazioni che apprendono. Performance, apprendimento e soddisfazione sono tre elementi strettamente connessi che vengono intensificati da un elevato livello di consapevolezza (che, non di

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mentichiamolo, è l’obiettivo fondamentale del coaching). E tuttavia impossibile sviluppare con un certo successo uno solo di questi elementi: quando uno dei tre viene trascurato, presto o tardi inizieranno a soffrirne anche gli altri due. Una buona performance, per esempio, non può essere sostenuta dove non c’è apprendimento o soddisfazione per quello che si fa. Divertimento Molti sportivi professionisti hanno sperimentato nel corso della loro carriera momenti in cui sembrava loro di aver perso ogni gioia nell’esercizio della loro disciplina, allo stesso modo in cui dopo due o tre giorni ci stanchiamo di crogiolarci in spiaggia e cominciamo a cercare nuove sfide alla nostra performance.,dal beach volley alle immersioni subacquee. Le scuole di alto livello che non offrono ai loro allievi la possibilità di confrontarsi con una qualche attività sportiva o con le arti dello spettacolo, disapprovando la parola stessa «divertimento», non sono in grado di mantenere quegli standard educativi di cui tanto si vantano. L’unica e autentica definizione di performance, secondo i fini che il coaching si pone, dovrebbe inglobare anche momenti di apprendimento e di divertimento/soddisfazione.

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CAPITOLO 12 APPRENDIMENTO E DIVERTIMENTO

Non abbiamo bisogno di sapere come si fa qualche cosa per essere capaci di farla: abbiamo imparato a camminare,

a correre, ad andare in bicicletta e a prendere una palla al volo senza istruzioni su come farlo.

Direi che finora gran parte di questo libro ha trattato proprio dell’apprendimento, tant’è che per fornire alcuni esempi della pratica del coaching ho fatto spesso riferimento all’acquisizione di determinate capacità da applicare nello sport. L’utilizzo ancora molto diffuso di metodologie didattiche basate sulle «istruzioni», tanto nello sport quanto nel lavoro o in ambito scolastico, sta tuttavia a indicare quanta poca comprensione vi sia di «come» avvenga realmente il processo di apprendimento. Il problema, almeno in parte, è legato al fatto che istruttori, insegnanti e manager si preoccupano più dei successi a breve termine — come superare un esame o portare a termine al più presto un certo lavoro — che non dell’apprendimento o della qualità della prestazione. Tutto questo dovrà necessariamente cambiare, dal momento che i risultati così ottenuti non bastano a soddisfare i nostri bisogni o a superare la concorrenza. Dobbiamo trovare un modo migliore. I partecipanti ai nostri corsi di coaching rimangono invariabilmente sbalorditi allorché scoprono quanta ovvietà e quanto buonsenso vi sia alla base dei principi di questa tecnica, come pure quanti suoi elementi siano permeati di una logica inconfutabile: tutto questo, naturalmente, una volta che ci siamo liberati dalla tirannia di una pletora di modelli mentali obsoleti, dei quali però non abbiamo mai creduto di mettere in dubbio l’effettiva validità. Molti trovano utile considerare l’apprendimento secondo una prospettiva ampiamente accettata nel mondo della formazione e che prevede quattro fasi distinte: 1. Incompetenza inconscia: basso livello di performance senza alcuna diversificazione o effettiva comprensione. 2. Incompetenza conscia: basso livello di performance, identificazione dei difetti e dei punti deboli. 3. Competenza conscia: migliore performance, sforzi consapevoli e in qualche misura efficaci. 4. Competenza inconscia: si ha automaticamente un livello più alto di performance, di tipo integrato e naturale. Il ciclo dell’apprendimento si sviluppa di regola attraverso ciascuna di queste fasi successive. Nel momento in cui un determinato argomento

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risulta appreso pienamente e integralmente. e se siamo pronti a proseguire nei nostri sforzi per continuare a migliorare, possiamo affrontare un ciclo successivo. Dobbiamo immancabilmente seguire queste quattro fasi in successione o vi sono eccezioni o possibilità di accelerare il processo? Un bambino impara a camminare e a parlare, a lanciare e prendere la palla, a correre e ad andare in bicicletta passando con scioltezza dall’ incompetenza inconscia alla competenza inconscia. In seguito, quando impara a guidare l’automobile, le quattro fasi sono già chiaramente identificabili, con l’input dell’istruttore applicato rispettivamente alla fase dell’ incompetenza conscia e della competenza conscia. Una volta superato l’esame di guida, l’apprendimento continua con il passaggio alla competenza conscia e poi alla competenza inconscia, man mano che l’attività di guidare un veicolo diviene sempre più naturale. Ben presto, infatti, siamo in grado di guidare in modo relativamente automatico. riuscendo nel contempo a concentrarci sui nostri pensieri, sulla conversazione con un eventuale passeggero o sulla musica che dall’autoradio si diffonde nell’abitacolo. La capacità di guidare l’auto continua lentamente a migliorare con l’esperienza. Proseguendo con il nostro esempio della guida di un autoveicolo, il processo di apprendimento può essere accelerato decidendo noi stessi di ripetere il ciclo. Lo si può fare in due modi: possiamo rivolgerci a un istruttore di guida con più esperienza che ci conduca nuovamente attraverso la seconda e la terza fase oppure applicando la tecnica del cosiddetto auto Coaching. Nel primo caso si dà per scontato che non siamo in grado a individuare da soli gli errori che commettiamo al volante né quali correttivi introdurvi, sicché affidiamo a un’altra persona la responsabilità di farci migliorare nella guida. Nel secondo caso, invece, non esitiamo ad assumere su di noi questa responsabilità: spegniamo l’autoradio e allontaniamo ogni pensiero che non sia pertinente alla guida, in modo da poterci concentrare sulla nostra tecnica prendendo coscienza dei di versi aspetti della nostra guida. Se riusciamo a farlo coscientemente, onestamente e senza inutili autocritiche, vedremo emergere da soli gli aspetti della nostra guida che richiedono un affinamento: per esempio, la mancanza di scioltezza nel cambiare le marce, la difficoltà nel calcolare esattamente velocità e distanza di sicurezza oppure quella tensione nelle spalle che ci fa sentire stanchi dopo pochi chilometri. Ci troviamo ora nella fase dell’incompetenza conscia e possiamo evolvere senza troppi ostacoli in quella successiva sforzandoci consciamente di muovere la leva del cambio con più dolcezza, di tenere d’occhio il tachimetro e di fare ben attenzione a lasciare la giusta distanza tra la nostra vettura e quella che ci precede. Alla fine, ripetendo in modo pienamente consapevole questo stesso esercizio, la nostra guida migliorerà automaticamente e saremo così entrati nella fase della competenza inconscia. Nell’applicazione dell’autocoaching esiste tuttavia una variante di una certa importanza in grado di garantire una maggiore efficacia. Anziché sforzarci di eliminare i difetti della nostra guida che abbiamo saputo identificare nella fase del l’incompetenza conscia, possiamo conseguire

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risultati migliori adottando la seguente tecnica: una volta identificata la caratteristica che vogliamo acquisire, diciamo, per esempio, la dolcezza nel cambiare le marce, anziché sforzarci di manovrare con dolcezza il cambio, possiamo semplicemente soffermarci a osservare fino a che punto sia liscio il nostro cambio di marcia. Allo scopo di dare una qualche valutazione al grado di dolcezza, così da poter usufruire di un feedback più preciso, possiamo ideare una scala da 1 a 10 della dolcezza nella quale il 10 rappresenta un cambio di marcia talmente liscio da passare inavvertito. Continueremo a guidare normalmente, ma semplicemente valutando quanto sia liscia ogni cambiata. Vedrete che, senza alcuno sforzo, il vostro voto comincerà a salire e in un tempo sorprendentemente breve la valutazione sarà compresa tra 9 e 10. Entrerete così senza accorgervene nella fase di competenza inconscia, nella quale non è più necessario esprimere valutazioni e misure sui propri atti, riuscendo a cambiare le marce con dolcezza anche nei momenti di guida più difficili o quando vi troverete al volante di un’auto diversa dal solito. Qualora si avverta di aver commesso un errore, basterà tornare alla fase della competenza conscia per due o tre chilometri ripren dendo l’osservazione e la valutazione del movimento, e vedrete che la scioltezza tornerà. Il procedimento mediante il quale riusciamo ad apprendere qualche cosa senza sforzo oppure a migliorare la nostra performance è estremamente rapido e garantisce ottimi risultati. In termini di processo, questo rappresenta un salto direttamente dall’incompetenza conscia alla competenza inconscia senza passare attraverso la fase della competenza conscia. Con un istruttore di guida, per esempio, continueremmo a oscillare tra l’incompetenza conscia e la competenza conscia, con ingente spesa di tempo e di denaro. L’istruttore promuove coscienza attraverso critiche e istruzioni prescrittive che non «appartengono» pienamente all’allievo. Più i suoi metodi saranno critici e autoritari, meno ci sentiremo coinvolti e protagonisti. Esiste una differenza enorme tra continuare a tentare consciamente di fare qualche cosa bene e monitorare attentamente ciò che già stiamo facendo senza attivare processi di giudizio. È in questo secondo modo che il susseguirsi di input e di feedback offre grandi risultati sia in termini di qualità dell’apprendimento, sia nel miglioramento di una data performance, perché il processo evolve senza forzature e imposizioni. Pur troppo, nella pratica di ogni giorno si ricorre assai più spesso al primo metodo, stressante e molto meno efficace.

Il divertimento Se dedicassi al divertimento un intero capitolo di un libro che intende rivolgersi in primo luogo a quanti si interessano di economia e management, lascerei molto perplesso più di un lettore. Quindi, benché si tratti di un argomento che meriterebbe senz’altro un capitolo tutto suo, cercherò di limitarmi. Persone diverse sperimentano in modo

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diverso i momenti di divertimento, ma io tenterò ugualmente di ridurre al nocciolo la questione in non più di un paio di pagine. L’esperienza del divertimento passa anzitutto attraverso i nostri sensi. Con tutti i comfort materiali di cui siamo circon dati, nel mondo contemporaneo siamo sempre meno esposti. a casa come al lavoro, a sensazioni forti: è questa la ragione per cui si escogitano sport e svaghi sempre più estremi, al solo scopo di provare l’effetto di qualche scarica di adrenalina. Finiamo così per cercare stimoli sempre più forti, senza pensare che potremmo godere delle medesime sensazioni migliorando semplicemente le nostre capacità sensoriali, in modo da avvertire anche gli stimoli più impercettibili. A mano a mano che diventiamo più consapevoli dei nostri sensi, anche le sensazioni più comuni della vita quotidiana diventano letteral mente «sensazionali». I fatti di ogni giorno, anche i più banali, possono offrirci forme di puro godimento, se siamo in grado di filtrarli attraverso capacità sensoriali più affinate. Questa maggiore consapevolezza è conseguibile in vari modi: attraverso l’ascesi o la fede, con la meditazione o l’assunzione di farmaci, con l’esercizio fisico o l’estasi mistica, oppure ricorrendo semplicemente all’autocoaching, che comporta tra l’altro assai meno rischi. Chiederci che cosa stiamo provando esattamente con il tatto, il gusto, l’olfatto, la vista e l’udito e persino con il pensiero – e cercando di mettere a fuoco una risposta precisa — rafforza sia il nostro grado di consapevolezza sia il piacere che proviamo dalle sensazioni, offrendoci inoltre un feedhack o un input migliori. Un’altra forma di piacere può essere raggiunta sperimentando la piena espressione delle nostre potenzialità latenti. Ogni volta che sentiamo di spingerci fin dove non abbiamo mai osato — in termini di esercizio fisico, di coraggio, di azione. di destrezza, di scioltezza, di efficienza — le nostre facoltà sensoriali si elevano a veri e propri picchi, accompagnate da un incremento del flusso adrenalinico. Il coaching agisce direttamente sui sensi, soprattutto in quei casi in cui sono direttamente interessate attività di tipo fisico. Il coaching, pertanto, per sua stessa natura intensifica il piacere. Così, nella pratica la distinzione tra performance, apprendimento e divertimento/piacere acquista contorni sempre meno definiti e al vertice di questa fusione si verifica quella che viene spesso descritta come «esperienza totalizzante». Ben lungi dal voler incitare a vivere «esperienze totalizzanti» sul lavoro, devo tuttavia sottolineare che dietro a tutto ciò esiste un aspetto decisamente serio: la necessità di comprendere esattamente in che modo funzioni il coaching e, soprattutto, quel suo obiettivo particolare che chiamiamo consapevolezza.

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CAPITOLO 13 MOTIVAZIONE Il bastone e la carota riescono a creare motivazioni

in modo penetrante e persuasivo. Ma se si trattano le persone come fossero asini,

non potranno che svolgere il loro lavoro come asini.

Il segreto della motivazione interiore è il santo Graal che ogni dirigente d’azienda ambirebbe a trovare. Il bastone e la carota— simbolo per eccellenza di una motivazione imposta dall’esterno — si stanno rivelando sempre meno efficaci e sono ormai numerosi i manager convinti che una motivazione generata dall’interiorità della persona sarebbe di gran lunga migliore, ma resta il fatto che forzare qualcuno a provare interiormente tale motivazione sarebbe una contraddizione in termini. La motivazione interiore è nascosta nei recessi della mente di ciascuno di noi, inafferrabile anche al manager più alto grado. Del resto, abbiamo già chiarito come la mente sia la chiave di tutto, ma che la difficoltà sta a monte, nel trovare la chiave che apra le porte della mente. Sembra più facile, inoltre, che un’autentica motivazione interiore sorga quasi spontanea in chi pratica una disciplina sportiva che non nelle attività professionali: benché molti atleti e molti allenatori sportivi lamentino che, a volte, tale motivazione si rivela ancora insufficiente. Che cosa possiamo dunque imparare dallo sport, ammesso che ci sia qualcosa da imparare? Praticamente tutte le discipline sportive coinvologno il corpo e la mente nell’esercizio di un’attività che richiede seppure in diverse combinazioni, equilibrio, tempismo. scioltezza. forza fisica e via dicendo. Più riusciamo a fare un uso del nostro corpo tale da permettergli di esprimere l’intero uso potenziale, maggiore è la sensazione di benessere e di piacere che ne ricaviamo. Lo sport. Pertanto, è in grado di generare per sua stessa natura un godimento tale da indurre in qualche modo una sorta di assuefazione: un’attività di lavoro, manua e o intellettuale non importa, è invece ben diversa, o quanto meno lo è per la maggior parte delle persone. Se ne deduce pertanto che, per quanto concerne la motivazione interiore, lo sport presenta dei chiari vantaggi, benché in tal senso non vadano dimenticati anche altri fattori. I riconoscimenti esterni che si possono ottenere dallo sport hanno un carattere di maggiore immediatezza, portano subito all’atleta fama e onori e a volte, quando si raggiunge l’apice della carriera, anche ricchezza. L’elemento più importante. tuttavia, non è costituito dai premi «materiali» bensì dal fatto che, in ultima analisi, una performance di tipo sportivo, a tutti i livelli, resta comunque nelle mani dell’atleta (egli ne ha cioè la totale responsabilità). Si aggiunga inoltre che la scelta di intraprendere una determinata attività agonistica, quale che essa sia, è spesso dettata dal desiderio di confermare la propria identità e dimostrare a se stessi il proprio valore, un fatto che costituisce di per sé una valida motivazione interiore. Ecco che abbiamo dunque elencato tutti gli ingredienti della ricetta che consente di essere vincenti.

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Dal momento che non si può parlare del divertimento come di una caratteristica intrinseca del lavoro, almeno per quanti non possono godere dei benefici offerti dal sentirsi in teramente responsabili di un’attività svolta unicamente per e stessi, i datori di lavoro hanno dovuto fare leva su fattori esterni. Tutti abbiamo bisogno di soldi. È fuor di dubbio che il denaro sia in grado di motivare una persona, ma se la retribuzione subisce aumenti minimi, legati a estenuanti contrattazioni ed elargiti con estrema riluttanza, la sua capacità di creare un’autentica motivazione sarà minima. Il bastone e la carota Sin dalle prime forme di lavoro dipendente, alcuni uomini hanno pensato bene di fare ricorso a un misto di minaccia e di ricompensa per costringere altri uomini a fare ciò che essi volevano. Risalendo fino all’epoca dello schiavismo, constatiamo come a quei tempi vigesse soltanto la regola del bastone: poi, con il passare del tempo, venne introdotta anche la carota, nella speranza di ottenere dai lavoratori maggiore impegno e migliori performance. E così fu, in effetti, ma in misura limita ta e per un limitato periodo di tempo. Furono allora introdotte alcune modifiche: la carota, per esempio, venne lavata e cucinata, oppure si offrirono carote più grandi, si tentò persino di rivestire di velluto il bastone o addirittura di nasconderlo, facendo finta di averlo abolito, fino a quando non serviva nuova mente. Di nuovo la performance migliorò, seppure di poco. Oggigiorno, le condizioni attuali dell’economia impongono limiti severi agli aumenti di stipendio e, al tempo stesso, sono sempre meno le possibilità di ottenere avanzamenti di carriera. Abbiamo un bisogno disperato di performance ad alto livello, ma siamo ormai a corto di carote e il bastone, dal canto suo, non è più uno strumento così utile, in quanto politicamente scorretto. È l’intero sistema su cui abbiamo pensato di fondare la motivazione a crollarci addosso, ed è bene che sia così, dal momento che non aveva mai funzionato bene. Nel lavoro le persone offrono una performance ben al di sotto delle loro possibilità e per convincersene, come ho già ricordato, basta osservare anche solo di sfuggita a che livelli di rendimento riescono ad arrivare quando si presentano situazioni di reale emergenza. L’analogia del bastone e della carota deriva dal modo di motivare un asino. A quanto posso ricordare, la performance degli asini non ci lascia esattamente a bocca aperta. Spero di non essere ingiusto con questi simpatici equini affermando che essi fanno giusto il minimo indispensabile. Se si trattano le persone come fossero asini, esse non potranno che svolgere il loro lavoro come asini. Dobbiamo mutare radicalmente le nostre idee a proposito della motivazione: se una persona deve prodursi in una performance autenticamente buona, la sua motivazione deve essere interiore.

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Le ricerche svolte in questo campo hanno costantemente dimostrato che per un numero considerevole di persone la sicurezza del posto di lavoro e la qualità della vita nel luogo in cui lavorano sono assolutamente prioritarie. Quando uno o entrambi questi «motivatori interni» vengono a mancare, ciò che assume un’importanza sempre maggiore è il denaro, il più ovvio dei «motivatori esterni». «È l’unica cosa che possiamo ricavare da questo posto, per cui siamo pronti a lottare per ogni centesimo in più che riusciremo a spuntare» una frase che può ben configurare un atteggiamento di questo genere. Comunque, se il denaro finisce per essere percepito, concesso e accettato come un indicatore del nostro valore, sappiamo che esiste una spiegazione più che logica per il suo significato. La psicologia motivazionale di Maslow Negli anni Cinquanta uno psicologo americano, Abraham Maslow. ruppe lo schema ormai consueto di cercare di comprendere la natura umana attraverso i suoi stati patologici: al contrario, egli prese come oggetto dei suoi studi persone psichicamente sane, mature, di successo e pienamente soddistatte concludendone che tutti quanti gli esseri umani avrebbero potuto essere così e asserendo anzi che proprio quella era la condizione umana più naturale. Tutto ciò che dovevamo fare, secondo Maslow. era superare i nostri blocchi interiori e procedere liberamente verso il pieno sviluppo di una personalità matura. Maslow stato, per così dire, il padre fondatore di quella corrente più ottimistica del pensiero psicologico che sta tuttora scalzando il comportamentismo come modello scientifico dell’agire umano. Se intendiamo realmente rendere il coaching lo stile di management del futuro, l’ottimismo psicologico diventa un elemento essenziale. Il nome di Maslow è particolarmente noto negli ambienti del business per la sua gerarchia dei bisogni dell’uomo. Il suo modello indica come bisogno primario quello dell’acqua e del cibo, e suggerisce che, fino a quando tale bisogno di base non viene soddisfatto, c’è ben poco che possa attirare la nostra attenzione (fatta eccezione forse per un telefono cellulare!). Soltanto dopo che ci siamo assicurati le necessarie riserva di acqua e di cibo iniziamo a preoccuparci di altre cose, come un tetto. degli abiti e una situazione in cui poterci sentire al sicuro. Quando anche tali esigenze sono soddisfatte, almeno in parte, iniziamo a rivolgere la nostra attenzione ai cosiddetti bisogni sociali, descritti da Maslow come il desiderio di appartenere a un gruppo. Queste esigenze possono essere in parte soddisfatte dalla nostra famiglia ma, successivamente, siamo spinti a partecipare ad altre forme di socializzazione, per esempio iscrivendoci a circoli o associazioni. Il passo successivo è determinato dal bisogno di soddisfare il nostro desiderio di sentirci apprezzati dagli altri, esibendo le nostre capacità, entrando in competizione con gli altri per conquistare forme di potere, vittorie o riconoscimenti. Quest’ultimo bisogno, di carattere così estroverso, viene poi rimpiazzato da una forma di desiderio di apprezzamento molto più sottile: il bisogno di autostima. A questo

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punto, esigiamo da noi stessi degli standard di comportamento e di rendimento ben più elevati e, per misurare il nostro effettivo valore, non consideri arno più il modo in cui gli altri ci vedono ma ci atteniamo a criteri di giudizio che noi stessi abbiamo fissato nei nostri confronti. Al vertice della piramide gerarchica creata da Maslow vi è la persona che sta realizzando il proprio Io, una condizione che scaturisce allorché risulta soddisfatto sia il bisogno di apprezzamento da parte degli altri sia quello dell’autostima e in cui l’individuo non è più spinto dal bisogno di provare quanto vale, né ai propri occhi né a quelli degli altri. Maslow ricorre alla forma verbale «sta realizzando» perché la forma «ha realizzato» implicherebbe la possibilità di arrivare effettivamente fino a questo punto conclusivo, mentre secondo lo psicologo si tratta in realtà di un percorso che non ha mai fine. Il bisogno che lo psicologo americano associa alla persona che «sta realizzando il proprio Io» è l’esigenza di avvertire chiaramente il senso e lo scopo della vita. Ciò che più desidera questa persona, infatti, è che il suo lavoro, ogni sua attività e la sua intera esistenza abbiamo un qualche valore e rappresentino un contributo anche per gli altri.

La motivazione sul lavoro In che modo quanto detto finora entra in rapporto con la motivazione? Va da sé che le persone cercano di impegnarsi soprattutto in quelle attività che possono aiutarle a soddisfare i loro bisogni: si tratta di un processo del quale tuttavia possiedono solo una coscienza parziale, in quanto il lavoro è andato storicamente evolvendo proprio per andare incontro a tali esigenze. Tuttavia, quanto più gli schemi e i sistemi

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motivazionali sapranno sintonizzarsi con l’esatto livello dei bisogni delle persone in cui intendiamo creare una valida motivazione, tanto maggiore ne sarà l’efficacia e, di conseguenza, la soddisfazione delle persone coinvolte. Il lavoro soddisfa i bisogni primari della persona offrendole un guadagno con cui può garantire alla propria famiglia cibo, acqua, abbigliamento e abitazione. In passato, contribuivano a soddisfare questi bisogni essenziali anche le mense aziendali oppure le case che le grandi aziende costruivano per i loro dipendenti. Il lavoro, inoltre, inserisce la persona in un contesto di socializzazione, offre possibilità di promozione, prestigio, aumenti salariali e talvolta persino un’automobile fornita dall’azienda con cui sollecitare l’altrui ammirazione. I fattori motivazionali normalmente all’opera sul posto di lavoro — vale a dire una retribuzione sotto varie forme — riescono in qualche modo a soddisfare i bisogni di base, legati alla sopravvivenza, i bisogni di appartenenza nonché il primo dei bisogni connessi al desiderio di sentirsi apprezzati. Tutto perfetto, finora. Se procediamo a ritroso nella storia, scopriremo che, fino a qualche decennio fa, ai complessi residenziali costruiti dalle aziende, ai circoli del dopolavoro e a quelli sportivi veniva attribuita un’importanza assai maggiore che non oggi, mentre gli avanzamenti di carriera e le forme di prestigio personale avevano un rilievo minore. In altre parole, la società attuale cerca di soddisfare i bisogni prossimi al vertice della piramide proposta da Maslow, e tale cambiamento comincia a ripercuotersi sulla concezione dei sistemi premianti. L’ulteriore bisogno verso cui un ampio segmento della società moderna sta rivolgendo sempre maggiori attenzioni quello dell’autostima, un bisogno che la cultura aziendale e i metodi manageriali di tipo tradizionale sono oltremodo inadatti a soddisfare, e questo, principalmente, per il semplice fatto che lo stesso concetto di autostima contraddice tale cultura e tali metodi. Di tanto in tanto, i periodi di recessione economica, la minaccia della disoccupazione e aumenti salariali di gran lunga inferiori al carovita costringono un gran numero di lavoratori a ridiscendere lungo la scala gerarchica dei bisogni quando questo accade, tende ad ampliarsi nuovamente lo spettro dei bisogni essenziali. Quel che è peggio, inoltre, è che molte realtà aziendali non sono più in grado di offrire con relativa facilità quelle forme di benefit che garantivano al lavoratore almeno la considerazione e l’apprezzamento degli altri, per esempio gli avanzamenti di carriera o l’auto aziendale. In che modo quindi le imprese possono oggi creare la giusta e necessaria sana motivazione nei loro dipendenti? Devono continuare, per forza di cose, a soddisfare i loro bisogni primari, procedendo allo stesso tempo ad avviare i cambiamenti necessari per venire incontro agli altri bisogni emergenti e più elevati.

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Inseriamo all’interno del testo di Whitmore una breve digressione sulle principali teorie della motivazione, puntando l’attenzione su un fatto determinante e cioè che la “retribuzione” come leva motivante è stata ormai superata da decenni. Whitmore, nel suo testo, dà per acclarati i risultati e l’evoluzione degli studi sulla motivazione al lavoro. Quelle che seguono non sono tutte le teorie sulla motivazione a lavoro, ma si intuisce come dal taylorismo in avanti il tema sia stato via via raffinato.

Principali teorie sulla motivazione al lavoro La motivazione al lavoro può essere definita come la spinta interiore che porta l'individuo ad applicarsi con impegno nel lavoro. Può essere definito come una sorta di forza interna che stimola, regola e sostiene le principali azioni compiuti dalla persona e può essere descritto in modo ciclico: dall'origine del bisogno, avvertito come una tensione interiore, l'individuo ricerca in mezzi per poterlo soddisfare; quando il soggetto riesce a soddisfare il proprio bisogno rivaluta la situazione e verifica la presenza di nuovi ed ulteriori bisogni. Essa è intrinseca all'individuo e non può essere indotta dall'esterno. Mediante interventi esterni si riesce a sollecitarla o, al più, ad alimentarla. Il sistema motivazionale può essere inteso come l'insieme dei bisogni percepiti con varia intensità e le relazioni fra questi e il comportamento. Per definire quali siano gli elementi che governano la motivazione sono state formulate numerose teorie.

Teoria monistica di Taylor Secondo Frederic Taylor occorre stimolare la motivazione del lavoratore mediante sistemi che incentivino la produttività: le soluzioni da lui proposte hanno riguardato l'introduzione del lavoro a cottimo, della partecipazione ai profitti, la partecipazione al risparmio. Questi sistemi sono rivolti a garantire che ogni lavoratore impieghi sul lavoro tutte le sue energie al fine di mantenere ed incrementare la produttività. Aumentando la produttività infatti il lavoratore può aumentare il proprio stipendio, riuscendo così ad aumentare la propria autostima ed il proprio status. La motivazione procurata dal denaro tuttavia è discutibile.

Teoria dei bisogni di Maslow

La teoria dei bisogni di Maslow sostiene che il comportamento della persona, anche sul lavoro, tende alla soddisfazione di bisogni ordinati secondo una precisa gerarchia, che egli ha indicato all'interno di una piramide. Partendo dal basso si distinguono le seguenti categorie di bisogni umani:

• bisogni fisiologici, legati alla sopravvivenza immediata (respirare, bere, mangiare, riposare, muoversi);

• bisogni di sicurezza, fisica ed emotiva, relativi alla sopravvivenza a lungo termine (libertà da pericoli, minacce e privazioni provocati da danni fisici, difficoltà economiche, malattia);

• bisogno di amore e di appartenenza, cioè identificazione con il gruppo o l'azienda, e di un ambiente socievole e gradevole (relazioni affettive, accettazione da parte dei pari, riconoscimento come membro del gruppo, stare insieme) ;

• bisogno di stima e autostima (riconoscimento da parte degli altri e rispetto di sé) ; • bisogno di autorealizzazione.

Il comportamento dell'individuo è finalizzato ad appagare prima i bisogni di livello inferiore, la cui soddisfazione cessa di renderli motivanti e che fa emergere i bisogni gerarchicamente superiori. Questa teoria fu molto importante nell'ambito del management del secolo scorso, ma presenta alcuni lati problematici: ciascun individuo, infatti, differisce dagli altri ed avverte e soddisfa i bisogni con modalità differente. Ad esempio mentre per alcune persone sono sufficienti poche ore di sonno per riposare, altre hanno bisogno di molte più ore; mentre la maggior parte delle persone quando ha fame desidera mangiare, altre persone digiunano per soddisfare bisogni più elevati.

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91Salvemini ha definito una diversa scala di bisogni che l'uomo prova nei contesti di lavoro. Essi sono: 1. bisogni di consumo; 2. bisogni di sicurezza; 3. bisogni di socialità; 4. bisogni di stima; 5. bisogni di potere; 6. bisogni di realizzazione. Secondo lo stesso autore la soddisfazione di un bisogno, definito come la carenza di un oggetto desiderato, può essere funzionale o disfunzionale all'appagamento di un altro bisogno. Ad esempio l'appagamento del bisogno di potere può essere funzionale anche al bisogno di autorealizzazione.

Teoria igienico-motivante di Herzberg

Herzberg e colleghi nel 1959 effettuarono uno studio finalizzato ad approfondire le modalità con cui i bisogni di stima e di autorealizzazione si sviluppano. Da questo studio emerse che esistono due ordini di fattori che determinano la insoddisfazione e la soddisfazione del lavoratore. I primi sono detti fattori igienici: questi fattori sono quelli che non motivano, ma che se non trovano soddisfazione producono malcontento ed insoddisfazione. Fanno parte di questa categoria la supervisione da parte dei superiori, le politiche e l'amministrazione dell'azienda, le condizioni di lavoro (orario, riposo settimanale, stipendio), le relazioni con i superiori, i pari ed i subordinati, lo status, la sicurezza del lavoro e gli effetti sulla propria vita personale. La seconda categoria comprende i fattori motivanti e sono quelli che motivano la persona al lavoro. Questi elementi appagano dei bisogni superiori e portano la persona ad una maggiore produttività. Rientrano in questa categoria il riconoscimento, la responsabilità, la crescita professionale, risultati ottenuti, il lavoro in sé, l'avanzamento nella carriera. Anche questa teoria fu oggetto di molte critiche, in quanto fu formulata solo mediante interviste condotte a due categorie di lavoratori (ingegneri e contabili), senza ricorrere anche all'osservazione sul lavoro.

Teoria X e Teoria Y di Mc Gragor Douglas McGragor elaborò la teoria di Maslow applicandola al management. Egli rilevò che il comportamento del dirigente si modifica in relazione alla concezione che egli ha dell'uomo, distinguendolo in due modalità alle quali diede il nome di Teoria X e di Teoria Y. Nel primo caso il dirigente ritenendo che l'uomo non ama lavorare ed è di natura indolente, pigro, portato a fare il meno possibile, esercita una leadership caratterizzata dall'autorità, dalla supervisione diretta, dal ricorso punizioni, perché solo in questo modo possono essere raggiunti gli obiettivi organizzativi. Secondo la teoria Y, invece, le persone amano lavorare, in quanto la soddisfazione sul lavoro è un valore importante, sono in grado di autogestirsi ed autodirigersi, sono responsabili ed attivi. In questo caso il dirigente ricorre alla delega, esercita una supervisione generale e ricorre ad incentivi positivi, elogi e riconoscimenti.Secondo Mc Gragor il fatto che il lavoratore si comporti come delineato dalla teoria X, piuttosto che dalla teoria Y, dipende dalla sua possibilità di soddisfare i propri bisogni: se non riesce a soddisfare i propri bisogni di ordine inferiore, ossia quelli individuati da Maslow nelle categorie dei bisogni fisiologici e di sicurezza, e da Herzberg nei fattori igienici, tenderà a comportarsi come descritto dalla teoria X, mentre se riesce a soddisfare i propri bisogni di ordine superiore, identificati da Maslow nei bisogni di appartenenza, stima ed autorealizzazione, e da Herzberg nei fattori motivanti, si comporterà come descritto dalla teoria Y.

Teoria dell'energia psicologica di Argyris Un'ulteriore elaborazione fu prodotta da Chris Argyris che definì la coesistenza all'interno del lavoro di bisogni personali dei lavoratori e di bisogni dell'organizzazione e che i lavoratori danno la preminenza al soddisfacimento dei propri bisogni. Nelle situazioni in cui i due ordini di bisogni non coincidono, o sono addirittura in contrasto, si creano situazioni di conflitto, di tensione, di insoddisfazione. Per questo motivo secondo Argyris occorre che l'organizzazione sostenga la possibilità per i lavoratori di soddisfare i propri bisogni di ordine superiore e che sia realizzata una direzione ispirata alla teoria Y, poiché è l'unico modo per promuovere la crescita professionale ed umana del lavoratore. Gravi sarebbero, infatti, le conseguenze nel caso in cui in presenza di lavoratori con personalità mature, fosse realizzata una direzione di carattere prescrittivo, autoritario, rigido e punitivo, in quanto porterebbe alla passività, alla dipendenza, alla frustrazione ed alla insoddisfazione professionale. Per questo motivo occorre coniugare lo stile direttivo alle caratteristiche del lavoratore valorizzandone i talenti, gli interessi e le abilità: solo così la crescita della persona si coniuga ad un aumento della produttività del lavoratore e anche l'organizzazione ne trae beneficio.

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Il coaching è essenziale Il semplice fatto di godere di prestigio e di determinati privilegi — più simbolici che sostanziali — non è sufficiente a creare nel lavoratore la necessaria autostima, che nasce soltanto quando a quest’ultimo è riconosciuta la facoltà di operare proprie scelte personali. Un avanzamento di carriera che non preveda né la possibilità di esercitare un reale mandato né l’opportunità di esprimere appieno le proprie potenzialità finisce addirittura per essere controproducente. Mentre la prescrittività nega la possibilità di scelta, toglie capacità di azione, limita le potenzialità del lavoratore e lo demotiva fortemente, il coaching fa l’esatto contrario. I valori aziendali e il futuro Tra le persone che lavorano nelle aziende, soprattutto fra i giovani, inizia a essere evidente il bisogno di «autorealizzazione», il che è possibile soltanto se nel lavoro si identificano chiaramente un valore, un senso e uno scopo. Oggi, quindi, l’obiettivo principale non deve più essere quello di riempire le tasche degli azionisti, e le aziende cominciano a comprenderlo. Su di esse grava sempre più l’obbligo di guardare con attenzione agli aspetti etici delle loro azioni e di porsi l’obiettivo di bilanciare e soddisfare le esigenze di tutti i soggetti sui quali queste impattano (i cosiddetti stakeholders), vale a dire dipendenti, clienti, società in generale e ambiente (e naturalmente anche gli azionisti). Il problema viene sollevato con sempre maggiore frequenza dai dipendenti e dai manager che frequentano i nostri corsi. Le imprese stanno effettivamente cercando di cambiare il loro stile di management,

Teoria dell'aspettativa-valenza di Vroom Secondo Vroom la motivazione è correlata a due fattori: la valenza, che è riferita alla importanza che la persona dà al conseguimento di un obiettivo, e la aspettativa, che è costituita dalle probabilità riconosciuta dalla persona di riuscire a conseguirlo. La motivazione deriva quindi da questa formula:Motivazione = Valenza X Aspettativa La valenza può essere positiva (quando si vuole qualcosa) o negativa (quando non si vuole qualcosa), mentre la aspettativa può avere solo valore positivo, infatti se la persona non riconosce alcuna probabilità di conseguire l'obiettivo la aspettativa è pari a 0. Questa teoria è stata ulteriormente elaborata ed è stato incluso un ulteriore fattore: il valore della ricompensa, che si riferisce alla ricompensa derivante dal conseguimento dell'obiettivo. La formula della motivazione diviene quindi la seguente: Motivazione = Valenza X Aspettativa X Valore Conseguentemente a questo principio deriva che per favorire la motivazione del personale occorre definire con chiarezza il rapporto tra il lavoro e il conseguimento dell'obiettivo ed inoltre, il comportamento considerato positivo, ossia la performance di buona qualità, dovrebbe essere soggetta ad un premio.

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ma sono per primi gli stessi dipendenti a esigerlo. Se vogliamo che questi giovani lavoratori — i più maturi, secondo la terminologia di Maslow — non perdano ogni affezione al lavoro, tale cambiamento dovrà avvenire rapidamente, perché, anche se si tratta di un processo per sua natura tutt’altro che fulmineo, di tempo non ne è rimasto molto. In effetti, è così poco il tempo che abbiamo a disposizione e il problema è di una tale gravità che in questa nuova edizione del mio libro ho aggiunto i tre prossimi capitoli proprio per affrontare più in dettaglio la questione. Si sta creando dunque una situazione in cui la presenza e l’operato del coach saranno determinanti e questo richiede di approfondire l’analisi. Scelta di un comportamento manageriale Tra i quattro criteri che normalmente guidano la scelta di un comportamento manageriale. l’ultimo in assoluto è il bisogno di garantire la crescita e la valorizzazione del personale. In cima alla lista troviamo la pressione temporale, cui tanno seguito il timore di sbagliare e infine la qualità del lavoro o del prodotto finale. Le pressioni esercitate dalla necessità di rispettare i termini di consegna e il timore di commettere errori inducono i manager a esercitare uno stile di comando e controllo, mentre gli ultimi due fattori, la qualità del lavoro e la crescita personale dei dipendenti, richiederebbero invece l’applicazione del coaching. Non sorprende più di tanto constatare che la pratica del coaching venga relegata in secondo piano dall’urgenza dei la vori e dall’assoluta necessità di garantire utili agli azionisti. Ma la sveglia sta suonando e il suo trillo persistente è rappresentato dalle attese di veri cambiamenti da parte dei lavoratori più giovani. Ai colloqui per le assunzioni, questi futuri di pendenti non esitano a chiedere quali opportunità di formazione e di apprendimento verranno loro fornite e quale sarà io stile di management con cui dovranno confrontarsi. Non cercano — né vorrebbero — un impiego vita natural durante e sono pronti ad abbandonare il lavoro qualora i loro bisogni non vengano soddisfatti. E tali bisogni riguardano elementi in grado di accrescere la propria autostima, come uno stile di management improntato al coaching.

L autostima è la linfa vitale di ogni performance professionale

Questo concetto viene ulteriormente suffragato da uno sguardo al livello raggiunto da molti giovani brillanti nella scala dei bisogni di Maslow: il livello dell’autostima. Nella nostra società postindustriale dominano ancora i valori legati allo status e al riconoscimento, e questo vale ovviamente per molti dirigenti e funzionari. Stando così le cose, sorgono inevitabilmente due problemi: il primo è che il capo dà per scontato che, in quanto a bisogni, i suoi sottoposti si collochino sul suo stesso gradino della piramide, se non addirittura più in basso, e non è pertanto in grado di riconoscere quale importanza abbia l’autostima per

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le persone che lavorano alle sue dipendenze; il secondo è rappresentato dal fatto che nei dipendenti diminuisce il rispetto verso i capi che appaiono ai loro occhi come psicologicamente meno evoluti. E così che un manager caratterizzato dal bisogno di confermare costantemente il proprio status e da uno stile di comando e controllo finisce per diventare lo zimbello dell’ufficio o l’oggetto di battute irriverenti. La fiducia in se stessi rappresenta un utile criterio di valutazione mediante il quale misurare l’impatto del nostro comportamento sugli altri. E molto più facile infatti, seppure più doloroso, osservare fino a che punto il nostro modo di intervenire nella vita altrui rafforzi o indebolisca la fiducia in se stessi delle nostre controparti. La direttività, la critica negativa, la limitazione delle possibilità di scelta, l’imposizione del la nostra posizione gerarchica riducono sensibilmente la loro fiducia in se stessi. Il coaching, dare credito agli altri, dimostrarsi aperti, disponibili e rispettosi, riconoscere sinceramente i loro meriti, concedere piena libertà di scelta e, ovviamente, il successo incrementano invece la fiducia in se stessi.

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CAPITOLO 14 - COACHING E RICERCA DELLO SCOPO Alla fine del capitolo precedente ho menzionato il fatto che i giovani lavoratori desiderosi di «autorealizzarsi» cercano nel l’attività professionale un significato e uno scopo e riescono molto spesso a trovare entrambi nel momento in cui hanno la possibilità di offrire agli altri un qualche loro contributo per sonale. Sono sempre di più le persone che sembrano avere a cuore tanto l’equità e l’impegno verso gli altri, quanto le pro prie condizioni personali. Tale forma di altruismo, a cui assistiamo sempre più spesso, può indurre le persone a mettere in discussione l’etica e l’intero sistema di valori dell’azienda e persino l’eterna giustificazione del profitto a ogni costo. Non sorprende, pertanto, che in tutto il mondo i risparmiatori investano sempre più nei cosiddetti fondi «etici» e che fenomeni come il sessismo e il razzismo, prima endemici negli ambienti di lavoro, vengano ora crescentemente condannati. La spinta verso tali cambiamenti nasce da persone comuni che vogliono poter dire la loro sul trattamento che subiscono come dìpendenti o come consumatori/clienti. Lo stesso “surriscaldamento del pianeta” invia a tutti noi, e in particolare al mondo delle imprese, severi messaggi sul nostro sistema di valori e sul nostro comportamento a livello globale. Oltre a tutto questo, le possibili conseguenze della zootecnia di tipo intensivo e della manipolazione genetica degli organismi ve getali e animali ci spingono a un serio ripensamento dei metodi adottati in agricoltura, e qui non si tratta di fantasie di ecologisti estremisti. Quali saranno i futuri scenari? Durante i nostri programmi di coaching, non posso fare a meno di notare che il problema del significato e dello scopo viene sollevato sempre più spesso. Rimango stupefatto dal vedere con quale frequenza i partecipanti ai nostri corsi scelgano come argomento delle sessioni pratiche di coaching il loro desiderio di fuggire e rendersi indipendenti da quello che ai loro occhi appare ormai come un mondo aziendale privo di senso. Il bisogno di sicurezza li potrà indurre a rimanere legati al posto di lavoro, ma, tormentati dal senso di insoddisfazione, come potranno mai offrire una buona performance? In una situazione e in un ambiente di questo tipo il coaching si rivela uno strumento di valore inestimabile per aiutare i lavoratori a chiarirsi le idee, dal momento che, fino a quando resteranno in un simile stato di confusione e frustrazione, sarà loro difficile offrire il meglio di sé. Forse qualcuno finirà comunque per abbandonare la vita aziendale, ma la maggior parte acquisirà gli strumenti per trovare un senso nella propria attuale vita professionale, riuscendo in tal modo a migliorare la performance e provare nel contempo una maggiore soddisfazione. Intendo ora proporvì le domande cui di solito faccio ricorso nelle sessioni di coaching che affrontano situazioni di questo tipo. Ciò che dovete sempre tenere a mente è che nella pratica del coaching ogni domanda successiva è determinata dalla risposta che il coach ha

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ricevuto a quella precedente. Supponiamo in questo caso che l’allievo abbia già indicato come suo desiderio quello di impegnarsi a migliorare la qualità della sua vita professionale. L’obiettivo Cerco sempre di esordire in maniera positiva rifacendomi all’obiettivo stabilito dall’allievo, vale a dire ciò che per lui sarebbe l’ideale:

Che cosa vorrebbe ricavare da questa sessione di coaching? Provi a immaginarsi tra un anno: quale vorrebbe che fosse la sua situazione di lavoro ideale? Cerchi di descrivermi nel dettaglio come dovrebbe essere una sua tipica giornata di lavoro. (In questo caso la risposta può essere diretta mente legata o meno all’attività professionale che l’allievo sta effettivamente svolgendo in quel momento, senza al cun intervento di carattere critico da parte del coach.) Quali sono gli elementi di questo scenario futuro di cui attualmente avverte con più intensità la mancanza? Quanto ritiene importante ciascuno ditali elementi? (Potete ricorrere a una valutazione su una scala da 1 a 1O.) Quale sarebbe, quindi, l’obiettivo che vorrebbe raggiungere in relazione al suo lavoro? Per quando vorrebbe raggiungere tale obiettivo? Nel suo intimo, che cosa vorrebbe veramente dalla sua vita professionale? Se l’obiettivo che lei si propone le sembra un po’ troppo lontano rispetto alla sua situazione attuale, potrebbe indicarmi uno o due obiettivi intermedi? Dalla situazione in cui si trova attualmente, quale sarebbe il primo passo che si sentirebbe di compiere con relativa tranquillità?

La realtà Quanta parte della sua attuale situazione riesce a sentire effettivamente sotto il suo controllo? (Molto spesso, per gli

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allievi di una sessione di coaching, è un grosso prohl ma riuscire a prendere coscienza del fatto che la situazione in cui si trovano è frutto, in definitiva, di una loro scelta. Spesso si sentono vittime e di conseguenza si credono totalmente impotenti) A parte le piccole frustrazioni quotidiane, che cosa c’è nel suo lavoro che le provoca la maggiore insoddisfazione? Quale esigenza si cela dietro questa insoddisfazione? Che cosa potrebbe soddisfare tale esigenza? Che cos’altro la turba? Me lo descriva in modo più dettagliato. Sul posto di lavoro, quale genere di persone e di attivitù le risulta meno gradito? Per quanta parte del tempo che trascorre al lavoro avverte sensazioni positive e per quanta parte sensazioni negative? Vediamo quelle positive. Sul lavoro, quale genere di persone e di attività le resta più gradito? Che cosa esattamente le piace di più in queste persone o a queste attività? Quali sono le qualità che esse rappresentano? E dove potrebbe ancora trovare queste stesse qualità? Quali sono le attività che hanno più senso per lei, al lavoro o fuori di esso? Se dovesse stabilire uno scopo per la sua vita, quale sarebbe? Se potesse scrivere in questo momento il suo epitaffio. chc cosa vi metterebbe? (E una buona domanda. ma state mol to attenti al tipo di persona cui la ponete.)

Le opzioni

Quali opzioni le sembra di poter individuare per cambiare le cose? (Se l’allievo della sessione di coaching risponde «Potrei cambiare lavoro», continuate pure con le domande successive, senza dimenticare però che cambiare soltanto la forma o la

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struttura del lavoro non cambia in realtà un bel niente: è la coscienza che deve cambiare.) Che vantaggi ricaverebbe così facendo? E che cosa perderebbe? Come potrebbe essere certo che nel nuovo lavoro non sor gerebbero gli stessi problemi? Che tipo di lavoro cercherebbe? Come intende trovarlo? Si tratterebbe di un lavoro sicuro? E quanto? Diciamo quindi che cambiare lavoro e rendersi indipendenti potrebbero essere due possibili opzioni. Adesso cerchiamo di capire in che modo potrebbe arricchire il suo lavoro attuale con qualcuna delle qualità che lei sta cercando. In che altro modo? Dove? E altrove? Che cosa vorrebbe cambiare! Che cosa potrebbe fare per operare tale cambiamento? A chi potrebbe rivolgersi per far cambiare altri aspetti? Se lei fosse in grado di cambiare tutto quanto, fino a che punto i suoi bisogni sarebbero soddisfatti?

Questo elenco di domande non intende certo essere esaustivo, ma spero che possa offrire almeno un percorso da seguire con buoni risultati in sessioni di questo genere. Come avete visto, non sempre si ricorre alla forma esplicitamente interrogativa per evitare l’effetto inquisitorio che si verrebbe a creare se tutte le frasi terminassero immancabilmente con il punto di domanda. Potremmo successivamente passare a una serie di domande direttamente legate alla quarta fase del coaching, quella delle scelte d’azione, allo scopo di porre di fronte all’allievo la pssibilità di un’azione vera e propria, sia nell’ambito del suo lavoro attuale sia altrove, ma sempre badando di evitare che il coach influenzi in qualche modo l’allievo o esprima giudizi. Non dobbiamo mai dimenticare che al centro di tutto sta la fiducia in se stesso dell’allievo e, di conseguenza, la sessione di coaching si impernia sulla sua sensazione di progredire e di essere padrone delle proprie scelte.

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CAPITOLO 15 -COACHING E RICERCA DI SIGNIFICATO

Per l’uomo, la ricerca del senso delle cose non è una razionalizzazione secondaria di impulsi istintivi

bensì la principale motivazione della vita. Victor Frankl - Alla ricerca di un significato della vita

IL contributo di Maslow non si limita all’individuazione della gerarchia dei bisogni, giacché egli è stato tra i fondatori di quella che viene definita talora come la terza grande espressione della psicologia, emersa dopo la psicoanalisi e il comportamentismo. Come ho già detto, anziché rivolgere le sue ricerche alla malattia mentale e alla patologia, come invece avevano fatto molti altri in precedenza. Maslow mirò a raggiungere una conoscenza più profonda della natura umana studiando persone in buona salute e perfettamente attive. L’obiettivo della cosiddetta «psicologia umanistica» era la piena realizzazione delle potenzialità umane attraverso un alto grado di consapevolezza di sé, che alcuni consideravano come la panacea di tutti i mali. L’attenzione veniva inoltre rivolta in modo particolare alle emozioni. Negli anni Settanta questo tipo di impostazione teorica ha fatto il suo ingresso, seppure in modo limitato, anche nel mondo del lavoro e ha in fluenzato soprattutto la tendenza a valorizzare il personale delle aziende curandone la crescita interiore. E stato soltanto nel 1995, tuttavia, che il libro di Daniel Goleman ha reso l’intelligenza emotiva non solo accettabile ma persino auspicabile, se non addirittura indispensabile per avere successo nel mondo del business. A quel punto, tutti hanno cominciato a voler valorizzare la propria. L’intelligenza emotiva L’intelligenza emotiva può essere descritta come la facoltà che interviene nelle relazioni interpersonali, o, più semplicemente, come la capacità di socializzare con gli altri senza difficoltà. Al suo interno si possono distinguere cinque aree:

Conoscere le proprie emozioni (consapevolezza di sé) Saperle gestire e controllare Creare la motivazione interiore Riconoscere le emozioni negli altri Saper gestire i rapporti interpersonali.

Niente di trascendentale, a quanto pare, e occorre inoltre tenere conto del fatto che ciascuno di noi, seppure in misura diversa, possiede tali capacità. Le persone in cui l’intelligenza emotiva è maggiormente sviluppata riescono semplicemente a utilizzarle in modo più completo. Si era fatto appena in tempo ad acquisire una certa familiarità con l’intelligenza emotiva (EQ) quand’ecco apparire un certo numero di

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nuove pubblicazioni che decantavano i meriti dell’intelligenza spirituale (SQ). In questa accezione, l’elemento «spirituale» non va inteso in senso mistico o religioso, bensì nel significato definito da Elizaheth Denton: «Il desiderio fondamentale di trovare il significato e lo scopo ultimo della vita e vivere in base a questi ultimi un’esistenza equilibrata». Da tutto questo emerge chiaramente il concetto che, oggi giorno, molti tra coloro che operano nel mondo del business si trovano ad affrontare un momento particolarmente critico, legato proprio alla difficoltà di trovare un senso nella loro attività. Nel suo libro La coscienza intelligente, Danah Zohar cita le parole di un uomo d’affari di trentasei anni che descrive così la propria crisi personale: “Dirigo un’azienda piuttosto grande e ben avviata qui in Svezia. Godo di ottima salute, ho una famiglia stupenda e un’ottima posizione sociale. Suppongo di poter dire di avere nelle mie mani un certo «potere». Eppure, se penso a che cosa sto facendo della mia vita, sento che il mio lavoro non mi offre alcuna certezza di aver fatto le scelte giuste”. Il giovane dirigente prosegue spiegando di sentirsi preoccupato dalla situazione del mondo contemporaneo, soprattutto dalle condizioni in cui si trova l’ambiente e dallo sfacelo della società. Avverte inoltre dentro di sé che le persone sembrano non voler vedere la reale portata dei problemi che le sovrastano. Le grandi aziende, come quelle in cui lui stesso opera, sono le prime responsabili dell’incuria dimostrata verso tali problemi. «Vorrei fare qualcosa in tal senso», prosegue il giovane manager, oppure, per meglio dire, vorrei fare in modo che la mia vita servisse a qualcosa, ma non so come. So soltanto che vorrei essere parte della soluzione, non del problema». Valorizzare il significato e lo scopo L’idea che il significato e lo scopo abbiano una precisa importanza è tutt’altro che nuova, anzi, molto probabilmente è antica quanto lo sono le prime forme di religiosità. Forse ora è arrivato il momento più adatto perché a entrambi sia riconosciuto il loro giusto valore anche nel mondo del lavoro, ma si tratta di una valorizzazione che deve provenire dall’interno, in quanto imponendola dall’esterno si ottengono scarsi risultati, come ogni coach sa molto bene. Chi esercita la pratica del coaching, tanto in situazioni legate al lavoro quanto in quelle della vita quotidiana, avrà bisogno di ulteriore formazione e maggiore perizia per affrontare con la necessaria calma e in modo efficace problemi ditale cornplessità e profondità. Molti anni fa, mia moglie e io abbiamo scoperto con estremo interesse la profondità di pensiero e la grande capacità di intervento della psicosintesi, le cui teorie, da allora in poi, hanno permeato la mia attività di coach. Come ho ricordato all’inizio del libro, mia moglie dirige oggi un’istituzione senza scopo di lucro che cura i corsi di aggiornamento degli psicoterapeuti secondo i principi della psìcosintesi. Le teorie della psicosintesi furono elaborate nel 1911 da Roberto Assagioli, che aveva studiato con Freud ed era poi di venuto il primo

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psicoanalista freudiano in Italia. Come CarI Jung, suo amico e compagno di studi, si era ribellato alla visione freudiana dell’uomo, limitata e incentrata sostanzialmente sul momento patologico. Secondo Assagioli e Jung, gran parte delle disfunzioni psichiche nascono dal senso di frustrazione e persino di disperazione innescato dalla mancanza di un significato e di uno scopo nella vita. Le tesi di Assagioli erano ben più avanti del loro tempo e la psicosintesi rimase di fatto ignorata fino agli anni Sessanta, quando divenne una delle principali componenti della psicologia transpersona]e, riconosciuta come la quarta forza emer gente della psicologia. Essa non nega affatto i postulati della cosiddetta terza forza «psicologia umanistica», anzi li accetta in pieno, costruendo proprio su questi ultimi i propri stessi fondamenti. La psicosintesi, tuttavia, vi aggiunge un significato più profondo della, dell’esperienza del significato, dello scopo e della direzione della nostra vita, insieme con il senso di responsabilità personale e con l’esigenza interiore di porre gli altri prima di noi: il tutto fondato sull’ipotesi che ciascuno di noi possiede un’identità più profonda, o, se vogliamo, un principio organizzativo più elevato. La psicosintesi offre un gran numero di modelli e mappe, che creano un tessuto molto utile per forme di coaching che investano l’interiorità. Essa fornisce un modello dello sviluppo umano che, come ogni modello, non costituisce una verità assoluta ma una semplice rappresentazione che rende però possibile sia il dialogo interiore nella nostra coscienza sia quello con gli altri esseri umani. Supponendo che tale teoria sia anche solo parzialmente corretta, ne consegue comunque che nei prossimi anni ci sarà molto lavoro per i coach. Un coach formatosi secondo i modelli della psicosintesi può esortare l’allievo a riconsiderare la propria vita in termini di percorso evolutivo, a identificare chiaramente le potenzialità creative che si celano in ogni problema, a vedere gli ostacoli come pietre che emergono dal torrente della vita e ne permettono il guado, a immaginare che tutti abbiamo uno scopo nella vita e che per raggiungerlo dobbiamo forzatamente vincere grandi sfide e superare barriere. Le domande del coach, in questo caso, cercheranno di fare in modo che l’allievo sia portato a riconoscere le potenzialità positive insiste nel problema che deve affrontare e nelle azioni che sceglie di intraprendere.

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Il percorso spirituale La Figura 15.1 illustra graficamente il tracciato della nostra vita, o di quella altrui, ricorrendo a un modello bidimensionale: l’asse orizzontale rappresenta

(Figura 15.1 - Gli assi sui quali si colloca il tracciato della vita)

il successo materiale e l’integrazione psicologica mentre quello verticale rappresenta gli elementi spirituali, vale a dire il sistema di valori o le aspirazioni più elevate. Vediamo un esempio di entrambi questi momenti fornito da un testo di psicosintesi: Un uomo d’affari può essere concentrato sul proprio successo personale nel mondo materiale e, dal punto di vista psicologico, può essere una persona perfettamente integrata, un buon genitore e un membro rispettabile della comunità, e tutto questo senza che si sia mai posto nessun interrogativo sul significato della vita. Questa tendenza, particolarmente presente nel mondo occidentale, è stata il motore dell’innovazione e dei notevoli progressi di ordine ma teriale. Una persona come quella che abbiamo appena descritto può anche guardare con sdegno l’individuo votato al misticismo, che sa condurre con notevole gratificazione una vita contemplativa e ascetica ma risulta male equipaggiato per affrontare la realtà quotidiana del mondo in cui viviamo. Queste persone conducono una vita pressoché monastica, fatta dì studio e di sollecita assistenza agli altri. Nella casa in cui abitano, nella loro situazione economica e persino nella loro personalità possono esserci elementi di disordine e di confusione, eppure, con tutto ciò, considerano il grande attivismo degli uomini d’affari come uno sforzo che non porta a nulla, una costrizione imposta dal loro ego, un eccesso di ambizione che può risultare spesso distruttivo per loro stessi e per gli altri. Possiamo definire questa tendenza come il sentiero seguito dalla civiltà orientale, benché, vista la recente e grande crescita economica

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dei paesi asiatici, tali distinzioni puramente geografiche rischiano di creare soltanto ulteriore confusione. Non credo che si possa obiettare alcunché alla tesi secondo cui gli occidentali hanno concentrato le loro energie per muoversi lungo l’asse orizzontale (Figura 15.2), e occorre comunque dire che lo hanno fatto con particolare slancio e con risultati di tutto rispetto.

Figura 15.2 Tracciato tipico del mondo occidentale

Figura 15.3 Tracciato della vita ascetica e avulsa dai valori del mondo orientale

Psicologico/quantitativo

Spirit

uale/

quali

tativ

o

Psicologico/quantitativo

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L’influenza occidentale e gli imperativi economici si sono ormai diffusi a livello globale, anche se, tanto in Oriente quanto in Occidente, si sono create delle nicchie in cui conducono la loro esistenza quanti hanno preferito concentrarsi su un percorso che si dipana lungo l’asse verticale (Fig. 15.3). Più si procede lungo uno degli assi, escludendo quindi sempre di più il percorso dell’altro, più ci allontaniamo da un cammino più equilibrato, per così dire ideale, che si snoda tra i primi due, con il risultato di un aumento di tensione, come visualizzato nella Figura 15.4.

Allorché le pressioni di tipo sociale, gli imperativi del mondo del business o una cieca determinazione a proseguire lungo un unico percorso riescono a vincere questa tensione che vorrebbe riportarci su un cammino più equilibrato, si va cozzare contro una barriera che ci costringerà ad aprire gli occhi. Questa barriera è nota come «crisi del significato» (fig. 15.5).

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Quando cozziamo contro il muro della crisi, tendiamo subito a rimbalzare all’indietro in stato di choc, in una condizione di temporanea confusione e di transitoria regressione della nostra performance, sentendoci nel contempo attirati verso l’alto, verso un obiettivo ideale, che è poi la scoperta di un percorso di vita più equilibrato. La conoscenza L’asse orizzontale può anche essere considerato come quello della conoscenza: la «crisi del significato» avviene allorché il nostro accumulo di conoscenza neutralizza l’effetto mitigante del nostro sistema assiologico. Durante la crisi sperimentiamo infatti il crollo di quel falso senso di sicurezza poggiato sull’illusione di potere e di certezze che un enorme bagaglio di conoscenze ci conferisce. La saggezza si trova al di là della conoscenza ed è ben più profonda. Essa genera lungimiranza, spesso sfiora il paradosso e offre una sicurezza di tipo diverso, cui riesce finalmente ad accostarsi la persona che emerge dalla crisi. La linea bisettrice rispetto ai due assi del diagramma potrebbe dunque rappresentare la saggezza, collocata tra due estremi che potremmo definire, con una punta di cinismo, come lo sfruttamento indiscriminato della conoscenza da un lato e un fanatismo spirituale privo di fondamenti fattuali dall’altro. Si dice spesso che la conoscenza è oggi la valuta più preziosa e che lo sarà ancora di più in futuro. Per secoli l’umanità ha organizzato l’economia basandosi sulla proprietà terriera, poi, con la rivoluzione industriale, si è verificato il passaggio verso un’economia basata sulla proprietà del capitale. Gli aristocratici terrieri lasciarono il campo ai nuovi ricchi mercanti. Nelle nuove forme di economia basate sul possesso della conoscenza può sembrare che a dominare siano i tecnocrati, anche se il loro potere ha già dato segni di debolezza, lasciandone presagire la caduta. E forse questa una chiara indicazione del fatto che il divario tra la nostra conoscenza e la nostra saggezza si sta facendo troppo grande e ormai quasi insostenibile? E forse possibile che cominciamo a intravedere nella storia dell’umanità l’alba di una nuova fase, quella di un’economia fondata sulla saggezza? Possiamo dunque sperare che i politici e i grandi uomini d’affari del futuro sapranno essere saggi o dovremo piuttosto cercare la saggezza dentro di noi, cercando ciascuno una propria leadership interiore?

Il passaggio dal «push/spingere» al «pull/tirare» Descrivendo gli assi cartesiani dei diversi percorsi psicologici suggeriti dalle teorie della psicosintesi, ho tralasciato un elemento: un punto luminoso che si situa ancora al di là della punta della freccia bisettrice. Esso rappresenta la forma più elevata del nostro Io o, se vogliamo, della nostra anima. Questo punto luminoso esercita su di noi una delicata ma persistente attrazione verso il percorso più equilibrato, quello che ogni volta rischia più facilmente di essere travolto dai nostri desideri

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materiali e dalle nostre ambizioni. Fino a qualche tempo fa una simile idea sarebbe stata liquidata dal pensiero scientifico razionale come una sorta di strampalata specula zione filosofica. I recenti progressi della neurobiologia, tuttavia, hanno messo in luce nel lobo temporale del cervello la cosiddetta «area di Dio», che, secondo Danah Zohar, potrebbe costituire «l’elemento fondamentale di un’intelligenza spirituale di più ampio respiro». Il mondo economico riconosce giustamente che molti sistemi economici stanno passando dallo spingere (push) al tirare (puli), cioè, come ho già spiegato, dall’imposizione alla libertà di scelta. Tirare giù da Internet quello che vogliamo, rifiutando una supina accettazione di ciò che «altri» vogliono propinarci, ne è un esempio: un altro è quello di sostituire il coaching a uno stile manageriale basato sul comando. Una delle risorse di valore inestimabile di quello che definiamo «coaching in profonità» è rappresentata dalla possibilità di fornire un effettivo aiuto alle persone, sgombrando il campo sia dai loro scudi difensivi, sia dai blocchi che sono stati loro imposti, in modo che possano prestare ascolto alla loro guida interiore. Riuscire a udire quella voce interiore ancora flebile e imparare a obbedirle è un buon modo per scongiurare la crisi, e non c’è dubbio che in tal senso il coaching possa offrire un importante contributo. Attraversare la «crisi del significato» con il coaching In questa sede non posso purtroppo addentrarmi dettagliatamente nelle tecniche che un coach può applicare quando è in corso una grave «crisi del significato». e neppure nelle tante insidie a cui egli può andare incontro. Per una persona che si è mantenuta a lungo sul percorso orizzontale, la crisi può manifestarsi come un’esperienza quasi traumatica, vissuta nella più profonda interiorità e fortemente destabilizzante. Ai coach che vogliano addentarsi in questo campo non posso che consigliare caldamente di dotarsi di una formazione nella psicosintesi o in una delle dottrine psicologiche similari. Non occorre dimenticare che l’applicazione del coaching in questo campo richiede quasi sempre un tempo più lungo di quello normalmente disponibile, come pure un’esperienza e una capacità maggiori di quelle che abbiamo descritto parlando della normale attività di un coach/manager. Non è detto, ovviamente, che la crisi sia un requisito indispensabile per avviare nella persona un’evoluzione psicologica e spirituale. Vi sono individui capaci di compiere un lungo percorso evolutivo senza avvertire alcuna crisi e senza avere bisogno di un coach, come si possono avere progressi nello sviluppo psicologico e spirituale attraverso una serie di crisi minori, con conseguenze meno drammatiche e una sofferenza meno acuta. In questi casi, dovrebbe essere sufficiente il coach che abbia ricevuto una normale formazione professionale di buona qualità. In effetti, nella stragrande maggioranza dei casi, se un coach si attiene rigorosamente al principio basilare di non forzare mai l’allievo, sforzandosi invece di rispettarne totalmente le esigenze e i suggerimenti, i rischi sono minimi e si ottengono quasi sempre ottimi risultati. I

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problemi possono insorgere soltanto nel caso in cui il coach, non avvezzo alla forte instabilità emotiva dell’allievo e ai suoi sfoghi, si lasci prendere dal panico e finisca per intervenire cercando di aiutare la persona a controllare le proprie emozioni. L’allievo in realtà ha un assoluto bisogno di addentrarsi nelle suo mondo emotivo represso e di riportarlo alla superficie della coscienza, sia pure con la guida e le attenzioni offerte dal coach. Se si vuole esercitare la tecnica del coaching con una persona che sta attraversando la crisi del significato, occorre tenere presente che molto raramente può bastare un’unica sessione, anzi, è assai probabile che occorrano più sedute da svolgersi nel corso di parecchi mesi. Inoltre, dopo che l’azienda ha investito tempo e denaro per offrire al proprio dipendente la possibilità di usufruire del cosiddetto «coaching in profondità», alla fine dell’intero processo l’allievo può anche decidere di abbandonare il posto di lavoro per trovarne un altro più in sintonia con quegli obiettivi intimamente persona li che è riuscito a identificare e a chiarire. Per qualche azienda sarebbe forse molto più semplice nascondere la testa sotto la sabbia pur di restare fuori dall’estrema complessità delle problematiche individuali legate alla ricerca del significato e dello scopo della vita. In una prospettiva più ampia, tuttavia, credo che quelle aziende che si dimostreranno capaci di restare al fianco dei loro dipendenti nel momento del bisogno non potranno che essere ripagate da benefici di gran lunga superiori.

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CAP.16 IL COACHING APPLICATO ALL’ AZIENDA Poichè l’argomento di questo libro è il coaching, sarebbe una grave omissione non ribadire che esso appare come uno strumento di inestimabile valore proprio nelle attuali condizioni del mondo del lavoro e della società in generale. Come sarà il management in futuro? Quando il pendolo ricomincerà a oscillare in senso inverso, torneremo semplicemente a forme di management basate sull’esercizio del comando e del controllo? Ma esisterà poi davvero questo pendolo? Dove sta andando il mondo del business? Forse sta inesorabilmente viaggiando lungo un percorso evolutivo di cui possiamo ora gionevolmente prevedere la direzione, se non addirittura la tempistica. George Orwell, Stanley Kubrick e persino Alvin Toffler ci direbbero senz’altro che ogni previsione è un grosso rischio, eppure, quando i segnali sono così inequivocabili, non crea di certo danni cercare di valutare consapevolmente tutte le possibilità. Dal momento che un cambiamento della cultura manageriale delle grandi multinazionali richiederà senza dubbio molti anni, è di vitale importanza che i loro responsabili lancino uno sguardo al prossimo futuro. Uno dei modi per farlo è quello di capire se un processo individuale di evoluzione psicologica sia in grado di fornire indicazioni utili anche sulla direzione in cui stanno andando le aziende. Non dimentichiamo che il punto di partenza un libro innovatore come L’azienda del futuro di Arie de Gìeus proprio che le aziende si presentano e agiscono come organismi viventi. Ma se così è, dobbiamo supporre che anche un’impresa può attraversare quella medesima crisi del signicato che molte persone stanno attualmente vivendo? Dal canto mio, sono convinto che ogni azienda può attraversare di questo tipo e che in effetti molte aziende le attraversano. E se un fenomeno del genere avesse una diffusione anche ampia? Non è forse possibile che l’intera comunità legata business globale si stia avvicinando a una grave crisi del gniticato collettiva? Anche sotto questo aspetto, infatti, non mancano chiari segni rivelatori. Gli indicatori economici, per esempio. non sono più in grado di offrirci un quadro preciso di quanto sta avvenendo. Sia le nuove forme di etica aziendale sia le esigenze legate alla conservazione dell’ambiente stanno lanciando al mondo del business sfide di una portata senza precedenti. Negli ultimi tempi, i summit dei grandi leader della globalizzazione sono stati accolti dalle proteste di quanti avversano sia il mercato globale, sia i valori che muovono il business. I paesi ricchi si arricchiscono sempre di più, quelli poveri divengono sempre più poveri. Nel tentativo di risolvere qnest’ ultimo problema, la Gran Bretagna ha operato una scelta d’avanguardia, cancellando parte dei crediti che vanta nei confronti di alcuni paesi del Terzo Mondo: un’ iniziativa inimmaginabile anche soltanto dieci anni fa, allorché l’idea fu lanciata per la prima volta o leader cubano Fidel Castro. Persino BilI Gates,

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proprietario del colosso Microsoft nonche strenuo difensore del mercato globale, ha finalmente capito che i compuler non bastano a tenere in vita gli esseri umani e ha dato il buon esempio finanziando generosamente un programma di vaccinazioni nei paesi più poveri del mondo. La globalizzazione Nel 2000 la rivista Newsweek ha dedicato un numero speciale a quelli che, a suo avviso, sarebbero stati i maggiori problemi dell’anno successivo, indicando nella globalizzazione il fenomeno che più avrebbe influenzato la vita del pianeta ed esprimendo a tale proposito due forti preoccupazioni: le grandi aziende private avrebbero dovuto farsi maggiormente carico dei gravi problemi sociali e il mercato non avrebbe più potuto considerarsi come la giusta risposta a qualsiasi situazione critica. Ha scritto Claude Smadja, del World Economie Forum: Nelle grandi società private deve affermarsi un più forte senso di responsabilità sociale. Da parte nostra, dobbiamo invece prestare più ascolto alle voci responsabili che giungono dalla «società civile». [ L’incremento numerico delle organizzazioni non governative riflette inoltre l’atteggiamento di totale disincanto con cui la società guarda a tutte le istituzioni: governi, multinazionali. organizzazioni internazionali, mass media... Michael Hirsh, giornalista di Newsweek, precisò in quel l’occasione che il dibattito dovrebbe vertere non tanto sulla privatizzazione del settore pubblico, quanto sull’esatto contrario, cioè rendere «pubblico» il settore privato. Manny Armadi, CEO della britannica Cause & Effect Marketing ha così espresso la sua opinione a tale proposito: Anche la sola gestione corrente di un paese costituisce oggi un fardello economico tale che i governi, con le sole loro forze, non sono più in grado di adempiere ai propri obblighi sociali. Dall’altro lato, invece, sono ormai preponderanti nell’economia il potere pervasivo e l’influenza esercitati dai grandi gruppi privati. Alla domanda se egli ritenesse che la gente potesse a buon diritto considerare i dirigenti di queste imprese come i primi e diretti responsabili del loro comportamento, Armadi si limitò a rispondere: «Assolutamente». La globalizzazione e la possibilità di comunicare istantaneamente con tutto il mondo rendono sempre più vaghe le distinzioni spaziotemporali tra «noi» e gli «altri». Nello stesso tempo, la nostra coscienza, in continua maturazione (benché alcuni sostengano che si tratti comunque di un’evoluzione lenta) ci porta a inglobare come oggetto delle nostre preoccupazioni anche i problemi di popoli, paesi e culture che soltanto dieci anni fa avremmo considerato come del tutto «altro da noi». Queste forze esterne, insieme con la nostra evoluzione interiore, stanno progressivamente abbattendo le barriere e ci conducono ad accettare e condividere il destino che ci acco muna agli altri popoli del pianeta. E a

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farci carico, nel con tempo, anche di tutte le responsabilità connesse con questa presa di coscienza. La responsabilità sociale delle aziende Se l’opinione pubblica insiste per una maggior responsabilità sociale da parte delle grandi aziende e se su questo punto insistono persino alcuni tra i grandi rappresentanti del mondo del business, perché nel concreto avviene poco o nulla? Dove sta l’ostacolo? Deborah Holmes, di Ernst & Young, ha confermato qualcosa che già avevo osservato durante molti dei miei corsi di coaching: Nelle menti dei massimi dirigenti di un’azienda possono albergare anche le idee più illuminate e i dipendenti non attendono altro che di vederle messe in pratica. Poi, invece, i manager continuano a operare nel modo di sempre, senza lontanamente capire che ciò di cui sono responsabili va ben oltre un semplice attivo di bilancio. Va da sé che questi problemi erano nell’aria ben prima del devastante attacco dell’ 11 settembre 2001 al World Trade Cen ter di New York, ma tale evento ha indotto persone aziende e nazioni a considerare con maggiore attenzione il problema della responsabilità individuale e collettiva, imprimendo forse una certa accelerazione a quel processo di cambiamento che analisti e commentatori avevano identificato già in precedenza. Il sommario di un articolo del Financial Times del 20 settembre (ma scritto prima dell’attentato terroristico) presentava in questi termini il contenuto del pezzo: «Ricongiungersi con i valori fondamentali: nella nuova era del business l’avidità non paga. Il personale non è semplicemente la somma numerica dei singoli lavoratori. La spiritualità nel business: Stephen Overell, nella ricerca del vantaggio competitivo, scopre che le aziende si sforzano di offrire ai loro dipendenti un significato e uno scopo». L’articolo cita tra l’altro le parole di Jim McNish, responsabile dello sviluppo dirigenti presso il gruppo Kingfisher, un gigante della vendita al dettaglio: «Gli esseri umani desiderano amare l’organizzazione in cui lavorano, non vogliono certo lavorare per una cricca di bastardi. Le persone sono alla ricerca di un senso nel loro lavoro e. se non lo trovano, cominciano a svignarsela». Ken Costa, vicepresidente del gruppo bancario UBS Warhurg, ripete in sostanza lo stesso concetto: «Il senso di frustrazione si avverte chiaramente e si palesa in un perenne stato di insicurezza e di insoddisfazione. Alla fine, molti abbandonano l’azienda e non pochi per andare a lavora e nel settore del volontariato[.....] Nell’ultima tornata di colloqui per assumere laureati abbiamo avuto un numero sorprendente di giovani che ci domandavano: “Qual è la Vostra politica rispetto alla responsabilità sociale dell’azienda?’ No era mai successo prima”. Molti sono ormai convinti che un deciso cambiamento di rotta negli atteggiamenti e nel ruolo stesso del business sia ormai inevitabile e che,

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anzi, sia già in corso sotto la spinta di un’esigenza palesemente espressa dalla società. La gente lascia chiaramente intendere di non essere più disposta a mettersi al servizio dell’economia, esprimendo piuttosto a chiare lettere l’idea che è l’economia a dover servire la società. Come avverrà il cambiamento? Con una serie di correzioni attentamente manovrate, man mano che il mondo del business imparerà ad assumersi le proprie responsabilità e ad accettare il suo vero scopo e significato? Oppure il business continuerà a perseguire a qualsiasi costo e con miopia il proprio tornaconto, fino a cozzare contro barricate erette da gente comune ma dotata di aspirazioni più elevate e con esigenze più nobili? I cambiamenti concernenti etica e valori che hanno progressivamente luogo nella società e nell’economia coinvolgono i numerosi aspetti del business che toccano da vicino sia la gente sia i prodotti:

Il trattamento riservato ai dipendenti e lo stile del management. L’impegno ecologico: smaltimento e riciclaggio. Il trattamento riservato ai fornitori, soprattutto quelli che hanno sede

nei paesi in via di sviluppo. Una giusta remunerazione per tutti, con una particolare attenzione

agli eccessi retributivi di dirigenti e manager. Una particolare attenzione alle tecniche di vendita più aggressive e alle

forme di pubblicità ingannevole. Apertura e trasparenza, sia all’interno sia all’esterno del l’azienda. Una particolare attenzione alla salute e al benessere dei dipendenti.

con una giusta considerazione dello stress e del le esigenze legate alla cura dei figli.

L’eliminazione di ogni discriminazione sessuale e razziale, e stigmatizzazione di ogni forma di molestia.

Comportamenti inappuntabili da parte di dirigenti e manager. Prodotti che rappresentino un effettivo valore. Prodotti socialmente utili o perlomeno non nocivi. Una produzione che ponga al primo posto le persone, non il profitto. Una particolare attenzione all’uso di prodotti chimici pericolosi per la

salute pubblica e dannosi per l’ambiente. I comportamenti e gli atteggiamenti dell’azienda nei confronti della

comunità. Un’impresa che trascuri anche solo uno di questi punti rischia di esporsi a critiche severe; e deve tenere bene a mente che ciò che risulta ancora accettabile oggi potrebbe non esser lo più domani. Un’azienda che abbia una visione, invece, non soltanto saprà adeguarsi a questa evoluzione della società. ma cercherà di anticiparne le esigenze, proprio perché comprende di avere una responsabilità verso la società.

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Il coaching come mezzo di cambiamento culturale Una cultura che sappia prestare ascolto, che sia aperta all’apprendimento e all’applicazione del coaching rappresenta per le aziende la migliore possibilità di cavalcare le onde agitate che si abbattono sul mondo del business. Le imprese possono adottare una cultura più attenta alle esigenze delle persone, vale a dire una cultura in cui il coaching rappresenti una pratica comune, ormai consolidata e applicata sia verso i dipeendenti che si collocano in una posizione gerarchica inferiore sia verso le alte sfere o i colleghi di pari grado. È per questa via che un’azienda può finalmente assegnare il giusto riconoscimento alle esigenze dei suoi dipendenti, che a loro voita riescono a definirle in modo chiaro e preciso proprio grazie all’aiuto che il coaching può loro fornire. Dai loro desideri dalle loro speranze un coach manager ha molto da imparare. Quando il management si dimostra capace di ascoltare la voce dei dipendenti e di agire di conseguenza, il personale lavora con maggiore serenità e garantisce una performance migliore, con il vantaggio aggiuntivo di un abbattimento del turnover. Se, al contrario, il management manifesta un’attenuzione puramente formale alle esigenze dei dipendenti, si creano aspettative destinate ad andare deluse, e le cose andranno di male in peggio. Parallelamente a questo cambiamento dello stile di management, le aziende dovranno dimostrare di essere all’altezza di quei valori e fondamenti etici sui quali esse stesse tanto insistono nella stesura delle proprie dichiarazioni di mission. Se non li onoreranno, saranno i loro dipendenti e i loro clienti a richiamarle all’ordine, visto che sia gli uni sia gli altri hanno la possibilità di punirle troncando ogni rapporto. Le aziende che con i loro prodotti o servizi offrono un reale contributo alla società sono quelle che per loro stessa natura garantiscono al personale un lavoro dotato di significati e scopi, mentre quelle con produzioni discutibili, quando non decisamente nocive, entreranno quasi senz’altro in conflitto con i dipendenti più sensibili alla ricerca di un significato in ciò che fanno. Secondo questa scala di valori, troveremo ben poche aziende totalmente bianche o totalmente nere: la maggior parte di esse si colloca infatti in una sfumatura di grigio. Le più sagge cercano di compensare i loro punti deboli in vario modo, per esempio offrendo contributi alla comunità oppure prestando le proprie maestranze per la realizzazione di progetti di utilità sociale. Perché in tutto questo si rivela così importante il coaching? Perché non esiste alcuna autorità capace di imporre dall’esterno un futuro fondato su autentici valori. La performance sarà sempre al meglio se i dipendenti, gli azionisti, i consiglieri d’amministrazione e persino i clienti condivideranno gli stessi valori, ma perché questo accada è indispensabile anzitutto che i dipendenti si sentano incoraggiati a scoprire quale sia effettivamente il loro sistema di valori. Ebbene, dopo avere accettato l’idea che è necessario cambiare la cultura della nostra impresa in modo da integrarvi i principi etici del coaching, da dove cominciamo? Dai dipendenti o dall’azienda? Da entrambi,

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potremmo rispondere. Una democrazia imposta e una cooperazione forzata sono contraddizioni in termini e, pertanto, assolutamente inaccettabili. Ecco, a tale proposito, alcune indicazioni generali: • Se riprogettiamo la struttura della nostra azienda in modo troppo radicale o troppo rapidamente. rischiamo di trovarci troppo avanti rispetto ai nostri dipendenti. • Se la ristrutturazione viene imposta dall’alto ai dipendenti, è possibile che questi finiscano per opporvisi, anche se il cambiamento è rivolto a loro stesso beneficio. • Dobbiamo prima di tutto aiutare i dipendenti a evolversi, facendo loro sperimentare, attraverso il coaching, atteggiamenti e comportamenti che intendiamo introdurre nell’organizzazione. • Fin dall’inizio, spetta a dirigenti e funzionari porsi come modello esemplare dei nuovi atteggiamenti e i comportamenti dell’azienda, e lo devono fare bene e con sincerità. • Non si può costringere il personale al cambiamento, occorre piuttosto garantirgli l’opportunità di scegliere in che modo cambiare. L’approccio del coaching Quando pratichiamo il coaching con i vertici di un’azienda impegnata in un cambiamento culturale, dobbiamo pone di tutto aiutarli a chiarire che cosa intendano ricavare dal cambiamento e che cosa esso comporti, accertandoci che in tutti sia autenticamente vivo l’impegno a portarlo a termine. E probabile che un’operazione di questo genere richieda un investimento di tempo che raramente i membri del team di vertice son disposti a concedere, a causa delle scadenze da cui sono immancabilmente pressati. Eppure, senza un chiaro impegno del vertice, o almeno di uno dei suoi membri più autorevoli disposto a fare da paladino, qualsiasi cambiamento efficace e duraturo rimane nel libro dei sogni. La precisa volontà di affrontare sino in fondo il cambiamento è di vitale importanza, se vogliamo evitare un’amara delusione ai dipendenti, quando verifichiranno che dai grandi progetti annunciati non sarà scaturito nulla. Il tipo di approccio a cui ci atteniamo alla Performance Consultants è quello di fissare fin dal primo giorno un programma di manutenzione e rinforzo molto dettagliato e rigoroso, affinché i dirigenti dell’azienda, durante il primo contatto con il coaching e di fronte ai cambiamenti nello stile di management che ci si attende da loro, non si sentano mandati allo sbaraglio. Ogni dipendente dell’azienda che sia investito di una qualche mansione direttiva deve necessariamente seguire un corso dal quale apprendere le tecniche fondamentali dH coaching, per far sì che il nuovo linguaggio venga rapidamente assimilato a tutti i livelli. Anche gli altri dipendenti riceveranno almeno un’illustrazione e qualche forma di dimostrazione dei principi del coaching, in modo che non abbiano a sentirsi confusi o, ancor peggio, sospettosi di fronte ai nuovi e diversi atteggiamenti assunti dai dirigenti.

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Per consolidare e mantenere nel tempo i risultati del cambiamento, si prevedono inoltre regolari sessioni di aggiornamento, supervisioni, amichevoli scambi di opinioni, feedback e valutazioni di vario tipo. Quanto più sarà possibile organizzare internamente questi momenti di riesame, migliori saranno i risultati: alla Performance Consultants preferiamo infatti non intervenire direttamente, bensì addestrare all’interno dell’organizzazione dei «coach permanenti» che, vivendo nell’azienda, sono assai più coinvolti dai cambiamenti avviati.

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CAPITOLO 17 FEEDBACK E VALUTAZIONE

Il feedback peggiore è quello critico nei confronti della persona; il feedback migliore si limita a descrivere.

Finora abbiamo considerato il coaching come uno strumento utile per affrontare problemi connessi alla pianificazione di una certa azione e analizzarne le possibili soluzioni, per valutare una data situazione o svìluppare determinate capacità: il tutto inserito nel più ampio contesto della ricerca di un signifìcato e di uno scopo nell’attività professionale. In questo capitolo indico come utilizzarlo sia per fornire un feedback corretto, sia per l’autovalutazione e lo sviluppo personale e di team. Il feedback Esistono comunemente cinque livelli di feedback, che in dichiamo nell’elenco seguente con le lettere dalla A (il meno Utile) alla E (il più efficace e anche l’unico che garantisce i maggiori benefici in termini sia di apprendimento sia di performance) I primi quattro livelli producono al massimo un qualche miglioramento di breve durata e, nella peggiore delle ipotesi, provocano un’ulteriore diminuzione del senso di autostima e un deterioramento della performance. I primi quattro livelli sono quelli che più ricorrono nel mondo del lavoro e a prima vista sono del tutto ragionevoli: soltanto a un’anali più attenta, infatti, rivelano i propri elementi di debolezza. Vediamone un esempio relativo alla presentazione di una relazione da parte di un dipendente. A. Il manager esclama: «Lei non vale niente!»

Si tratta di una critica personale che, a causa dei suoi effetti devastanti sul senso di autostima e sulla fiducia in e stessi, è destinata a peggiorare ulteriormente la performance del lavoratore. In un’informazione di questo tipo non vedo alcun elemento di utilità. B. Il manager osserva: “Questa relazione non vale niente!”

Questo commento, pur contenendo un giudizio critico rivolto non alla persona ma al prodotto, riesce ugualmente a danneggiare l’autostima del lavoratore, anche se in modo meno grave. In ogni caso, non contiene ancora alcuna informazione utile all’estensore della relazione per migliorarla. C. Il manager osserva: «Quanto al contenuto, la sua relazione è chiara

e stringata, ma la forma e il registro sono di un livello troppo basso rispetto al pubblico target». In questo caso si evita la critica e si offre al lavoratore una qualche informazione sulla cui base lavorare. Il feedhack resta comunque poco dettagliato e non crea alcun coinvolgimento personale del dipendente. D. Il manager osserva: «Che cosa ne pensa lei della sua ‘relazione?»

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Il lavoratore viene coinvolto direttamente ma è molto probabile che si limiti a dare una risposta molto generica oppure a esprimere un giudizio di valore del tipo «Mi pare ottima» o «Forse potevo fare meglio», senza addentrarsi in una descrizione dettagliata e più utile. E. Il manager fa osservazioni del tipo: «Qual è lo scopo fondamentale

della sua relazione?» <In che misura, a suo giudizio, questa bozza può essere utile per raggiungerlo?» «Quali altri punti sente che andrebbero posti in maggiore evidenza?» «A chi ritiene debba rivolgersi la sua relazione?» Rispondendo a una serie di domande come queste, il lavoratore/allievo è portato a descrivere la relazione in maniera dettagliata e senza elementi di giudizio, esprimendo chiaramente il percorso mentale che ha seguito nel crearla. Per quale motivo il tipo di feedback esemplificato al punto E riesce sia ad accelerare il processo di apprendimento sia a migliorare la performance? Il fatto è che soltanto questo tipo di osservazioni soddisfa i criteri fondamentali del coaching: per rispondere alle domande del manager riportate al punto E, il lavoratore/allievo è costretto a far lavorare il cervello e a sentirsi direttamente coinvolto. Deve per forza riordinare e riformulare il proprio pensiero prima di articolare la sua ri sposta. E questa è consapevolezza, che lo aiuta a imparare in che modo valutare il proprio lavoro, rendendolo al tempo stesso più autonomo. In questo modo, egli sente di essere «padrone» della propria performance e di essere direttamente coinvolto nella sua valutazione. E questa è responsabilità. Come sappiamo, si ha apprendimento autentico solo quando entrambi questi elementi vengono ottimizzati. Viceversa, se il manager si limita a riferire la propria opinione al dipendente, l’elaborazione intellettuale da parte di quest’ultimo si riduce al minimo indispensabile, non vi è alcun coinvolgimento personale né al manager vengono forniti gli elementi necessari per valutare quanto le sue parole siano state comprese e assimilate. Il fatto di ricorrere a una terminologia di tipo descrittivo anziché valutativo — sia da parte del dipendente, come abbiamo visto al punto E, sia da parte del manager, come al punto C, evita che il lavoratore si senta costretto sulla difensiva atteggiamento che va scongiurato in quanto tende a dissimulare la verità e la realtà dietro a un velo di scuse e giustificazioni che disorientano tanto il lavoratore quanto il manager, e che per di più non forniscono alcuna base per migliorare la performance. Nell’intervento al punto C, come pure in A e in B, il manager mantiene il pieno controllo della valutazionc e della possibile correzione, precludendo al suo interlocutore la possibilità di comprendere e migliorare. È evidente che gli in terventi riportati ai punti A-D sono ben lontani da un feedback ideale, eppure sono proprio queste le frasi che ricorinno più frequentemente in un ambiente di lavoro.

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Processo e risultato Come abbiamo visto, il feedback, sia il nostro sia quello degli altri, è di vitale importanza per migliorare l’apprendimento e la performance. Esso deve fare chiaramente riferimento tanto al risultato ottenuto dall’azione quanto al processo che lo ha determinato. Volendo offrire un esempio tratto dal mondo dello sport, possiamo dire che il punto in cui finisce la pallina da golf è il risultato mentre il colpo è il processo. Nello sport è facile definire un risultato, cosa che a volte risulta invece più complessa nel mondo del lavoro. Anche nello sport, comunque, spesso nel valutare il risultato si cade nell’errore di emettere giudizi di valore, mentre quel che serve è un’accurata e dettagliata descrizione: «La palla era fuori» è un’affermazione in sé molto più utile che «Quella palla l’hai sbagliata”, e ancora meglio sarebbe «La palla è cadutaquasi venti centimetri oltre la linea di fondo”. Dalle azioni che hanno generato un risultato sbagliato possiamo imparare tanto quanto dalle azioni che si sono conlcuse con successo. Questo tipo di feedback può essere fornito dal coach o dall’allievo, molto meglio se da que st’ultimo, per le ragioni che abbiamo spiegato in precedenza. Esaminiamo ora il feedback relativo al processo. Un allenatore di tennis può osservare un diritto del suo allievo e commentare criticamente — meglio sarebbe descrittivamente — il colpo. Il suo feedback si basa sul divario esistente tra ciò che ha visto e una sorta di modello ideale, frutto della sua esperienza, di «diritto perfetto»; ma il diritto effettuato dall’allievo è soltanto un sintomo, o se vogliamo la manifestazione esteriore, di un complesso di fattori fisici e psicologici che concorrono a determinare l’azione del tennista e che comprendono in sé la causa dell’eventuale imperfezione del movimento. Le correzioni a quel colpo apportate su richiesta dell’allenatore riguarderanno inizialmente il livello sintomatico, mentre un cambiamento reale e duraturo dovrà coinvolgere le cause che hanno determinato l’imperfezione, o meglio ancora dovrà partire da tali cause. L’istruttore è incapace di portare il suo sguardo fino al livello delle cause profonde, che sta nel mondo interiore dell’allievo: soltanto quest’ultimo è pertanto in grado di fornire quel feedback ideale che nasce dalla consapevolezza interiore. E’ possibile fare in modo che l’allievo acceda a questo livello più profondo aumentando la sua consapevolezza di sé, sia fisiologica sia psicologica. Le domande che lo condurranno a tale traguardo saranno veramente efficaci soltanto se costruite in base ai principi del feedback, che sono identici a quelli impiegati per indurre qualcuno a guardare la palla. L’ informazione d’ anticipo» Il feedback non può che riferirsi al passato, un passato molto prossimo nel caso in cui il coaching avvenga in tempo reale, come nello sport, oppure un passato più lontano, come spesso accade nel mondo del lavoro. A indurre la piena consapevolezza del presente è tuttavia l’anticipazione della domanda, ed è questa consapevolezza immediata a

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produrre un risultato positivo. Per fare un esempio, io posso dire a un allievo: «Alla prossima palla ti chiederò quale componente dei movimenti che devi fare ti crea maggiore disagio». Nel compiere un particolare movimento, egli si concentrerà sul proprio corpo con il probabile effetto di impedire il manifestarsi del difetto nel corso della prima esecuzione, in questo caso, sto equipL rando la sensazione di scioltezza nel movimento e l’efficienza biomeccanica, dal che discende che qualsiasi ineffìcienza biomeccanica verrà sperimentata come una sensazione di disagio localizzata nel punto interessato dal movimento. Ci stiamo così avvicinando al concetto di «informazione d’anticipo» (feedforward), ovvero la pianificazione, per usar un termine più comune. Restano pienamente validi i principi relativi al feedback, di cui ho parlato nelle pagine precedenti. Tali principi vengono rispettati se nella sessione di coaching: l’allievo è indotto a descrivere dettagliatamente al coach [quindi anche a se stesso) ciò che intende fare. Non lo sono invece, se l’allievo riceve semplicemente istruzioni o è richiesto di indicare se sa che cosa farà. Sarà pertanto la qualità delle domande a determinare la qualità dell’informazione d’anticipo, o pianificazione. “Chi intende assumersi questo impegno? “ “Quanto vi sentite sicuri di portare a termine tutto questo nei tempi prestabiliti?» “Quali sono gli elementi su cui vi sentite insicuri ? “ «Quali potrebbero essere gli ostacoli?» «Quando pensate riuscire a completare il lavoro?» Tutte queste domande generano responsabilità e coinvolgimento diretto e, nel contempo aumentano il livello di consapevolezza anche di altri fattori. Cambiare è difficile Perché persistiamo a usare le forme meno efficaci di feedback? Per il semplice fatto che lo consideriamo dal nostro punto di vista e non da quello del lavoratore/allievo; perché diciamo quello che vogliamo senza capire quale può essere l’effetto che le nostre parole sortiscono. Che poi tale comportamento nasca dall’abitudine, da modelli di ruolo insoddisfacenti, da arroganza gerarchica o dal semplice fatto che neppure ci viene in mente di andare appena sotto ciò che è in superficie è una questione che varia da manager a manager. La cosa importante, se davvero vogliamo ricavare il meglio dagli altri — da noi stessi, dai nostri dipendenti o persino dai nostri figli — è abituarsi a riconsiderare le cose in modo più approfondito. Il nostro obiettivo primario deve essere la piena comprensione di ciò di cui il lavoratore/allievo ha bisogno per eseguire bene il proprio compito, e a tal fine dobbiamo chiedere, dire o fare qualsiasi cosa occorra per essergli d’aiuto nel soddisfare tale esigenza. Se ciò a cui puntiamo è una performance di alto livello, dobbiamo mettere da parte il nostro de siderio di mantenere tutto sotto controllo o di esibire le nostre superiori conoscenze, o, molto più semplicemente, quella pigrizia che ci impedisce di abbandonare

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vecchie abitudini e avviare il cambiamento. È molto difficile farla finita con le abitudini radicate, ma dobbiamo riuscirci. Torniamo ora all’esempio da cui eravamo partiti: non perdere d’occhio la pallina. Guardare costantemente la palla è estremamente importante per un giocatore di tennis e in questo non c’è nulla di sbagliato. Tuttavia, ordinarglielo in modo imperativo non necessariamente lo indurrà a farlo. D’altro lato, e qui sta il paradosso, quante volte giri su se stessa la pallina è totalmente ininfluente, ma se noi chiediamo al giocatore di provare a concentrarsi su quell’aspetto siamo sicuri che non la perderà di vista un solo secondo. Chiedere di contare quanti giri fa la palla è soltanto una delle tante domande possibili, la cui scelta dipende unicamente dall’effetto che vogliamo ottenere. Ancora un altro esempio. Supponiamo che una tennista non faccia che mandare la palla fuori campo oppure in rete: la giocatrice riesce a giudicare i propri sforzi soltanto i termini di buono/cattivo, successo/fallimento e, pertanto, non può che tormentarsi rivolgendo a se stessa critiche durissime. Di questa sua comprensibile reazione risentiranno inevitabilmente il senso di autostima, la sicurezza di sé e la performance, come pure la qualità del suo feedback, peggiorato, probabilmente, dal fatto che ogni volta che sbaglia ella si volta dall’altra parte con un’espressione di frustrazione dipinta sul volto. La tennista si sforza troppo di correggere i propri errori, ma così facendo innesca una stressante lotta con se stessa e tende a compensare eccessivamente i precedenti sbagli, con il risulta to di fallire nuovamente (il colpo è sempre o troppo lungo o troppo corto). Molti allenatori di tennis cercherebbero di fronteggiare questa situazione imponendo una «correzione» di tipo tecnico, ma commetterebbero un errore, perché si rivolgerebbero al sintomo, non alla causa. Nel tennis, la ragione di gran lunga più frequente che porta il giocatore a sbagliare il colpo sta in un feedback insufficiente rispetto sia al punto da cui la pallina sta arrivando sia a quello verso cui dirigerla. Ipotizzando quest’ultimo caso, direi che un allenatore saggio, o meglio un coach, potrebbe domandare: «Quanto era alta sulla rete quella palla?» magari chiedendo al giocatore di indicare ogni volta ad alta voce di quanti centimetri a suo giudizio essa ha sorvolato il nastro. Il solo fatto di ricevere un feedback molto preciso circa il risultato della sua stessa azione porta il giocatore a correggersi automaticamente, senta doversi forzare. Grazie al fatto che evita di forzare la correzione (in quanto ora tutta l’attenzione è rivolta a osservare attentamente la pallina), il movimento del braccio tende a correggersi da solo a livello subcosciente e, allo stesso tempo, il giocatore sente di aver dominato pienamente il momento della correzione. Va da sé che l’esatta altezza in centimetri alla quale la pallina oltrepassa la rete è del tutto irrilevante. La cosa veramente importante è che il tennista si concentri sul risultato della sua azione (cioè l’osservazione della pallina) e lo registri mentalmente. Un feedback di qualità possibilmente generato dall ‘interno e non da qualche esperto esterno, è essenziale per garantire un miglioramento

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continuo, nello sport, ma anche sul lavoro e in tutti gli altri momenti della vita. Gli elogi L’elogio è un’altra forma di feedhack, di un genere però che sul lavoro, dove regnano le critiche, tende a essere offerto con molta parsimonia e a essere molto ambito. In tale contesto sembrerebbe auspicabile aumentare i feedhack positivi e ridurre al minimo quelli negativi. Visto che sul lavoro gli elogi non abbondano, sembrerebbe poco educato metterne in dubbio il loro valore, eppure occorre ugualmente raccomandare qualche cautela. La lode insincera o elargita gratuitamente è priva di qualsiasi significato e reca più danni che benefici, dal momento che la falsità e il tentativo di manipolazione vengono smascherati assai più prontamente di quanto non creda chi si è lanciato in lodi ed encomi immotivati. Il bugiardo vedrà ridursi drasticamente il suo eventuale carisma, con conseguente peggioramento dei rapporti interpersonali. Ma anche una lode autentica può causare problemi: la persona elogiata può infatti abdicare alla propria capacità e al proprio desiderio di autovalutarsi in favore di chi ha pronunciato l’elogio, finendo così per essere ancora più dipendente dall’opinione altrui. Per creare nei nostri sottoposti la necessaria autonomia e renderli fiduciosi in loro stessi dobbiamo invece fare esattamente il contrario. L ‘elogio deve essere alo stesso tempo generoso, genuino e giustificato. Punti di forza e di debolezza Nel mondo del lavoro sentiamo spesso parlare della necessità di identificare i punti di forza e i punti deboli del personale, di un certo processo o di un prodotto. Così come possiamo elencare i vari punti di forza e debolezza relativi a tali aspetti della vita aziendale, possiamo indicare quelli relativi a noi stessi. Ci sono poi altre cose che possiamo elencare: per esempio, le qualità richieste a un impiegato modello, le competenze che vorremmo potenziare in un team oppure le doti che vorremmo riuscire a valorizzare in noi stessi; possiamo elencare le diverse funzioni della nostra azienda, di un certo ufficio o di un certo dipendente; possiamo elencare le competenze tecniche richieste, quelle manuali oppure quelle che risultano particolarmente utili nella gestione dei rapporti interpersonali. Sezionare nel dettaglio ogni cosa è un modo per raggiungere un certo grado di consapevolezza: se poi vogliamo sollevarci un gradino più in alto in tal senso, possiamo valutare questi punti di forza, punti deboli, qualità, funzioni o conoscenze ricorrendo alla nostra ormai familiare scala da 1 a 10, sia per capire meglio come vorremmo che fossero, sia per chiarirci come riteniamo che siano attualmente.

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Valutazioni I sistemi di valutazione sono oltremodo diffusi, non riscuotono grande popolarità, vengono utilizzati malamente, sono limitanti ma, con tutto ciò, rimangono necessari. In una cultura che ha abbandonato il biasimo in favore dell’apprendimento, tali sistemi possono essere di aiuto a tutti quanti, ma se vengono utilizzati per valutare soltanto una performance del passato e non le potenzialità future, se sono di tipo giudicante e non descrittivo, non sono di aiuto a nessuno. Le circostanze, le finalità e la storia stessa di un’azienda possono essere così varie che non mi arrischierei mai a suggerire un qualche sistema di valutazione universalmente valido. Comunque sia, un sistema di valutazione non potrà mai essere del tutto sbagliato se è in sintonia con i criteri fondamentali di un buon feedback, di cui abbiamo appena parlato, e con i principi dell’autovalutazione, di cui parleremo ora. L’ autovalutazione Nel mondo del lavoro si dà una grande importanza alla valutazione degli altri — colleghi, subordinati o persino capi — mentre, dal mio punto di vista, la forma di valutazione più produttiva è senza dubbio l’autovalutazione. La valutazione che diamo o riceviamo relativamente a una certa competenza o qualità andrebbe piuttosto considerata come una preziosa informazione in base alla quale scegliere di intraprendere una certa azione, anziché come un giudizio critico se non addirittura come la verità assoluta, che possono avere su di noi un impatto fortemente negativo e inibitorio. Anche un video, d’altra parte, mostra la realtà di ciò che è avvenuto in una data occasione, ma dovrebbe essere impiegato per restituire informazione alla persona piuttosto che come critica nei suoi confronti. L’ autovalutazione aggira gli effetti perniciosi della critica e lascia intatto il senso di responsabilità al fine di poter intraprendere un’azione efficace e avviare noi stessi il processo volto a migliorarci. Ecco un esempio. Le qualità Le qualità e le conoscenze di cui ho maggiormente bisogno per svolgere bene il mio lavoro possono essere elencate in un ordine di importanza casuale come nella tabella seguente; nella seconda colonna posso indicare come mi valuto rispetto alle qualità al momento attuale e nella terza indico il livello delle stesse qualità che auspico di raggiungere.

qualità Come sono ora

obiettivo

Comunicativo 8 9 Comprensivo 6 9

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Paziente 7 9 Capace di usare il pc

4 7

Capace di organizzare

6 8

Capace di entusiasmarmi

8 8

Attento osservatore

8 9

Dotato di conoscenze nella contabilità

5 7

Così facendo, ho di certo aumentato il grado di consapevolezza di me stesso, anzi, rispetto al processo del coaching, ho fatto assai di più. La seconda colonna rappresenta infatti la realtà e la terza un obiettivo realistico, preciso, misurabile e positivo. Tutto quello che devo fare è scegliere la qualità che intendo valorizzare e fissare una scadenza temporale: avrò così completato le prime due fasi di un processo di autocoaching. Se volessi invece elencare tutte le possibili opzioni che mi si offrono per valorizzare la qualità che ho scelto, avrei bisogno di un po’ di tempo in più. Una volta isolata una determinata qualità, infatti, potrei elencare una serie di comportamenti positivi adottati da persone che reputo abbondantemente dotate di tale qualità. Questo viene fatto per la semplice ragione che il passaggio all’azione vera e propria assume solitamente la forma di un nuovo comportamento, e non di nuove qualità, che richiederebbero più tempo per svilupparsi. Con il tempo, sarà il successo ottenuto con questo nuovo comportamento che mi permetterà di dare a me stesso una valutazione più alta rispetto alla qualità che avevo scelto di valorizzare. Da ultimo, dovrò pormi le domande inerenti la mia precisa volontà di agire creando un piano d’azione dettagliato. La valutazione del team L’esercizio che ho testé proposto può riguardare noi stessi, singoli individui o team. Particolarmente interessante è chiedere ai membri di un team di elencare quali sarebbero, a giu dizio di ciascuno di loro, le qualità che essi desidererebbero in un team e poi di valutare il loro team sulla base di tale elenco. Il divario tra i dati offre lo spunto per discutere i diversi criteri in base ai quali le persone esprimono il loro giudizio e le diverse sensazioni che ognuno prova nei confronti del proprio team.

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A un team composto da cinque persone è stato chiesto, per esempio, di elencare quali fossero a loro giudizio le quattro qualità principali che un team avrebbe dovuto possedere.

I vari elenchi sono stati quindi integrati in uno solo. Cooperazione e coesione sono state considerate come un’unica qualità, come pure adattabilità e flessibilità. A ciascun membro è stato poi chiesto di valutare il proprio team secondo le diverse qualità. A ognuno è stato chiesto di fare individualmente una valutazione scritta, prima di riportare i risultati suun tabellone, in modo che nessuno potesse lasciarsi influenzare dal giudizio dei colleghi. In questo caso non è stato loro chiesto di aggiungere alla valutazione complessiva anche la valutazione di quanto ciascuno di loro contribuisse alla realizzazione di ciascuna qualità, nè tanto meno di valutare il contributo degli altri membri del team. Valutazioni del genere possono infatti innescare tensioni e creare difficoltà di vario tipo (ma se io mi trovassi a la vorare con un team intenzionato a puntare al massimo o da cui dipendesse in qualche modo la mia vita, almeno quella professionale, vi assicuro che farei questo e anche molto di più!) Ciò che la Tabella mette chiaramente in evidenza è che una qualità come la fiducia reciproca è un problema sul quale occorre lavorare, che l’umorismo di Joe non è poi così gradito soprattutto alle donne, che a volte Susan si sente presa di mira e che David si giudica un pò troppo

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isolato. Come potete vedere, c’è ottima materia per applicare individualmente il coaching (da parte di un collega o di un esperto esterno), per aprire una discussione all’interno del team sulle possibili opzioni e portare il gruppo a concordare quali passi abbia l’intenzione (will) di intraprendere per elevare il livello di alcune delle qualità elencate. Riconsiderare i punti deboli L’applicazione del coaching per sviluppare le qualità di un singolo individuo o di un team è un modo per affrontare il problema dei punti deboli ed è assai più produttivo che tentare semplicemente di esorcizzarli. È un’ ulteriore dimostrazione dell’opportunità, nell’ applicazione della sequenza di coaching, di far precedere la fase di definizione degli obiettivi, a quella di analisi della realtà. Esiste un numero infinito di varianti di esercizi di coaching ricavabili dal modello base e di esempi adatti a tutte le situazioni. Ora tocca a voi. Il coaching offre la possibilità di recuperare il controllo su se stessi. Una delle maggiori cause di stress sul lavoro è proprio la mancanza di tale controllo.

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CAPITOLO 18 LO SVILUPPO DI UN TEAM Un piccolo gruppo di persone dotate di capacità complementari

con in comune un linea e un complesso di obiettivi di performance. I componenti si impegnano alla collaborazione reciproca,

tesa al raggiungimento degli obiettivi, ognuno si considera pienamente responsabile.

JON R. KATZENBACH E DOUGLAS K. SMITH. La forza dei team

Abbiamo iniziato a esplorare i diversi modi di applicare il coaching con un team allo scopo di migliorarne la performance; tuttavia, se vogliamo ricavare il massimo dai suoi membri, dobbiamo prima capire alcune dinamiche che caratterizzano il progressivo sviluppo di un gruppo di lavoro. Io ricorro solitamente a un modello del funzionamento dei team estremamente semplice e facilmente comprensibile, costituito da tre fasi, ciascuna delle quali è riconoscibile senza difficoltà in gran parte dei team. Esistono anche modelli più complessi e sofisticati, che però, secondo la mia esperienza, risultano meno pratici. Per gli scopi che il mio modello si prefigge, il numero dei membri del team può variare da poche persone agli abitanti di un intero paese. Di norma, le squadre composte da più di quindici o venti membri vengono suddivise in sottosquadre. In ogni caso, che si tratti di un unico team o di una serie di sotto-team, determinate caratteristiche non mutano.

Team a performance elevata Il mio modello si adatta perfettamente all’esercizio sulle qualità di un team che abbiamo visto nel capitolo precedente. Riproponendo le idee espresse da ciascun membro, per esempio, possiamo affermare con un buon grado di sicurezza che un team efficace e con un alto grado di performance dovrebbe presentare le seguenti caratteristiche: • Sostegno reciproco • Cooperazione • Fiducia reciproca • Adattabilità • Pazienza • Amicizia • Impegno • Coraggio • Senso dell’umorismo • Entusiasmo • Compatibilità • Altruismo

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Un team che meritasse un 10 per ciascuna di queste qualità sarebbe davvero una squadra con un alto grado di performance, anzi, sarebbe una squadra eccezionale. In che modo, dunque, possiamo condurre un team a simili livelli di efficienza? Qualcuno potrebbe rispondermi: con la giusta aichimia e mia buona dose di fortuna, mentre altri potrebbero anche non dichiararsi convinti che si tratti effettivamente di una grande squadra, in quanto ritengono che qualche frizione interna e un pò di competitività possano contribuire a generare una buona performance. Lo credono, ma forse soltanto perché non hanno mai visto niente di meglio. Per quanto rari, team come quello che auspico io esistono, tanto nello sport quanto nel lavoro.

Fortuna o buonsenso? Benché in passato alcuni team con un alto grado di performance si siano spesso formati grazie a un pizzico di fortuna, ve ne sono stati altri che si sono sviluppati progressivamente grazie agli sforzi dei loro membri e dei loro leader. Uno di questi è stata la squadra di hockey su prato della Gran Bretagna, vincitrice della medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul nel 1988. L’allenatore, o meglio il coach, che ha saputo accompagnare passo dopo passo lo sviluppo di questa squadra era David Whitaker. con cui oggi lavoro a stretto contatto nell’ambito del mondo del lavoro. Di quella squadra David era solito dire: «Sono riusciti a diventare un’unità armonica e dinamica, sempre rispettosa del particolare talento individuale che ciascun giocatore sapeva offrire alla squadra». Fasi dello sviluppo progressivo di un team Ciò che si chiede prima di tutto al leader di un team è di capire a fondo le diverse fasi attraverso cui una squadra si sviluppa progressivamente, per porsi in grado di incoraggiare e accelerare tale processo. Se chiamiamo lo stato ideale del team stadio della cooperazione, come potremmo caratterizzare le due fasi che la squadra deve attraversare prima di raggiungere tale stato di grazia, ammesso che vi riesca? Inclusione La prima fase è chiamata dell’inclusione perché è a questo stadio che i singoli stabiliscono se sono — e se si sentono di essere un componente del team. Quando si entra a far parte di un team, è piuttosto comune che si manifesti un pò di ansia e una certa introversione, benché spesso alcune persone riescano a dissimulare queste difficoltà dimostrando estroverse e tranquille e adottando quindi comportamenti di compensazione. Il desiderio di essere accettati e la paura di un possibile rifiuto sono molto forti. Chissà, forse i nostri genitori hanno cambiato

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casa quando eravamo piccoli e ci siamo trovati di colpo gettati in una nuova scuola piena di estranei. Quel ricordo risale prontamente alla nostra memoria con tutte le sensazioni allora provate: il senso di sradicamento e il bisogno disperato di trovare un amico, anche uno solo, in modo da sentirsi «integrati» nel nuovo gruppo, sentirsi come tutti gli altri e, soprattutto, benvoluti. In questa fase, i membri di un team possono non essere particolarmente produttivi a livello intellettuale, in quanto la loro attenzione è concentrata su questa preoccupazione e su bisogni di ordine emotivo. Quando esiste un team leader già designato, i membri fanno di solito riferimento a lui per essere accettati e guidati. Il loro desiderio è di conformarsi al gruppo e cercano pertanto di dimostrarsi accondiscendenti. Il tono e l’esempio dati dal leader in questa fase sono particolarmente importanti perché si trasformeranno rapidamente nella norma accettata da tutta la squadra. Se, per esempio, il leader si dimostra aperto e sincero senza nascondere le sue emozioni o addirit tura i suoi punti deboli, gli altri membri tenderanno immediatamente a imitarlo e si stabilirà così una buona prassi di relazioni interpersonali. Non va dimenticato che si tratta di un momento di insicurezza per tutti, sicché un buon leader cercherà di affrontare e risolvere le difficoltà individuali in modo che il team nel suo complesso possa procedere lungo il cammino prestabilito. Fortunatamente, per molti questa fase non si protrae a lungo, ma qualcuno può anche avere bisogno di settimane o mesi prima di sentirsi effettivamente integrato nella squadra. Quanti hanno avuto la fortuna di vivere un’infanzia che ha permesso loro di sviluppare un forte senso di sicurezza — e le persone che assumono posizioni di comando tendono a essere di questo tipo - faranno bene a dimostrarsi tolleranti e comprensivi nei confronti di chi non è stato al trettanto fortunato. Affermazione Una volta che la maggior parte delle persone sente di essere «inclusa» nel gruppo, emerge un diverso genere di dinamica, quella dell’affermazione individuale, una fase nella quale ciascun membro del team cerca di esprimere la propria personalità e di estendere il proprio «territorio». E come quando gli animali marcano il proprio territorio (almeno i maschi) e guai a chi osa entrarvi! Ci troviamo, cioè, in quella fase in cui si creano le diverse posizioni gerarchiche, il momento nel quale. secondo il linguaggio edulcorato del mondo del business, si definiscono ruoli e funzioni (ma le parole sono spesso molto più gentili della realtà dei fatti). All’interno del team esplode la competitività, che in certi casi può persino portare ad alcune singole performance di eccezionale valore, talvolta a scapito degli altri membri del gruppo. In questa fase i vari membri saggiano la propria forza e la squadra può compensare in produttività quello che ancora le manca in coesione. Si tratta di una fase dello sviluppo che riveste una grande importanza, ma che può risultare anche molto dura per il leader, dato che non mancheranno sfide apertamente lanciate alla sua leadership. Prima di

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accettare di essere in accordo con il capo, i singoli membri del team hanno bisogno di scoprire che possono anche trovarsi in pieno disaccordo con lui, hanno bisogno di esercitare all’interno della squadra la propria volontà al fine di poterla poi applicare esternamente per il bene del gruppo. Un bravo leader proporrà ai membri di assumersi precise responsabilità e li incoraggerà a farlo, soddisfacendo così il loro desiderio di affermazione personale. E’ importante che il leader permetta e accetti di essere sfidato, anche se, purtroppo, non manca chi, sentendosi minacciato, si pone sulla difensiva e tenta di affermare la propria autorità, nel tentativo di non perdere il controllo della situazione. Qui si tratta soltanto di trovare il giusto equilibrio. Chi conduce i corsi di formazione di cinque giorni per i team sperimenta spesso questa fase nel giorno in cui diviene il bersaglio designato dei membri del team (sembra che a quel punto la parola d’ordine sia «ammazza il trainer»). La fase inizia di solito verso la sera del secondo giorno, ma un buon trainer riesce di norma a «risorgere» già il terzo giorno. Se durante questa fase è in programma una presentazione da parte di un esterno, questi può vedersela brutta se per caso commette un errore, per quanto insignificante! Si tratta, tuttavia, di una componente necessaria e persino salutare della dinamica di gruppo, anche se spesso, soprattutto quando si lavora con i britannici, sempre molto compassati, tale dinamica viene tenuta nascosta per salvare le apparenze, con il risultato che si impiega più tempo per riuscire a placare le ìnevitahili tensioni. Come ho già detto, un team che stia attraversando que fase può rivelarsi piuttosto produttivo, il che può addirittura giungere a far velo a potenzialità anche maggiori, che così può diventare più difficile riconoscere. Di fatto, la maggior parte delle squadre sportive o dei team di lavoro raramente si spinge al di là ditale fase, in linea generale perché si tratta del grado di sviluppo raggiunto dalla società industriale occidentale nel suo complesso. Andare oltre, pertanto. equivarebbe a spingersi oltre il limite, anche se riuscire a farlo non è poi così difficile come comunemente si crede: grazie al coaching, naturalmente.

Cooperazione All’inizio di questo capitolo abbiamo esemplificato alcune delle caratteristiche più positive che emergono nella fase della cooperazione di un team, benché con questo non intenda dire che in tale fase per i suoi membri sia tutto rose e fiori. In realtà, il pericolo insito nella fase della cooperazione è che si accentui esageratamente l’aspetto di «amalgama» del gruppo, ostacolando di conseguenza l’emergere di qualsiasi forma di dissenso. Le squadre più produttive dispongono senza dubbio al loro interno di un alto grado di cooperazione, ma sanno mantenere nel contempo un certo livello di tensione dinamica, e un buon leader cerca di conservarla, sia pure con grande tatto. La Figura 18.1, oltre a riportare (tra parentesi) una terminologia alternativa per definire il medesimo processo di sviluppo progressivo del

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team, indica alcune delle caratteristiche che lo distinguono in ciascuna fase.

Ma ve ne sono ovviamente anche altre. Se un team si trova, per esempio, nella fase della cooperazione e uno dei suoi membri ha una giornataccia, gli altri gli si stringeranno intorno per sostenerlo. Se la cosa avviene invece durante la fase dell’affermazione, è assai probabile che gli altri membri si limitino a compiacersi per l’eliminazione di un concorrente. Se poi questo succede nella fase dell’inclusione, ben pochi se ne accorgeranno o se ne preoccuperanno. D’altro canto, se un team si trova nella fase della cooperazione e uno dei suoi membri riscuote un successo personale, gli altri si uniranno alla sua felicità, mentre se la squadra è nella fase dell’affermazione, negli altri membri potrebbe nascere un sentimento di autentica invidia nei suoi confronti. Se poi questo avviene nella fase dell’inclusione, gli altri membri potrebbero addirittura sentirsi minacciati. La gerarchia dei bisogni di Maslow Abbiamo analizzato piuttosto a fondo il modello elaborato da Maslow quando abbiamo parlato di motivazione (Capitolo 13). I tre bisogni più elevati che Maslow individua nello sviluppo personale corrono paralleli al modello di sviluppo progressivo di un gruppo. Un team composto di individui che stanno realizzando il proprio Io — trovarli! — è in grado di

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raggiungere rapidamente le vette della cooperazione con risultati eccellenti. Un team formato invece da individui che cercano di sviluppare la propria autostima offrirà ottime performance a livello individuale, anche se i vari membri tenderanno a fare ciascuno «il proprio lavoro». Quelli che invece sono alla ricerca di apprezzamenti da parte degli altri finiranno inevila bilmente per innescare una forte competitività con i compagni di squadra, il che creerà senza dubbio qualche grande performance ma anche più di uno sconfitto. Un team composto da persone alla ricerca di un senso di appartenenza al gruppo, infine, si dimostrerà condiscendente e pieno di attenzioni reciproche, ma più a parole che nei fatti. Le demarcazioni fra queste tre fasi sono, naturalmente, permeabili e sovrapponibili e sia la situazione sia la condizione della squadra sono soggette a notevoli fluttuazioni, soprattutto quando uno dei membri viene sostituito per un qualsiasi motivo. Macrocosmo Credo comunque che, in base all’esperienza direttamente acquisita sul lavoro o praticando uno sport di squadra, ben pochi lettori non riusciranno a riconoscere queste diverse fasi e le loro caratteristiche. Un esempio particolarmente stimolante in tal senso è quello che potrei trarre dal macrocosmo della nostra società industriale occidentale, che sta vivendo gli ultimi momenti della fase dell’affermazione e mostra i primi segnali della cooperazione (maggiore sensibilità ecologica, sviluppo dell’integrazione europea eccetera). Il crollo dell’impero sovietico è stato l’inevitabile risultato di un goffo tentativo di forzare la società sovietica nella fase della cooperazione senza però permettere lo sviluppo organico della fasi precedenti. I tentativi di ridisegnare la mappa dell’Europa orientale e di altre regioni del globo appaiono come una chiara manifestazione di un temporaneo scivolamento nella fase dell’inclusione, anche se in alcuni casi i fattori determinanti sono addirittura la sopravvivenza e la sicurezza. Se accettiamo dunque l’idea che uno sviluppo progressivo di questo genere sia comune a tutti i team, di qualsiasi tipo e dimensione, ne deriva che abbiamo la facoltà tanto di resistere — e quindi ritardare — a tale sviluppo quanto di promuoverlo e accelerarlo. In che modo il coach può facilitare o accelerare il processo schematizzato nella figura seguente ?

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I team oggi Potremmo dire che, all’alba del ventunesimo secolo, ottenere il meglio da un team sembra ancora più difficile. Tra le molteplici ragioni, indico le seguenti: • Le persone non lavorano più in gruppi stabili ma in squadre che si formano e si riformano continuamente. • Alcuni team sono sparpagliati al di là di confini geografici, il che rende i contatti meno frequenti e più problematici. • I margini di tempo in cui ci si aspetta che un team si formi, raggiunga la necessaria coesione e offra una performance adeguata agli obiettivi sono molto più ridotti che in precedenza. • Le sfide stesse che si ripetono all’interno del mondo del lavoro sono diventate molto più complesse. Non tutti i gruppi di persone che collaborano devono necessariamente dare vita a un team per conseguire i loro obiettivi. La conseguenza è che al coaching spetta un ruolo di assoluto rilievo nell’aiutare le persone a lavorare bene insieme. Il coaching può, per esempio, essere di grande aiuto per chiarire se e quando le persone hanno bisogno di costituirsi in un team. Tanto i gruppi quanto i team veri e propri rappresentano un modo valido di lavorare e il coaching può facilmente applicarsi a entrambi. Nel prossimo capitolo vedremo in che modo può essere meglio utilizzato con i team.

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CAPITOLO 19 COACHING E TEAM Si dice che un manager abbia unicamente due funzioni da svolgere: fare in modo che il lavoro sia eseguito e curare lo sviluppo dei suoi collaboratori. Come ho già sottolineato in precedenza, troppo spesso i manager sono a tal punto occupati nello svolgimento della prima di queste funzioni da trascurare per forza di cose la seconda. Quando però lo stile di management è permeato dalla tecnica del coaching, le due funzioni vengono a coincidere, fondendosi insieme. Lo stesso avviene con i team: quando una squadra è diretta secondo le regole del coaching, il lavoro viene eseguito bene e allo stesso tempo si sviluppa il team. In questo capitolo, tuttavia, analiz zeremo i due momenti separatamente: l’applicazione del coaching per migliorare la performance di un team e quella per promuoverne lo sviluppo. La performance Un’applicazione del coaching a un team per migliorarne la performance si basa sugli stessi principi che intervengono allorché il coaching viene applicato a un singolo individuo: più un team acquisisce consapevolezza, sia individualmente sia collettivamente, migliore sarà la sua performance. Immaginiamo che una squadra di lavoro stia affrontando un nuovo compito. Il responsabile del team, che normalmente viene individuato con il termine «leader», può applicare coaching collettivamente ai vari componenti del gruppo ponendo loro determinate domande. Se si tratta di un team di una certa dimensione, il leader può porre inizialmente alcune domande e suddividere quindi la squadra in gruppi di due tre persone, invitandole a discutere tra loro le risposte date successivamente a riferire le conclusioni all’intero team. In questo caso, allo scopo di stimolare nuove idee, egli può mescolare tra loro anche persone che svolgono normalmente mansioni diverse. Il leader può a sua volta unirsi a uno de sottogruppi. In questo modo i vari componenti della squadra avranno l’opportunità per formulare i loro diversi obiettivi e offriranno il necessario input per una chiara comprensione della realtà. Successivamente, le risorse e le idee della squadra verranno utilizzate per un brainstorming sulle possibili opzioni, fino a concordare un piano d’azione che verrà portato avanti grazie alla volontà collettiva del gruppo. Ovviamente, il leader non si limita a porre le domande previste dal coaching, ma offre anche il proprio input specifico ogni volta che lo ritenga necessario. Un procedimento di questo tipo richiede un po’ più di tempo di un normale briefing prescrittivo per un team, ma, grazie alla combinazione di tutte le risorse del gruppo e l’ acquisizione di consapevolezza e responsabilità da parte dell’intera squadra che esso garantisce, è in grado di produrre performance incomparabilmente superiori.

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In determinate situazioni, il leader può applicare il coaching contemporaneamente all’intero team, per esempio quando è necessario rivedere e valutare l’esecuzione di un lavoro svolto in precedenza. In questo caso, egli può riunire membri della squadra sollecitandoli a rispondere alle sue domande mirate, ma può anche scegliere di chiedere risposte scritte, per consentire a ciascun membro di analizzare con maggior profondità il proprio contributo al lavoro svolto col lettivamente. Le domande potrebbero essere come le seguenti: • Quale parte del lavoro vi è risultata più difficile/più lunga/più stressante? • Quanto tempo ha richiesto la sua realizzazione? • Quali difficoltà ha presentato? • Che cosa modifichereste la prossima volta? • Chi dovrete informare dei cambiamenti che intendete ap portare? • Che tipo di aiuto vi occorrerà? Da parte di chi? In che modo pensate di ottenerlo? • Se applicherete il cambiamento, in che modo esso potrebbe influenzare il risultato/gli altri/la qualitàli tempi del lavoro? Ciascun membro della squadra può poi mettere gli altri a parte delle sue conclusioni e risolvere così eventuali conflitti derivati dai cambiamenti introdotti. Si tratta di un procedimento minuzioso, che mette in luce ogni dettaglio, assicura la massima chiarezza, mobilita tutte le risorse del team e favorisce il coinvolgimento e l’impegno individuale, creando nel contempo autostima e motivazione interiore. Ci sono manager che considerano tutto ciò, nel migliore dei casi, superfluo, quando non una vera e propria sciocchezza. Alcuni di loro continueranno immancabilmente a pensare che nel lavoro cose come partecipazione, coinvolgimento, autostima, condivisione delle responsabilità, gratificazione e qualità della vita siano lussi che non è sempre possibile concedersi e che, alla fin fine, contribuiscono poco o nulla al miglioramento della performance. Forse gli argomenti che offro in questo libro non riusciranno di per sé a convincerli, ma con il passare del tempo ci riuscirà, ne sono certo, il semplice fatto di constatare la loro incapacità a creare team efficienti e la crescente disaffezione verso il lavoro e l’azienda da parte dei loro collaboratori. Esercitare il coaching con l’esempio Per un manager che diriga un team la cosa più importante e stabilire con i suoi membri il «giusto» rapporto fin dal primo momento, perché il suo comportamento verrà preso a modello dai componenti del team per il loro comportamento: essi, infatti, tenderanno a emularlo, anche se da principio, durante la fase dell’inclusione, lo faranno anzitutto per conquistarsi la sua approvazione.

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Se il manager desidera avere una squadra onesta e sincera, dovrà lui stesso dimostrarsi fin da subito onesto e sincero: se vuole che i membri del team abbiano fiducia in lui e nei colleghi, dovrà essere lui il primo a dimostrare di avere fiducia in loro e di esser degno della loro fiducia; se reputa utile l’instaurarsi di contatti sociali fra i membri del team anche al di fuori del lavoro, dovrà essere lui il primo a favorirli e a prender parte agli incontri. Poiché la maggior parte delle persone e dei team si aspetta ancora un management di tipo autocratico, molti potranno restare sorpresi e sentirsi persino disorientati da un manager che esordisce in un tono partecipativo, anzi, agli occhi di qualcuno potrebbe addirittura apparire debole e insicuro. E consigliabile pertanto che sia il manager stesso a prevenire tali dubbi, chiarendo fin dal primo giorno a quale stile di management egli intenda attenersi e chiedendo ai membri della squadra la loro opinione in proposito. Il leader deve inoltre essere molto chiaro in merito alla sua precisa volontà di investire tempo ed energie per lo sviluppodel team, sottolineando che non punta soltanto alla mera esecuzione di un certo lavoro nei tempi preventivati, ma anche a creare rapporti e performance di qualità e di lunga durata. Se il manager si limiterà a una professione verbale dei principi su cui si fonda la creazione di un team valido, ciò che otterrà in cambio sarà certamente poco. Ciò che veramente paga è soltanto la completa dedizione allo sviluppo progressivo del team. Il coaching è lo strumento essenziale sia per dirigere sia per sviluppare un team. La rivista Management Today riporta una frase di Peter Lenney, direttore generale di Courtaulds Coatings, destinata a diventare una sorta di assioma per tutte le aziende: «Se non si è dei bravi coach, non si è neppure dei bravi manager». Concordo pienamente. David Kenney, direttore della divisione Management Developnient di Boots the Chemist, afferma che una parte della sua missione consiste «nel fare in modo che il cento per cento dei nostri manager si comporti come un perfetto coach». L’applicazione del coaching ai team Il modello di sviluppo del team, di cui abbiamo trattato nel capitolo precedente. costituisce una base eccellente per l’applicazione del coaching. Un manager o un coach che abbiano capito che i team offrono le loro performance migliori una volta che abbiano raggiunto la fase della cooperazione ricorreranno al coaching con la loro squadra al completo oppure con i singoli membri per accelerare il progresso attraverso le diverse fasi. Se l’obiettivo pret’issato è, per esempio, quello di portare al più presto la squadra nella fase della cooperazione mentre la realtà è che la medesima squadra si trova ancora in una zona intermedia, compresa tra le fasi dell’inclusione e dell’affermazione, occorre chiedersi quali siano le opzioni a disposizione e che cosa fare.

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Le opzioni per realizzare la cooperazione del team Il seguente elenco di opzioni contiene le risposte che i partecipanti ai miei programmi di team building hanno dato alla domanda che ci siamo testé posti. • Discutere e concordare un insieme di obiettivi comuni al team. È un’operazione da affrontare nell’ambito del team, indipendentemente dall’obiettivo esterno che l’azienda gli ha assegnato. C’è sempre spazio per qualche cambiamento e per decidere come realizzare l’obiettivo. Ciascun membro viene invitato a offrire il proprio contributo nonché ad aggiungere eventuali obiettivi personali che possano rien trare in quelli complessivi della squadra. • Elaborare un insieme di regole fondamentali o di criteri operativi che risultino accettabili per tutti membri de team e ai quali tutti abbiano dato il proprio contributo. Ciascun membro dovrebbe accettare di rispettare tali regole o criteri, anche nel caso che questi non lo soddisfino al cento per cento. Se un membro desidera che vengano prese in considerazione alcune sue richieste personali, è essenziale che sia disposto a rispettare anche quelle degli altri. Il complesso delle regole di base andrebbe regolarmente verificato per accertarne il rispetto o l’eventuale esigenza di modifiche o aggiornamenti. Se tutte le parti coinvolte accettano le regole e dimostrano la ferma intenzione di rispettarle, eventuali scorrettezze o trasgressioni non andrebbero rimarcate con eccessivo rigore, a meno che non diventino frequenti. Molti dei suggerimenti che seguono potrebbero essere considerati come regole, ma preferisco inserirli nell’elenco delle possibili opzioni. Riservare del tempo, a cadenze regolari (di solito in coincidenza con le

riunioni del team), per lavorare sugli aspetti del processo. È in questi momenti che si rivedono le regole di base, si rivolgono elogi o si esprimono lamentele, si utilizza il confronto per creare un’atmosfera di franchezza e di reciproca fiducia. Sono i momenti in cui i membri della squadra diventano persone e non semplici ruote di un ingranaggio produttivo. In questo momenti andrebbe bandito ogni discorso inerente lo specifico lavoro che il team sta svolgendo. • Vagliare l’opinione di ciascun membro in merito alla possibilità di fissare dei momenti di pura socialità da trascor rere tutti insieme. Qualora vengano programmati degli in contri. occorre rispettare l’eventuale desiderio di un mem bro della squadra di non parteciparvi o per impegni prece dentemente presi o per la volontà di trascorrere più tempo con la I Questi, d’altro canto, deve sapere e accet tare che la sua scelta può tradursi in una certa sensazione di isolamento. • Prevedere forme di sostegno e di aiuto, anche in forma riservata, se richiesto, nel caso insorgano problemi o preoccupazioni personali. Se i momenti di verifica del processo non possono essere frequenti a causa della distanza geografica o per altre ragioni, è possibile organizzare una forma di «supporto amichevole» per cui ciascun membro del team, qualora avverta il bisogno di uno sfogo, possa rivolgersi a un altro dei componenti del gruppo in veste di amico. È possibile risolvere in questo

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modo problemi di minore importanza, evitando così di sprecare tempo prezioso durante gli incontri di verifica. • Definire e realizzare una qualche tbr,na di attività in co mune esterna al lavoro. Alcuni team hanno scoperto che una qualche attività di gruppo, sportiva o di altro genere, ma sempre esterna al luogo di lavoro, può costituire un momento di particolare aggregazione. Ricordo un team che decise di effettuare l’adozione a distanza di una bambina, garantendole una buona istruzione scolastica con il versamento mensile di un piccolo contributo. I membri del team sentivano che quella bambina di un lontano paese in via di sviluppo avesse fatto per loro ben di più di quanto essi non avessero fatto per lei. Apprendere insieme qualcosa di nuovo. Questa opzione sembra in

parte analoga alla precedente, ma è più orientata verso il contenuto del lavoro. Vi sono team che hanno de iso di apprendere la tecnica del coaching o una lingua straniera, oppure di frequentare insieme un corso inerente al lavoro stesso. Ne può nascere persino una salutare forma di competizione con altri team appartenenti alla stessa azienda. •Fare insieme l’esercizio sulle «qualità». I rapporti interni di un team possono trarre notevole beneficio allorché i suoi membri si impegnano nel praticare possibili varianti all’esercizio sulle «qualità» di cui ho parlato nel Capitolo 17. Così facendo, infatti, si possono mettere in luce e sviluppare determinate qualità. L’esercizio riesce inoltre a creare piuttosto rapidamente tra i membri della squadra un senso di fiducia, di comprensione reciproca e di franchezza. La sua utilità è tale che può essere ripetuto regolarmente (per esempio ogni due incontri di valutazione del processo), nella forma da noi suggerita o in altre varianti ad hoc. •Discutere in gruppo il modo in cui ciascun membro singolarmente o il team nel suo complesso percepisce il significato e lo scopo di quanto si sta facendo. Questo è nel contempo più ampio e più profondo di una definizione degli obiettivi. Si tratta di un momento di particolare importanza, in quanto, come abbiamo visto, a muovere le persone sono proprio il significato e lo scopo, mentre la loro mancanza conduce a forme di immobilismo, alla depressionee, in molti casi, a un deterioramento della salute. Acquisire una maggiore consapevolezza di qualcosa che investe il nostro io così in profondità da non esserne spesso coscienti non può che dare significato alla nostra vita e migliorarne la qualità. Ognuno di questi suggerimenti o opzioni può essere fatto proprio da ogni team che basi il proprio modus operandi sulla tecnica del coaching. Il gruppo può essere indirizzato a seguire uno o più di questi suggerimenti dal manager che lo dirige, fermo restando che la decisione ultima spetta sempre ai suoi membri e deve essere assunta in modo democratico (oltre, naturalmente. al fatto che tale decisione deve essere ben definita e formalizzata nei modi indicati nel Capitolo 10). Non dimenticate che l’applicazione del coaching per migliorare la performance di un team, analogamente a quella del singolo individuo, si

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basa non sull’imposizione bensì sulla crescita della consapevolezza e della responsabilità, tanto individuali quanto collettive.

CAP. 20 SUPERARE GLI OSTACOLI AL COACHING Abbiamo esaminato il contesto in cui si svolge la pratica del coaching, il suo valore e la sua logica inconfutabile. Non c’è nessuna mistica attorno al coaching, anzi, si tratta di una tecnica facile, anche se non la si può apprendere interamente da un libro, nello stesso modo in cui da un libro è impossibile imparare concretamente a guidare un’automobile o a mandare in buca la pallina cia golf. Come ogni forma di competenza, esso richiede molto esercizio e, se quest’ultimo viene fatto con impegno, consapevolezza e responsabilità, non occorre molto tempo per diventare esperti e trasformarsi in un coach capace di mettere in pratica la sua tecnica in tutta tranquillità, godendone i risultati. Una nuova visione degli altri Ad alcune persone il coaching richiede e causa un cambiamento radicale nel modo di percepire se stessi e gli altri, siano questi colleghi, subordinati o concorrenti. C’è una bella differenza tra il vedere negli altri le potenzialità per diventare molto bravi nel loro campo di attività — esattamente come quella famosa ghianda di cui parlavamo — e continuare invece ad avere quella percezione, tanto diffusa quanto obsoleta, degli altri come contenitori vuoti destinati a restare senza valore fino a che non interviene un input dall’esterno. Un cambiamento del genere può richiedere parecchio tempo, oppure realizzarsi con la rapidità di una rivelazione. Comunque sia, ancor prima che tale svolta abbia luogo e mentre la filosofia che lo sorregge può ancora apparire estranea e misteriosa, è possibile elevare la performance a notevoli livelli di efficacia attenendosi semplicemente ai principi di un coaching svolto correttamente (che è appunto l’oggetto di questo libro). Occorre comunque ricordare che non si naviga mai in acque così tranquille e che lungo il cammino potrete incontrare qualche barriera. L’ostacolo maggiore è forse rappresentato dalle persone «difficili», quelle che fanno dire al coach: «Co me posso esercitare la tecnica del coaching con individui del genere?» E una domanda che mi viene posta frequentemente, ma più per timore e prevenzione che in seguito a reali esperienze negative. Se sappiamo presentare il coaching con il tatto necessario, esso viene spesso accettato senza difficoltà o persino accolto con entusiasmo, il che, in ogni caso, non significa che tutti ci riescano in quattro e quattr’otto: qualsiasi cambiamento nella condotta di un manager viene visto da alcuni con sospetto e può anche innescare qualche resistenza.

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Ho già accennato in precedenza a quanto sia più facile apprendere qualcosa di nuovo (i fondamenti alla base del coaching) che abbandonare qualcosa di vecchio e superato (il vecchio sistema prescrittivo). Siamo condizionati da una lun ga esperienza di prescrittività, agita e subita. L’abitudine, persino l’attesa direi, e quindi il desiderio di ricevere un comando sono così radicati in noi che spesso dimentichiamo benefici che potremmo ricavare se, anziché impartirci ordini, ci rivolgessero delle domande. Non è una cattiva cosa spiegare e ricordare a coloro che dirigiamo quali benefici possono ricavare dal coaching: imparare a pensare con la propria testa, acquisire una maggiore consapevolezza di tutto ciò che può migliorare la nostra performance, apprendere cose nuove e divertirsi allo stesso tempo, avere più possibilità di scelta, un maggiore senso di responsabilità, più fiducia in se stessi e più opportunità di avanzamenti di carriera, oltre alla possibilità di imparare a esercitare il coaching su noi stessi e sugli altri, sia sul lavoro sia nella vita di ogni giorno. E’ facile constatare come i benefici siano davvero molteplici, eppure possono insorgere ugualmente delle resistenze. Ma a che cosa esattamente la gente tende a opporre resistenza? Al cambiamento, prima di tutto, e alle domande a cui è richiesta di rispondere. Quando i nostri genitori ci rivolgevano una domanda, di solito era perché ne avevamo combinata qualcuna delle nostre. Erano domande del tipo: «Si può sapere perché hai fatto una cosa simile?» alle quali non c’era risposta che potesse metterci al riparo da una bella ramanzina: la formulazione stessa della domanda ci diceva che ormai eravamo nei guai. Quando ci facevano delle domande i nostri insegnanti era per verificare se avevamo studiato la lezione o se eravamo attenti. Comunque fosse, era importante dare la risposta giusta ed è per questo che le domande vengono percepite di per se stesse come una minaccia.Non sorprende pertanto che su certe persone le domande previste dalla tecnica del coaching abbiano un effetto intimidatorio,per cui spetta al coach farle sentire a loro agio, gua dagnarsi la loro fiducia ed evitare qualsiasi commento anche solo vagamente critico sulle risposte. Può anche essere di aiuto spiegare e dimostrare semplicemente che lo scopo delle domande previste dal coaching è quello di aumentare la consapevolezza e non certo di sottoporre l’interlocutore a un qual che tipo di test o interrogatorio. Raramente esistono risposte «giuste» alle domande del coaching: ci sono soltanto risposte oneste. Quando le resistenze permangono, significa che l’allievo si sta opponendo al conseguimento di maggiori consapevolezza e responsabilità, probabilmente perché avverte che entrambe lo costringeranno a uscire dalla confortevole nicchia in cui si è rifugiato. La sua paura può essere quella di trovarsi costretto dalle domande a rivelare a se stesso e agli altri i fantasmi che teme si celino nella sua psiche: è possibile, per esempio, che durante l’infanzia abbia subito dei condizionamenti che lo hanno indotto a dissimulare emozioni o altre debolezze per evitare che clualcuno potesse avvantaggiarsene e prendere il sopravvento.

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Comunque sia, per quanto possa essere persino irritante questo tipo di ossessione, il miglior modo di procedere è quello di dimostrarsi pazienti e comprensivi. Vi possono essere ovviamente delle persone «difficili» sotto molti aspetti, per esempio a causa di una profonda ostilità nei confronti dell’azienda o del manager o anche, per chissà quale ragione, verso gli altri in generale. Il quadro più frequente è quello dell’impiegato che si dimostra semplicemente riluttante a qualsiasi iniziativa e punta unicamente a fare il minimo indispensabile per tirare avanti: «Questo è tutto quello per cui mi pagano. Non mi si chieda di spremermi il cervello per chissà cosa. Lo faccia lei, che è il capo ed è pagato per questo». Si tratta di un atteggiamento particolarmente difficile da cambiare, fermo restando che l’elemento chiave di tutto è che le persone di questo tipo non possono certo apprezzare la loro vita professionale. L’unica strada da percorrere è probabilmente un approccio molto «soft», che aiuti queste persone a scoprire che. cooperando con il coaching, la qualità della loro vita sul posto di lavoro può migliorare. Un bravo coach deve introdurre le domande in modo così graduale che l’interlocutore non si accorga neppure di essere effettivamente sottoposto ad attività di coaching. A dire il vero, infatti, con questo tipo di persona non vi trovate ancora nella fase vera e propria del coaching, ma vi limitate semplicemente a fare qualche domanda in più del solito. Gli ostacoli al coaching che mi appresto a illustrare sono una sintesi di quelli di volta in volta individuati dai partecipanti ai nostri programmi. L’elenco riporta i diversi ostacoli come realmente esistenti, anche se in molti casi si tratta di deduzioni o pregiudizi del manager o potenziale coach. Ovviamente, il fatto stesso che costoro li percepiscano come reali li fa diventare tali a tutti gli effetti fino a che non vengono interpretati e riconosciuti come manifestazioni di una preoccupazione del tutto personale al cui interno si cela una qualche verità. Ho suddiviso le «barriere» in due categorie, quelle interne e quelle esterne, esattamente come tendono a distinguerle i partecipanti ai nostri corsi. Mi limiterò a un breve commento su ciascuna di esse. Barriere esterne

La nostra cultura aziendale è contraria a un approccio di questo tipo.

Contraria lo è di certo, almeno in una certa misura, altrimenti sareste stati introdotti alla pratica del coaching già molto tempo fa. La filosofia del coaching fa parte di quella nuova cultura aziendale che persone illuminate all’interno dell’azienda stanno cercando di creare, mentre altre preferiscono cullarsi in una monotona illusione di sicurezza perpetuata dalla rigorosa osservanza dello status quo. Un numero crescente di aziende, tuttavia, sta giungendo alla conclusione che la loro sopravvivenza futura potrebbe dipendere da un cambiamento da

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attuarsi hic et nunc e che lo status quo è in realtà l’alternativa più rischiosa.

La gente guarda con cinismo ogni nuovo tipo di approccio E’ vero, qualche persona probabilmente lo sarà, soprattutto se la comunicazione all’interno dell’azienda non è stata delle migliori. La cosa importante è ripetere che voi intendete agire modo diverso e spiegame chiaramente il perché.

Nessuno capirà che cosa sto facendo e non si fideranno di me.

Idem come sopra.

Quando sapranno che sono stato a questo corso, mi daranno qualche settimana perché io torni alla «normalità».

Idem come sopra.

Penseranno che si tratti di nient’altro che un nuovo trucco del management

Spiegate loro che non si tratta di un trucco ma della necessità di migliorare sia la performance sia i rapporti interpersonali. Capiranno presto da soli che non si tratta di un trucco, a meno che non siate voi i primi a pensarla così.

Richiede troppo tempo, e quando lo trovo io il tempo per fare il coach?

Tutto dipende da quando fate partire il timer e da quando lo fermate. Lì per lì, sembra molto più rapido limitarsi a ordinare ai collaboratori quello che devono fare, ma se loro se lo dimenticano un istante dopo e voi dovete nuovamente dirlo... e poi ancora ripeterlo.., e ancora, oppure dovete continuamente alitare loro sul collo, che cos’è che alla fine richiede più tempo?

Permettetemi a questo punto di citare le parole di un manager che ricorre abitualmente al coaching, Cameron Burness, direttore di uno degli stabilimenti ICI Pharmaceuticals: “ Non c’è nulla che io faccia che non sia sostanzialmente rivolto a tenere alta la performance. Ricorro al coaching come a uno strumento per mantenere i miei dipendenti a un livello che mi permetta di delegare a loro ciò che altrimenti sarei costretto a fare io. Considero il tempo speso

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per il coaching come un autentico investimento, il cui profitto è costituito dal tempo di gran lunga maggiore che posso dedicare a me stesso proprio grazie alla possibilità di delegare agli altri. Se c’è un incendio non esito a urlare: «Tutti fuori!» Ma sarò sempre impegnato a spegnere incendi se non ricerco attivamente le occasioni per far crescere le mie persone attraverso il coaching”.

Si aspettano che vengano loro impartiti ordini precisi Se prima non si è fatto altro che impartire loro degli ordini, è ovvio che i dipendenti si aspettano di sentirne altri, ma preferire di sentirsi dare degli ordini non è esattamente la stessa cosa.

Vogliono ricevere ordini, non avere responsabilità Se alle persone non è mai stato permesso di assumersi le proprie responsabilità — prima dai genitori, poi a scuola e infi ne al lavoro — è naturale che questo le possa spaventare, come con ogni cosa nuova. Sotto la superficie, tuttavia, la maggior parte di noi desidera ardentemente sentirsi responsabile, in parte perché questo ci offre una certa misura del nostro valore. Le persone che ritengono di avere scarso valore possono incontrare difficoltà ad assumersi delle responsabilità. Si rischia di restare intrappolati in un circolo vizioso, ma il coaching è il modo migliore che io conosca per aiutare a venirne luori. Ecco a tale proposito alcune delle domande mirate che io ritengo più importanti: • Che cosa vorrebbe ricavare dal tuo lavoro, oltre naturalmente allo stipendio? • Che cosa significa per lei la responsabilità? • In questo preciso istante avverte il peso della responsabilità? • La responsabilità è sempre un peso per lei? • Secondo lei, che cos’è che piace di più alle persone riguardo al sentirsi responsabilità? • Di che cos’altro è responsabile nella sua vita? • Che cos’è che la spaventa? • Che cosa potrebbe fare per superare questi timori? • Di che cosa vorrebbe assumersi la responsabilità? • Acconsentirebbe ad assumersi maggiori responsabilità per una settimana’? Già soltanto la risposta a queste domande costituisce un’assunzione di responsabilità, se non altro rispetto alle risposte e alle scelte che ne conseguono. Ma se non sarete voi, in quanto manager, ad aiutare i vostri collaboratori ad assumersi delle responsabilità, chi altro mai potrà farlo? E potreste davvero dirvi soddisfatti di una performance ridotta il minimo offerta da persone che rifiutano di assumersi qualsiasi responsabilità?

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Penseranno che sono ammattito Certo, potrebbero proprio pensare così! allora? La follia è così affascinante e irresistibile! Basta spiegare come stanno le cose.

Perderò tutta la mia autorità Un manager che dirige i propri sottoposti seguendo la tec nica del coaching guadagna rispetto tanto da parte degli altri quanto di se stesso, il che è assai più gratificante che cullarsi nell’illusione di detenere quel potere che puntella gli autocrati, fino a quando svaniscono nel nulla o precipitano dalle loro false vette.

Io sono un esperto in questo campo e loro mi rispettano in quanto tale, e soprattutto si aspettano da parte mia un input preciso

La vostra perizia tecnica sarà ancora preziosa, cambierà soltanto il modo in cui la userete. Vi dà fastidio che gli altri ne acquisiscano una parte ? Dispensate la vostra conoscenza a piccoli pezzi, in modo che nessuno riesca a saperne abbastanza da poter minacciare la vostra posizione? O volete invece incoraggiare i vostri aspiranti successori ad appoggiarsi proprio a voi?

Il mio stile di management è già improntato al coaching. Non ho bisogno di cambiare alcunché

Questo è il classico modo per evitare ogni cambiamento: dire che già lo state facendo. Queste persone conoscono di solito una versione alquanto ridotta del coaching per di più sepolta chissà dove in fondo alla cassetta dei loro attrezzi manageriali. Per sapere se davvero praticano il coaching, provate a domandarlo ai loro sottoposti! Ma fate attenzione, potrebbe trattarsi anche di un vostro ostacolo interno. Perciò procediamo oltre. Barriere interne

Non mi sembra niente di nuovo; lo faccio da anni Se questa è la vostra arrogante risposta, siamo sicuri che non lo state affatto facendo!

Ho qualche timore, non credo che riuscirei a farlo bene Certo, senza una buona pratica non ci riuscirete, e l’autocoaching è la tecnica meno rischiosa da cui cominciare. Provate ad applicarla mentre giocate a calcetto con la vostra squadra, oppure con vostro figlio o vostra figlia. Sul lavoro ci saranno senza dubbio persone o team con i

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quali risulterà più facile agire in termini di coaching: cominciate con quelle, e dite loro quello che state facendo.

Finirò per impappinarmi e non saprò che domande fare Questo non accadrà se vi atterrete alla regola fondamentale del coaching: ascoltare e osservare l’allievo, seguendo attentamente il suo percorso mentale e i suoi interessi. Sarà lui stesso a indicarvi quali domande fare. Non dimenticate mai che non siete un istruttore tecnico e che il vostro scopo è quello di accrescere la consapevolezza. Cercate di tenere la cosa semplice: l’intero processo nonj è altro che una serie di varianti allo schema seguente: Che cosa volete raggiungere? Obiettivo Che cosa sta accadendo? Realtà Che cosa potreste fare? Opzioni Che cosa farete? Volontà

Non otterrò gli stessi risultati che ottengo con il mio vecchio metodo

No, certo che non saranno gli stessi: saranno di gran lunga migliori !

Il metodo che seguivo prima funzionava! Perché dovrei cambiarlo?

Perché la vostra stessa sopravvivenza — e con voi quella della vostra azienda — potrebbero dipendere strettamente da una performance più elevata e da una migliore qualità della vita sul lavoro.

Io non ho molta fiducia in questo nuovo approccio «soft» Peccato. Avete mai provato a usarlo?

L’ unica cosa che motiva realmente le persone è il denaro Ampi studi condotti di recente dimostrano che questo non è del tutto vero, ma potrà sembrarlo fino a che non imparerete a offrire alle persone qualcosa di più significativo. Si veda a tale proposito il Capitolo 13. Altre barriere interne Adesso provate ad aggiungere un vostro elenco di barriere esterne, facendo però precedere ognuna di esse dalla frase. «La mia convinzione è che...»: questo non perché io pensi che le barriere esterne identificate

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da voi siano fittizie, ma perché dovreste sforzarvi di riconoscere che non poche di esse sono in realtà barriere interne. Tutti noi preferiamo credere che il problema siano sempre gli altri: in questo modo ci mettiamo dalla parte della ragione e ci risparmiamo qualsiasi cambiamento da parte nostra. Tale atteggiamento indica anche, però, che ci troviamo in un vicolo cieco, dal momento che gli altri non li possiamo certo cambiare. Se riusciamo ad ammettere che sono nostre resistenze quelle che noi proiettiamo sugli altri, troveremo la forza per cambiare le cose, visto che a questo punto avremo su di esse un reale controllo! Si tratta semplicemente di un altro esempio di consapevolezza di noi stessi e della nostra disponibilità ad assumerci la responsabilità di essere noi in prima persona a condurre il processo che creerà una migliore performance manageriale.

Abbandoniamo i vecchi schemi Per quanto i nuovi metodi possano essere migliori, è sempre difficile risolversi ad abbandonare i vecchi simboli della nostra sicurezza. Eppure, la necessità di apprendere e adottare nuovi comportamenti esige che abbandoniamo i vecchi schemi. Lo schema e le competenze del coaching sono semplici e relativamente facili da imparare; è invece assai più difficile abbandonare la vecchia e consolidata abitudine di dare ordini e tenere tutto e tutti sotto controllo. Sono dell’avviso che, anziché iniziare subito a insegnare cose nuove, risulti spesso più produttivo prendere tempo e impegnarsi affinché le persone riescano ad abbandonare quelle vecchie. Una volta che l’avranno fatto, il nuovo finirà impetuosamente per riempire il vuoto che si è creato. Rimuovete le barriere e vedrete emergere le potenzialità nascoste. Il coaching, in fin dei conti, è un talento naturale che forse non ha neppure bisogno di essere insegnato: è sufficiente aprirsi a esso. Genitori amorevoli, che non hanno mai imparato la tecnica del coaching, la applicano con notevole efficacia nei momenti più svariati con i loro figli, da quando imparano a legarsi i lacci della scarpe a quando devono fare i compiti di matematica. Usano il coaching con i figli perché li amano e hanno a cuore la loro crescita e la loro educazione. Se a un manager stessero un pò più a cuore i suoi collaboratori, anch’egli riuscirebbe a servirsi del coaching in modo naturale. Se ai massimi dirigenti di un’azienda stessero un po’ più a cuore i loro manager anziché soltanto i risultati di bilancio, anche loro saprebbero applicare il coaching (e il bilancio non avrebbe più bisogno di tante attenzioni).

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CAP. 21 I MOLTEPLICI BENEFICI DEL COACHING

Quali sono, dunque, i benefici offerti dal coaching, in contrapposizione al vecchio metodo del comando gerarchico? E quali benefici può trarre un’azienda adottando quella che io definisco la «cultura del coaching»? Migliore performance e produttività È lo scopo numero uno, e il coaching funziona ottimamente proprio in tal senso. Il coaching ottiene il meglio sia dai singoli individui sia dai team, qualcosa cui il vecchio metodo di comando non ha mai neppure aspirato. Lo sviluppo del personale Come ho già avuto modo di ribadire, lo sviluppo individuale dei dipendenti non si esaurisce nell’inviarli di tanto in tanto a un corso di formazione. Sarà il modo in cui voi li dirigerete che favorirà la loro crescita oppure la impedirà. Sta a voi. Un migliore apprendimento Il coaching equivale a una forma di apprendimento rapido, senza perdite di tempo. Si rafforzano inoltre i momenti di puro divertimento e si facilita la memorizzazione di quanto si è appreso. Migliori rapporti interpersonali L’atto stesso di rivolgere una domanda a una persona conferisce un preciso valore a quest’ultima e alla sua risposta. Se mi limito a impartire verbalmente degli ordini, non c’è alcuno scambio, potrei parlare a un muro con lo stesso risultato. Una volta ho chiesto a un giovane tennista, un ragazzo poco loquace ma molto promettente, che cosa pensava che ci fosse di buono nel suo diritto. Mi fece un sorriso e rispose: «Non saprei. Nessuno prima ha mai chiesto la mia opinione ”. E quella risposta mi spiegò tutto. Una migliore qualità della vita Grazie al maggiore rispetto verso il dipendente in quanto persona, ai migliori rapporti interpersonali e al successo che accompagnerà l’azienda, migliorerà anche l’atmosfera sul posto di lavoro.

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Più tempo per il manager Se un manager si comporta con i suoi collaboratori seguendo i criteri del coaching, favorendo da parte loro una diretta assunzione di responsabilità, non ha più bisogno di seguirli né di tenerli d’occhio costantemente, ricavando in tal modo più tempo per svolgere al meglio altre mansioni più delicate o più importanti per le quali prima non aveva mai trovato il tempo necessario. Più idee creative Il coaching. e soprattutto un ambiente in cui si respiri il coaching, favorisce una maggiore creatività in tutti i membri di un team, in quanto si sentono liberi di offrire i loro suggerimenti senza timore di essere derisi o che le proposte vengano immediatamente respinte. Senza contare che un’idea veramente creativa spesso ne richiama molte altre. Un uso migliore del personale, delle competenze e delle risorse Molto spesso i manager non hanno idea di quali risorse nascoste siano disponibili fino a che non iniziano ad applicare il coaching. Solo allora riusciranno a scoprire nei team molti talenti fino ad allora celati come pure soluzioni a problemi pratici, che di regola possono essere suggerite soltanto da coloro che sono quotidianamente a contatto con il lavoro concreto. Una reazione più rapida ed efficace a situazioni di emergenza Quando le persone di sentono realmente valorizzate si rendono disponibili anche a far andare la barca quando necessario, a volte prima ancora che venga loro chiesto. In troppe aziende i dipendenti non si sentono valorizzati come meritano, così si limitano a fare esclusivamente ciò che è stato loro detto, e anche in tal caso tendono a fare il minimo possibile. Una maggiore flessibilità e adattabilità al cambiamento Lo spirito del coaching sta tutto nel cambiamento, nella disponibilità e nel senso di responsabilità. In futuro, l’esigenza di flessibilità certo non diminuirà, anzi, non potrà che ati mentare. Maggiore competitività sui mercati, innovazione tecnologica, comunicazioni globali istantanee, incertezza economica e instabilità sociale: è a tutto questo che ci trovere mo dinnanzi nel corso della nostra breve vita! Sopravvivr soltanto chi saprà essere flessibile e adattabile.

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Un personale più motivato Voglio ripetere ancora una volta che il bastone e la carota hanno ormai perso la loro forza e che le persone sono disposte a lavorare bene quando lo desiderano, non quando devono. Il coaching aiuta a scoprire le profonde motivazioni interiori che si celano in ognuno di noi. Il cambiamento culturale I principi alla base del coaching sottostanno allo stile di management di una cultura della performance di alto livello a cui così tanti leader aziendali aspirano. Un programma di coaching renderà più facilmente realizzabile questa trasformazione culturale. Una competenza per la vita Il coaching è sia un atteggiamento sia un comportamento, con molteplici applicazioni tanto sul luogo di lavoro quanto fuori di esso. E sempre più richiesto e anche coloro che intendono cambiare lavoro in tempi brevi troveranno nella conoscenza di questa pratica uno strumento di inestimabile valore, ovunque decidano di andare. Il coaching per essere vincenti Vorrei tornare al mondo dello sport, anzi a un evento sportivo unico nel suo genere e piuttosto rischioso. La sua fama era sempre stata legata a una forma di leadership tradizionale e autocratica, che aveva prodotto brillanti risultati in passato ma che era diametralmente opposta alla filosofia del coaching. Ogni anno, il clou del Royal Tournament, la grande parata militare che si tiene in estate a Londra, era rappresentato dalla «gara del cannone». La gara, introdotta parecchi anni prima per celebrare un momento di grande eroismo durante la guerra anglo-boera, in cui i pezzi d’artiglieria venivano trasportati sulle montagne a forza di braccia, consisteva nello smontare un vecchio affusto di cannone e poi trasportarlo a braccia lungo un percorso a ostacoli che avrebbe rapidamente sfiancato qualunque persona normale anche senza quel bagaglio. A gareggiare erano le tre divisioni della Marina britannica. Ogni anno venivano concesse soltanto nove settimane per formare e allenare le squadre, ciascuna di sedici membri. Nel 1990, il primo allenatore della squadra della forza aerea della Marina era Joe Gough, che, prima di iniziare gli allenamenti, frequentò un corso di due giornate di Performance Coaching tenuto da me e dal mio collega David Hemery. In seguito, Da vid si recò a Southampton, dove era in corso la preparazione atletica a quell’evento agonistico così importante. Con coraggio e determinazione, Joe Gough aveva radicalmente cambiato il proprio modo di procedere. Conquistata la vittoria, Joe disse:

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“…cambiato tutto quest’anno, e se avessimo perso mi avrebbero messo alla gogna. Invece. adesso sono l’uomo più famoso della Marina!”. Per la prima volta nella storia di quella gara, tutti e cinque i trofei furono conquistati da un’unica formazione: la prima squadra della forza aerea della Marina aveva fatto registrare il miglior tempo, il miglior tempo complessivo, il massimo punteggio e il minimo di penalità, mentre la seconda squadra era risultata vincitrice nella propria gara. Questo straordinario risultato era stato ottenuto con il trenta per cento in meno di corse di allenamento rispetto agli anni precedenti e tra gli atleti si erano avuti anche meno infortunati. Ecco alcuni commenti della squadra: • Era la prima volta che qualcuno ci chiedeva la nostra opinione ed era disposto ad ascoltarci. • Joe ci chiedeva se volevamo fare un’altra corsa e se noi ri spondevamo «no» ci sentivamo un po’ in debito verso di lui, e questo era una spinta positiva a fare di più il giorno dopo. • Joe era molto disponibile. Ci trattava da esseri umani. • Una sera Joe ci disse di tenerci pronti per un’altra corsa ma noi eravamo già a pezzi. Eric, uno della squadra, andò da Joe e gli riferì che sia lui sia gli altri ritenevano sbagliata la sua decisione. Joe acconsentì a lasciar perdere quella corsa. Stentavo a crederci. Bisogna essere un grand’uomo per ammettere di avere avuto torto. Quando poi ci disse che potevamo riposarci, noi cominciammo ad ammettere che in effetti quel giorno non avevamo fatto molto bene una parte degli esercizi di allenamento, invece di tirare fuori scuse... insomma, c’era molta più franchezza tra tutti quanti. Joe Gough espresse con queste parole la sua nuova convinzione che con il coaching si ottenevano realmente performance migliori che ricorrendo agli ordini e all’intimidazione: «Un uomo lo si può far correre, ma non lo si può far correre veloce!» A mio giudizio, i benefici del coaching controbilanciano di gran lunga gli ostacoli che occorre superare. Siete anche voi dello stesso parere?

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CAPITOLO 22 CONCLUSIONE Il coaching è un modo più gradevole

per fare affari migliori.

Questo ibro sul coaching non è molto lungo: se lo fosse stato un po’ di più, forse non l’avreste acquistato, oppure non sareste arrivati a leggerlo fin qui. Forse vi ho incluso argomenti che non avete trovato particolarmente interessanti e forse ne ho tralasciati altri che invece sarebbero stati di vostro gradimento. Forse risulta superficiale in alcune sue parti e troppo approfondito in altre. Il mio intento era di convincervi che il coaching è una competenza che chi esercita un’attività didattica o manageriale dovrebbe acquisire. L’esigenza di persone dotate delle giuste capacità per gestire le relazioni interpersonali sta crescendo e nel prossimo futuro continuerà ad aumentare tanto nel mondo del lavoro, quanto a scuola e nello sport. Come avete visto, il coaching è molto, molto più di un semplice strumento a cui i manager possono ricorrere nelle si tuazioni più disparate, dai momenti di pianificazione del lavoro alla ricerca di soluzioni per i diversi problemi fino alla pos sibilità di delegare ai collaboratori compiti sempre più importanti. E’ un modo diverso di guardare alle persone, una visione ben più ottimistica di quella a cui molti di noi sono ormai avvezzi, e che si traduce in un diverso modo di trattare gli altri. Il coaching ci chiede di abbandonare nei confronti degli altri e di noi stessi qualsiasi pregiudizio limitante, di lasciare le vecchie abitudini e affrancarci dai tanti preconcetti che condizìonano i nostri comportamenti. La pratica Come accade per ogni tipo di abilità, atteggiamento, stile o convinzione, anche il coaching esige impegno, pratica e anche un po’ di tempo prima che esso operi in modo naturale e la sua efficacia sia portata al massimo. E’ un tipo di pratica che alcuni troveranno più facile di altri. Se il vostro stile comportamentale è già improntato al coaching, spero che questo libro vi possa aiutare a conseguire risultati ancora migliori in quello che già state facendo, o che fornisca un’impostazione logica e razionale a ciò che ora fate in modo semplicemente intuitivo e spontaneo. Se invece finora non avete mai adottato il coaching, spero che il mio lavoro vi suggerirà una nuova visione del management, della performance e delle altre persone che vi circondano. Ho cercato di fornire al lettore almeno alcune indicazioni generali sul coaching con le quali iniziare a fare pratica.

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Non c’è un unico modo giusto Non esiste un unico modo giusto di praticare il coaching. Questo libro non è altro che una mappa che può esservi d’aiuto a decidere in che direzione procedere presentandovi alcuni percorsi da seguire per raggiungere i vostri obiettivi. Il territorio, però, dovrete esplorarlo con le sole vostre forze, poichè nessuna mappa potrebbe illustrarvi dettagliatamente le infinità varietà che si incontra nel paesaggio dell’interazione tra gli esseri umani. Ma è proprio la grande ricchezza di questo paesaggio che può trasformare il management in un’autentica forma d’arte, unica nel suo genere e del tutto personale, con cui arricchire il proprio lavoro, riuscendo così ad apprezzarlo e a godere pienamente delle soddisfazioni che esso è in grado di procurare. Ottimismo anzitutto Personalmente, mi sento decisamente ottimista sul futuro del coaching. E’ innegabile che la sua pratica, o i principi su cui essa si fonda, ottiene riconoscimenti sempre più ampi ed è applicata sempre più di frequente. Potremmo anche abbandonare il termine stesso «coaching» oppure aggiungere nuove etichette a quelle già esistenti: counseling, facilitating, mentoring. sostegno, guida, psicoterapia. In qualche misura, tutte queste attività differiscono e allo stesso tempo si sovrappongono e. benché possano esprimersi praticamente in modi diversi, esse hanno in comune gli stessi principi fondamentali: accrescere la consapevolezza, la responsabilità e la fiducia in se stessi, vale a dire i principi che sono alla base di ogni sviluppo umano e di ogni attività efficace. Il mio ottimismo affonda le sue radici nelle inesauribili capacità dell’indomabile spirito umano. Come ho cercato di illustrare nei Capitoli 14. 15 e 16, ritengo che il mondo del business sia in un certo senso fuori strada, anche se per ora non ha ancora deragliato dai suoi binari. Esso si alimenta e fa leva sugli aspetti meno nobili della nostra natura, come la brama di potere e l’avidità, ma allo stesso tempo può essere un veicolo per la nostra creatività, per le nostre aspirazioni verso qualche cosa di autenticamente buono. Il mondo del business è la forza organizzativa più potente che sia mai stata creata dall’uomo sulla terra e, insieme con l’istruzione, è il mezzo attraverso il quale il cambiamento può realizzarsi nel modo più efficace. Il mondo del business deve però ritrovare la giusta strada e allineare il proprio sistema assiologico a valori più elevati e basati sul rispetto degli altri. E per realizzare tale allineamento non c’è nulla di meglio della capacità di trattare con gli altri. Delle competenze destinate alla crescita umana, il coaching è tra quelle più adatte al mondo del lavoro. Spero che questo libro favorisca l’ulteriore sviluppo del coaching e che le sezioni che ho aggiunto a quest’ultima edizione siano un valido complemento a quanto apparso finora. Se al pragmatico che è dentro di voi le mie riflessioni suonano un po’ stravaganti o fuorvianti, se non completamente folli, spero che

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vorrete almeno concordare con me su un punto: il coaching è un modo più gradevole per fare affari migliori.

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Appendice (Armenio) Di seguito presento alcuni cenni tratti da “ Toyota, Perché l’industria italiana non progredisce ” 2005 di Alberto Galgano (presidente del Gruppo Galgano, da oltre 40 anni riconosciuto come una tra le più importanti società di consulenza organizzativa). Questo testo si riferisce specificamente ai miglioramenti organizzativi di cui necessitano le aziende di produzione in Italia, secondo i paradigmi introdotti da Toyota, che sembra essere rivoluzionaria nel panorama mondiale in fatto di organizzazione. L’autore dice drasticamente che, malgrado le enunciazioni di principio, nessuna azienda in Italia applica realmente il sistema Toyota e pertanto non esiste vera innovazione. In apparenza gli esempi di cui sotto sembrano inappropriati alle aziende che si occupano di servizi e di servizi alla persona. Quello che voglio sottolineare è che, malgrado Galgano non ne parli espressamente, il sistema ruota intorno ad una cultura della responsabilizzazione del personale operativo e a una relazione basata sul coaching. L’autore dice testualmente: “……………….Per capire questo tipo di miglioramento bisogna chiamare in causa Michelangelo con la sua frase “la perfezione è fatta di dettagli”. Il Sistema Toyota cura pertanto con estrema attenzione la gestione dei dettagli. Abbiamo già ricordato che il perseguimento della perfezione sta nel Miglioramento Continuo. Questo miglioramento, riguardando i dettagli, può essere realizzato soltanto da chi è coinvolto nei dettagli stessi e cioè dal personale operativo.Il ruolo dei quadri è quello di aiutare gli operatorì a capire questa responsabilità e fare in modo che la sappiano concretizzare. Lo schema che segue spiega le differenze tra i sistemi

Come già detto, con la spinta degli operatori, i miglioramenti vengono dal personale che ha più dimestichezza con i processi, anche se è prerogativa del management indicare la direzione da seguire…….

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Alla Toyota l’empowerment del personale si ottiene con l’arte maieutica della quale è stato maestro Socrate. I manager Toyota non dicono specificatamente agli operatori e ai supervisori come fare il lavoro. Piuttosto utilizzano un approccio di insegnamento ed apprendimento che consente al personale di scoprire le regole come conseguenza della soluzione dei problemi. Il supervisore, per insegnare ad una persona i principi delle regole da seguire, arriverà al posto di lavoro e, mentre l’operatore starà svolgendo i suoi compiti, porrà una serie di domande:

Come stai facendo questo lavoro? Come sai che lo stai eseguendo correttamente? Come sai che il prodotto realizzato è esente da difetti? Cosa fai se hai problemi?

Questo continuo processo consente all’operatore una visione sempre più profonda del suo specifico lavoro. Da molte esperienze di questo tipo, la persona impara gradualmente a generalizzare come realizzare tutte le attività in accordo ai principi del Sistema Toyota. Tutte le regole sono insegnate con una simile modalità socratica delle domande iterative e del problem solving……..”.


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