Simone Torricella
Marco Zanchettin
Dal Toc …al Toc da legn, viaggio per la Brianza
alla scoperta delle numerose risorse di questa terra
Proprietà dei terreni dal 1700 a oggi della Brianza
Origine, lavorazione
e varietà di
mais
Avversità e parassiti
Un tuffo nel passato… il
TOC
Proverbi e detti
brianzoli
La Brianza è un territorio della Lombardia nell'Italia settentrionale.
Il nome Brianza, secondo gli studiosi, trovala sua base etimologica nel termine celtico brig, il cui significato è “altura",“collina” e
che ancora oggi ha un suo corrispettivo nella parola dialettale bricch.
Questo nome rispecchia la natura collinare del territorio, che nel
passato trovava il suo punto di riferimento nelMonte Brianza, un’altura situata tra icomuni di Rovagnate e Galbiate nei
nei pressi di Lecco che oggi corrispondeal paese di Monticello Brianza, ultimocomune della Provincia di Lecco e
primo che si incontra provenendodalla Provincia di Monza e Brianza.
Originariamente il nome “Brianza” identificava unicamente il limitato territorio circostante a questa altura ed è solo in epoca medievaleche il nome divenne rappresentativo di tutta l’area compresa tra le Provincia di Milano, Como e Lecco.
I contadini briantei erano specializzati nella coltivazione del mais, principale fonte energetica nella loro dieta, nella gelsi bachicoltura (allevamento del baco da seta, che si nutre delle foglie del gelso), e nella viticoltura.
La così detta “Curt” trova le sue radici nel modello della "curtis longobarda”, l’azienda agricola attorno alla quale ruotavano la dimora signorile, gli alloggi dei coloni, le stalle e i magazzini.
La Curt fino alla metà del XIX secolo rappresentaval’unità fondamentale della società brianzola, era il centro della vita sociale, giuridica, economica e religiosa del recente passato.
Le cascine brianzole d’inizio Ottocento ricalcavano, con dimensioni ridotte, il modello delle cascinelombarde e nella fattispecie quello a corte aperta, detto anche a “U” rovesciata o a ferro di cavallo, che consisteva in un complesso di caseggiati disposti secondo una pianta rettangolare e con un lato aperto.
Il sistema che regolava gli affitti tra i proprietari ed i coloni era molto articolato.
Nel secondo ventennio del 1700 nella Brianza occidentale e nella pianura briantea, icontratti agrari in corso erano di fitto a grano, mentre nella collina centro-orientalepermanevano del tipo a mezzadria
Il fitto a grano era diffuso in tutta la Brianza, con vantaggio dei possidenti, favoritidal governo austriaco per il concetto che la proprietà privata, a differenza di quellacomunale, conducesse a una migliore gestione dei terreni
In pianura l'oppressione del contratto a grano, quello che venne chiamato"il furore del fitto a grano", lasciava ai pigionanti poco terreno da cuiricavare granoturco o grani minori, per cui sulla loro tavola vi era solopolenta.
Nell'800 il mais è largamente coltivato nelle province lombarde.
Nel'900, l'organizzazione aziendale, che prevede stretti rapporti fra impresa, manodopera e proprietà, il mais è teatro di grandi modifiche. Nei primi anni del secolo in Italia si coltivano circa 2 milioni di ettari a mais, destinato per il 90% all'alimentazione umana.
All'inizio del XX secolo, le varietà coltivate sono poco selezionate e le piante mostrano una grande difformità tanto da dare l'impressione di un certo disordine. In Brianza il mais prende il nome di Carlon e cioè notoriamente gran disordinato ("vestire alla carlona").
Fino agli anni 1950 il mais è coltivato "a mano". In pianura la coltivazione è affidata alle mogli dei
salariati o all'intera famiglia, che conserva in questo modo la possibilità di lavorare a mezzadria; tale
contratto viene chiamato "diritto di zappa"; per l'epoca, una famiglia salariata aveva la possibilità di
coltivare circa mezzo ettaro di mais in compartecipazione con la proprietà, secondo gli schemi
economici della mezzadria che concedeva al mezzadro la metà del prodotto.
Dal 1948 al 1958 con l'introduzione degli ibridi, la produzione italiana passa da 20 a 38milioni di quintali. La nuova tecnica colturale cambia la tessitura dei campi. La distanza frale file dipende da quella dei separatori della testata spannocchiatrice (70 - 80 cm), mentrequella lungo la fila è legata alla densità finale che si vuole ottenere (passando da 3 a 4piante/mq delle varietà tradizionali al doppio degli ibridi moderni). Pur con questeinnovazioni fino al 1960, il lavoro manuale sarà ancora rilevante: diradamento, sarchiatura,rincalzatura, nonché il recupero delle spighe cadute nel corso della raccolta sarà svoltoprincipalmente dalle donne.
Negli anni '60 e 70 si comincia a disporre dei primi diserbanti, che nel giro di qualche anno meccanizzano leoperazioni colturali, togliendo lavoro alle maestranze. Si avvia l'utilizzo delle seminatrici di precisione (primaquelle meccaniche e poi quelle pneumatiche) e la fertilizzazione con azoto di sintesi, (ottenuto a basso costoutilizzando il petrolio).
«IERI»
seminatrice
«OGGI»
seminatrice
Si impone la produzione del silomais attraverso la coltivazione di
ibridi adatti allo scopo, molto produttivi, per
l'alimentazione zootecnica.
Nel 2000 il paesaggio agrario nelsuo complesso è cambiato ed èdivenuto un paesaggiogeneralmente piatto, orizzontale,lineare. I colori dominanti estivirestano quelli del mais.
La tessitura parcellare si ètrasformata in una "steppa acereali" che si interrompesoltanto quando sulle radurepiatte dei seminativi si levano lemacchie delle piante arboree.
L’agricoltura in Brianza oggi potrebbe essereconsiderata “residuale” rispetto alle scelte dei decenniscorsi, che hanno portato alla moltiplicazione, quasisenza limiti, degli insediamenti produttivi e abitativi.Parliamo quindi di una agricoltura di trincea,resistenziale, che difende con le unghie e i con denti i suoispazi dalla cementificazione. Un sistema agricoloperiurbano, che “costeggia” i centri abitati e ogni tanto,solo in qualche scorcio, ci ricorda quella che fu la Brianzadi una volta. La realtà agricola tra Brianza ovest ed est èmolto diversa, mentre a ovest di Monza circa l’80% delterritorio è stato urbanizzato, nel vimercatese e nell’AltaBrianza il rapporto tra campagna e abitativo rimaneall’incircametà e metà.
L’agricoltura italiana ed europea è in piena fase ditransizione, dettata dai cambiamenti introdotti dallanuova PAC (politica agricola comunitaria) cheprogressivamente eliminerà i sussidi a perdere, dei qualibeneficiavano soprattutto i grandi proprietari checoltivano estensivamente mais, colza o soia.
Negli ultimi anni stiamo invece assistendo alla diffusione diun’agricoltura a “chilometro zero”, cioè pensata perrifornire i mercati locali, anche grazie alla moltiplicazionedegli spazi di vendita al pubblico e della rete dei GAS(Gruppi d’acquisto solidali) che in Brianza hannosviluppato uno dei più interessanti progetti a livelloitaliano, Spiga e Madia, un pane a filiera corta preparatocon grano coltivato e macinato in Brianza, oltre che cotto emangiato localmente. La peculiarità dell’agricolturabrianzola, presidio dell’ultimo verde della nostra provincia,riguarda anche l’essere in parte praticata dentro areeprotette, come il Parco del Molgora.
Un’agricoltura che anche per questo motivo dovrebbeessere sostenuta e conosciuta, per evitare il tanto temutosvuotamento del valore economico del settore e ilconseguente abbandono dei terreni o peggio, la lororiconversione al cemento. Qualche esempio virtuoso inquesti anni c’è stato con la valorizzazione di produzionepregiate, come l’asparago di Mezzago e la patata diOreno, ma nel complesso l’agricoltura della Brianza, e ciòche ne rimane, non ha le forze da sola per andare avantie quindi garantire anche il residuo polmone verde dellanostra provincia. Solo un patto tra consumatori eproduttori potrebbe dare linfa a un settore nel quale, incontrotendenza, si sta registrando un aumentodell’occupazione giovanile. Cominciano a fare tendenza igiovani che, dopo avere studiato, si fanno carico deiterreni familiari portando nuove idee e tecniche.
L’aumento della disponibilità di prodottiortofrutticoli, anche dalle nostre parti, è dovuta aquesto nuovo approccio all’agricoltura non piùimmaginata come produttrice di granaglie in modoestensivo, ma come fornitrice del territorioproponendo qualità, buon prezzo e basso impattoambientale.
Non esiste però riconversione della produzione senzariconversione dei consumi. Siamo stati ormaidiseducati al consumo agricolo da una grandedistribuzione che ci fornisce 12 mesi all’annoqualsiasi prodotto. Possiamo consumare tutto aprescindere dalle distanze e dalle stagioni.L’agricoltura a chilometro zero ci riconcilia conl’andamento delle stagioni e con i cibi che ciforniscono le vitamine giuste al momento giusto. Lalotta per la salvaguardia dell’agricoltura in Brianzapuò apparire utopica o romantica, ma si tratta invecedi una delle sfide più importanti per la tutela delpaesaggio del nostro territorio.
Vogliamo narrarvi di una pannocchia di mais, della sua storia,
di molte mani, di molte terre, di molte bocche che l’hanno
assaggiata……
La semina del melgon in Brianza si fa tra
marzo e aprile. Appena la pianta si è radicata
tende a sollevarsi dal terreno, quindi occorre
ricoprirla rincalzando le piante ed eliminare le
erbacce infestanti, era questa una operazione
di zappa che in tempi non meccanizzati
assorbiva una grande quantità di forza lavoro
per gli addetti ai campi.
Il granoturco non è affatto grano
turco, infatti è originario del
Messico e Centro America, e si
chiama anche mais o con parlata
domestica melgon (dal latino
milium –miglio, con mille grani).
Venne detto turco per un errore di
traduzione dal nome che gli dettero
gli Inglesi: "wheat of turkey", cioè
"grano per tacchini".
Man mano che il granoturco cresce nasconde
alla vista le strade ed il paesaggio, è un vero
muro vegetale brianzolo che cinge di riquadri
verdi rigati i paesi e le cascine. Una crescita
che ciascuno ancora ammira come promessa di
sicuro benessere, con compiacimento della
nostra tradizione, di contadini mancati per un
pelo.
La raccolta delle pannocchie
avveniva da metà settembre.
Nella cultura contadina, una
volta fatto il raccolto le
pochissime pannocchie
sfuggite rimanevano destinate
alla spigolatura dei poveri o
dei ragazzi che ne ricavavano
una piccola mancia.
Divenne un cibo così comune,
che la povera gente del Nord-
Italia finì con lo sfamarsi
praticamente solo con la farina
di mais, unico cibo. Sostentarsi
con un unico alimento produce
gravi scompensi alimentari e
vitaminici.
Mangiando unicamente polenta,
quindi decorticato e così
privato di importanti fattori
nutrizionali (quali la niacina)
vitamina PP, ci fu in passato la
massiccia comparsa della
pellagra e il gozzo tiroideo.
Oggi la pellagra e il gozzo
per fortuna non ci sono più,
ma ahimè altre malattie
allignano nel Brianzashire
odierno.
La pellagra è una malattiadella pelle, la quale espostaalla luce produce eritemaed un prurito infame, cheattacca specialmente ildorso delle mani e dei piedilasciandoli scuoiati dallacute.
Nella nostra regione conosciamo
diverse varietà di mais ma quella
tipica della Brianza è la “scaiola”.
E’ una pannocchia dai chicchi gialli
aguzzi, terminanti con un uncino
che ne rendevano difficile la
sgranatura, apprezzata per la sua
polenta. Una varietà in via di
sparizione per la “resa bassa”,
sostituita, come le altre antiche,
dagli ibridi anonimi consorzi.
Questo mais è il tipico granoturco
da collina, più resistente
all’umidità, coltivato è il solo,
possibile, oltre una certa
altitudine.
Il mais è un cereale
naturalmente privo di
glutine e quindi
particolarmente adatto allo
svezzamento dei bambini ed
all’alimentazione di chi è
affetto dal morbo celiaco,
consigliato caldamente
anche per rafforzare il cuore
ed il sistema circolatorio.
Il mais macinato finemente,
trova largo impiego nella
produzione di polente; in
base alla macinatura del
mais, si ottengono farine a
diversa granulometria,
fattore rilevante per il
risultato del prodotto finale.
La granulometria è importante
non solo per caratterizzare il
prodotto finale, ma anche per
stabilirne i tempi di cottura.
Infatti, a partire da una farina di
mais finemente macinata, si
ottiene una polenta più vellutata
e cremosa: per la cottura, sono
necessari all'incirca 30 minuti. La
farina di mais macinata finemente
è nota come “fioretto”,
particolarmente adatta per
polente pasticciate, o come
“fumetto di mais”, dalla grana
ancor più sottile, ottenuta dalla
lavorazione con mulini a cilindri.
Avversità e parassiti
Limitazioni alla produzione del mais possono essere provocate
da:
parassiti animali o vegetali e da avversità meteoriche.
In genere nella maiscoltura italiana i soli trattamenti che si
fanno ordinariamente sono la concia della semente e la
geodisinfestazione alla semina.
Eccezionali sono i trattamenti sulla coltura contro la diabrotica,
oggi fattibile con Force, insetticida geodisinfestante
microgranulare.
Force è in grado di controllare tutti i principali parassiti terricoli
che infestano le colture di mais, fra cui Elateridi e larve di
Diabrotica. Agisce per contatto e per ingestione, difendendo
così i semi e le piantine nelle prime fasi di sviluppo. Grazie alla
sua mobilità nel terreno in fase di vapore, Force esercita anche
una forte attività repellente che aumenta l'efficacia protettiva.
La Diabrotica arrivata nella nostra
regione tre anni fa dal Nord
America, definito "killer del mais"
per la voracità che lo
contraddistingue, è un coleottero
che allo stadio di larva rode il
colletto e le radici avventizie del
mais e alla minima brezza interi
ettari ed ettari si allettano senza
apparente motivo.
Molto prolifero, di minuscole
dimensioni, gialle di colore e
resistente agli antiparassitari può
compromettere irrimediabilmente
interi raccolti della graminacea,
"ul frumenton" tanto caro e
prezioso alla gente brianzola.
Le colture di mais possono essere danneggiate da:
marciume dello stoccoche si rivela con un precoce imbrunimento
dei primi internodi basali. La malattia è
grave perché col vento le piante si piegano
alla base, cosicché le spighe cadono a terra
e non vengono raccolte dalla macchina
raccoglitrice elmintosporiosi
che si manifesta con la
formazione sulle foglie
di striature necrotiche
confluenti, che possono
portare al totale
disseccamento della
lamina
Carboneche attacca tutti gli organi della pianta
provocando tumori di varie grandezza che
contengono una polvere nerastra costituita
da spore. Le infezioni più appariscenti (ma
sempre di scarsa gravità) sono quelle che
colpiscono le infiorescenze;
- marciume del seme e della plantula:
diverse crittogame presenti nel terreno o
nel seme possono colpire il mais in
germinazione provocando avvizzimento
e/o marciume basale del fusticino.
I patogeni sono favoriti da terreno umido e
freddo e da semina troppo profonda.
I ritorni di freddo e le
precipitazioni prolungate dopo le
nascite sono sfavorevoli allo
sviluppo del mais che cresce
debole ed eziolato. Il vento
impetuoso può provocare lo
stroncamento delle piante
indebolite da precedenti attacchi
parassitari (piralide, marciumi).
Il freddo intenso o il gelo provocano una
riduzione delle nascite e, in casi estremi, la
morte delle giovani piantine. Fin quando l’apice
vegetativo è sotto terra vengono danneggiate
solamente le foglie embrionali e la pianta, alla
ripresa di adeguate temperature, si sviluppa
normalmente. Si possono avere danni sulle
giovani piante quando le notti sono piuttosto
fredde (T < 5°C), serene, con rugiada: il sintomo
tipico del danno da basse temperature è la
comparsa di bande gialle trasversali su una o più
foglie delle giovani piante. In alcune zone dove
la coltura del mais viene lasciata in campo fino a
tardo autunno (es. con il mais in secondo
raccolto) gelate anticipate possono causare il
disseccamento delle foglie che assumono una
colorazione argentata.
Danni da fertilizzanti
Bruciature da urea - Con la distribuzione
granulare a spaglio dell’urea i granelli che
penetrano nel cono vegetativo e vanno a
contatto con le foglie provocano
disseccamenti nella zona del cono
vegetativo e sui margini fogliari. In genere
le piante superano facilmente e senza danni
queste bruciature da azoto. Prodotti
contenenti urea e distribuiti a spaglio o in
maniera localizzata alla semina possono
provocare se in eccesso emergenze
irregolari; piegamenti e contorcimenti delle
foglie embrionali; sviluppo lento e danni
radicali. Questi danni sono dovuti alla
formazione di ammoniaca libera nel
processo di conversione in azoto
ammoniacale.
farina gialla;
Occorrente:
due etti di burro;
due etti di Formaggio;
Mezzo litro di acqua per persona;
paiolo
Bastone di legno
Ingredienti:
Carlon
Occorrente:
du etti Butér
du etti Furmài
mezz liter de acqua per persòna
Culdireu
Rodec
Ingredienti:
Preparazione:
Fondamentale è dosare bene il calore in modo che la
polenta non si attacchi al paiolo.
Si cuoce la polenta nel paiolo (“culdireu”) e poi si
incorporano con un bastone di legno (“rodec”) burro e
formaggi nostrani tagliati a pezzetti, amalgamandoli a
poco a poco, rimestando il tutto continuamente con il
rodec. Se si sbaglia un passaggio, il toc rilascia il burro e
non è più mangiabile. Non è una preparazione semplice,
solo ad un esperto riesce.
Come si mangia:
con un cucchiaio di legno (cugià de legn”) si prende
direttamente il “toc” dal paiolo e con le mani. lo si
porta alla bocca...... non ci si sporca le mani e non
unge, provare per credere!
Ovviamente lo si mangia
accompagnandolo ad altre
specialità: i missultit (gli agoni,
pesce di lago, salati, messi ad
essicare al sole, pressati ed infine
cucinati alla griglia), la galina
fregia (la gallina lessa) e vari salumi
nostrani innaffiato con vino rosso,
bevuto nella brocca comune.
..ma non è finta qui...ci vorrebbe proprio un bel
digestivo...
Terminata la consumazione e svuotato il paiolo, si
procede alla preparazione del ragell: l'ingrediente
base è il vino rosso a cui si aggiunge, cannella, chiodi
di garofano, noce moscata, zucchero, della scorza
d'arancia e di limone grattugiata ed una mela tagliata a
pezzi.
E' curioso il fatto che il paiolo non
venga pulito perfettamente e che
si lascino sulle pareti gli avanzi
del toc, i quali daranno il sapore
caratteristico alla bevanda.
Il maestro del toc rimette dunque il paiolo sul fuoco
col vino e le spezie ed a questo punto, grazie al
calore, l'alcool contenuto nel vino evapora e si
incendia, creando uno scenografico effetto di paiolo
in fiamme.
Esauriti i vapori alcolici, il ragell è pronto per la consumazione. Il
paiolo viene quindi tolto dal fuoco e rimesso al centro del locale
dove, servendosi di un mestolo di legno, si attinge la bevanda.
Versata ancora fumante in una ciotola di legno, si fa il passamano
della stessa tra i vari commensali seduti nuovamente in cerchio
tutt' attorno al paiolo: una sola ciotola per tutti da cui a turno si
sorseggia....e bel buient el fa rugì! ( molto bollente fa digerire!)
Ed è in questo rito, in questo condividere che, favorita anche dai
poteri del vino, la socializzazione del gruppo raggiunge l'apice.
Il Toc, riflette i caratteri e la ritualità che gli derivano da una
tradizione contadina che lo vedeva protagonista di feste e di grandi
occasioni, come matrimoni o battesimi, in cui la famiglia si riuniva
per mangiare tutti assieme. Era un piatto ricco allora, adatto a
festeggiare momenti speciali e fatto con ciò che i contadini stessi
producevano: farina, burro e formaggio. Al centro del locale si
metteva il paiolo di rame (culdireu) con dentro il Toc e gli invitati si
sedevano intorno a cerchio, proprio come si fa ancora oggi.
Della ritualità di gesti antichi, lontani nel tempo, ma che si ripetono
uguali e invariati.
Un tuffo nel passato, per fortuna ancora un po’ presente, della
nostra alimentazione, quando le calorie non erano uno strumento
del demonio, quando sentir odor di cibo in casa non era considerato
una vicenda traumatica, quando passare più di mezz’ora ai fornelli
non era vissuto come un’offesa da lavare col sangue. E quando un
supplemento di chiacchiere e alcol a tavola non era ancora un lusso
impensabile.
Un tempo, neppure così molto lontano, quando i momenti più
sereni della giornata erano quelli in cui la famiglia era riunita a
tavola.
L’appetito non mancava mai e gli occhi di tutti, in particolare dei
bambini, brillavano quando la polenta appena tolta dal camino e
aspettata con tanta pazienza arrivava fumante sulla tavola in mezzo
ai commensali.
La polenta è il simbolo di secolari battaglie combattute e vinte
contro la fame.
E’ il simbolo del mangiar povero della nostra gente.
Si può dire che essa abbia sostituito non solo il pane, ma almeno in
parte, anche il companatico in quanto per le persone che ci hanno
preceduto in terra lariana, quasi sempre il problema non era quello
di mangiare un cibo con la polenta, ma quello di mangiare la
polenta insaporendola o accompagnandola con un cibo.
Il toc,, è il piatto tipico di Bellagio e di pochi paesi limitrofi. Tipico perchéproprio di quella terra comasca e del suo retaggio contadino.
La particolarità e l’unicità locale del toc è tale per cui pochi sono i bellagini capaci
di ottenere questo piatto nato dalla sapiente amalgama di farina, burro e
formaggio. Una laboriosa operazione che prevede in seguito alla cottura della
polenta, il cambio del paiolo e la successiva lavorazione di polenta, burro e
formaggio locale. Una lunga preparazione e l’aiuto di molte persone, anche due o
tre, per girare continuamente nel paiolo il composto così ottenuto. Un piatto un
tempo fondamentale per la dieta alimentare contadina locale che in tal modo
prevedeva l’assimilazione da parte del corpo di sostanze nutrienti e grasse, volte a
bilanciare il mangiar povero dei molti giorni. E il toc era un piatto della festa.
Della festa di S.Antonio, in particolare, il 17 gennaio, quando si uccideva il
maiale e si mangiava il salame dell’anno prima.
A camp tempestaa nò var benedizion.
Ad un campo grandinato non serve alcuna benedizione.Per quest’anno non crescerà più niente, non c’è niente che possa cambiare tale situazione.
Quand el Mont al gh'ha su 'l cappell, mett via la ranza, toeu scià elrestell.
Quando il monte ha su il cappello, metti via la ranza, prendi il restello
A San Gall se sumena al pian e al vall
Per San Gallo si semina in pianura e nelle valli
Chi ghe volta i spall a Milan ghe volta i spall al pann, chi ghe volta i spall ala Brianza ghe volta i spall ala pitanza
Chi volta le spalle a Milano, volta le spalle al pane; chi volta le spalle alla Brianza, volta le spalle al companatico, o pietanza
Chi gh'ha fen, gh'ha tutti i ben.
Chi possiede i campi da fieno, può avere ogni bene (vendendo il fieno a chi ha le bestie in stalla)
Formenton a gatton, loeuv a monton.
Se la pianta del mais si rompe e cade gattoni significa che le pannocchie mature pesano molto, quindi il raccolto sarà ricco
La nev de Ginee la piendis ol granee.
Le nevicate di Gennaio sono provvidenziali per la futura raccolta del grano (che si semina prima)
Loj, la tera la boj.
Luglio, la terra è bollente figuriamoci a doverla lavorare
Magg succ gran per tucc.
Maggio asciutto, grano in abbondanza
Marz cunt ul vent, scigoi e furment
Marzo con il vento, abbondanza di cipolle e grano)
Utuber te se bell, se l'è fen l'è in cassina e'l vin in del vassell.
Ottobre sei bello, se il fieno è nella cascina e il vino nella botte
A San Peder se ghe scund el puleder
A San Pietro (29 giugno) il granoturco è così alto che vi si può nascondere il puledro
Mag urtulan, tanta pala e poc gran
Maggio piovoso, tanta paglia e poco grano
C’era una volta…….
Quello che vi stiamo raccontando non è una favola ma è un racconto di
un nonno della Brianza di nome Aldo sembra impossibile che tanti anni
fa il grano era il frutto di un lungo e faticoso lavoro…
Nonno Aldo inizia il suo racconto ……
Simone e Marco, cuma vi olter e sii la semina del furmentom le
cumencia in pimavera, ma l'era divers de adé. Le se faseva a man,
grana per grana, fasevi un bus in del teren cunt un bastom de legn
stort che se ciamava “ficon” e quatavi cunt ul pé.
Cun la scéna semper piegada in bas ghe stavi a drè al segn fà cunt un
rastrell grant che el ghera apena tri o quater dinch, che se ciamava
“rastelom”.
In tant che la pianta le creseva se zapava , dopu se pasava im mez ai fil
cunt un erpis piscenen che se ciamava “ rampighin” tirà d'un cavall o
d'un asnen, dopu se tacava un arà chel faseva un scaf in mez ai fili.
Me l'é bell regurdà.... i campi de furmentom mareu insema ai papaveri
e i fiurdalis culurà, e se senteva in di camp e in di strat l'udù del fen.
Del furmentom se trava via nient. In està , quant la pianta l'era amò
verda se taiava la punta de suravia de la loeuva e dopu se duperaven i
foi dela pianta per dai de mangià ai besti.
Dopu se faseva la “sluasada”
La sluasada se faseva sot ai portic di casen de solit de sira cun la lus di
candil.
Ul bastom del apianta del furmentom se lasava in del camp cunt apena
la loeuva . All'inizi dell'autun se cataven i loeuva per purtai in casina
per la sluasada e i bastom i “malgasc” se legaven in tanti fasen e se
faseven secà per brusai in di camen.
Nel'aia del curtil i bagai naven a pé biot in mezz al furmentom metù a
sugà al zuu e mueven ul furmentom , el pareva un gioc perché cantaven
e scherzavem ma l'era un laurà che nava ben.
Serum tucc insema in di curtil cunt una muntagna de loeuve de sluasà
per divit ul furmentom de la barba e dai luit; quan erum finì serum
stracc ma cuntent , se faseva festa e se mangiava la bogia cunt un bicer
de ven , intant i bagai cureven a drè a le lucciole e cantaven: lucciola ,
lucciola ven in de me che te darò ul pan del re, te darò ul pan de la
regina , lucciola, lucciola lucciolina. Ul fosc e i umber faseven paura ai
bagai che se stringeven a turnu a la muntagna de furmentom che
senteven nanca la barba a gratà.
A le loeuva se tirava via i foi e apena cun qui bei se faseva i mazz che se
legaven cunt ul sales e se tacaven suta ai portic per semenza per l'an
dopu,
Quan se nava al mulen cunt ul regiù sul carett in mezz ai sac de iuta pien de furmentom de
masnà per nom l'era una festa,
Ma sucedeva una grandinata o la siccità, o el piuveva tropp e ul laurà d'un ann el nava a mà.
Bei temp! Togh gheven pochi danè ma ghera de mangià per togh e serum cuntent perché
serum toch insema.
Bagai ve vedi meraviglià el so che l'é difficil de capè ma eren altri temp, adé ghé tott i
machinari seminatrici, trebbiatrici e silos che hann sostituì i vecc atrezz.
Il racconto di nonno Aldo ci ha fatto capire che conoscere le nostre radici èun’esperienza costruttiva, e persino necessaria come, unito alle proprieradici, l'albero può crescere e prosperare, cosi il presente deve guardareanche al passato per prepararsi al futuro.