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La Marmaglia n.9

Date post: 10-Mar-2016
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Dopo quasi un anno, finalmente arriva il nono e ultimo numero della rivista studentesca indipendente piacentina!
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Ebbene sì, avete capito bene: a meno di clamorosi colpi di scena, questo sarà l’ultimo numero de La Marmaglia che vi capiterà sotto gli occhi. Sorpresi? Dispiaciuti? Sollevati? Non ve ne importa ‘na sega? Beh, qualunque sia il vostro stato d’animo mentre leggete queste drammatiche righe, difficilmente potrà farci cambiare idea. Ma forse qualcuno dei lettori più scaltri si starà chiedendo, a questo punto, il perché di una decisione così decisiva: presto detto.

AmarcordLa Marmaglia - Rivista

s tu d en te s c a in d ip en d en te Anno 2 - Numero 1 - Maggio 2012 -

Proprietario: Associazione di promozione sociale “La Marmaglia”, codice fiscale 91100220333, partita iva 01594690339 - Diret tore responsabi le : S tefano d’Onofrio - Sede: Stradone Farnese 81, Piacenza - Stampato presso Cooperativa Sociale Eredi Gutenberg, via Scalabrini 116b - Registrazione presso Tribunale di Piacenza n.699 del 18/02/2011

[ COVER CONTRIBUTOR ]Giovanni BonafedeNato a Termini Imerese il 19 Luglio 1991, si trasferisce all’età di 10 anni ad Alseno, dove tuttora risiede.Mostra sin da bambino una spiccata propensione per il disegno; passate le scuole dell’obbligo si iscrive al Liceo Artistico Cassinari di Piacenza, per poi scegliere la sezione Accademia.Diplomato con 92/100 alla Maturità 2010 si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano (che attualmente frequenta al II anno) scegliendo l’indi-rizzo di Grafica.Nel corso degli studi sperimenta tutti i tipi di segno, pur avendo una predispo-sizione per quello figurativo e per uno stile molto più plastico che pittorico.Con gli anni ha integrato diversi stili al suo, recentemente comincia anche a digitalizzare ed elaborare immagini partendo comunque sempre dalla mano libera.

Iniziamo allora facendo un po’di sto-ria. La nostra rivista è nata nel lon-tano 2009 (era un freddo gennaio,

o giù di lì…) quando quattro ragazzi del Liceo Gioia, disgustati dalla situazione internazionale (il mondo sentiva le pri-me conseguenze della crisi, il Paese era saldamente nelle mani di un nano psi-copatico e nella nostra scuola la Gianna imperversava) decisero di fare qualcosa per opporsi all’andazzo generale. L’idea era più o meno fare una piccola rivista satirica, alternativa all’Acuto (l’allora dormiente giornale del Gioia, per noi servo del padrone), nella quale sostan-zialmente poter scrivere tutte le cazza-te che ci venivano in mente. L’obiettivo non era fare i soldi: semmai, tentare di coinvolgere un po’di ragazzi e smuovere la piatta condizione giovanile piacenti-na, magari nel frattempo divertendoci un po’...

Ovviamente, le cose non erano così facili. Per il primo numero eravamo in quattro, non sapevamo scrivere (ma quello nemmeno ora) né tantomeno

avevamo idea di cosa significasse “fare una rivista”. Dopo aver setacciato deci-ne di tipografie cittadine e fatto cono-scenza con le draconiane leggi italiane sulla pubblicazione (altroché libertà di stampa…), nell’Aprile 2009 eravamo finalmente in grado di presentare alle masse il nostro numero 1. Dodici pagi-ne, due a colori, articoli violentissimi e pieni di errori, copertina con Silvio che guida un gregge di pecore verdi, bianche e rosse. Tiratura copie centocinquanta, rigorosamente clandestine, distribuite ad amici parenti e parenti degli amici.

Ripensandoci, niente di che. La grafica era primitiva, gli articoli immaturi, inge-nui, a tratti fastidiosi. Eppure a qualcu-no piaceva. Diciamo che nel nulla più assoluto la nostra rivista spiccava, se non altro, per impegno e sincerità. E allora, sotto. Inizia il periodo delle “riu-nioni” di redazione, le foto clandestine, le discussioni, momenti di esaltazione alternati a grandi delusioni.

Passa circa un anno e mezzo e noi ci

Editoriale di Johnny

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Editorialesiamo ancora. La redazione nel frattempo si è no-tevolmente allargata, i numeri sono arrivati a quo-ta 6 e, soprattutto, il progetto è cambiato. Non si tratta più di fare un secondo giornalino d’istituto, seppur “alternativo”. Per la prima volta da tanti anni un gruppo di ragazzi vuole scrivere qualco-sa per altri giovani, senza tornaconto economico, oltrepassando le anguste mura della propria scuo-la. Quello che sognavamo era un movimento che coinvolgesse gli studenti di ogni scuola e universi-tà: ognuno doveva essere libero di scrivere sulla nostra rivista ciò che pensava, volevamo creare un spazio di dibattito per la nostra città.

Ad un certo punto ci sembrava quasi di riuscire: all’inizio del 2011, dopo un infinito calvario buro-cratico, riusciamo finalmente ad iscrivere la rivista in Tribunale. Ormai decine di persone, da svariate scuole e università piacentine, hanno scritto su La Marmaglia; abbiamo un sito internet e una pagina facebook discretamente visitati e alle spalle una bella collaborazione con il quotidiano Libertà. In-somma, ci siamo fatti le ossa. Siamo più esperti, più maturi, più “seri”. Di fatto perdiamo per la stra-da la componente goliardico/satirica della rivista, che pure non era mai stata predominante.

Come dicevo, ci sembrava di avercela fatta: nel marzo 2011, due anni dopo il nostro primo nu-mero clandestino, esce il primo numero “legale”. Questa volta si fa sul serio: tiratura di 2000 copie, copertina a colori fatta da un giovane artista pia-centino, sponsor e distribuzione massiccia davanti alle scuole. E forse a questo punto emergono tutte le difficoltà e le contraddizioni che ci avevano ac-compagnato fin dai primordi della nostra carriera giornalistica. Il numero non ottiene l’interesse e la rilevanza che speravamo. Fino a quando stam-pavamo 150 copie potevamo giustificare la scar-sezza di interesse e di “dibattito” suscitato con la poca notorietà. Ora però non era più possibile. Probabilmente è stato allora che siamo stati messi di fronte alla cruda verità: forse quello che faceva-mo, in fondo, non fregava poi così tanto alla gen-

te. E allora è iniziato a venire fuori anche il fatto che, forse forse, non fregava tanto nemmeno a noi. Dopo un po’tutti si stancano di giocare. E così anche nella nostra redazione la voglia è andata scemando, fino a spegnersi quasi del tutto. Siamo riusciti a distribuire un altro numero, seppur tra le consuete mille difficoltà; ma ormai qualcosa si era rotto.

Per questo abbiamo preso la decisione di non andare avanti: a scrivere articoli siamo rimasti in due gatti, e questo numero ne è una prova. Ci pia-ceva comunque darvi quest’ultimo regalo d’addio, consapevoli del fatto che tra una ventina d’anni l’ultimo numero de La Marmaglia sarà senz’altro quotato a peso d’oro, come i migliori vini in barri-ques o gli LP di Fausto Leali. Scherzi a parte, non è escluso che questo addio possa trasformarsi in un arrivederci: nel caso ci sia qualcuno, tra voi lettori, che dopo aver letto questa toccante testi-monianza sia colto dall’insana voglia di rimettere in piedi il progetto-La Marmaglia, quel che resta della redazione sarebbe decisamente entusiasta. Ovvero, se ci dovesse essere un sollevamento po-polare per non far “chiudere” questa rivista, noi saremmo ben lieti di rimetterla in piedi assieme a un po’di forze e di idee fresche. Per qualche tem-po il nostro sito e i contatti su facebook saranno attivi, quindi saremo comunque reperibili. Hasta la vista. ■

P.s. Ripensando alla nostra esperienza mi sono accorto che coincide, più o meno, con l’ascesa e il tramonto del nostro Duce, il caro Silvio. Quando abbiamo iniziato sembrava Dio-in-terra, ora non lo prende sul serio neanche Giuliano Ferrara. Questo credo porti a due conclusioni: la prima è che senza Silvio Berlusconi la satira italiana perde una propria ragione di vita; la seconda è che almeno in una cosa ce l’abbiamo fatta. Ce ne andiamo, ma non prima che lo abbia fatto il Maligno. Quando si dice le soddisfazioni…

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Ma come, mi dissi: gli odierni fans del Duce, dell’uo-mo che trasformò la nostra modesta penisola in un glorioso impero, annunciando da un balcone l’inva-

sione dell’Etiopia, ebbene, questi moderni fascisti rinnegano completamente il loro passato? Come è possibile? In effetti, se facciamo caso alla maggioranza delle organizzazioni e dei partiti di estrema destra (Forza Nuova, Avanguardia Giovani-le, Casa Pound…) che sono attivi anche a Piacenza, possiamo accorgerci di un generale appiattimento delle loro posizioni politiche e dei loro slogan su di quelli dell’universo anarcoide/antagonista. Entrambi gli opposti schieramenti in-fatti incitano alla rivoluzione, criticano l’attuale sistema sociale, la globalizza-zione e la finanza; entrambi sono stati attivi nella contestazione alla riforma Gelmini ed hanno promosso, in questi anni, diversi scioperi negli stessi giorni e con le stesse motivazioni, seppur in modo autonomo.

Ovviamente, se si indaga più a fondo, le differenze balza-no all’occhio (in particolare sul versante immigrazione/xeno-fobia); però è innegabile che i movimenti di estrema destra abbiano riciclato e copiato, almeno nell’apparenza, le parole chiave che tradizionalmente sono di proprietà della sinistra radicale. Semplice opportunismo di facciata? Forse no. Pro-babilmente, per capire meglio il fenomeno dell’estremismo neofascista bisogna andare più a fondo, fino alle origini della dittatura mussoliniana.

Occorre innanzitutto definire che cosa significhi realmente fascismo. Per farlo, mi servo di un grande filosofo italiano del-la politica: Norberto Bobbio. Egli infatti afferma, tracciando un breve profilo dell’ideologia fascista, che “essa fa consiste-re la sua novità e la sua forza nel non porsi come ideologia ma come prassi, che non ha altra giustificazione che il suc-cesso”. Che cosa significa tutto ciò? Significa che il fascismo non nasce come un’ideologia tradizionale (ad es. il comuni-smo), con una propria teoria politica che solo in seguito trova la sua applicazione “pratica”, bensì come una prassi, come un modo di governare. Solo a questo scopo e con questo pre-supposto sorge l’esigenza di trovare degli slogan, degli ideali in grado di tenere unita la società ed alto il consenso: ecco nascere i miti della Razza, della Nazione, dell’antica Roma, della guerra…

Questo fatto ovviamente non può che portare ad una co-stante contraddizione, all’enfatizzare ora un aspetto e ora un altro di una dottrina che non si basa, di fatto, su nulla. E allora si può capire perché lo stesso Mussolini sia stato nel-

la sua vita incredibilmente ambiguo, ad esempio, nei suoi rapporti con la Chiesa, con la borghesia, con i lavoratori, con gli alleati internazionali…

Il fascismo, per Bobbio, non sarebbe però un movimento anti-ideologico: nel momento in cui Mussolini irrideva gli ide-ali democratici o liberali, implicitamente ne affermava degli altri (la violenza, il

potere legittimato dalla forza…), per quanto indefiniti. Esso è invece una sorta di “ideologia negativa”, alla quale, in nome del rifiuto di ogni ideale dell’epoca, aderirono gli individui più disparati: dai conservatori interessati solo all’ordine dello Stato ai sindacalisti rivoluzionari, dagli opportunisti ai nazio-nalisti più esaltati.

Ora, se prestiamo fede a questa interpretazione di Bobbio, diventa facile applicare gli stessi schemi alla realtà attua-le. A coloro che al giorno d’oggi venerano il Duce e sfilano per le strade con le bandiere nere non interessa proprio nul-

Fascisti nel terzo millennioQualche tempo fa, nei dintorni della mia scuola, mi cadde l’occhio sul manifesto di una nota organizzazione neofascista. Nel manifesto, oltre a generici slogan ed esortazioni alla ribellione, vi era una serie di “proposte” politiche. Tra queste, una mi colpì particolarmente: il ritiro di tutte le nostre truppe impegnate nelle “guerre imperialiste”, ovvero in Iraq, Afghanistan, Libia…

Attualità

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“È innegabile che i movimenti di estrema destra abbiano riciclato e copiato, almeno nell’apparenza, le parole chiave che tradizionalmente sono di proprietà della sinistra radicale”

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Esiste un Paese, nel cuore del-la civile Europa, in cui le noti-zie da pubblicare sui giornali

sono decise dal Governo, i giornali-sti “dissidenti” vengono licenziati, i Rom costretti ai lavori forzati e i neo-fascisti sono al potere. No, non è l’I-talia: bensì la piccola Ungheria, dove nelle elezioni del 2010 ha trionfato, conquistando i 2/3 dei seggi parla-mentari, una coalizione formata dal partito ultra-conservatore Fidesz e dai neofascisti di Jobbik (che hanno ottenuto quasi il 20% dei voti e gover-nano diversi Comuni).

Questa allegra brigata non ha di certo tradito le promesse elettorali, arrivando, in un solo anno di Gover-no, a fare dell’Ungheria lo Stato più illiberale dell’Unione Europea. Hanno iniziato con il prendere possesso dei media: subito 975 licenziamenti tra i giornalisti di radio e tv di Stato nel solo 2011, per arrivare ad epurare un terzo degli impiegati nell’informa-zione pubblica. E guarda caso proprio quelli meno allineati con il regime, tra cui spicca anche un premio Pu-litzer… In più, le notizie da pubblicare vengono decise dall’alto, e chi non ri-spetta la “scaletta” viene punito con multe in grado di far chiudere anche un grande quotidiano: a questo sco-po è stato istituito l’Nmhh, una sorta di comitato repressivo dell’informa-zione.

Ma le novità non si fermano al mon-do dei media: lo stesso sistema di

epurazioni mirate coinvolge anche il mondo dell’amministrazione pub-blica, dell’Università, della cultura. Grazie alla grande maggioranza par-lamentare poi, il Governo è riuscito a modificare la Costituzione per limita-re i poteri della Magistratura e della Corte costituzionale, oltre ad appro-vare una serie di leggi dal retrogusto decisamente razzista. C’è ad esem-pio tutta un’offensiva intrapresa con-tro i Rom, costretti a presentarsi con una maglietta arancione (non vi ricor-da qualcosa?) per essere assegnati ai lavori più duri. E se si rifiutano? Beh, niente più sussidi di povertà.

Oltre a tutte le misure già prese e a quelle in cantiere, però, c’è qual-cosa di ancora più inquietante nella storia dell’Ungheria. Nelle sfilate in divisa dei neofascisti, nella repres-sione ma soprattutto nella mentalità e nel linguaggio che stanno prenden-do piede in questo Paese è difficile non rivedere la Germania hitleriana, o l’Italia del Ventennio. Un fascismo di certo più “morbido”, senza i lager e la violenza squadrista del passato, però pur sempre una forma di fasci-smo.

E allora benvenuti in Ungheria: ogni segnale di protesta, ogni voce fuori dal coro viene soffocata sul nascere. Davvero George Orwell era soltan-to uno scrittore visionario quando scrisse 1984? E soprattutto, siamo davvero sicuri di essere così lontani dall’Ungheria? ■

di Johnny

Ungheria, casa mia

la dei presunti ideali che li muovono o delle idee per cui “lottano”. Sono mossi dalla rabbia, dalla paura, dalla voglia di emergere da una società soffocante nella quale, altrimenti, non troverebbe-ro una ragione di vita. Sono gli eredi di quel “quinto stato” che per Bobbio ha costituito la spina dorsale della (con-tro)rivoluzione fascista: gli spostati, gli sradicati, gli ex-reduci della Grande Guerra. Sono un’esigua minoranza, nel nostro Paese (tranne che nelle curve degli stadi) e non sembrano costituire un pericolo serio per l’ordine democra-tico. Ovviamente, bisogna tenere alta la guardia: talvolta dietro ai proclami raz-zisti e rivoluzionari si nascondono un odio e un malessere reali, che se non isolati prontamente possono portare a fenomeni decisamente gravi (vedi i fatti di Firenze).

Ma, lo ripeto, oggi non è questo genere di fascisti ca preoccupare: sono piutto-sto gli altri, gli eredi di quei borghesi e conservatori reazionari che negli anni ’20 si schierarono con Mussolini, che sono potenzialmente eversivi per la no-stra società civile e democratica. Sono tutti coloro che, per viltà, per conformi-smo o per semplice opportunismo sono disposti a vendere la propria libertà in cambio di un posto sicuro, di una nic-chia ben protetta che consenta loro di fregarsene altamente di tutto, di non pensare più a nulla e di delegare la pro-pria capacità di scelta ad un capo cari-smatico.

I tempi cambiano, e il fascismo non ritornerà mai più in quella forma cui sia-mo abituati a pensare: non ci saranno mai più le marce, le divise e tutta quel-la sfilza di riti un po’ridicoli che i nostri nonni si ricordano bene; tuttavia proprio perché non è un’ideologia ma una pras-si, il fascismo si può ripresentare (e lo ha già fatto) sotto forme diverse ed in-sospettabili. Ogni volta che la libertà e il pensiero vengono soffocati dalla vio-lenza, ogni volta che qualcuno decide al posto nostro viviamo in un regime fascista. Cambiano gli strumenti: un tempo manganello e olio di ricino, oggi il potere della televisione che atrofizza e rende succubi le menti; però il pericolo del fascismo continuerà a minacciare la nostra società.

Per questo è importante tenere gli oc-chi bene aperti e, soprattutto, la mente libera: perché la nuova resistenza verrà combattuta prima di tutto dentro di noi. ■

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Ogni professore di storia sareb-be omertoso se tralasciasse, nella sua spiegazione in meri-

to alle cause delle due guerre mon-diali, l’impeto e la prepotenza con cui i grandi industriali del settore siderurgi-co e metallurgico forzarono l’ingresso dei vari Stati in guerra. E ciò è avve-nuto in ogni Paese, a partire da Ger-mania e Urss ma con nessun escluso.

Viaggiando di generazione in gene-razione fino all’Oggi, il tempo delle Nazioni Unite, delle grandi Agenzie Internazionali e dell’Unione Europea, il meccanismo è rimasto immutato.Con l’unica differenza che i Paesi che fabbricano le armi moderne vivono di uno sviluppo così avanzato - ma forse neanche tanto - da comprendere che la guerra è pura distruzione, e di con-seguenza non la vorrebbero per alcun motivo a casa propria. Ma ugualmen-te gli Stati industrializzati non rinun-ciano al profitto rappresentato dalla produzione e il commercio di armi.

La guerra, che compie il suo corso bruciando la miccia della violenza, scoppia in quei luoghi dove il males-sere, la povertà e la fame annebbiano definitivamente la ragione di genera-zioni o dove il potere politico è così forte da essere anarchico - come di-ceva Pasolini - e da lasciare campo aperto a rivolte popolari o addirittura rivoluzioni studiate a tavolino.

E sono proprio questi sfortunati Pa-esi a rappresentare la destinazione di molti ordigni bellici prodotti dalle multinazionali della meccanica che in sordina, di soppiatto, tra tante altre cose fabbricano armi all’insaputa di tutti e senza che nessuno li scopra o si indigni.

Ora, passando dal generale al par-ticolare (le mine anti-uomo e l’Italia), capiremo che la tesi viene di nuovo confermata: la guerra al giorno d’oggi viene esportata.

Nel “lontano” 1997, le Nazioni Unite si riunirono per siglare il Trattato di Ot-tawa, che obbliga i paesi firmatari - tra cui l’Italia - a bandire la produzione, il commercio e la diffusione delle mine antiuomo. Questo genere di armi, classificate dagli esperti come “armi leggere”, costituiscono una condanna perpetua. Sono, a tutti gli effetti, l’uni-co tipo di arma convenzionale in gra-do di minacciare il futuro di una nazio-ne tanto quanto il suo presente, che siano essi periodi di pace o guerra.

Ad oggi, mancano le adesioni al trat-tato di Ottawa dei tre Stati militarmen-te più forti al mondo: Russia, Cina e Stati Uniti, oltre ad altri Paesi quali Egitto, India, Israele, Finlandia.

Mentre il Belpaese, nonostante si faccia portabandiera di questa ini-ziativa, è ad oggi tra i più importanti produttori ed esportatori mondiali di

mine antiuomo. La produzione sul territorio italiano

si concentra principalmente nel Bre-sciano, dove aziende del settore mec-canico come la Valsella (di cui parla Michele Cottini nel suo libro Valsella Meccanotecnica: storia di una ricon-versione controversa), la Beretta,e la OtoMelara (alla quale accenna Gino Strada, il fondatore di Emergency nel suo libro Pappagalli verdi) producono approssimativamente 10 milioni di mine antiuomo ogni anno, in barba a qualsiasi disposizione e veto imposto dalle Nazioni Unite. La tecnica impie-gata per “non farsi beccare” è quella di produrre componenti separati di mina che potrebbero benissimo esse-re parti di altri macchinari meccanici. Un apparente albero o una biella o un disco inviati nei Paesi in guerra ven-gono assemblati in loco per formare una mina.

E siccome anche il territorio piacenti-no gode di una fiorente industria mec-canica sorge spontanea la domanda: anche qua a casa nostra in passato o ancora oggi qualche azienda produce parti di mine-antiuomo?

Come sempre, i buoni propositi e la coscienza della ricca borghesia ita-liana vengono meno davanti alla pro-spettiva di un lauto guadagno.

Guadagno maturato sul moncherino sanguinante di un bambino di dieci anni. ■

PPP

La guerra nasce lontano dal campo di battagliaOggi la guerra nasce lontano dal campo di battaglia. Essa viene concepita e poi partorita, e questo è risaputo, da interessi prevalentemente economici e solo secondariamente politici: le due guerre del secolo breve - come lo definisce lo storico britannico Eric Hobsbawn - sono una testimonianza lampante di ciò.

Immagine della manifestazione internazionale contro l’uso indiscriminato delle mine anti-uomo, promossa dalle Nazioni Unite e celebrata a Bogotà (Colombia) nell’Aprile 2011.

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Cultura

Agli occhi del lettore moderno la conce-zione musicale di Immanuel Kant espo-sta nella “Antropologia dal punto di vista pragmatico” appare ben lontana da quelle congetture di preromanticismo che taluni critici e storici della filosofia avanzano sul filosofo di Konisberg. Se da un lato Kant disprezzava il linguaggio musicale perché mancante di una codi-fica intellettuale, il credo odierno ricono-sce come valore indiscutibile l’universa-lità di tale arte assumendo come base fondante proprio quella caratteristica da lui criticata.

Rimane in ogni caso una delle arti dove è potuto concentrarsi il più alto ingegno umano di tutti i tempi.

Purtroppo il tempo passa e le cose cambiano...

La degenerazione morale del nostro tempo ha relegato la musica ad una sor-ta di placebo intellettuale, supportato dalla sua stessa ed imperante banaliz-zazione.

Se solamente fino a qualche decennio fa, prima della diffusione massiva dei dispositivi di memorizzazione, appariva evento raro l’ascoltare musica, oggi l’uo-mo moderno non riesce più a privarse-ne. Dovunque vada è sempre presente in forma di sottile sottofondo, come a ri-cordargli l’incontrovertibile ineluttabilità della sua fine. Ne consegue ovviamente una sorta d’indifferenza verso qualsiasi novità o componimento che si discosti minimamente da quel ronzio standardiz-zato che è abituato a sentire.

Ma l’uomo moderno si compiace anche

di questo: aprite gli occhi e guardatevi solamente intorno. Magari potete limi-tarvi a voi stessi. Questo ronzio vi serve e lo ricercate con bramosa cupidigia. Il fine ultimo è coprire una realtà degene-rata oltre ogni possibile immaginazione e riempire la vacuità che vi domina.

E’ mai possibile che un adolescente medio debba vivere in rapporto simbio-tico (ma è più corretto dire parassitario) con un riproduttore musicale, “distri-butore di soma” se vogliamo dirlo “alla Huxley”? Si è mossi da una dilagante passione o da una volontà recondita di estraniarsi da un modo che ormai non ci appartiene?

E c’è ancora qualcuno che si ostina a chiamarla arte. ■

Luigi

“La musica, come gioco regolato di sensazioni uditive, non solo eccita in modo straordinariamente vivace e vario il senso vitale, ma infonde ad esso una forza nuova; essa è dunque una specie di linguaggio di semplici sensazioni (senza concetti). I suoni, qui, sono note che equivalgono, per l’udito, a ciò che sono i colori per la vista; si ha così una comunicazione di sentimenti a distanza entro certi limiti di spazio e si prova un piacere in comune che non è diminuito dal numero di coloro che vi prendono parte”.

La musica moderna: un’arte?

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Poesia

COMA

Forse hai sentitomentre viaggiavi in terre di cui non parli

l’eco ubriaco di una domanda.Forse hai parlato

con gli spettri incoerenti del passato,hai urlato contro il sonno

che ti è crollato addosso all’improvviso.

Ma fra questi tubi d’incoscienzasi muovono ricordi appannati,

quasi ciechi nell’intollerabile ritmo meccanicoche scandisce il tuo silenzio.Dita d’inchiostro colano lentenell’incontro con la tua mano.

Il barlume di una mia illusionepiega le tue labbra in un sorriso,ironica replica all’indifferenza.

E se quando torneraida quell’oasi parallelail mondo sarà cambiato,

saprai plasmarlo in statue di parole,

ricolmarlo di pagine d’utopia.

Alessandra

Una Marmaglia di poeti - concorso letterarioLa Marmaglia ha bandito a fine Agosto 2011 un concorso di poesia per giovani piacentini dagli 0 ai 25 anni. Pubblichiamo di seguito gli elaborati dei primi classificati...

LUCE DI CERA

Sei frutto, bianca pesca:il succo cola dolce dalle labbra,come resina risplende sul volto,com’ape mi punge e fa da esca.

Sei corpo, guance lisce:le accarezzo e non mi stanco.Il brivido corre sulla schiena,

come miele, mi addolcisci il palato.

Sei luce, lume di cera:com’essa ti sciogli lenta,

solidifichi sul corpo ambrato.

Sei destino che si avventa:com’esso sorteggia il Fato,tu ottieni sulle labbra

la felicità del tuo innamorato.

Mr. Tippett

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PoesiaSURUS (così ci chiamano)

Il muggito della valle sparecchia la notte dai prati quando le ultime luci insonni si addormentano

nella pancia scura del faggio.E mentre Luna capitola sul letto del fiumegli omini formicolano dalle loro tanenascosti sotto le foglie scuro verde

come sogni nelle tenebre del giorno dopo.Vanno e vengono sui cavalli delle macchine

per cercare il diavolo che han dentro sotto il ponte di San Colombanoe tornare tristi per il mio fiume angelico,

tristi di partire.Le loro sagome gobbe si ritirano sotto il cielo petrolio,

ed ora scende un piantoche bagna il duro faggio in volto e scioglie l’amaro come china,

e guarda meglio la Trebbia nel fulmine,e saluta forte dal suo letto sconvolto le croci di Bobbio.

E questi figli di Dio che vanno e vengonoe scappano dalla solitudine dei loro corpi vuoti non sono poi più piccoli dell’elefante, di meche do colpa ai diavoli che chiamo figli di Dio

della solitudine con cui il fiume mi bagnada quando scelsi di morire accanto alla sua coda d’oro,

gatta dei topi che mi cavano fino al cuore.Perché questa Trebbia mi sorride ed è già scivolata altrove

nel suo letto millenario di infiniti volti fluenti.Questo pianto mi disseta un attimo

e mi lascia morire, e mi lascia risorgere,ed ogni volta che la valle spalanca l’alba sui miei occhi antichi

la memoria del fiume erode la terra del mio cuore, e neanche io voglio conoscere il mio diavolo.

Così Surus giace nelle vostre macchine fotografiche, così giacete voi,morti di sete.

di nome Dante Alighieri

O giovine poeta, alle Muse sì inviso,

mia nova non ti è lieta: rimar tuo reca riso.

Sul Parnaso pecorella bela più piacevolmente,più soave è sua favella

del poetar tuo intensamente.

Le parole metti’n rima, ma’l pensier non ti sfiora: che cretina è tua prima,

di poetar non è ora.

Soave stimi la tua opra: rara, grave, geniale... Che soverchiante la copraimprecando il portuale.

Non è poesial’accumular parole in rimain schemi ben precisi:certamente non è poesia questo mio susseguirsi di parole.

Anonimo

NOUVELLE VAGUE

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Sono affascinato ed ammaliato dalla figura di Cristo, ma non ho conosciuto tuttavia la folgorazio-

ne di Damasco. Diversamente da San Paolo non sono sbalzato completamente da cavallo, ma resto con un piede nella staffa e vengo trascinato via dal mio Ron-zinante, che è la mia vita, con il dorso a terra e gli occhi rivolti al cielo. Come se in me coesistessero gli opposti: razionalità e trascendenza, Marx e Gesù, laicità e nostalgia del sacro.

Dio che non esisti, io ti prego di spie-garmi perché nulla mi pare più contrario al mondo moderno di quel Nazareno che nacque in una stalla.

Per dirla con le parole di Dostoevskij ci troviamo davanti ad una figura, il Cristo, che ai tempi dell’Inquisizione il suo sa-trapo rappresentante Tomás de Torque-mada avrebbe etichettato come eretico e condotto sul rogo per mano della Chiesa stessa, fondata nel suo nome.

Magari oggi papa Ratzinger e com-pagnia bella non lo destinerebbero ad un’anticipata trasformazione in cenere, congedandolo con la tipica frase pre-quaresimale “cenere sei e cenere tor-nerai”, tuttavia sarebbe probabilmente considerato solo un addobbo, un ele-mento marginale e non portante nell’in-

tera architettura piramidale della Chiesa Cattolica. Perché il suo intenso carisma si scontrerebbe con l’appiattimento caratteriale che la Chiesa, sempre più confessionale e meno reale, vuole per la sua platea di fedeli. Perché l’inciso “porgi l’altra guancia” è andato sotto l’u-scio, schiacciato dalla prepotenza, anche sotto le tonache. Perché a chi dice che gli uomini son tutti uguali non crede più nessuno, tanto meno il Vaticano. E per-ché di fronte al messaggio di Cristo volto a rimarcare la futilità dei beni materiali, mai potrei immaginarmi le chiese disa-dorne di tutti i loro ori.

Diversamente nelle missioni, anche e soprattutto in quelle di stampo cattolico, in Italia e nei paesi più poveri, è vivo un riflesso dell’idea di Cristo che si manife-sta limpido nella scelta di vita dei missio-nari, così radicale quanto sentita. In loro la dedizione all’Altro è costante ma non totalizzante o alienante. Altrettanto po-tremmo dire della vita di Gesù, mite nel cuore, ma mai nella ragione.

Ma forse vi starete ancora chiedendo il perché di quelle mie affermazioni d’aper-tura, allora vediamo di passarle in rasse-gna una ad una:

• La parola cristianesimo, è scontato, ha come radice “Cristo”, e il comunismo

rimanda a “comunità”. Gli apostoli di “Cristo” furono costretti a lasciare tutti i loro averi per seguirlo e insieme, par-tendo tutti dal nulla, vivere in “comunità” quasi con l’intento di ricostruire una nuo-va società, senza proprietà privata, dove gli uomini sono davvero tutti uguali. Ecco qual è l’evidente convergenza tra le due “ideologie”.

• Non sono conforme al momento sto-rico che la società umana sta attraver-sando. Rifiuto le leggi, le mode e tutto ciò che assomiglia ad un’imposizione di cui il ricevente sia più o meno consape-vole. Proprio come Cristo che, secondo il Vangelo, rifiuta la legge ebraica del suo tempo perdonando l’adultera e con la sagacia del suo verbo la sottrae all’im-minente lapidazione, che stava per com-piersi - badate bene - per mano di tanti individui uniformati a formare una mas-sa. Ma alla fine nessuno ha lanciato la prima pietra…

• Non mi sento italiano, in quanto l’I-talia appartiene al mondo occidentale capitalistico. Un mondo nel quale Cristo perderebbe il suo tempo se continuasse a predicare di non pensare al domani. L’i-dea del domani è la sola presente nella testa di noi piccoli borghesi, operai, im-prenditori o chicchessia. ■

Io sono comunista perché sono cristiano. Io sono anticonformista perché sono cristiano. Io non mi sento italiano perché sono cristiano.

Confessioni di un giornalistaPPP.

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Siamo sommersi da mille cose da fare. Ciascuna delle nostre azio-ni quotidiane può stimolare, o

meno, la nostra intelligenza. Anche quel-le più stupide e banali. Esse si presenta-no, per la maggior parte, sotto forma di problemi o questioni (cercare di andare più a fondo nel problema appena posto) cui tentiamo di dare una risposta che ci soddisfi. È grazie all’intelligenza che ri-usciamo a scrivere, studiare, cucinare, leggere, praticare sport, insomma a fare qualunque cosa facciamo tutti giorni. È sempre grazie ad essa che riusciamo a elaborare un discorso, un dialogo, a inte-ragire con gli altri, a dire se una cosa ci piace o meno. In sostanza è l’intelligenza che ci rende quello che siamo. Cioè uo-mini. Ma è davvero grazie all’intelligenza che riusciamo a fare qualunque cosa? E’ solo essa a renderci unici e diversi da un qualunque invertebrato o essere vivente che sia?

Sicuramente, l’intelligenza ci permette di attivare diverse parti della nostra men-te. Essa si basa sulla memoria, sul pre-sente, sull’esperienza propria e altrui. Si fa aiutare da tatto, gusto, udito, olfatto, vista. Ci fa attivare diverse parti del no-stro corpo, senza che noi ce ne rendiamo conto. Ci permette di tenere in collega-mento anche la nostra psiche e il corpo con la mente. La nostra intelligenza per-mette di collegare anche questi ultimi. Pensate.

Anche, semplicemente, guardare un paio di scarpe bellissime da 220 € fuori da una vetrina, ci fa porre mille proble-matiche: ma sto tenendo i soldi da parte per far andare mio figlio in colonia; fino a quando mio marito non ritroverà lavo-

ro sarà proprio difficile che me li possa prendere; ho un lavoro precario; però perché non potevano costare di meno? Ecc.ecc.

In quanti interrogativi ci può far incorre-re una banalità! E quante risposte o so-luzioni cerchiamo per soddisfare questi interrogativi!

Una cosa implica l’altra. Tutto, misterio-samente, è collegato. Non solo al nostro interno. Anche interagendo con gli altri creiamo un contatto. Amicizia, affetto, amore, odio, passione, umiltà, antipatia, ecc. Verso i nostri genitori, parenti, amici, sconosciuti, persone ancora da conosce-re. Col tempo non solo la nostra intelli-genza si allarga: anche il nostro “cerchio” relazionale si modifica in base alle nostre preferenze, bisogni, piaceri e attitudini.

Tutti noi, fisicamente, direttamente, in-direttamente, siamo collegati. Non pos-siamo vivere da soli. Senza nessuno. Senza l’Altro. Non possiamo sopravvivere lontano dalla comunità. Tutti, inspiegabil-mente, qualsiasi cosa facciamo, abbia-mo fatto o faremo, siamo portati verso un unico obiettivo: compiere un nostro cammino con i suoi alti e bassi.

Tutti, seppur diversi, seppur lontani, an-che se non ci conosciamo, abbiamo un obiettivo in comune: vivere. Viviamo. Per quale motivo? Perché viviamo? Perché mi pongo degli obiettivi, dei sogni, per raggiungere i miei intenti?

Tutto questo per dire cosa?Che siamo collegati. Che abbiamo un

obiettivo comune da raggiungere. Che senza l’aiuto dell’Altro i nostri obiettivi non saranno raggiunti. Che senza l’Altro non avremmo appreso quelle esperienze che ci rendono ciò che siamo diventati

oggi. Se voglio diventare uno scrittore, per esempio, come faccio a diventarlo se non ci saranno persone che leggano i miei libri?

Riflettere su queste cose ci porta ad una conclusione indiscutibile. Le cose tornano solo quando la mente, il corpo e la psiche collaborano. Quando queste tre macro-sfere si aiutano l’una con l’altra, a vicenda. Rispettivamente la filosofia, la scienza e la psicologia. L’intelligenza è indissolubilmente connessa a questi tre ambiti che ci rendono unici, speciali: umani.

Se non fossimo curiosi non ci sarem-mo mai posti le domande come “perché cade la pioggia?”, “a che cosa serve il vento?”.

Se non vivessimo nel presente non ci saremmo mai chiesti: “perché devo vi-vere?”, “a che cosa serve stare insieme agli altri?”.

Se non fossimo sensibili non ci accor-geremmo mai di una persona che pian-ge, si sente triste e, quindi, ha bisogno del nostro affetto.

Se non fossimo intelligenti non ci por-remmo mai domande del tipo: “perché mi sento infelice?”, “perché cerco qual-cosa che mi soddisfi?”, “perché tutto ruo-ta intorno alla donna/uomo che amo?”

E soprattutto, se non fossimo quello che siamo certamente non ci chiame-remmo uomini. ■

Premessa: se i nostri professori di filosofia, il 19/09/2011, tramite l’intervento del professor Petrosino dell’Università Cattolica, non avessero deciso di cominciare il primo giorno di scuola con la domanda “che cosa serve la filosofia ai giorni nostri?”, il seguente articolo non sarebbe mai stato scritto.

Perchè siamo collegati ?ALEKSANDRA REGA (OLA)

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Film

FreeTimeCUCINA ■ FILM ■ LIBRI

Trama: Un giovane pilota degli studios di Los An-geles durante il giorno si alterna tra set ed offici-na. Di notte vende al crimine la sua grande abilità nella guida. Ma con l’incontro di Irene, Benicio e Standard, uscito fresco dalla galera, tutto cambie-rà.

L’incontro tra un autore (se oggi si può anco-ra utilizzare questo termine) europeo ed il ci-nema hollywoodiano non è certo una novità.

Di questi tempi sembra anzi tornato in auge per i registi del vecchio continente lavorare dietro una cinepresa oltreoceano. Periodo figlio, forse, anche degli ultimi Oscar, con l’incoronazione di Tom Hop-per per “Il Discorso del Re”.

L’opera di Refn, passaporto danese ma cresciuto a lungo negli States, si presenta però sostanzial-mente diversa da quella di molti suoi colleghi che lo hanno preceduto. E’da considerarsi un lavoro estremamente consapevole della propria natura ibrida. Ed è proprio dal contesto produttivo e strut-turale nel quale si muove Drive, che il regista trova lo spunto per tentare una riflessione sull’impianto di realizzazione che lo circonda.

Che il protagonista non abbia un nome non ha importanza. Né per lo spettatore né per gli stessi personaggi. Entrambi non comprendono fino in fondo l’essenza di cui si compone. Non importa neppure che nessuno sappia da dove arrivi. Ciò che importa è che non si fermi. L’anti-star Ryan Gosling, pur presentato inizialmente come com-patibile con il resto dell’apparato filmico, una vol-ta rotto l’equilibrio, è espressione di una reazio-ne risolutiva, che ne mostra il vero volto. La vera funzione. Ogni falsità, ogni maschera ora deve cadere. Nell’uccidere incalzante e greve dei per-sonaggi, non vi è solo lo scardinamento di una intelaiatura scenografica o di un copione preve-dibile, ma soprattutto la ricerca di una sostanza cinematografica alternativa. Certo, la scelta della contaminazione di genere e, lo voglio sottoline-are, di linguaggio, porta il regista a squadrare la scena con strumenti complessi e diversificati. L’a-

spirazione ultima però è quella del finale. Sposta-re la cinepresa. Mostrare la linearità di un’ombra. La degna conclusione di tale percorso può essere quindi solo quella della semplicità. Eliminare ogni carattere superfluo. Il ritorno ad un livello inno-cente di pura esibizione, di puro intrattenimento. In tutto ciò lo spettatore è un passeggero. Deve vivere questa spogliazione traumatica da vicino, sul sedile posteriore, lasciandosi trasportare dal conducente. Si deve fidare.

Cultore degli anni ottanta e settanta, il regista utilizza stereotipi visivi e sonori di quel tempo per concedersi la massima libertà di segno. Tutto vale. Lontano dalla scarna ripresa delle periferie danesi di Pusher, Refn vuole omaggiare quelli che sono anagraficamente gli anni in cui entrò in con-tatto per la prima volta con il cinema, ed utilizzare quell’ipotetico serbatoio estetico per dare nuova linfa ad un oggi spesso troppo opaco e ripetitivo, puntando su contrasti temporali e spaziali eviden-ti. Il suo richiamo ad un cinema ormai passato è però lontano dall’essere un semplice divertisse-ment tarantiniano. Si presenta molto più come la soppressione di un padre, piuttosto che la sua ostentazione. Un passaggio necessario per poter avanzare nella ricerca di una propria via, di una propria soluzione al problema. Ma questo compor-ta ripartire da zero, ritornare alle origini, azzerare tutto e tutti, mostrando così la finzione cinemato-grafica per quello che è. Ciò non vuol certo dire che l’artista danese si voglia porre a capo di un irrealistico movimento di rinnovamento del cine-ma. La sua è una riflessione individuale, e come tale va letta.

Mettere un nuovo volto ancora alla città di Los Angeles, più una pista automobilistica che una metropoli di tre milioni di abitanti, è legarsi ad un uso razionale dello spazio cinematografico, creatore di significati solo per essere già stato mostrato a noi sotto altre vesti (Chinatown, Vive-re e morire a Los Angeles, Blade Runner…). Ma girare questa peculiare riflessione nella città di Hollywood ha evidentemente un significato ulte-riore. Quella di Refn è, umilmente, una lezione al cinema del Sistema. Il guidare (Drive) una nuova meditazione su di esso. E come coerentemente fa il protagonista - ed è questo lo schiaffo proprio allo Star System - andarsene lasciando la borsa piena zeppa di denaro dietro di sé. ■

GPL

DRIVE, non si esce vivi dagli anni ottantaTitolo originale: Drive. Regia: Nicolas Winding Refn. Interpreti: Ryan Gosling, Carey Mulligan. Sceneggiatura: Hossein Amini. Durata 95 min. USA 2011.

P e r C o n c o r t o spazio criticowww.concorto.com

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Film?

Il primo e ultimo film è “Il Rambo Turco” - ovviamen-te non il suo vero titolo (Korkusuz) - che è divenuto noto al mondo con questo nome a causa dell’eviden-te plagio, vizio in cui i turchi da sempre sguazzano, del noto film a partire dalla locandina e a seguire con alcune scene orrendamente reinterpretate.

Gli ottomani hanno avuto la creanza di girare sce-ne talmente discostate dalla realtà che non lasciano diritto di replica alla risonante, e angusta, frase “la

vita non è un film”: e per forza! Se i turchi mi fanno una scena dove il ““Rambo”” (tra 19 virgolette) per liberarsi dalle catene di ferro che lo tengono prigio-niero, si accende un fuocherello sfregando due pie-tre (tipo giovane marmotta) e poi fonde le catene…!!! Ma il bello è che questo non lo suggerirebbero nem-meno le GM, infatti laddove non sono arrivate loro, sono giunti i turchi.

Ricordate la scena dove Rambo viene disarmato dal potente getto di un idrante? Qui gli sceneggiatori sono riusciti a inscenare un finto Rambo spiaccicato al muro perché bagnato con una canna per innaffia-re l’orto…

Inoltre, per capire l’indefinibile genere di questo film basta che vi racconti, e poi mi taccio, l’orrendo sonoro del bazooka che, quando spara, emette un inudibile “TUMF”: quello stesso rumore di quando si apre un barattolo di marmellata.

Insomma, se scaricare o no Turkish Rambo è un problema vostro; ma di certo, almeno a tratti, dovete guardarlo! ■

Ciao a tutti, questo è il primo e ultimo inserto di una rubrica dove vi proponiamo film “squallidi”, o meglio che secondo noi sono squallidi, ma che comunque meritano di essere visti: esattamente come quelle schifezze che, nonostante si sappia già a priori che sono tali, producono un’insensata voglia di osservarle.

I film squallidi

di PPP

Korkusuz, ovvero il Rambo Turco

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Libri

Bardamu, protagonista e alter-ego dell’autore, per l’intero romanzo si muove da una parte all’altra del globo denunciandone la miseria e l’abiezione. Ar-ruolatosi nell’esercito francese, conoscerà la paura attraverso le atrocità della Grande Guerra. Dai cam-pi insanguinati delle Fiandre si sposterà in Congo, dove descriverà la ferocia dello sfruttamento colo-niale per arrivare in America ed infine in patria.

Come avrete capito, l’intero viaggio non è altro che un grande pretesto per le conclusioni amare e ciniche del protagonista. Celine-Bardamu dalle sue peregrinazioni saprà trarre un affresco di di-sfacimento morale ed esistenziale che condanna non solo la ricca e opulenta borghesia, ma anche il suo contraltare ideologico-sociale. Il proletariato e il sotto-proletariato saranno descritti, infatti, come una classe ignorante e approfittatrice. Il suo è uno sconsolamento universale. Anche il sole, che sorge nelle ultime pagine del romanzo, non è ambasciato-re simbolico di una palingenesi: in Celine non esiste possibilità di riscatto.

Impossibile, però, non notare la potenza etica che soggiace, mai esplicita ma sempre forte e penetran-te, lungo tutto il romanzo. Un’etica quasi cristiana, che vede nell’Amore e nella Pietà i suoi vertici para-digmatici, della quale piccole e tenere figure come Alcide e Molly incarnano l’essenza. Un’altra nota positiva, che potrà persuadere i più ilari di voi alla lettura, è la caustica ed esilarante comicità che per-mea molte pagine del romanzo. Da far schiattare!

Ma ciò che più colpisce del Voyage è lo stile inno-vativo col quale è stato scritto. Celine definirà se stesso un cronista, non uno scrittore, a voler sottoli-neare l’importanza che nella sua poetica assumono la prosa e lo stile: ogni frase è animata da una forza e vivezza che lasceranno basiti i più di voi. La lin-gua in Celine ritrova, anche grazie all’uso smodato dell’argot (slang per gli anglofoni), un vigore seman-tico ed un’innovazione sintattica che influenzeranno tutta la letteratura del novecento.

Grandissimo romanzo scritto da un grande uomo che ha saputo coniugare, nella sua vita e nella sua arte, una pungente lucidità ed una folle allucinazio-ne, un uomo che si è divincolato da ogni genere di accademismo o schema preconcetto e che, proprio per questo, si è conquistato un posto tra i grandi del-la letteratura mondiale. Spero, e con ciò vi rinvio alla lettura, che nessuno di voi, nemmeno il più rigido benpensante, si lasci condizionare o intimorire dalla condanna di antisemitismo che gravò, e ancora oggi grava, sul suo personaggio. Buona lettura! ■

Pubblicato nel 1932, Viaggio al termine della notte è il romanzo d’esordio di Louis Ferdinand Celine. Come tutti i grandi romanzi, la trama si può riassumere in poche righe.

Viaggio al termine della nottedi Louis Ferdinand Celine

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Cucina

Dopo la vasta parentesi sui Kebap, la rubrica di cucina torna ancor più piccante con una proposta che

ugualmente supera le vecchie dogane pre-euro, dogane che ho di recente vali-cato per un soggiorno nella penisola ibe-rica. Ci troviamo a Valencia, in Spagna, dove furono i Romani a portare l’olio ed i Mori il riso e lo zafferano... forse avrete già capito che stiamo parlando della fa-mosa Paella.

Paella in lingua originale significa pa-della, ovvero il basso recipiente di ferro a due manici nel quale essa viene cuci-nata e servita (ed è questo il suo bello).

Come forse saprete la Paella si può preparare con carne, pesce (marisco in spagnolo) o talvolta entrambi. E proprio la versione che prevede la compresen-za di carne e pesce nello stesso piatto, che ai nostri occhi appare come un de-litto culinario, è la forma primordiale con cui la paella ha mosso i suoi primi passi nella storia dell’uomo. Infatti la Paella nasce in un passato lontano e indefinito, nelle case di nobili signori - anche se un nobile mai avrebbe mangiato una pael-la, considerata un piatto dei servi - come una specie di cucina degli avanzi.E’così che nasce la paella: con gli ingre-dienti recuperati dalle opulente tavole dei signori, altrimenti destinati ai cani o alla spazzatura, e riutilizzati dalla servitù che univa tutto ciò che si trovava, fosse esso pesce, carne o verdure: l’unica esi-genza era mangiare.Tra tutte le varianti di Paella possibili voglio quindi mettere in luce, come per dare onore alla città che l’ha partorita, la Paella Valenciana…

Ed ecco cosa i servi recuperavano dai piatti dei signorotti: 400g di riso Valen-cia, 600g di carne di pollo, 400g di car-

ne di coniglio, 300g di fagiolini, 1 pomo-doro maturo, 3 peperoncini rossi, 4/5 pistilli di zafferano, 90ml di olio, sale.Esecuzione: 1. Dopo aver frugato nell’immondizia regale incominciate con il versare l’olio nella “paellera” e, quando è caldo, ag-giungete le carni tagliate a cubetti.2. Fate rosolare un poco e poi aggiunge-te i fagiolini.3. Lasciate rosolare tutti gli ingredienti per circa 10 minuti quindi aggiungete il pomodoro pelato e fatto a pezzetti e i peperoncini.4. Mescolate affinché gli ingredienti si insaporiscano ben bene, poi versate ac-qua bollente sino al bordo della padella.5. Lasciate cuocere carni e verdure per circa 30 minuti aggiungendo l’opportu-na dose di sale.6. Nel liquido, che nel frattempo si sarà ristretto, versate il riso e intanto aggiun-gete i pistilli di zafferano sciolti in un cucchiaino d’acqua tiepida.7. Lasciate che il riso cuocia per 18 mi-nuti e fate riposare qualche minuto pri-ma di servire la paella caldissima.

Ora dopo aver mangiato (anche solo immaginariamente) la paella, se credete nelle dicerie del filosofo Feuerbach, do-vreste essere più propensi a sviluppare pensieri e riflessioni… Ma anche in as-senza delle vostre potete sempre appro-priarvi della mia: siccome l’antica paella dei servi oggi in Spagna la fa da padrona tra i cibi etnici per turisti, la voglio ergere a prova vivente della dialettica Hegelia-na, che banalizzata e riassunta con l’e-sempio dello stesso Hegel, recita: i servi saranno padroni. ■

L’ANGOLOCOTTURAdi PPP

Oltre i Pirenei per gustare la Paella Valenciana, il piatto della servitù.

Caffè e aperitivo... equi & solidali

Via Taverna, 255 29121 Piacenza - Tel. 0523 490692

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Hai mai pensato di associarti ad un’organizzazione che…

... sia un punto di incontro dove l’atten-zione è rivolta verso le lingue straniere intese come cultura, paesi, civiltà che parlano lingue diverse dalla nostra…... offra opportunità differenti per ap-profondire la conoscenza di una lingua straniera…... dia a tutti gli associati la possibilità di trovare una soluzione più adatta alla proprie esigenze per confezionare un progetto linguistico su misura per le ne-cessità di ognuno…... possa organizzarti un soggiorno all’e-stero confezionato su misura per te…... ti tenga informato sulle certificazioni che contano e che ti possano essere utili nel mondo del lavoro…

…Se sì allora…

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